SANSEVERINO, Ferrante
– Nacque il 18 gennaio 1507 a Napoli, da Roberto – principe di Salerno, conte di Marsico e signore d’altri feudi – e da Marina d’Aragona, dei duchi di Villahermosa, nipote naturale del re Ferdinando il Cattolico. Dalla coppia nacque anche una bambina, di nome Giovanna.
Rimasto orfano di padre a meno di due anni (2 novembre 1508), e risposatasi la madre con Iacopo Appiano, Sanseverino si trasferì con lei a Piombino, di cui il patrigno era signore. Morta, però, anche la principessa nel novembre 1511, tornò a Napoli l’anno successivo. Nell’ottobre 1516, quando non aveva compiuto ancora dieci anni, sposò Isabella Villamarino (o Villamarina), figlia del suo tutore Bernardo, conte di Capaccio e grande almirante del Regno. Morto quest’ultimo all’indomani delle nozze, i due sposi bambini restarono sotto la tutela della vedova del conte, Isabella de Cardona (sorella del viceré di Napoli), fino al 1522, quando Sanseverino compì i quindici anni ritenuti al tempo sufficienti per l’emancipazione dei rampolli delle famiglie nobiliari. Iniziò allora a governare i propri feudi, vivendo tra Napoli e Salerno e circondandosi di letterati come il filosofo Agostino Nifo e l’umanista Pomponio Gaurico, già maestro suo e della sua consorte.
Erano gli anni in cui divampava lo scontro tra Francesco I di Valois e Carlo V d’Asburgo per il predominio sulla penisola, e benché le tradizioni dei Sanseverino fossero favorevoli alla Francia (suo nonno Antonello era stato tra i capi della congiura dei baroni contro gli Aragonesi), il giovane Ferrante, a fronte dei tentativi francesi d’invadere il Regno di Napoli nel 1527-28, restò fedele agli spagnoli, al contrario di molti esponenti dell’aristocrazia napoletana passati sotto le insegne dei Valois. Mise, pertanto, a disposizione delle autorità ispaniche uomini e somme ingenti per approntare la difesa del Regno, «con offerir loro la sua argenteria se bisognava» (cit. in Galasso, 2007, p. 349), impegnandosi peraltro sul campo di battaglia.
Assicurato definitivamente il Regno agli Spagnoli nel 1529, Sanseverino partecipò, al seguito di Filiberto di Châlons – principe d’Orange e viceré di Napoli –, all’assedio contro la Repubblica fiorentina nel 1529-30, che riportò Firenze sotto il dominio mediceo. Recatosi a Bologna per assistere all’incoronazione di Carlo V nel 1530, dopo un viaggio nella Repubblica di Venezia rientrò a Napoli, ma dal 1531 i suoi rapporti con i governanti hispani iniziarono a incrinarsi, dopo che già in occasione dell’incoronazione egli s’era adombrato per non aver goduto del privilegio di «portare l’insegne de lo imperatore» (Rosso, 1770, p. 37). Nel Parlamento generale convocato per il 1531, a fronte di un donativo di 600.000 ducati da corrispondere in un anno richiesto dalla Spagna, egli fu alla testa dell’opposizione proponendo una cifra meno esosa da diluire lungo alcuni anni, essendo il Regno «ruinato per le guerre, carestie e peste passate» (cit. in De Frede 1984, p. 116). Fallita l’iniziativa e votato il donativo (pur con una dilazione), Sanseverino partì nel 1532 per il Tirolo con lo scopo di conferire con l’imperatore, protestando per la condotta tenuta dal luogotenente regio – il cardinale Pompeo Colonna –, e ottenendo rassicurazioni sulla nomina di un nuovo viceré, accanto a una serie di grazie e privilegi per il Regno.
Dopo il rientro a Napoli, nel 1535 il principe partecipò alla conquista della Goletta e di Tunisi al seguito di Carlo V, armando una galera e guidando con onore la fanteria italiana. Tornò quindi nel Regno con il seguito imperiale poiché, dopo l’impresa, l’imperatore visitò i suoi domini nell’Italia meridionale. Sanseverino ospitò Carlo a Salerno «con apparato regio» (Dell’Istoria di notar Antonino Castaldo, 1769, p. 48) e poi, in occasione dell’entrata trionfale a Napoli, designato come sindaco della capitale, fu tra quanti lo precedettero alla testa del corteo. Durante il suo soggiorno, «l’imperatore andò più volte a casa del principe di Salerno» (Croce, 1891, p. 40), in un contesto di grande magnificenza cortigiana, giacché don Ferrante e donna Isabella vivevano «al costume reale, per le loro maniere signorili, splendide e liberali» (Dell’Istoria..., 1769, p. 47). L’imperatore assistette anche a uno spettacolo teatrale allestito nell’imponente palazzo Sanseverino (oggi chiesa del Gesù nuovo), essendo il principe appassionato di teatro, tanto che «le prime commedie, ampie e regolari, che si videro a Napoli si dovettero a lui» (Croce, 1891, p. 43).
Nella dimora principesca «stava sempre, per tal effetto, apparecchiato il proscenio» (Dell’Istoria..., 1769, p. 71), e gli spettacoli messi in scena non erano consacrati solo ai membri dell’élite, poiché Ferrante, nei giorni «che le comedie si rappresentavano [...] haveva pensiero di star alle porte per far intrar i cittadini a vedere et sentir commodamente quelle» (Summonte, 1675, p. 235). Un atteggiamento che contribuì notevolmente al favore popolare di cui godette sempre più: gli spettatori «se ne ritornavano alle lor case pieni d’amore et affetione verso di lui, in tanto che quando il principe passava per le strade de gli artisti d’ogni sorte, era quasi adorato e con grandissimo applauso salutato» (ibid.).
Conclusa la visita dell’imperatore, Sanseverino lo seguì a Roma e partecipò, poi, all’invasione della Provenza nel 1536, sempre nell’ambito delle guerre tra Asburgo e Valois. Rientrato a Napoli (ma negli anni successivi continuerà ad allontanarsene, sia per partecipare a imprese militari sia per importanti ambascerie), il principe prese a coltivare un’altra passione accanto a quella per le scene (e per la musica: pare fosse un ottimo cantante). Negli anni Trenta, infatti, iniziò a interessarsi alle discussioni religiose che animavano anche il Regno. A quel tempo viveva a Napoli l’esule spagnolo Juan de Valdés, eresiarca che raccolse attorno a sé un numero notevole di discepoli, molti dei quali appartenenti all’aristocrazia. Ora, già nel 1537 Sanseverino aveva cercato di ottenere che Bernardino Ochino – molto vicino alle posizioni valdesiane – predicasse a Salerno, mentre negli anni successivi chiese chiarimenti a Girolamo Seripando sulla scottante questione del libero arbitrio. Tali interessi lo portarono a frequentare lo stesso Valdés, col quale «ragionavano de varie cose et massime della sacra Scrittura» (Firpo - Marcatto, 2011, p. 815).
Non è certo un caso, quindi, che a Salerno si diffondessero in tutti gli strati sociali posizioni eterodosse: «La heresia era andata avante in detta città, non solo fra gentilhuomini, cittadini et artigiani maschi et femine, [ma] anco fra alcuni de li canonici» della «cattedrale», una circolazione delle idee frenetica, al punto che «parlavano» d’opinioni ereticali «insino alle donne dalle finestre» (cit. in Miele, 1970, pp. 846 s.). Era divenuta, insomma, una situazione incontrollabile, tanto che la principessa donna Isabella (probabilmente per precostituire un alibi, essendo essa stessa lettrice dei testi di Valdés) si vide costretta a promuovere un processo inquisitoriale nel 1546, affidato al domenicano Ambrogio Salvio da Bagnoli.
La posizione dominante tra gli eretici salernitani era quella sacramentaria, comune a molti valdesiani, secondo la quale «non credevano [che] nel’hostia consacrata vi fusse in alcun modo N. S. Jesu Christo» (ibid.). Verosimilmente, però, non mancò la circolazione delle idee dei valdesiani radicali: l’abate Villamarino, congiunto della principessa, negava la trinità e la divinità di Cristo, così come un certo Gregorio da Salerno. Inoltre, pare che tra i processati del 1546 vi fosse un altro celebre eresiarca, il senese Lelio Sozzini, con il quale molto probabilmente va identificato «un dottore in legge venuto dal Studio di Bologna [...] di casa de Sosino [sic]» condannato ad abiurare (p. 847). D’altra parte, proprio da un valdesiano – Girolamo Busale – Sozzini era stato iniziato al radicalismo religioso. Infine, dal 1543 al 1549 si rifugiò alla corte del principe di Salerno il filosofo e giurista Scipione Capece, valdesiano tra i più radicali sostenendo posizioni panteistiche e materialiste.
La prossimità di Sanseverino ai valdesiani contribuì sicuramente a peggiorare i suoi rapporti con le autorità spagnole, e in particolare con il viceré don Pedro de Toledo; per quanto in tale deterioramento giocasse un ruolo determinante anche il suo essere il «primo barone» del Regno (Dell’Istoria..., 1769, p. 113), a fronte di un Toledo deciso ad affermare l’assolutismo regio a scapito, in primo luogo, dei grandi feudatari. Lo scontro, che covò per qualche tempo sotto la cenere, divampò nel 1547, quando si diffuse la notizia dell’introduzione dell’Inquisizione a Napoli. Ciò provocò un’autentica rivolta, nella quale il popolo e la nobiltà si unirono contro il viceré, ritenuto il regista dell’operazione. Sanseverino, allora, fu scelto dai napoletani (con Placido Di Sangro) come ambasciatore per protestare con l’imperatore. Giunto a Norimberga in luglio, però, Carlo V si rifiutò di conferire con il principe, parlando solo con Di Sangro e trattenendo Sanseverino «come ostaggio [...] fino alla primavera del 1548» (De Frede, 1984, pp. 231, 235), intimandogli «che delle cose pubbliche più non s’impicciasse» e si limitasse «ad ubbidire al viceré» (Dell’Istoria..., 1769, p. 107).
Al suo ritorno, prima di recarsi in visita da don Pedro de Toledo, il principe andò a Salerno sostandovi più di una settimana, e poi, giunto a Napoli, cavalcò per tre giorni in giro per la capitale, suscitando ovunque applausi a scena aperta, che rivelavano come apparisse l’eroe della patria napoletana e il più fiero avversario dell’autoritario viceré. In realtà, a quel punto il dissidio con Toledo raggiunse il punto di non ritorno e per il principe fu l’inizio della fine.
Dopo alcune scaramucce, nel 1551 Sanseverino subì un attentato omicida da cui uscì fortunosamente solo ferito a un ginocchio: la voce dominante fu che dietro l’attentatore ci fosse il viceré in persona. Quest’ultimo, peraltro, aveva avviato un procedimento legale contro il principe, adoperando ogni mezzo per accusarlo di ribellione, accusa che poi fu effettivamente imbastita accanto a quelle di eresia e anche di sodomia. I margini per una ricomposizione erano ormai svaniti e Sanseverino decise di abbandonare il Regno rinunciando ai propri feudi. Si diresse così nella Repubblica di Venezia, giungendo a Padova nel dicembre 1551. Nel frattempo, si diffusero voci che tramasse con la Francia e con i turchi, e che mirasse addirittura a divenire re di Napoli. Così, l’imperatore gli ordinò di presentarsi al suo cospetto. Di fronte al rifiuto, e di fronte al tentativo di coinvolgere la Repubblica di Venezia in una lega antispagnola con la Francia, Toledo nell’aprile 1552 lo proclamò ribelle, sequestrandone i feudi e facendone sancire la condanna a morte dal Consiglio collaterale.
Recatosi a quel punto in Francia, e poi di nuovo a Venezia per riproporre inutilmente l’alleanza con i francesi, tra il 1552 e il 1553 Sanseverino cercò in ogni modo di organizzare un’invasione del Regno di Napoli, recandosi anche a Costantinopoli per perorare l’appoggio dell’Impero turco. Ma i tentativi fallirono sistematicamente, così come altre iniziative degli anni successivi, e finì per ritirarsi ad Avignone, pur prendendo parte ad altri progetti militari della Francia.
Ad Avignone si risposò (donna Isabella era spirata nel 1559) con una tal «belle Philippine» (Œuvres du seigneur de Brantôme, 1787, p. 265); e mentre nell’Esagono iniziavano le guerre di religione, a quanto pare Sanseverino si sarebbe convertito al calvinismo («accostandosi agli ugonotti», scrisse Antonino Castaldo, Dell’Istoria..., 1769, p. 140), seppure la notizia non sia, a oggi, accertata. Certo è che i trascorsi valdesiani avrebbero potuto giocare un ruolo decisivo a questo fine; ed è documentato un suo viaggio nel 1560 a Ginevra, dove incontrò l’antico valdesiano Galeazzo Caracciolo, che aveva aderito al calvinismo. Al di là delle sue scelte religiose, a ogni modo, trascorse gli ultimi anni di vita in povertà, privo perfino di mezzi per «se faire enterrer» (Œuvres du seigneur de Brantôme, 1787, p. 265).
Morì nel 1568 a Orange senza aver avuto eredi e con lui si estinse il ramo principale dell’antica casata normanna dei Sanseverino.
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