Ferrara
A leggere l’inizio delle Istorie fiorentine (I v 5), la fondazione di F. risalirebbe, come quella di Venezia, Siena e L’Aquila, a quel «miserabile» periodo di grandi mutamenti che va dagli imperatori Arcadio e Onorio (fine 4° - inizio 5° sec.) a Teodorico re degli Ostrogoti (fine 5° - inizio 6° sec.). Sempre nello stesso libro (I xxi 6), F. emerge dalle nebbie del Medioevo (seppure con una certa approssimazione) nel 13° sec.: M. afferma infatti che nel 1240 Azzone d’Este, capostipite degli Estensi (colui «dal quale sono discesi quelli e quali ancora oggi la signoreggiano»), capitanò le truppe pontificie per difendere la città dall’assalto di Ezzelino da Romano, già impadronitosi di Padova e della Marca trevigiana e che, al termine del fallito assedio, venne ricompensato dal papa Gregorio IX con il feudo di F.; in realtà, era stato proprio Azzone, con l’aiuto dei guelfi, a espugnare F. (che allora era governata dal rivale Salinguerra II Torelli), e la cessione del feudo agli Estensi da parte di un pontefice (Giovanni XXII) avvenne solo nel 1332 (C. Varotti, in N. Machiavelli, Opere storiche, a cura di A. Montevecchi, C. Varotti, t. 1, p. 148 nota 11). Ancora nel primo volume delle Istorie fiorentine (I xxviii 6-7), gli Estensi vengono citati tra i signori della Pianura Padana aderenti alla lega di Castelbaldo (8 ag. 1331), alleatisi contro il papa Giovanni XXII e contro Giovanni di Lussemburgo re di Boemia perché preoccupati del crescente potere che il legato pontificio, cardinale Bertrando del Poggetto, andava acquisendo: nel Ferrarese le truppe della lega sconfissero le forze boeme-pontificie, e M. riferisce – anche se l’informazione non è esatta (F. Gaeta, in N. Machiavelli, Opere, 7° vol., Istorie fiorentine, a cura di F. Gaeta, 1962, p. 120 nota 8) – che «il papa gli scomunicò tutti». Al termine del primo libro (I xxxix 2), per descrivere lo scenario politico italiano all’inizio del 15° sec., prima di trattare specificatamente della storia di Firenze e delle sue guerre con i veneziani e i milanesi, M. dice che Modena, Reggio e F., che erano sotto gli Estensi, così come Faenza, Imola, Forlì, Rimini, Pesaro e Camerino, erano tra quelle terre che ubbidivano alla Chiesa, «parte erano dai loro vicarii [e qui M. sembra riferirsi proprio agli Estensi] o tiranni occupate», vale a dire signori locali che esercitavano il potere senza un titolo ufficiale.
Dalle pagine delle Istorie machiavelliane, gli Estensi – e in particolare il marchese di F. Niccolò III (1393/94-1441) – emergono quali figure di abili mediatori tra le maggiori potenze politiche in lotta tra loro. Il 10 agosto 1435, grazie all’intervento di Niccolò presso il duca di Milano Filippo Maria Visconti, si stipulò la pace tra quest’ultimo (costretto alla resa dalla morte del suo condottiero Niccolò Fortebraccio) e il papa Eugenio IV: il duca restituì allo Stato pontificio le terre che aveva sottratto, vale a dire Imola (cfr. Istorie fiorentine V iii 11). Un’operazione diplomatica ben più complessa, e meno fortunata, Niccolò fu chiamato invece a tentare cinque anni dopo, quando dal duca di Milano venne mandato a Peschiera per cercare di trovare un accordo con il genero, il «Conte» Francesco Sforza, al servizio di Venezia; per accordarsi con lui, Visconti era disposto a concedergli in sposa la figlia Bianca Maria (VI ii 34). L’argomento centrale avanzato dall’ambasciatore estense al capitano di ventura, vale a dire la perdita di reputazione che sarebbe seguita all’indebolimento inevitabile delle sue truppe se avesse proseguito la guerra, sembra inserito da M. appositamente per mostrare «gli effetti perversi che l’utilizzo delle milizie mercenarie comportava sul piano politico e dei rapporti diplomatici» (C. Varotti, in N. Machiavelli, Opere storiche, t. 2, p. 536). Dal 1452 gli Estensi vennero insigniti dall’imperatore Federico III anche del titolo di duchi di Modena e Reggio (e dal 1471 lo sarebbero stati anche di F.): M. narra infatti che l’imperatore, di ritorno in Germania dopo che a Roma era stato «solennemente coronato» e «celebrate le nozze con la imperadrice», aveva concesso Modena e Reggio a Borso d’Este per ricompensarlo di alcuni benefici che da lui aveva ricevuto (VI xxvii 3).
Negli anni Sessanta del Quattrocento, F. entra nelle Istorie fiorentine con i suoi capitani di ventura, Borso e il fratello e successore Ercole I, duca di F. dal 1471 al 1505, la cui morte viene ricordata da M. nel secondo Decennale: «Mort’era Ercule duca di Ferrara; / mort’era Federico, e di Castiglia / Elisabetta regina preclara» (vv. 58-59). Essi vennero assoldati a Firenze dal partito antimediceo nella guerra civile contro Piero de’ Medici. M. sostiene (Istorie fiorentine VII xv 6) che l’intervento armato del signore di Firenze contro il partito a lui avverso, nell’agosto del 1466, si giustificava con il fatto che gli antimedicei stavano tramando una congiura in accordo con Borso, marchese (ma in realtà «duca») di F.: il punto di vista dell’autore è ovviamente di parte, e la questione rimane a tutt’oggi dibattuta. L’anno successivo Ercole venne mandato da Borso al seguito dell’esercito veneziano, guidato da Bartolomeo Colleoni ad assaltare Firenze; in quella occasione il partito mediceo si difese stringendo accordi con Ludovico Sforza detto il Moro (all’epoca reggente del ducato di Milano per conto del nipote Gian Galeazzo Maria Sforza), con il re di Napoli Ferdinando I d’Aragona e con il duca di Urbino Federico da Montefeltro (VII xx 2-4). Una decina di anni più tardi, nell’ambito della guerra scoppiata tra Firenze e il papa Sisto IV in seguito alla cosiddetta congiura dei Pazzi (1478), Ercole d’Este fu invece capitano delle truppe fiorentine contro quelle pontificie e napoletane guidate da Alfonso d’Aragona, duca di Calabria, e da Federico da Montefeltro (VIII xii 4, VIII xiv 9); nel 1479 i fiorentini ebbero la meglio sull’esercito nemico, ma non seppero sfruttare la vittoria per i contrasti, sorti in seguito al saccheggio di Casole e giunti persino allo scontro armato, tra il marchese di Mantova Federico I Gonzaga ed Ercole d’Este, che i fiorentini dovettero licenziare (VIII xv 11).
In VIII xxiv-xxvi M. parla della guerra tra F. e Venezia (1482-84), la cosiddetta guerra del sale; al fianco di Ercole d’Este si schierarono prontamente Napoli, Firenze, Milano, Bologna, Mantova e infine anche papa Sisto IV. L’evento è piuttosto importante agli occhi di M., e viene infatti ricordato anche nelle sue opere maggiori: nel Principe (xi 8) esso diviene un caso emblematico della politica dell’equilibrio dei maggiori Stati italiani, attenta a che nessuno di essi, soprattutto Venezia e lo Stato pontificio, assumesse troppo potere sugli altri; nei Discorsi (III xi 9-10), invece, l’evento viene citato perché offre un mirabile esempio moderno di come uno Stato contro molti, sol che usi «un poco d’industria», può «disunire gli assai, e quel corpo ch’era gagliardo fare debole» (III xi 7): Venezia, infatti, pur perdendo la guerra (a Bagnolo, il 7 ag. 1484), riuscì, corrompendo Ludovico il Moro, non solo a non perdere i suoi territori, ma persino a strappare agli Estensi Rovigo e il Polesine. «E così – chiosa M. – coloro che perdevano nella guerra, restarono superiori nella pace».
F. è protagonista del breve capitolo secondo del Principe, De principatibus hereditariis. Nei principati ereditari e «assuefatti al sangue del loro principe» (ii 3), spiega M., i governanti non necessitano di particolari capacità per mantenere lo Stato; anche nel caso in cui vengano esautorati, infatti, essi riescono spesso a tornare al potere alla prima avversità dell’usurpatore. Ne offrono una dimostrazione esemplare i duchi di F., i quali, nonostante abbiano perso tanto la guerra con Venezia nel 1484 (sotto Ercole I) quanto quella con papa Giulio II nel 1510 (sotto Alfonso I), sono sempre riusciti a ‘mantenersi’, perché amati dal loro popolo; «el principe naturale», infatti, «ha minori cagioni e minore necessità di offendere [il suo popolo]», ragion per cui, a meno di vizi particolari, «è ragionevole che naturalmente sia benevoluto da’ sua» (ii 5). Siamo evidentemente agli antipodi di quella nuova virtus politica che M. intende promuovere in tutta la sua opera. La relazione inversamente proporzionale che a F. sembra stabilirsi tra ereditarietà del potere e sviluppo di virtù politiche trova un corrispettivo nella relazione tra la posizione geografica della città e la sua forza militare: in apertura dell’ultimo libro dell’Arte della guerra (VII 2), F. viene citata infatti da M. tra quelle città che, come Mantova, sono difese più dalla natura (in questo caso fiumi e paludi) che da «industria»; nella chiusa del trattato, a riprova di questo ‘teorema’, il principale interlocutore del dialogo, Fabrizio Colonna, include F. e Venezia tra le città che, pur avendo cominciato a costruire un’ordinanza militare di cittadini, non hanno mai portato a compimento tale fondamentale istituzione. Quasi a suggellare il quadro di una sostanziale mancanza di intraprendenza politica, interviene, nei Discorsi (III vi 116-18), la menzione, tra gli esempi di congiure fallite «o per riverenzia, o per propria viltà dello esecutore», della cospirazione ordita nel maggio-giugno 1506 contro Alfonso I d’Este dai suoi fratelli Ferdinando (Ferrante) e Giulio (la congiura è narrata anche da Francesco Guicciardini nella Storia d’Italia, VII 4, e da Ludovico Ariosto nell’Orlando furioso, III 60-62 e XLVI 95): nonostante le ripetute occasioni loro offerte dal complice Giovanni d’Artiganova, prete e cantore cortigiano di Alfonso, nessuno dei due cospiratori ebbe mai l’ardire di uccidere il duca.
Dalle corrispondenze diplomatiche di M., Ercole (duca dal 1471 al 1505) e Alfonso (duca dal 1505 al 1532) emergono quali figure di mediatori tra i maggiori Stati italiani nella intricata partita politica del tempo.
Ercole fece da intermediario tra Firenze e Venezia nel 1499, durante la rivolta antifiorentina scoppiata a Pisa; è in tale veste che egli trascorse nella città lagunare «più e più giorni» all’inizio di quell’anno e condusse una trattativa tra le potenze in gioco (veneziani, milanesi, fiorentini), particolarmente estenuante a causa del lungo temporeggiare da parte degli oratori fiorentini. Ma il 6 aprile, dopo il pronunciamento di una consulta di cittadini fiorentini favorevoli a un accordo a ogni costo, venne firmato un lodo, di cui si faceva garante Ercole stesso, che obbligava i veneziani a lasciare Pisa e il Casentino, dietro il rimborso, da parte dei fiorentini, di quindicimila ducati all’anno fino a raggiungere la somma di centottantamila (LCSG, 1° t., pp. 204-05, 241, 360). Ancora un importante ruolo di mediazione Ercole lo svolse, sul finire del 1502, con uno dei protagonisti delle vicende politiche e militari di inizio Cinquecento, vale a dire Cesare Borgia, il duca Valentino. Nel delicato momento della guerra del duca contro la cosiddetta lega dei Condottieri, Ercole si fece garante del rispetto dei patti tra il signore di Bologna Giovanni Bentivoglio, i Vitelli e gli Orsini da una parte, e Cesare Borgia dall’altra (M. ai Dieci di Balìa, 29 ott. 1502, LCSG, 2° t., p. 403); in una lettera del 3 novembre, M. caldeggiava la possibilità di un accordo «tra i due Duchi» (evidentemente il Valentino ed Ercole d’Este), e pochi giorni dopo (8 nov., p. 427) diceva di vedere «a buon termine» anche l’accordo con Bentivoglio. Il 2 e 6 dicembre 1502, infatti, M. poté finalmente comunicare ai Dieci che a Bologna erano stati firmati i «capituli» di pace tra Bentivoglio e il Valentino, garanti degli accordi Ercole d’Este, i fiorentini e i francesi (cfr. LCSG, 2° t., pp. 403, 419-20, 427-28, 480, 484, 506). M. riferiva che l’obiettivo del Valentino era più quello di «assicurarsi» dei suoi vicini che non di impossessarsi di Bologna: un «amico» senza nome (citato nella lettera dell’8 nov. 1502, LCSG, 2° t., pp. 426-27) gli aveva infatti spiegato quanto fosse importante per Cesare Borgia l’alleanza con i ‘vicini’ (Bologna e F.), e quanto a tal fine egli si fosse speso, da un lato facendo sposare la sorella Lucrezia con Alfonso d’Este, dall’altro concedendo molti benefici al fratello di lui, il cardinale Ippolito. Perciò, come scrisse M. a Giovan Battista Ridolfi il 2 settembre 1503, «l’uno [Ercole] è forzato dal parentado o da quella cagione che tu alleghi, l’altro [Ippolito], dalla paura di non perdere cotesti stati di fatto» (LCSG, 3° t., p. 240).
Il figlio di Ercole, Alfonso I (1476-1534), dopo aver appoggiato papa Giulio II nella presa di Bologna (ott.-nov. 1506), si dichiarò in aperta contrapposizione al pontefice stesso, quando decise di mantenere l’alleanza con il re di Francia Luigi XII anche dopo l’indizione da parte di Giulio II della lega Santa in funzione antifrancese (promossa già nel 1510, e bandita l’anno seguente). Alfonso fece fare al papa, come M. scrive nel Principe, «la trista pruova delle sue arme mercennarie» (xiii 1): da una lettera spedita il 3 agosto 1510 dai Dieci a M., apprendiamo infatti che pochi giorni prima Alfonso, con l’aiuto delle truppe francesi comandate da Gaspard I de Coligny, aveva messo in fuga «molto tristamente» le truppe del papa, recuperando alcune delle terre precedentemente perdute in Garfagnana. L’indignazione di Giulio II, prima che in una controffensiva militare, si concretò nella scomunica e nella privazione del feudo per il duca di F., oltre che nella minaccia di scomunica per tutti coloro che sarebbero intervenuti in suo soccorso (Matteo Niccolini a M., 5 ag. 1510, e anonimo a M., 11 ag. 1510, LCSG, 6° t., pp. 472, 486). Benché Luigi XII chiedesse a Firenze di aiutare segretamente F., anche sotto forma di denaro prestato da qualche privato cittadino (M. ai Dieci, 12 ag. 1510, LCSG, 6° t., p. 487), e a causa anche della morte del cardinale legato francese Georges d’Amboise – vivo il quale F. «non pativa mai tanto» –, gli aiuti non arrivarono nei tempi debiti «per difetto non tanto suo [di Luigi XII] ma di chi maneggia qua ed in Lombardia le faccende sua a minuto» (M. ai Dieci, 2 sett. 1510, LCSG, 6° t., p. 534, ma si vedano, per tutta la vicenda, pp. 490-92, 503-06, 507-10, 514-18, 518-21).
Diciassette anni dopo, gli ultimi pezzi della corrispondenza diplomatica di M. indirizzati da Bologna agli Otto di pratica contengono un giudizio piuttosto severo su Alfonso: di fronte alla calata dei lanzichenecchi, infatti, il duca di F. prima temporeggiò (M. agli Otto, 3 dic. 1526, LCSG, 7° t., p. 188), poi si accordò con l’esercito imperiale per «seimila sacca fra pane e farina», «dugento cavalli da tirare artiglieria», «ventimila libbre di polvere grossa» e «cinquemila fine» (M. agli Otto, 12 marzo 1527, LCSG, 7° t., p. 207), che si rivelarono una «provisione» in grado di salvare l’esercito imperiale nei successivi momenti di difficoltà. Si trattava, per M., di una concessione scriteriata e sciagurata: «e se al Duca di Ferrara tornasse un poco di cervello in capo, e questo tempo durasse ancora duoi giorni, egli potrebbe, sedendo e dormendo, ultimare questa guerra» (M. agli Otto, 18 marzo 1527, LCSG, 7° t., p. 211).
Bibliografia: G. Getto, La corte estense di Ferrara come luogo d’incontro di una civiltà letteraria, in Id., Letteratura e critica nel tempo, Milano 1954, 19682, pp. 325-57; E. Garin, Motivi della cultura ferrarese del Rinascimento (1956), poi in Id., La cultura filosofica del Rinascimento italiano: ricerche e documenti, Firenze 1961, pp. 402-31; La corte e lo spazio: Ferrara estense, a cura di G. Papagno, A. Quondam, Roma 1982; La corte di Ferrara e il suo mecenatismo (1441-1598), Atti del Convegno internazionale, Copenaghen maggio 1987, a cura di M. Pade, L. Waage Petersen, D. Quarta, Copenaghen-Modena 1990; M. Folin, Gli Estensi e Ferrara nel quadro di un sistema politico composito, 1452-1598, in Storia di Ferrara, 6° vol., Il Rinascimento. Situazioni e personaggi, coordinamento scientifico di A. Prosperi, Ferrara 2000, pp. 22-76, in partic. p. 46; U. Dotti, Machiavelli rivoluzionario. Vita e opere, Roma 2003, pp. 44, 91,189, 202, 214-15, 324, 368, 398, 419, 425-27, 486.