FERRO
(lat. ferrum; fr. fer; sp. hierro; ted. Eisen; ingl. iron). -
chimica (p. 65); Colori (p. 67); Farmacologia (p. 68) Mineralogia: Ferro nativo (p. 68); Minerali di ferro (p. 68); Giacimenti di minerali di ferro (p. 69) Fabbricazione del ferro e dell'acciaio: Cenno storico (p. 73); Minerali e loro preparazione (p. 75) Combustibili (p. 77); Riduzione dei minerali all'alto forno (p. 77); Riduzione a bassa temperatura (p. 84); Affinazione della ghisa e produzione di ferro e acciaio (p. 85) Industria (p. 100) Ferro battuto (p. 103) Il ferro in architettura (p. 107).
Chimica.
Elemento con simbolo Fe; peso atomico 55,84; numero atomico 26.
Il ferro chimicamente puro si ottiene riducendo a caldo con idrogeno l'ossido di ferro puro o per elettrolisi di una soluzione acquosa di alcuni suoi sali. È un metallo di color grigio, molto tenace, assai malleabile, duttile, saldabile con sé stesso. Cristallizza nel sistema regolare. La sua densità è 7,86, il punto di fusione 1521°. Può assumere un magnetismo temporaneo, al contrario degli acciai che assumono un magnetismo permanente. Può assorbire dei gas (idrogeno, azoto, ossido di carbonio, ecc.) e trattenerne sino a 12 volte il suo volume; li ricede però, a poco a poco, quando sia riscaldato al rosso nel vuoto.
Determinando le curve di raffreddamento e di riscaldamento del ferro puro, si notano delle anomalie; nella curva di raffreddamento a 1401°, 898° e 768°, in quella di riscaldamento a 768°, 906° e 1401°. Queste anomalie denotano la presenza di 4 modificazioni del ferro che si sono indicate con δ, γ, β, α, ma l'esistenza di una forma β è, però, da molti messa in dubbio (v. acciaio). A seconda delle sue modificazioni allotropiche il ferro presenta un reticolo cubico semplice o a facce centrate.
Il ferro si può combinare con varî altri elementi. Il fluoro attacca il ferro in pezzi solo lentamente, a temperatura ordinaria; ma se leggermente scaldato, brucia dando scintille; il ferro ridotto con idrogeno si combina già a freddo col fluoro, con grande energia. Il cloro e il bromo secchi non attaccano il metallo in pezzi alla temperatura ordinaria, ciò che permette di conservare il cloro liquido nelle bombole di acciaio, ma l'attacco avviene a caldo con incandescenza. Il ferro brucia nei vapori di zolfo e di selenio: in presenza di acqua la solforazione avviene a temperatura ordinaria. L'azoto non si combina direttamente col ferro; si possono però ottenere azoturi per azione dell'ammoniaca sul ferro, a caldo. Il fosforo e l'arsenico agiscono sul metallo a una conveniente temperatura. Il boro scaldato col ferro fra 1100° e 1200° dà origine a un vero fenomeno di cementazione e già avanti la temperatura di fusione del metallo si forma una ghisa al boro. Il carbonio dà un carburo ben definito Fe3C. A elevata temperatura il ferro si combina anche col silicio. L'ossigeno e l'aria secchi sono senza azione sul ferro a temperatura ordinaria, ma l'ossidazione avviene al rosso scuro; al rosso vivo il metallo brucia dando scintille: si forma ossido magnetico Fe3O4. Come per il fluoro la combinazione può avvenire anche a temperatura ordinaria a condizione di usare il ferro allo stato di grande suddivisione: se si riduce l'ossido ferrico Fe2O3 a 440° con idrogeno, si ottiene il ferro piroforico che s'infiamma spontaneamente all'aria a temperatura ordinaria. All'aria umida il ferro è facilmente ossidabile e si ricopre di uno strato d'idrossido che si estende a poco a poco a tutta la massa (ruggine); a caldo decompone l'acqua, con sviluppo d' idrogeno e la reazione porta a uno stato d'equilibrio:
Il ferro si scioglie facilmente negli acidi diluiti. Nell'acido nitrico concentrato non si discioglie, forse per la formazione di uno strato di ossido che impedisce l'ulteriore attacco del metallo (ferro passivo).
Il ferro forma 3 serie principali di composti che si possono far derivare rispettivamente dagli ossidi FeO3, Fe2O3 e FeO. Il primo ossido, in cui il ferro esplica la valenza VI, funziona da anidride: si conoscono i ferrati, sali dell'acido ferrico, corrispondenti alla formula generale Me2FeO4 paragonabili a quelli degli acidi cromico e manganico, ma assai meno stabili di questi. L'ossido ferroso FeO, valenza II, è un ossido decisamente basico. L'ossido ferrico Fe2O3, valenza III, funziona da base debole, ma può avere anche proprietà acide per quanto assai deboli. I sali ferrosi si possono facilmente ossidare a ferrici con acqua di bromo, acido nitrico, clorato potassico e acido cloridrico, e i sali ferrici possono essere ridotti a ferrosi con idrogeno solforato, cloruro stannoso, anidride solforosa, ecc.
È reattivo dello ione Fe..: il ferricianuro di potassio che dà solo con le soluzioni di sali ferrosi un precipitato azzurro, insolubile in acidi diluiti. Sono reattivi dello ione Fe...: il ferrocianuro di potassio che dà in soluzione neutra o debolmente acida un precipitato blu (azzurro di Berlino) e il solfocianato potassico che, in ambiente leggermente acido, dà una colorazione rossa estraibile con etere.
Principali composti del ferro bivalente. - Ossido ferroso FeO. - Si ottiene riducendo con ossido di carbonio l'ossido ferrico. Si può anche preparare per riscaldamento dell'ossalato ferroso in ambiente di azoto, ma la preparazione di FeO esente di metallo è assai difficile. Costituisce una polvere nera, piroforica; è una base forte che con gli acidi dà origine a sali ben definiti.
Idrato ferroso Fe (OH)2. - Si ottiene aggiungendo a una soluzione di un sale ferroso un idrato alcalino, fuori dal contatto dell'aria: si forma un precipitato bianco che all'aria diventa nero verdastro e poi rosso bruno perché si ossida, come in genere fanno tutti i composti ferrosi.
Cloruro ferroso FeCl2. - Si può ottenere anidro in foglioline biancogrigiastre, splendenti, facendo passare acido cloridrico gassoso, secco, sul ferro, al rosso; oppure riducendo il cloruro ferrico con idrogeno secco. Sciogliendo il ferro in acido cloridrico, in assenza di aria, si forma cloruro ferroso che cristallizza in prismi monoclini verdi contenenti 4H2O. Il cloruro ferroso forma con molti altri cloruri metallici dei sali doppî ben cristallizzati, fra cui il più importante FeCl2•2KCl2H2O.
Solfato ferroso (vetriolo verde) FeSO4•7H2O. - Si ritrova in natura a costituire la melanterite. Per prepararlo artificialmente si può sciogliere il ferro metallico o il solfuro di ferro in acido solforico diluito evaporando poi la soluzione sino a cristallizzazione del sale. Nell'industria si prepara per parziale torrefazione della pirite FeS2 che si trasforma in FeS; questo, esposto all'aria umida, si ossida a FeSO4 che viene lisciviato con acqua. Lo si può ottenere puro a scopi scientifici o medicinali, precipitandolo dalla soluzione acquosa mediante alcool. Cristallizza in cristalli verdi molto solubili nell'acqua, che sfioriscono all'aria e si ricoprono di uno strato bruno di solfato ferrico basico. A 100° perde 6 molecole della sua acqua di cristallizzazione, mentre l'ultima molecola si elimina soltanto verso i 300°. La soluzione acquosa è debolmente acida. Il solfato ferroso è una sostanza riducente e può, ad es., precipitare l'oro dalle soluzioni che lo contengono. Assorbe a 8° l'ossido di azoto NO, e forma con esso un composto bruno, instabile, che per leggiero riscaldamento si decompone facilmente nei suoi componenti. Con i solfati di potassio e di ammonio forma sali doppî ben cristallizzati che contengono 6 molecole d'acqua di cristallizzazione, non sfioriscono e si ossidano solo lentamente all'aria. Il cosiddetto sale di Mohr (FeSO4•(NH4)2SO4•6H2O) è adoperato nell'analisi volumetrica per titolare la soluzione di permanganato. Il solfato ferroso è usato nella fabbricazione degl'inchiostri e dell'azzurro di Berlino e in tintoria come mordente. Si adopera anche in medicina.
Carbonato ferroso FeCO3. - Costituisce in natura la siderite. Trattando la soluzione di un sale ferroso con carbonato sodico, precipita il carbonato bianco, che all'aria diventa rapidamente verde e poi bruno, trasformandosi in idrato ferrico, con sviluppo d'anidride carbonica. Il carbonato ferroso si scioglie nell'acqua contenente acido carbonico, formando bicarbonato ferroso:
Sotto questa forma si trova disciolto in tutte le acque acidulo-ferruginose; per azione dell'ossigeno dell'aria queste acque lasciano un deposito di Fe (OH)3 e da ciò proviene l'intorbidamento che talvolta si nota in esse
Si usa in medicina.
Solfuri di ferro. - Il solfuro ferroso, FeS, si trova in natura, specialmente nelle meteoriti a costituire la troilite. Si può ottenere artificialmente fondendo insieme i due elementi in rapporto conveniente; cristallizzato, costituisce una massa metallica bruno-giallastra. Per via umida si prepara aggiungendo a una soluzione d'un sale ferroso un solfuro alcalino. Il prodotto commerciale in cilindri serve alla preparazione dell'acido solfidrico, essendo il solfuro di ferro solubile negli acidi diluiti (FeS + 2HCl = FeCl2+H2S).
Si conoscono altri solfuri di ferro corrispondenti alle formule: Fe6S7, Fe2S3 e FeS2. Più importante è il solfuro FeS2 che si ritrova in natura assai frequentemente sotto 2 modificazioni: la marcasite (sperchise, pirite bianca) che costituisce dei cristalli rombici colorati in giallo bronzino con tendenza al verdastro; la pirite, che cristallizza nel sistema monometrico. Artificialmente il disolfuro è stato ottenuto riscaldando una miscela di ossido di ferro, zolfo e cloruro ammonico, sino a eliminare del tutto il sale ammoniaco, oppure riscaldando a temperatura elevata l'ossido di ferro con solfuro di carbonio o, infine, facendo agire il pentasolfuro di fosforo sul cloruro ferrico anidro. In soluzione acquosa, si può ottenere riscaldando il solfuro ferroso in presenza di un eccesso di zolfo o di sostanze che possono cedere zolfo in soluzione neutra o debolmente acida. La pirite serve alla fabbricazione dell'acido solforico.
Principali composti del ferro trivalente. - Ossido ferrico (sesquiossido di ferro) Fe2O3. - In natura costituisce l'ematite, che cristallizza in romboedri di color grigio acciaio scuro, di lucentezza metallica, isomorfi col corindone. In lamine sottili e in polvere, è rossa. Si può preparare riscaldando l'idrato ferrico o il solfato ferroso e quello ferrico e anche il nitrato ferrico sotto 1200°. Si ottiene un prodotto molto puro riscaldando all'aria l'ossalato ferroso umido. Specialmente se calcinato, si scioglie difficilmente negli acidi. Con gli ossidi di altri elementi, a es. il rame, calcio, ecc., forma dei composti a carattere salino, i ferriti. L'ematite viene usata principalmente in siderurgia. L'ossido ferrico ottenuto artificialmente è adoperato come colorante (colcotar) e serve, infine, come materiale adatto a levigare il vetro e i metalli.
Idrato ferrico Fe(OH)3. - In natura si ritrovano varî idrati ferrici di composizione variabile e non corrispondente alla formula Fe(OH)3. Fra i più importanti ricorderemo la limonite (2Fe2O3•3H2O) e la goethite (Fe2O3•H2O). Anche la ruggine è idrossido ferrico. Artificialmente, sotto forma di precipitato rosso-bruno, si può preparare l'idrato ferrico aggiungendo a una soluzione di un sale ferrico un idrato alcalino o ammoniaca. Si possono preparare soluzioni colloidali d' idrato ferrico sciogliendo l'idrato precipitato di fresco in una soluzione di cloruro o acetato ferrico e dializzando la soluzione. L'idrossido naturale viene principalmente usato nella fabbricazione della ghisa. Gl'idrossidi contenenti manganese si adoperano come sostanze coloranti perché dànno, per arroventamento, delle terre colorate in bruno (ocra bruna, ocra turca). In medicina si adopera come preparato blando di ferro e come contravveleno nei casi di avvelenamento per arsenico. Anche l'idrossido colloidale trova impiego in terapeutica.
Cloruro ferrico FeCl3. - Si ottiene anidro facendo agire a caldo il cloro secco su ferro o su cloruro ferroso. Il cloruro ferrico che si ottiene sciogliendo il ferro in acido cloridrico, ossidando la soluzione con cloro ed evaporando, è idrato e costituisce dei cristalli gialli deliquescenti che per riscaldamento si decompongono lasciando indietro Fe2O3. La soluzione acquosa di cloruro ferrico subisce facilmente l'idrolisi. Il cloruro ferrico anidro si usa nella clorurazione dei minerali di rame e di argento e, similmente al cloruro d'alluminio, ma con azione un po' più blanda di questo, serve come mezzo di condensazione (ad es. nella condensazione dei cloruri alchilici con gl'idrocarburi aromatici). Esso è adoperato anche come mordente in tintoria. In medicina è usato, specialmente in soluzione acquosa, come emostatico.
Solfato ferrico Fe2(SO4)3. - Lo si conosce in natura come minerale chiamato coquimbite Fe2(SO4)3•9H2O e come quenstedtite Fe2(SO4)310H2O. Al disopra di 175° tutti i solfati ferrici idrati divengono anidri. Il solfato ferrico per riscaldamento si scompone in SO3 e Fe2O3. Per preparare una soluzione di solfato ferrico si può ossidare una soluzione di FeSO4, acida per acido solforico, con acido nitrico. Evaporando, in determinate condizioni, si ottiene il sale idrato: Fe2(SO4)3•10H2O. Se l'ossidazione del solfato ferroso si fa avvenire in ambiente neutro si forma solfato basico di ferro:
Il solfato ferrico serve come mordente in tintoria e come disinfettante; viene altresì utilizzato per la preparazione dell'allume. Mescolato a ossido di magnesio serve come contravveleno nei casi di avvelenamento dovuti ad arsenico. Il solfato ferrico forma allumi fra cui i più importanti quello di potassio: Fe2(SO4)3•K2SO4•24H2O e quello ammonico (allume ferrico ordinario): Fe2(SO4)3. (NH1)2SO4•24H2O. Si preparano partendo dal solfato ferroso, ossidando questo a solfato ferrico, con acido nitrico, in presenza di acido solforico, e aggiungendo la quantità stechiometrica di solfato di potassio o di ammonio. Gli allumi di ferro cristallizzano in cristalli ottaedrici, da incolori sino a blu-violetti facilmente solubili nell'acqua; si usano in tintoria e servono anche nell'analisi chimica.
Ossido magnetico di ferro (ossido ferroso-ferrico) Fe3O4. - In natura costituisce uno dei minerali più importanti del ferro: la magnetite, che viene così chiamata, perché talora possiede proprietà magnetiche. Si può considerare risultante d'una molecola di Fe2O3 e d'una di FeO (Fe2O3•FeO); cristallizza nel sistema monometrico in ottaedri regolari e fa parte del gruppo isomorfo degli spinelli. Si forma per riscaldamento del metallo in eccesso d'ossigeno o nel vapor d'acqua. Costituisce una polvere nera assai resistente agli acidi. L'ossido magnetico è stato adoperato per la fabbricazione di elettrodi per l'elettrolisi dei cloruri alcalini, perché, da una parte è buon conduttore dell'elettricità, dall'altra è resistente agli attacchi chimici. Si è tentato di sostituire i carboni delle lampade ad arco con elettrodi di magnetite e i tentativi sono stati coronati da successo: in America si utilizzano lampade ad arco a magnetite per l'illuminazione stradale.
Compostii del ferro esavalente. - Né l'anidride ferrica FeO3, né l'acido ferrico H2FeO4 sono noti, ma si conoscono invece i sali dell'acido ferrico, i ferrati, isomorfi con i solfati, cromati e manganati. Si ottengono facendo passare una corrente di cloro in una sospensione d'idrato ferrico in ma soluzione alcalina. Il ferrato potassico costituisce dei cristalli rossi, solubili in acqua; la soluzione di questo sale è facilmente decomponibile: si separa idrato ferrico e si sviluppa ossigeno.
Composti del ferro col Cianogeno. - I cianuuri di ferro Fe(CN)2 e Fe(CN)3 sono specialmente interessanti perché formano con 4 e con 3 molecole di KCN rispettivamente dei sali complessi, in cui, sia gli ioni Fe.. e Fen..., quanto lo ione CN′ non possono essere riconosciuti con le rispettive reazioni caratteristiche. Il ferro e il cianogeno costituiscono in questi composti un ione complesso tetravalente nel primo caso [Fe (CN)6]″″, trivalente, nel secondo [Fe (CN)6]‴. I sali complessi che si originano dall'unione di una molecola di Fe(CN)2 con 4 di KCN e di una di Fe(CN)3 con 3 di KCN sono il ferrocianuro di potassio (prussiato giallo) e il ferricianuro di potassio (prussiato rosso) che si possono far rispettivalaente derivare dall'acido ferrocianidrico H4[Fe(CN)6] e dall'acido ferricianidrico H3[Fe(CN)6].
Il ferrocianuro di potassio cristallizza in cristalli giallo chiari e contiene 3 molecole di acqua di cristallizzazione: K4[Fe (CN)6]•3H2O. Per aggiunta di KCN a un sale ferroso, si forma un precipitato che si discioglie nell'eccesso di KCN e si ottiene un liquido giallo che contiene il ferrocianuro potassico:
Industrialmente si prepara seguendo due processi. Nel primo (oggi poco in uso) si carbonizzano le sostanze organiche azotate (unghie, corna, sangue secco, ecc.): si riscalda, quindi, la massa nera che risulta, ricca di azoto, con carbonato potassico e limatura di ferro. Dopo raffreddamento della massa, si aggiunge acqua calda, si filtra e si ottiene il prussiato giallo per cristallizzazione del filtrato. Nel secondo processo si utilizza il gas illuminante greggio che contiene sempre cianogeno e acido cianidrico. Il gas, liberato dal catrame, si fa passare attraverso un apparecchio di lavaggio contenente una sospensione di carbonato ferroso in una soluzione di carbonato potassico. Avvengono le reazioni seguenti:
Le due reazioni, che sono separatamente reversibili, non lo sono più nelle condizioni in cui si opera perché il cianuro di potassio si combina col cianuro ferroso a formare il prussiato giallo che non è più attaccato dall'acido carbonico. Il ferrocianuro potassico non è velenoso; riscaldato con acido solforico diluito sviluppa acido cianidrico, con acido solforico concentrato, ossido di carbonio. Dal ferrocianuro potassico si ottengono generalmente gli altri composti del cianogeno. Se a una soluzione concentrata di ferrocianuro potassico si aggiunge acido cloridrico concentrato, si separa un precipitato bianco cristallino di acido ferrocianidrico (H4[Fe (CN)6]) che, all'aria, si scompone parzialmente e diventa azzurro. Molti dei sali di questo acido sono colorati e poco solubili e si utilizzano perciò in chimica analitica. Così il sale ferrico (blu di Prussia o azzurro di Berlino) Fe4[Fe(CN)6]3 è di color azzurro intenso e sulla sua formazione da ferrocianuro potassico e da un sale ferrico è basata una reazione di riconoscimento dello ione F... Il sale ferroso è bianco, ma esso si ossida rapidamente all'aria trasformȧndosi nell'azzurro di Berlino. Il ferrocianuro di rame Cu2[Fe(CN)6], anch'esso insolubile, ha un color rosso mattone e si presta alla preparazione di membrane semipermeabili.
Il ferricianuro potassico K3[Fe(CN)6] cristallizza in cristalli rossoscuri, solubili in acqua, e si può ottenere come il ferrocianuro, partendo, invece che da un sale ferroso, da un sale ferrico:
Nell'industria si prepara ricorrendo all'azione ossidante del cloro o del bromo sul ferrocianuro potassico:
L'acido ferricianidrico libero H3[Fe (CN)6] si può preparare trattando il ferricianuro potassico con acido fluosilicico; è instabile. Il ferricianuro potassico serve come reattivo dello ione Fe.., perché dà, con le soluzioni di sali ferrosi, un precipitato azzurro, da alcuni ritenuto di ferricianuro ferroso e chiamato azzurro di Turnbull (Fe3[Fe(CN)6]2). Coi sali ferrici il ferricianuro di potassio dà soltanto una colorazione bruna, senza alcun precipitato.
Se si tratta la soluzione di ferrocianuro sodico con acido nitrico, si ottiene il nitroprussiato sodico Na2[Fe(CN)5(NO)]•2H2O. Questo sale cristallizza in prismi color rosso porpora; è un reagente molto sensibile dei solfuri alcalini (colorazione violetta intensa).
Composti del ferro con l'ossido di carbonio (ferrocarbonili). - Si conoscono dei composti assai singolari del ferro con l'ossido di carbonio (simili a quelli che il nichel forma con lo stesso gas), che vanno sotto il nome di ferrocarbonili e, a seconda del numero di molecole di CO unite al ferro, s'indicano con i nomi di ferrotetracarbonile: Fe(CO)4 i, ferropentacarbonile: Fe(CO)5. Sono liquidi rossi, volatili, che si formano allorquando si fa passare ossido di carbonio a 80° su ferro finemente suddiviso oppure, anche a temperatura ordinaria, quando il gas venga a contatto col ferro sotto pressione. Per questa ragione anche il gas illuminante, contenuto compresso nei recipienti di ferro, può, dopo un certo tempo, intaccarli. La permeabilità del ferro a elevata temperatura per l'ossido di carbonio è probabilmente dovuta alla formazione di questi composti.
Colori. - Molti composti del ferro sono usati nell'industria come colori. Così il cosiddetto bruno di ferro (Bruno Van Dick; brunino), ossido di ferro ottenuto con la calcinazione di sali adatti, che dà toni intensi e ha molto potere ricoprente e si usa più specialmente nella pittura a olio; il giallo di ferro o giallo di Marte, ossido di ferro ottenuto dal solfato ferroso precipitato con latte di calce, con composizione molto simile alle ocre gialle, dalle quali è quasi completamente sostituito; il nero di ferro, ossido di ferro che si ottiene con la calcinazione di alcuni sali ferrosi o come sottoprodotto nelle fabbriche di coloranti sintetici: colore molto pesante che ha forza copritiva e si può usare nella pittura a olio comune; l'ossido di ferro naturale (ematite, sesquiossido di ferro). Viene estratto, macinato e lavato con i soliti metodi e dà una polvere rossa stabilissima di grande forza copritiva molto usata specialmente per le pitture a olio; l'ossido di ferro artificiale (rossetto, rosso inglese, rosso di Marte, minio di ferro, colcotar) che ha la stessa composizione del sesquiossido di ferro e si ottiene calcinando il solfato o il carbonato di ferro entro appositi forni; ridotto in polvere ha un bel colore rosso che va dal giallastro al rosso vivo molto resistente, non velenoso e di ottima forza copritiva e per questo si vende spesso mescolato intensamente con riempitivi (gesso, barite, carbonato di calcio).
Farmacologia. - Si deve a V. Menghini (1746) la scoperta del ferro nel sangue e l'inizio delle indagini per ricercare se la somministrazione di preparati di ferro possa aumentare la quantità di quello che normalmente v'è contenuto sotto forma d'emoglobina. Alcuni alimenti sono ricchi di ferro (spinaci, carne, uova), altri poveri (pane, latte) ma il ferro alimentare è sufficiente a compensare quello (20 mg.) giornalmente escreto. Questo ferro alimentare, quale materiale di riserva per la formazione dell'emoglobina, viene depositato dal sangue nel fegato, nel midollo delle ossa e specialmente nella milza in forma d'una combinazione albuminoidea detta ferratina (O. Schmiedeberg e P. Marfori). S'è discusso se il ferro inorganico medicinale possa essere utilizzato dall'organismo. G. Bunge non lo credeva e suppose che il ferro medicinale inorganico ionizzabile si combinasse facilmente con l'idrogeno solforato che sempre si trova nell'intestino venendo così a proteggere il ferro alimentare da tale combinazione che poteva renderlo insolubile e inassimilabile; E. Abderhalden (1899) pensò che il ferro inorganico non assorbito potesse stimolare gli organi ematopoietici a una maggior funzione, ma oggi tutti concordano nell'ammettere che i preparati di ferro solubilizzati e assorbiti nella parte superiore dell'intestino, passano l'epitelio, giungono nella linfa e nel sangue e vanno a depositarsi negli organi di riserva. A. Bonanni (1906) dimostrò che tanto nei cani normali come in quelli salassati e mantenuti a dieta povera di ferro la ferratina del fegato dopo somministrazione di pillole del Blaud diviene più abbondante e più ricca di ferro. Altri ricercatori hanno dimostrato l'iperfunzionabilità degli organi ematopoietici dopo l'uso del ferro. Parte del ferro dato per bocca si trova nelle feci ma si deve ricordare che la mucosa intestinale è la via principale d'eliminazione del ferro circolante nel sangue e che una parte del ferro assorbito ritorna all'intestino con la bile (I. Novi). Il ferro è usato nelle anemie e nelle clorosi.
Fra i preparati inorganici si possono ricordare il ferro porfirizzato, le pillole del Blaud e del Valley, le acque minerali ferruginose, fra cui le acque italiane di Levico, Peio, S. Caterina, Ceresole reale, ecc.; fra i preparati organici il citrato, tartrato, malato e lattato di ferro, l'albuminato, il peptonato, ecc. I sali ionizzabili e solubili di ferro (percloruro di ferro) hanno localmente azione astringente e si usano come emostatici. Iniettando endovenosamente o ipodermicamente sali non precipitabili di ferro si possono avere intossicazioni gravissime con sintomi che ricordano l'avvelenamento arsenicale.
Bibl.: H. Moissan, Chimie minérale, Parigi 1905; E. Artini, I Minerali, Milano 1914; G. D'Achiardi, Guida al corso di mineralogia, Pisa 1910; A. F. Holemann, Trattato di chimica inorganica, Milano 1919; G. Errera, Trattato di chimica inorganica, Palermo 1920; L. Gmelin, Handbuch der anorganischen Chemie, 7ª ed., Heidelberg 1929-30; E. Müller, Das Eisen und seine Verbindungen, Dresda 1917; F. Ullmann, Enzyklopädie der technischen Chemie, 2ª ed., Berlino 1928 segg.
Mineralogia.
Ferro nativo. - Il ferro nativo (fr. fer natijf; sp. hierro nativo; ted. gediegenes Eisen; ingl. pure iron) è un minerale che cristallizza nel sistema cubico classe esacisottaedrica con le sole forme, {111} (100), che però si notano solo nelle cristallizzazioni artificiali dendritiche ottenute per la consolidazione di masse fuse. In natura il ferro tellurico, da non confondersi con quello proprio delle meteoriti, è in masse compatte o criptocristalline oppure in noduli e in granuli contenuti in alcune rocce e sabbie o contenuti in altri minerali di ferro come magnetite, pirite, pirrotite, marcassite e limonite. Ha sfaldatura ottaedrica e frattura uncinata: è malleabile. La sua durezza varia da 4 a 5 e il peso specifico da 7,3 a 7,8. Ha lucentezza metallica e un colore variante dal grigioacciaio al bruno, essendo però spesso ricoperto da patine brunogiallastre di limonite. I suoi caratteri chimici e fisici non differiscono da quelli del comune ferro elementare.
Il ferro nativo tellurico si differenzia da quello delle meteoriti per la sua costante povertà in nichelio, come si deduce dalle analisi compiute su varî ferri nativi e prevalentemente su quello dell'isola Disko in Groenlandia che risulta contenere dal 91,17 al 95,67% di ferro mentre il nichelio varia da 0,3 a 2,7%. Inoltre si hanno in esso piccole tracce di altri elementi, come cobalto (0,06-0,93%), rame (0,05-0,4%), zolfo (0-0,59%), carbonio (0,24-1,94%). Esistono però in natura alcune rare varietà di ferro nativo, indubbiamente di origine tellurica, le quali sono molto ricche in nichelio, potendo questo superare notevolmente la percentuale del ferro. Queste varietà impropriamente indicate col nome di ferro-nichelio, dovrebbero, a maggior ragione, essere considerate come varietà di nichelio nativo ferrifere. Tali sono il minerale scoperto da A. Sella nel torrente Elvo, presso Biella, la Catharinite di S. Catharina nel Brasile, la Josefinite dello stato dell'Oregon negli Stati Uniti e la Awaruite della Nuova Zelanda che corrispondono rispettivamente alle seguenti composizioni centesimali:
I più tipici giacimenti di ferro nativo sono quelli che si trovano in Groenlandia nell'Isola Disko, nel Melville Bugt, ecc. Essi furono scoperti da Nordenskjöld nel 1870 in seguito all'avere l'esploratore polare James Ross notato fino dal 1819 che gl'indigeni usavano utensili di ferro. In principio Nordenskjöld suppose che si trattasse di ferro proveniente da una grande pioggia di meteoriti, ma il fatto che esso venne in seguito trovato, non solo in masse disseminate sul suolo (e talvolta di grandi dimensioni superanti i 700 chilogrammi), ma anche sotto forma d'inclusioni nelle rocce basaltiche delle dette località, dimostrò che si trattava di un vero ferro nativo tellurico.
In seguito l'esistenza di ferro tellurico fu pure confermata dalla sua scoperta in piccoli noduli e granuli nelle rocce vulcaniche del Puy de Dôme in Alvernia, nei basalti nefelinitici di Annaberg, nei melafiri di Równe in Volinia, nelle doleriti del Monte Washington nel New Hampshire, nei gabbri e nei serpentini della Cornovaglia, in Scozia e anche in alcuni scisti carboniferi del New Jersey e della Turingia, dove esso è contenuto nell'interno di cristalli di magnetite. Altre località da ricordare per le speciali giaciture del ferro nativo sono Jáchimov dove si trova incluso in piriti parzialmente alterate, Chilpancingo, nel Messico, dove si trova incluso entro cristalli di pirrotite e di calcopirite, Choceň in Boemia, dove si presenta disseminato in concrezioni di argilla ferrifera e nello Småland in Svezia, dove forma il nucleo di concrezioni di limonite. Si hanno anche sabbie aurifere e platinifere che contengono tracce di ferro nativo. Tali sono quelle di Transilvania di Berezovsk negli Urali e di Montgomery nello stato di Virginia. Uguali giaciture hanno la josefinite dell'Oregon e la awaruite della Nuova Zelanda. Per quanto riguarda l'origine del ferro nativo si può ammettere che quello proprio delle rocce originarie derivi dall'essersi dette rocce consolidate in un ambiente profondo e molto povero di ossigeno donde una loro costituzione che si approssima a quella dei meteoriti litoidei: quello invece contenuto come nucleo di minerali ferriferi, oltre che a un'origine analoga, è anche da riferirsi a fenomeni di riduzione interna conmmitanti con determinati processi di alterazione dei minerali che lo contengono.
Minerali di ferro. - Il ferro è un elemento molto diffuso nelle rocce, tanto che il tenore medio in ferro della crosta terrestre probabilmente si avvicina al 5%. Esso entra a formare numerosissimi minerali da solo o associato con altri elementi. I più noti sono elencati in seguito e i più diffusi e importanti hanno trattazione separata.
Tra i solfuri, arseniuri e analoghi ricordiamo la troilite FeS (v. meteoriti), la pirrotite FeS, la pirite FeS2, la marcasite FeS2, l'arsenopirite FeAsS, la löllingite FeAs e il glaucodoto (Fe, Co) AsS. Il ferro entra nella composizione di moltissimi solfosali (solfoferriti) di rame, come calcopirite e bornite, o di argento, come argento pirite (v. argento), i quali pertanto sono menzionati tra i minerali dei suddetti elementi. Tra i cloruri anidri ricordiamo la molisite FeCl3, che si trova come incrostazione tra i minerali vesuviani o si ottiene in cristalli artificiali esagonali; tra gli idrati la douglasite FeCl22KCl•2H2O e l'eritrosiderite FeCl3•2KCl•H2O. Di grande importanza tra gli ossidi e gli ossidi idrati sono l'ematite Fe2Os, la limonite Fe2O3•nH2O e la goethite FeO•OH. Inoltre tra i carbonati ricordiamo la siderite FeCO3 e le miscele di questa con carbonato di magnesio, come 2MgCO3•FeCO3 mesilite, MgCO3FeCO3 breitnnerite e la plesiosiderite MgCO32FeCO3. Infine l'anckerite CaFeC2O6. Tra i wolframati (v. wolframio) sono importanti quelli di ferro e di manganese, rispettivamente faberite FeWO4 e hübnerite MnWO4 e soprattutto la loro miscela wolframite.
Del pari fra i tantalati e niobati il più comune è (Fe, Mu)[(Ta, Nb)O3]2 tantalite o niobite (v. columbite).
Nella serie degli alluminati spinelli prima di tutti è da ricordare la magnetite FeO•Fe2O3, l'ercinite FeO•Al2O3; (Mg, Fe)O•Al2O3 pleonasto e (Mg, Fe)O•(Al2, Cr2)O3 picotite. Infine si trovano numerosi solfati di varia costituzione ma d'importanza specialmente scientifica, non anidri, ma idrati o basici: la melanterite FeSO4•7H2O, la coquimbite Fe2(SO4)3•9H2O, la copiapite Fe2(FeOH)2(SO4)4•18H2O e la fibroferrite FeOHSO4•41/2 H2O.
Varî arseniati e fosfati oltre alla comunissima vivianite Fe3(PO4)2• 8H2O sono da ricordare: la simplesite Fe3(AsO4)28H2O con ferro ferroso ed inoltre la strengite FePO42H2O che cristallizza nel rombico e la scorodite FeAsO4•2H2O con ferro ferrico, e infine la farmacosiderite (FeOH)3 (AsO4)2•10H2O (v.). Tra i silicati moltissimi contengono ferro e tra essi ricordiamo solamente quelli nella cui costituzione questo elemento ha prevalente importanza, e cioè l'olivina (Mg, Fe)SiO4 e la fajalite Fe2SiO4: la serie isomorfa, bronzite, iperstene appartenente ai pirosseni (v.). I granati ferrici a Fe2O3 andradite (v. granato), l'ilvaite e l'epidoto (v.). Infine tra i sali di acidi organici si può menzionare l'ossalite Fe(COO)2•11/2H2O che si trova nelle miniere di lignite e anche in giacimenti ferriferi dell'isola d'Elba.
Giacimenti di minerali di ferro. - Caratteristiche e ubicazione. - Nonostante il grande numero di minerali, i giacimenti minerarî del ferro, cioè grandi masse riccamente ferrifere suscettibili di utilizzazione sono in numero relativamente limitato. Anzitutto notiamo che importanti per l'estrazione industriale del metallo sono soltanto pochissimi di essi e cioè: magnetite col 72,4% di ferro; ematite col 70 oó; siderite col 48,3 oó; limonite fino al 60%; leptocloriti (chamoisite e turingite) col 30-40% di ferro. A questi, oggi, subordinatamente va aggiunta la pirite, col 46,5% di ferro: essa viene utilizzata nella fabbricazione dell'acido solforico, ma da qualche anno le cosiddette ceneri di pirite, residuo della sua torrefazione, sono usate nella siderurgia, in miscela con altri minerali di ferro, uso che va diventando sempre più importante nella siderurgia italiana.
Perché i minerali di ferro siano utilizzabili, è necessario che essi siano quasi esenti da certe impurità abbastanza comuni, cioè: lo zolfo e l'arsenico, che non debbono superare il 0,03%; il fosforo, che viene di solito tollerato fino al 0,5% mentre poi per tenori superiori al 2% diventa elemento utile per l'estrazione del ferro mediante il cosiddetto processo basico Thomas, e il titanio, presente in certi giacimenti, tollerato fino al 2%. I minerali di ferro nei loro giacimenti sono sempre accompagnati da altri minerali litoidi che si sogliono chiamare ganghe, sterili rispetto al minerale utile. Ora, anche la natura della ganga ha notevole influenza sul valore del minerale: così, mentre le ganghe calcari, comportandosi come fondenti, favoriscono il processo metallurgico, la baritina e varî silicati, specie magnesiaci, come il serpentino, tendono invece a ostacolarlo.
Dato il basso valore di mercato dei minerali di ferro, i giacimenti minerarî praticamente coltivati come miniere di ferro presentano sempre cubature notevoli. Masse ferrifere contenenti alcuni milioni di tonnellate di minerale sono abbastanza numerose, ma considerate piccoli giacimenti minerarî. D'importanza ancora modesta sono ritenuti quelli che dispongono di alcune decine di milioni di tonnellate di minerale, come i maggiori giacimenti italiani; mentre buoni giacimenti dell'estero racchiudono più centinaia di milioni di tonnellate, e alcuni poi oltrepassano il miliardo di tonnellate, come i grandi giacimenti della Lorena, della Lapponia e degli Stati Uniti.
I minerali di ferro possono costituire banchi, filoni e ammassi svariati. Hanno grande importanza i banchi d'origine sedimentaria, che a una grande estensione uniscono regolarità e costanza di composizione (Lorena, Normandia, ecc.). Invece i filoni ferriferi, cioè i depositi idrotermali in fratture, costituiscono raramente giacimenti di qualche importanza (Siegen renano). Gli ammassi a loro volta possono assumere importanza anche grandiosa e se non hanno la regolarità dei banchi offrono però in compenso masse più concentrate e minerali spesso più ricchi.
Giacimenti dell'estero. - In Europa, cominciando dal nord, troviamo nella Lapponia svedese (Kiruna, Luossavaara, Gällivare) un gruppo di giacimenti ferriferi fra i più grandi del mondo. Si tratta di giganteschi ammassi lenticolari di magnetite, emergenti a giorno, frammezzo a porfidi e originatisi per fenomeni di segregazione magmatica da queste rocce.
L'Inghilterra deve la sua notevole produzione di minerali di ferro specialmente al Cleveland, ove si hanno estesi banchi di minerale sideritico-ematitico, a struttura oolitica, intercalati negli scisti del Lias. Nel Carbonico produttivo, specialmente della Scozia, si ha il cosiddetto blackband, costituito da minerale sideritico compatto, di colore scuro, in strati e lenti: giacimenti questi ancora interessanti, sebbene non più così importanti come per il passato.
La Francia possiede riserve enormi di minerali di ferro. Di gran lunga più importanti fra tutti sono i giacimenti della Lorena che interessano anche una parte del territorio del Lussemburgo. Il minerale è in banchi ripetuti, separati fra loro da banchi sterili di calcare marnoso, molto ricchi in fossili e attribuiti al Giurassico. Il minerale, detto localmente minette, analogo a quello del Cleveland, è costituito da ossidi di ferro idrato, con carbonato e idrosilicati, a struttura oolitica. Ancora in Francia, nella Bassa Normandia e Bretagna, si hanno giacimenti di minerale oolitico molto analogo al nostro della Nurra pure negli scisti del Silurico, ma più estesi e più regolari.
Anche nella Cecoslovacchia, ad ovest di Praga, si ha un grandioso giacimento di ferro oolitico negli scisti paleozoici, in tutto analogo a quello della Normandia e altrettanto importante. Nella Spagna, un giacimento di grande importanza è quello di Bilbao, rappresentato da grandi ammassi di ematite e limonite nei calcari del Cretacico.
I gruppi di giacimenti ferriferi in Germania sono diversi. A SO. di Siegen, nella Vestfalia meridionale, in un'estesa zona di scisti del Devonico, si ha un complesso e importante sistema di filoni di ferro spatico, tuttora attivamente coltivati. Notevoli sono pure i giacimenti del distretto della Lahn, presso Wetzlar, dove si ha un esteso orizzonte limonitico, a contatto fra colate diabasiche e calcari soprastanti del Devonico. Anche importanti sono i singolari orizzonti ferriferi di tipo conglomeratico che si sviluppano nella formazione cretacica a nord del Harz.
In Austria, presso Eisenerz nelle Alpi Stiriane, troviamo un grandioso ammasso di siderite, di probabile sostituzione metasomatica di banchi calcarei del Devonico. Costituisce la parte superiore del monte Erzberg, con coltivazione a giorno disposta a guisa d'immenso anfiteatro.
L'U.R.S.S. possiede riserve enormi di minerale ferrifero distribuito in più centri minerarî, di cui i più importanti sono quelli di Krivoj Rog (distretto di Dnepropetrovsk in vcraina), di Kerč (nella penisola di Crimea) e di Goroblagodatskaja (Urali meridionali). A Krivoj Rog si hanno banchi e lenti di ematite intercalati in un complesso di scisti e quarziti del Paleozoico. A Kerč si hanno banchi di ematite, a struttura oolitica, nel Miocene. I giacimenti di Goroblagodatskaja e finitimi sono costituiti da ammassi di magnetite compresi in rocce porfiriche legate a tipi sienitici, presentando così grande analogia coi giacimenti di Kiruna.
Negli Stati Uniti, i giacimenti da cui si ottengono le maggiori produzioni sono quelli del Lago Superiore (centri Marquette e Mesali) e dell'Alabama-Georgia (centro Birmingham). Quelli del Lago Superiore, formati da ammassi e vene prevalentemente di ematite, si trovano nelle più antiche formazioni del Paleozoico, costituite da scisti silicei ferriferi associati a rocce dioritiche e diabasiche profondamente metamorfosate. Gli altri, dell'Alabama-Georgia, sono costituiti da banchi di ematite rossa a struttura oolitica, compresi entro scisti e calcari della cosiddetta formazione di Clinton, del Silurico, formazione ferrifera sviluppata specialmente nella zona di confine dei due stati su nominati e che si estende verso est, attraverso il Tennessee e la Virginia, fino allo stato di New York.
Nell'America del Sud, il giacimento più importante è quello dello stato di Minas Geraes nel Brasile, ove, intercalati a quarziti e scisti silicei prepaleozoici, si hanno banchi estesissimi di quel caratteristico tipo di minerale di ferro, noto col name di itabirite, costituito da oligisto micaceo, alternante con scisti silicei.
Anche l'Asia, l'Africa e l'Australia posseggono giacimenti ferriferi notevoli. Quelli dell'India, distretto di Salem, sono banchi di ematite negli scisti cristallini. Fra quelli africani, oggetto di recenti studî sono quelli del Transvaal: estesissimi banchi di ferro oolitico nelle formazioni antichissime del Paleozoico.
Giacimenti italiani. - L'Italia pur avendo numerosi giacimenti ferriferi di tipo svariatissimo, non possiede masse di minerale che nel senso sopra definito si possano dire di primaria importanza. Le più importanti sono quelle di Cogne (Val d'Aosta), dell'Isola d'Elba e della Nurra (Sardegna), a cui seguono, molto più modesti, alcuni giacimenti della Toscana, della Sardegna e delle Alpi.
Nelle Alpi Occidentali, particolarmente nella Val d'Aosta, furono coltivati nel passato parecchi giacimenti legati a masse serpentinose: si trattava quasi sempre di ammassi di magnetite segregatasi da magmi peridotici serpentinizzati. Fra essi, i più noti e importanti furono sempre quelli di Cogne, dove recenti laboriose ricerche hanno constatato la presenza di un grande ammasso, degno di sfruttamento moderno, legato a una lente di serpentina incuneata fra calcari e calcescisti sul fianco meridionale del M. Creja; all'estremo orientale di questa si sviluppa l'ammasso di minerale, il cui affioramento costituiva la vecchia miniera detta "Liconi", recentemente ripresa in coltivazione su grande scala. La massa Liconi, che affiora a un'altezza di oltre 1500 metri, è costituita da una grande lente, dello spessore medio di una cinquantina di metri, di magnetite, a ganga serpentinosa, con tenore medio di ferro del 50% circa, da cui si ricavano, per la purezza del minerale, ghise e acciai molto pregiati. Ancora in Val d'Aosta, a Traversella, presso Ivrea, si ha un limitato giacimento ferrifero, coltivato nel passato, costituito da un ammasso di magnetite con oligisto, mista a calcopirite, il quale si è sviluppato nell'aureola di contatto di un dicco dioritico, in corrispondenza di lenti calcaree racchiuse negli scisti cristallini che lo attorniano.
Nelle Alpi Lombarde si ha un numero considerevole di giacimenti ferriferi a base di ferro spatico (siderite). Si tratta qui di filoni e banchi distribuiti nelle Prealpi bresciane (Val Trompia) e bergamasche (Valle Seriana e Val di Scalve). Ivi, sugli scisti cristallini antichi poggia in discordanza una serie di banchi di rocce prevalentemente clastiche, costituita essenzialmente dai cosiddetti scisti del Servino (scisti argillosi, ardesiaci con lenti di calcare) aventi alla base formazioni conglomeratico-arenacee e ricoperti da un complesso calcareo-dolomitico. I giacimenti ferriferi si trovano appunto in queste formazioni basilari delle Prealpi lombarde; però, mentre i filoni attraversano la serie dagli scisti cristallini al Servino, i banchi sono intercalati solo nel Servino, specialmente in corrispondenza degl'interstrati calcarei. Questi giacimenti di ferro spatico furono nel passato la base dell'industria siderurgica lombarda, per la produzione, al carbone di legna, di ghise di qualità molto pregiata dovuta al tenore in manganese di quelle sideriti.
Nelle Alpi Carniche, nella zona compresa fra le due valli di Malborghetto e Ugovizza, si hanno varî giacimenti ferriferi e ferro-manganesiferi in forma di banchi intercalati in quei calcari paleozoici. Al M. Koch in particolare, sono stati scoperti 5 banchi abbastanza estesi di ematite rossa e bruna, con minerale di manganese più o meno spatico.
Più noti però fra tutti i giacimenti ferriferi italiani sono quelli dell'Isola d'Elba: affiorando a giorno, furono oggetto di modesta coltivazione fin da tempi antichi, e sono stati attivamente escavati nell'ultimo cinquantennio, tanto che mentre la cubatura globale originaria si può ritenere ascendesse a 30 milioni di tonnellate, quella residua, ora in vista, è ridotta forse alla decima parte. Le masse ferrifere elbane sono distribuite tutte lungo la costa orientale dell'isola, su una quindicina di chilometri di lunghezza, in diversi gruppi di masse denominate, da N. a S.: Rio Albano, Rio Marina, Terra Nera e Capo Bianco, Capo Calamita. Nella zona di Rio Albano si hanno potenti masse limonitiche, con ematite rossa e oligisto, poggianti sulle formazioni di scisti, arenarie e conglomerati quarzosi del Permico, oppure interposte fra queste e le formazioni calcareo-scistose liasiche. A Rio Marina si hanno varie lenti ema- titico-limonitiche, scoperte a giorno, adagiate sugli scisti e le quarziti del Permico, ma che s'incuneano in parte verso monte, fra questi terreni e il soprastante calcare cavernoso retico. I giacimenti di Terra Nera, Capo Bianco e Calamita si trovano in relazione con terreni più antichi, cioè scisti e calcari del Paleozoico, attraversati in più punti da filoni di granito tormaliniferti. A Capo Calamita riesce specialmente evidente questa giacitura: ivi, nei calcari, associate al minerale, si trovano delle masse di silicati ferro-calciferi (granati, epidoti e ilvaite), mentre i giacimenti ferriferi sono rappresentati da lenti irregolari e vene prevalentemente di magnetite con ematite, a volte inquinate da pirite. La presenza nelle masse silicatiche e ferrifere di lenti calcaree le quali conservano la stratificazione in perfetta continuità con le prossime masse calcaree, dimostra che tali frammenti rappresentano sicuramente i residui degli strati calcarei sostituiti dal minerale o dai silicati ferriferi, per azioni dovute alle soggiacenti masse granitiche.
In Toscana si hanno giacimenti ferriferi nelle Alpi Apuane, nel Campigliese e nel Massetano. Questi ultimi sono un po' più importanti degli altri: fra essi è degno di nota il giacimento di Val d'Aspra, ove vengono coltivate a giorno masse limonitiche comprese nella zona di contatto fra i calcari retici e gli scisti eocenici.
Nella Sardegna si hanno, infine, parecchi giacimenti ferriferi di natura e importanza varie. Più grande di tutti è stato rilevato essere quello della Nurra, nel Sassarese, ove si hanno due banchi di minerale, assai estesi sebbene alquanto irregolari, aventi media potenza di qualche metro, intercalati negli scisti filladici del Silurico e perfettamente concordanti con essi. Questo carattere, unito a quello della natura del minerale, alquanto fosforoso, costituito essenzialmente da siderite, magnetite e leptocloriti, a struttura prevalentemente oolitica (v. fig. 5), indica il carattere sedimentario di questo giacimento. Anche con carattere sedimentario si presenta il gruppo dei giacimenti ferriferi dell'Ogliastra (Sardegna centro-orientale): si tratta qui di lenti di ematite rossa e bruna discontinuamente inserite in un orizzonte di scisti ferriferi suborizzontali, forse permo-triassici, poggianti in trasgressione sulle filladi siluriche e coperti da una formazione clastica su cui s'imbasano i caratteristici tacchi o tonneri, altipiani e torrioni calcarei, avanzi di una grande coperta di calcari mesozoici; resa discontinua e in parte distrutta dalla erosione.
Bibl.: Congresso Geologico Internazionale di Stoccolma, The iron ore resources of the World, 1910; A. Stella, Primo congresso minerario nazionale. Le miniere di ferro dell'Italia, Torino 1921.
Produzione. - L'andamento della produzione mondiale di minerali di ferro può rilevarsi, per gli anni 1913 e 1928-30, dalla tab. I. Fra tutti i paesi, appariscono maggiori produttori gli Stati Uniti, il cui contributo alla produzione mondiale supera il 30%, e la Francia con un contributo leggermente inferiore. Il Lussemburgo (la cui produzione è data dal prolungamento dei giacimenti francesi della Lorena) la Gran Bretagna, la Germania, la Svezia, l'U.R.S.S., la Spagna, esauriscono insieme pressoché un altro 30% della produzione mondiale. L'Italia, ha una posizione produttiva molto modesta.
Stati Uniti. - Poche e frammentarie notizie si hanno sulle origini dell'industria estrattiva del minerale di ferro negli Stati Uniti. Cominciò probabilmente con l'estrazione intermittente di minerale da piccole cave di ematite bruna o da depositi lacustri di origine organogena della Virginia, della Pennsylvania, del New Jersey, e si estese pian piano ad altri giacimenti e ad altre regioni. Da poche migliaia di tonnellate di produzione, del sec. XVII, che pare fossero anche in parte esportate in Inghilterra, si perviene così lentamente a 1,6 milioni di tonn., che il censimento del 1850 registra. A dare grandioso impulso all'attività mineraria, interveniva però, poco tempo dopo il 1850, lo sfruttamento dei grandi giacimenti della regione del Lago Superiore. Minerale era stato scoperto in questa regione, a Negaunee, fino dal 1844, ma il primo distretto, quello di Marquette, fu aperto soltanto nel 1854, con una produzione per quell'anno di 3.000 tonnellate (imbarcato). Nel 1872 si apre il distretto di Menominee; nel 1884 quelli di Gogebic e Vermillon. Ma quel che doveva portare la regione del Lago Superiore alla maggiore importanza mondiale fu la scoperta dei grandiosi giacimenti del Mesabi, avvenuta nel 1892, cui seguì nel 1911 quella dei giacimenti di Cuiuna. Attraverso questi successivi sfruttamenti, la produzione da 1,6 milioni di tonn. nel 1850, poté passare a 2,9 nel 1860, a 3,9 nel 1880, a 14,8 nel 1889, e a ben 36 milioni nel 1902. Sicché già nel 1902 gli Stati Uniti erano i primi nel mondo nell'estrazione del minerale, sorpassando la Germania che produceva 17,9 milioni circa di tonn., la Gran Bretagna che ne produceva 12,5, la Spagna con 7,9, la Russia con 6, la Francia con 4,8, l'Austria con 4,4, la Svezia con 2,9.
Lo sviluppo si é ancora più accentuato negli anni seguenti: il 1910 registrava una produzione di 37 milioni di tonn., il 1920 di 67,6, il 1928 di 62,2. La regione più importante è rimasta sempre quella del Lago Superiore con una produzione nel 1928 di 52,5 milioni di tonn. così divisa: distretto di Mesabi 34,9; Gogebic 6,3; Menominee 4,9; Marquette 3,8; Vermillon 1,6; Cuiuna 1,1. Il minerale di questa regione è costituito interamente di ematite rossa, per la massima parte con alto tenore di ferro. In più della metà del minerale annualmente prodotto, la percentuale di fosforo è relativamente alta e ne consente l'utilizzazione al processo Thomas soltanto, mentre nel 20-25% circa del minerale il tenore di fosforo è basso (media 0,04%) consentendone l'utilizzazione al Bessemer. Il minerale estratto è spedito per ferrovia ai porti del Lago Superiore, e poi trasportato per mare ai porti di Chicago e di Lake Erie, per essere poi avviato agli alti forni della Pennsylvania centrale ed occidentale. Le riserve commerciabili di ematite rossa si valutavano nel 1926, in base alle trivellazioni, a 1528 milioni di tonnellate.
Occorre tuttavia notare a questo proposito che l'esplorazione del minerale è andata notevolmente diminuendo negli anni recenti, soprattutto perché gli stati sogliono imporre una forte tassa sulle riserve valutandole al 50% del loro valore. Se lo sfruttamento attuale dovesse continuare e se non si scoprissero nuovi depositi, il distretto del Mesabi, le cui masse commerciabili si valutano in 1350 milioni di tonnellate, verrebbe ad esaurirsi verso il 1960. Ciò però non pregiudicherebbe di molto la capacità produttiva degli Stati Uniti, poiché esistono nella stessa regione del Lago Superiore, oltre che enormi riserve (12.206 milioni di tonn.) di ematite rossa a tenore di ferro più basso utilizzabili in diverse condizioni economiche, anche enormi giacimenti di magnetite, anch'essa a basso tenore di ferro, che potrebbero all'occorrenza essere sfruttati.
Dopo la regione del Lago Superiore ha importanza, negli Stati Uniti, il distretto di Birmingham, comprendente l'Alabama settentrionale, parte della Georgia settentrionale e parte del Tennessee meridionale. Specialmente nell'Alabama lo sviluppo dell'industria del ferro è stata incoraggiata, oltre che dalla presenza del minerale, dall'esistenza di notevoli depositi di carbon fossile convenienti per la produzione del coke. La produzione di questo distretto fu di 6,2 milioni di tonn. nel 1928, di cui 5,7 di ematite rossa e 0,5 di ematite bruna. Esistono anche depositi di magnetite, ma sono poco sfrutati. I distretti di Adirondack, Northern New Jersey e New York dànno prevalente produzione di minerali di magnetite (i milione circa nel 1928). Specialmente nel distretto di New York i giacimenti sono estesissimi e il minerale è assai ricco di ferro; ma molti non sono sfruttati perché il minerale contiene quantità di titanio superiore al 2%.
Francia. - Com'è stato già detto, il maggiore bacino ferrifero della Francia si trova in Lorena. L'estrazione del minerale vi fu praticata da epoca remota e vestigia di lavori di ferro di età precedente alla gallicoromana si ritrovano abbondanti nei diversi centri. Nel Medioevo l'estrazione si praticò soprattutto nelle vallate della Fentsch e dell'Orne, ma non acquistò mai grande importanza e bisogna pervenire al sec. XIX per vederla ripresa su base industriale. Banchi di minerale si andarono sfruttando nei dintorni di Nancy, di Thionville, nel Lussemburgo e già intorno al 1869 la produzione poteva raggiungere i 3,5 milioni di tonnellate. Un ostacolo a un più largo sfruttamento di questi depositi era però costituito dal fatto che il minerale aveva un alto tenore in fosforo e non poteva essere utilizzato al Bessemer, se non misto a minerali più puri di altri bacini. Occorse la scoperta del processo Thomas perché questa difficoltà fosse superata.
Dopo la guerra franco-prussiana, la zona mineraria lorenese più largamente sfruttata, comprendente i territorî d'Aumetz-Arsweiler, tra Fentsch e Orne, a sud dell'Orne, passò in possesso della Germania, che se ne avvalse come base di rifornimento della sua grande industria metallurgica. La produzione di questa zona passò da 564 mila tonn. nel 1871 a 21,1 milioni di tonn. nel 1913. La zona compresa nel dipartimento di Meurthe-et-Moselle, meno conosciuta e sfruttata, rimase invece alla Francia, che, a partire dal 1882, v'iniziò una grande campagna di sondaggio. I bacini di Longwy, di Briey e di Crusnes, poterono così successivamente essere sistemati e sfruttati. Specialmente il bacino di Briey, che fino al 1894-96 non poté essere utilizzato per la grande quantità di acqua che invadeva i pozzi, appena risolto il problema tecnico, diede notevole apporto all'industria estrattiva. La produzione, nel dipartimento di Meurthe-et-Moselle da 585 mila tonn. nel 1871 passò a 19,5 milioni di tonn. nel 1913.
Si calcola che attualmente i depositi lorenesi si estendono per 119 mila ettari di cui 115 mila in Francia e 4 mila circa nel Lussemburgo. I depositi della Lorena ex-tedesca occupano 43 mila ettari; i bacini di Briey e Longwy 47 mila, il bacino di Crusnes 12 mila, il bacino di Nancy 18 mila. Si tratta del più grande bacino ferrifero del mondo, con riserve superiori ai 5 miliardi di tonn., che rifornisce gli alti forni della Francia, del Belgio, della Germania e del Lussemburgo. I giacimenti raggiungono fino a 40 m. di spessore, con un numero di strati variabile fino a un massimo di 7. In media si sfruttano 3 strati, denominati dal colore del minerale, dall'alto al basso, strato rosso, grigio e nero.
Il minerale ha un tenore di ferro non superiore in media al 35%. Nella Lorena ex-tedesca, oscilla fra il 24 e il 40%, con ganga talvolta puramente calcarea (Fentsch e Orne), talvolta più calcarea che silicea (Aumetz), o infine più silicea che calcarea (sud dell'Orne). Nella Lorena francese oscilla fra il 30 e il 42%, con ganga talvolta più calcarea che silicea (Briey) o più silicea che calcarea (Nancy, Longwy). Il tenore di fosforo varia da 0,5-1% nella Lorena francese a 1,7% nella Lorena ex-tedesca, onde più del 70% del minerale è utilizzato al convertitore Thomas. Per la diversa composizione (silicea o calcarea) della ganga, occorre mescolare i minerali per ottenere un buon letto di fusione.
Oltre che dalla Lorena, la Francia trae minerale dai dipartimenti dell'Orne, del Calvados e della Manica nella Normandia, dal territorio compreso fra Angers e Redon, Segré e Guichen nell'Anjou, dal Morbihan, dall'Ille-et-Vilaine e Loire-Inférieure nella Bretagna, dal Canigou nei Pirenei. Le riserve di questi giacimenti si valutano in 300 milioni di tonnellate all'incirca. Sono utilizzati dalla Francia i giacimenti dell'Algeria e della Tunisia, costituiti da ematite con 50-55% di ferro (riserva circa 125 milioni di tonnellate).
Gran Bretagna. - I più grandi giacimenti di ferro della Gran Bretagna si estendono per una larga striscia dal Northamptonshire fin quasi a Glasgow e si valuta contengano circa 3400 milioni di tonnellate di minerale. Il minerale è simile a quello lorenese; ma vicino alla superficie si è trasformato in limonite, ed in profondità in carbonato di ferro. La ganga è o calcarea o silicea e quindi occorre mescolare le due qualità di minerale per avere un buon letto di fusione. La percentuale di ferro si aggira sul 28% col 0,47% di fosforo: il minerale è utilizzabile quindi al convertitore Thomas. I depositi più importanti si trovano nel distretto di Cleveland, grandioso centro siderurgico, che deve la propria origine alla scoperta fatta poco più di mezzo secolo fa degli estesi giacimenti ferriferi delle colline di Eston e alla creazione dei primi alti forni sulle rive della Tees. Da un pezzo però i giacimenti più ricchi del Cleveland sono già in parte sfruttati. Delle 40 miniere esistenti al 1910 ne rimangono una diecina e la produzione di minerale è andata continuamente diminuendo: essa ormai fornisce solo 1/3 del prodotto complessivo inglese. Né gli altri centri minerarî importanti, quali quelli del Galles meridionale presso Merthyr Tydfil, i bacini del centro (Birmingham) e il bacino della Clyde in Scozia, bastano all'industria, che è costretta ad approvvigionarsi sempre più largamente su mercati esteri. Un segno caratteristico di questa situazione è la tendenza dell'industria siderurgica e meccanica a spostarsi verso la costa ove riceve con facilità minerale e metallo; e vediamo perciò moltiplicarsi gli stabilimenti metallurgici nel Galles meridionale, mentre diminuisce l'importanza di quelli dello Staffordshire, dello Yorkshire e dello Shropshire.
Germania. - Prima della guerra la Germania era alla testa degli stati europei per la produzione di minerale di ferro (28 milioni di tonnellate nel 1913); ma in seguito alla perdita della Lorena che ne forniva i 3/4, essa è passata in posizione produttiva secondaria, e ha dovuto per approvvigionare la sua industria siderurgica aumentare notevolmente la sua importazione dalla Svezia, dalla Spagna e dalla Francia. Tra i depositi più cospicui di minerale di ferro rimasti alla Germania, si possono citare quelli del Siegerland a Wetzlar, Weiburg e Dillemburg: il minerale vi ha un tenore in ferro del 35% ed è utilizzato dall'industria della Ruhr. Molto produttivi sono i depositi del Hannover (Peine e Salzgitter) che hanno una riserva accertata di 300 milioni di tonnellate. Le riserve accertate della Germania sono state valutate a 1262 milioni di tonnellate e si ha ragione di credere che si esauriranno in una cinquantina d'anni, salvo nel Hannover, ove potranno durare ancora per circa 135 anni. I minerali sono assai ricchi di fosforo e vengono quindi lavorati al convertitore Thomas.
Svezia. - Dei due distretti che conta la Svezia, quello della zona centrale, noto sotto il nome di Mellersta Sveriges Bergslager, è di antichissimo sfruttamento e ha servito a rifornire l'industria locale, che nell'età moderna praticava una larga esportazione del metallo sul continente europeo. Comprende i giacimenti di Dannemora e Grängesberg e molti altri importanti. I depositi consistono di magnetite ed ematite, dello spessore di 5-10 metri e della lunghezza di qualche centinaio con tenore di ferro del 52-55% e di fosforo del 0,02% al massimo, onde il minerale è utilizzabile al Bessemer. Alcuni giacimenti, come per esempio quelli di Grängesberg sono spessi da 90 a 110 m. con lunghezza di 1000 1200 m. Famoso è il giacimento di Dannemora, che dà un minerale considerato come il migliore del mondo per la fabbricazione dell'acciaio (tenore in fosforo 0,001-0,005%). I depositi della Lapponia sono situati principalmente a nord del Circolo Artico, nelle provincie di Gällivare e Jukkasjärvi. I maggiori sono quelli di Kirrunavaara, Luossavaara e Gällivare, celebri per la grande esportazione che alimentano. Consistono di magnetite che per la maggior parte contiene il 69,5% di ferro e il 0,012% di fosforo ed è utilizzabile al processo acido. Non manca però minerale con minor tenore di ferro (59,5%) e maggior tenore di fosforo (2,50%), utilizzabile al processo basico. Il giacimento di Kirunavaara ha uno spessore da 20 a 196 metri e una lunghezza di 3000; quello di Gällivare ha uno spessore di 100 m. Lo sfruttamento di questi giacimenti è stato favorito, oltre che dalla scoperta del processo Thomas, dalla costruzione della ferrovia Luleå-Narvik. Il minerale alimenta principalmente l'esportazione, che, proibita fino al 1857, appunto per garantire il collocamento del metallo prodotto dall'industria locale, fu consentita dopo e raggiunse presto un'alta percentuale della produzione.
In parecchi campi minerarî della Svezia assieme al minerale ricco si ottengono quantità variabili di roccia ferrifera troppo povera per servire alla fusione diretta. Un tempo era considerata di nessun valore, ma attualmente è spesso sottoposta ad arricchimento, ottenendosi da un materiale grezzo al 25-50% di ferro dei concentrati al 60-70% che vengono agglomerati in mattonelle e sottoposti a un principio di fusione agglutinante. Accanto ai giacimenti veri e proprî, esistono inoltre, nella Svezia, i cosiddetti minerali delle paludi che un tempo occupavano un posto importante nell'industria siderurgica svedese, ma oggi non sono usati che in piccola quantità per la produzione di ghisa da fonderia.
U.R.S.S. - L'U.R.S.S. è assai ricca di giacimenti di minerale di ferro, specialmente nella regione degli Urali e in Ucraina. Nella zona degli Urali le riserve accertate sono state valutate a quasi 300 milioni di tonnellate di cui 1/3 di minerale con tenore superiore al 50% e il resto con tenore molto variabile dal 20 al 47%. Si può credere però che le riserve ascendano effettivamente a quantità assai maggiori. In Ucraina vi è il bacino di Krivoj Rog, il più importante fra tutti, che si estende ai confini dei governi di Cherson e Dnepropetrovsk; fornisce un'ematite rossa col 50-70% di ferro e 0,02-0,06 di fosforo e si ritiene contenga 86 milioni di tonnellate di riserve accertate. Prima della guerra la sua produzione si aggirava sui 6 milioni di tonnellate di minerale con una quarantina di miniere, ma verso il 1918 l'estrazione cessò per riprendere nel'20 con 11 miniere aumentando in seguito continuamente. La zona carbonifera del Donec contiene estesi depositi di ematite grigia a basso tenore di ferro. Ultimamente ha assunto una grande importanza la penisola di Kerč che contiene estesi giacimenti di minerali di ferro di origine sedimentaria e di età geologica recente. Sono composti da una limonite pisolitica, ricca di manganese col 35-40% di ferro e 1,15 a 2,7% di fosforo, ottima per il processo basico. Il minerale è estratto a giorno e viene trasportato ai centri del Donec per alimentare quegli alti forni. Le riserve si valutano a 400-500 milioni di tonnellate.
Spagna. - La grande prosperità dei giacimenti ferriferi della regione di Bilbao s' iniziò dopo la scoperta del processo Bessemer. Il minerale che vi si estrae è ossido di ferro con tenore di ferro del 51-58%. Verso il 1877 la produzione annuale di questi giacimenti si aggirava sulle 350.000 tonn., ma in seguito aumentò c0ntinuamente sino a toccare il massimo nel 1899 con 5.500.000 tonn. per poi decrescere. Attualmente l'estrazione annua si aggira sui 3 milioni di tonnellate. Nel 1910 Vidal calcolò la rimanenza del minerale in 61 milioni di tonnellate, ma si crede che ne esistano maggiori riserve. Non è lontano però il giorno dell'esaurimento del bacino e ciò tiene in allarme i metallurgisti, trattandosi di un minerale totalmente esportato e molto apprezzato sui mercati per la sua ricchezza, per la sua purezza e per la facilità con cui cede il ferro.
La provincia di Santander, seconda per importanza nella Spagna, è formata da depositi che sono la continuazione di quelli della Biscaglia e che giungono fino alle Asturie. Il minerale di ferro è assai più povero di quello di Bilbao contenendo solo il 20-30% di ferro. Depositi enormi di ematite e siderite si trovano nella provincia di Almería, specialmente nella Sierra di Gádor, di Almagro e di Alhamilla. Altri depositi enormi si trovano nel territorio compreso fra le provincie di Temel e Guadalajara il cui minerale può essere estratto molto economicamente a giorno e viene trasportato al porto di Sagunto. Altre provincie produttrici di minerale di ferro sono: la Murcia, la Granata, la Siviglia, la regione dei Pirenei, ecc. La valutazione delle riserve della Spagna è stata calcolata a 880 milioni di tonn. con tenore superiore al 46%.
Italia. - L'industria mineraria del ferro ha, in Italia, origini remotissime: è nota la leggenda che col ferro dell'Isola d'Elba si siano apprestate le armi per l'assedio di Troia; ma, pur non volendo tener conto della leggenda, numerose sono le vestigia che attestano che il popolo etrusco, maestro nell'arte di lavorare i metalli, sfruttasse le miniere ferrifere del Campigliese e dell'Isola d'Elba. In quest'ultima l'estrazione del minerale avveniva a giorno, mentre nel Campigliese avveniva a mezzo di cave che ancor oggi destano meraviglia per la loro ampiezza e arditezza costruttiva come la Gran Cava della valle del Temperino, immensa apertura che conduce all'interno del monte. Anche in Sardegna sembra che le miniere di ferro fossero sfruttate dagli aborigeni, prima ancora che ivi si fondassero le prime colonie ferriere. Le coltivazioni del ferro raggiunsero in Italia il massimo sviluppo nel sec. VII e IV a. C., ma poi decaddero, e la decadenza si accentuò all'epoca dell'impero romano, durante la quale, nonostante qualche assaggio di sfruttamento dei giacimenti di Cogne, si preferiva servirsi delle miniere ferrifere dell'Andalusia. Solo l'Isola d'Elba riuscì a mantenere una discreta produzione sia in quest' epoca sia nel periodo immediatamente seguente. A partire dal sec. XI lo sfruttamento delle miniere in Italia riprende vigorosamente: si fanno ricerche di minerali di ferro nelle miniere di stato in Calabria, nell'Alto Vicentino, nella Val Trompia e nella Val Sabbia. L'isola d'Elba diede enorme e costante lavoro ai Pisani prima, ai Genovesi poi, ai Medici, finché nel 1800 passò alla Francia che l'assegnò in dotazione alla Legion d'onore per ripassare alla Toscana nel 1814. Nel 1860, anno dell'unificazione del regno, l'industria estrattiva del ferro, in Italia, era al secondo posto, dopo quella solfifera, e dava 83 mila tonn. di minerale; scese poi al terzo posto, per risalire al secondo, dopo il carbone, nel 1910 con 551 mila tonnellate. Nel 1917 raggiunse il massimo di 994 mila tonn. Nel 1929 e nel 1930 si aggirò intorno a 715 mila tonnellate.
L'Isola d'Elba ha partecipato a questa produzione con una media dell'80% circa. Nel primo periodo dell'unificazione del regno il resto era dato soprattutto dalle miniere lombarde, più tardi anche dalle toscane (Alpi Apuane, Campigliese, Massetano), mentre solo recentemente si è aggiunta la Sardegna con la Nurra (Monte Canaglia) e l'Ogliastra presso Ierzu. Altre miniere che hanno contribuito alla produzione sono quelle del Piemonte a Cogne e a Brosso, e della Calabria. In complesso, nel 1930 le miniere produttive erano 16, le non produttive 3; gli operai occupati 1696.
I minerali di ferro italiani si possono raggruppare in cinque tipi: il tipo Cogne, ricco di ferro (36-68%), a base di magnetite, quasi esente da fosforo (0,04% al massimo), ha un tenore apprezzabile in nichel, il che dà una probabile spiegazione dell'alta tenacità delle ghise. Il tipo Traverselle pure assai ricco di ferro (45-70%) e a base di magnetite è quasi scevro di fosforo, ma è impuro perché contiene molto zolfo. Il tipo Elba a base d'ematite rossa e bruna con il 47-67% di ferro e il o,01-0,7 di fosforo presenta minerali assai puri nella massa generale, ma con notevoli impurità in qualche cantiere. A questo tipo appartengono pure i minerali della Toscana. Il tipo delle Alpi Lombarde (Val Seriana, Val Trompia) è a base di carbonato col 35-40% di ferro e non presenta impurità apprezzabili. La Sardegna e la Carnia, infine, presentano un tipo di minerale a base di carbonato e limonite più o meno ricco di ferro (38-58%), assai fosforoso (0,6-0,9% in Sardegna e 1-4% in Carnia), tanto che in qualche caso sono atti al trattamento basico.
La massa di minerale disponibile in Italia si aggira sui 40 milioni di tonnellate, mentre l'eventuale riserva che si può con probabilità ritenere presente nei nostri giacimenti e specialmente utilizzabile in avvenire si aggira sui 100 milioni di tonnellate.
Fabbricazione della ghisa, del ferro e dell'acciaio.
Cenno storico sulla fabbricazione. - L'antichità, che considerava la lavorazione dei metalli come scienza sacra e misteriosa, circondò di un velo di leggenda la primitiva lavorazione del ferro creduta invenzione e opera di genî, come i Dattili e i Cabiri (v. ferro, Civiltà del). Avanzi archeologici e alcuni dati forniti sporadicamente dagli scrittori ci permettono tuttavia di ricostruire, sia pure approssimativamente, il modo con cui avveniva l'estrazione dal minerale (λίϑος σιδηρῖτις); di cui la qualità più adatta a ottenere il ferro era reputata il Μάγνης λίϑος, magnes lapis (ossido magnetico). Mentre l'industria moderna libera il ferro dal minerale passando per un prodotto intermedio, la ghisa o ferro carburato, l'industria antica otteneva il ferro direttamente dal minerale. Il minerale di solito, infatti, dopo essere stato più volte lavato e quindi ridotto in piccoli pezzi, si poneva insieme con legna da ardere (preferito per quest'uso era generalmente il pino) in un crogiolo (κάμινος, χόανος; caminus, fornax), per il quale si faceva passare una forte corrente d'aria; per tal modo il ferro, combinandosi l'ossigeno del minerale con il carbone nell'anidride carbonica, rimaneva libero: per renderlo compatto lo si martellava ripetutamente. Il processo ora descritto venne chiamato metodo catalano oppure del basso fuoco.
La corrente d'aria necessaria alla combustione nel crogiolo si ottenne prima con il sistema della fornace a vento: si costruiva cioè il forno combinando le aperture in modo che vi passasse naturalmente una corrente d'aria (figure 6 e 7). Questo sistema di tiraggio naturale, determinava però un'incompleta riduzione dei minerali. L'arte di estrarre il ferro invece fece un passo avanti, quando si passò a produrre aria sotto pressione, cioè si costruirono fornaci a mantici (figg. 8 e 9), e si iniettò con i mantici la corrente d'aria nel crogiolo. Questo sistema non costringeva, come il primo, a cercar luoghi in pendio o ventosi, ma permetteva di costruire il forno in località prossima al luogo di estrazione. Il ferro così ottenuto era lavorato, di regola, a fuoco; la lavorazione a freddo era usata solo per alcuni oggetti da servir di ornamento. U.E.P. Il metodo descritto di estrazione del ferro continuò a essere usato anche nel Medioevo, con qualche perfezionamento reso necessario dall'espansione del consumo.
Si aumentarono soprattutto le dimensioni dei forni, per poter ottenere un maggior rendimento unitario, ma ben presto si raggiunse un limite oltre il quale non fu possibile andare per la difficoltà di produrre l'aria sotto pressione necessaria alla combustione. E pur ingranditi, ma conservati nelle caratteristiche primitive, i forni poterono al massimo dare blocchi di ferro di 200-300 kg. per carica, mentre le cariche possibili nelle 24 ore si limitavano a un massimo di 3. Scarso rendimento produttivo aggravato dal fatto che l'esercizio dei forni aveva e conservò fino al sec. XVIII carattere stagionale, in conseguenza dell'uso della legna come combustibile.
Nel sec. XII l'utilizzazione della forza motrice idraulica consentì di risolvere il problema della produzione di grandi quantitativi d'aria sotto pressione. Si poterono così costruire forni a grande capacità, alti fino a 4-5 metri; e si cominciò anzi a parlare di alti forni. La forma di questi era molto semplice (fig. 10) e ancora oggi ne sussistono alcuni a carbone di legna, costituiti da due tronchi di cono riuniti per le basi maggiori, che ricordano gli antichi. Una migliore utilizzazione del calore e un forte aumento di produzione si raggiunse, in questi alti forni, con l'uso di mantici sempre più potenti.
Frattanto un fenomeno nuovo si andava manifestando. Con gli alti forni raggiungendosi la temperatura di fusione del ferro, si finì col produrre un metallo, la ghisa liquida, diverso dai soliti blocchi di ferro fucinabili. E con meraviglia si rilevò che le proprietà del metallo così ottenuto erano ben diverse da quelle del metallo fino ad allora prodotto: fra l'altro che esso non era fucinabile. In un primo tempo fu creduto che la ghisa così ottenuta fosse un prodotto d' incompleta riduzione del minerale e quindi di scarto, e perciò veniva di nuovo caricato nel forno; poi, se ne apprezzarono le proprietà e si trovò che con successive fusioni in carbone di legna questo metallo si liberava delle impurezze (carbonio, silicio, manganese e fosforo, zolfo, ecc.) in esso contenute e si trasformava in ferro malleabile. Nacque così il primo metodo di affinazione della ghisa (fuoco di affinaggio), basato, come gli altri successivi, sull'ossidazione delle impurezze e sul fatto che alcuni dei prodotti di ossidazione sfuggivano allo stato gassoso, mentre altri erano assorbiti dalle scorie.
Tra la fine del sec. XV e l'inizio del sec. XVI, la produzione della ghisa negli alti forni e la sua ossidazione col fuoco di affinaggio si diffondevano ovunque, in Inghilterra, Francia, Italia, Germania. Questi metodi si conservavano pressoché immutati per molto tempo, finché nel secolo XVIII nuovi progressi potevano realizzarsi.
Nei riguardi degli alti forni, la scoperta della macchina a vapore permise di aumentare la quantità e la pressione dell'aria necessaria per il loro andamento, e quindi le loro dimensioni; ma soprattutto svincolò gl'impianti siderurgici dalla necessità di essere situati presso corsi o cadute d'acqua fino allora indispensabili per il funzionamento degl'impianti d'aria compressa, e rese invece possibile collocarli presso i giacimenti di minerali di ferro e, al caso, anche presso giacimenti di carboni fossili. Poiché il carbone di legna per il grande consumo aumentava di prezzo e cominciava a scarseggiare, fu sostituito negli alti forni con carbone fossile, e l'Inghilterra per la prima cominciò a usare la ricchezza dei suoi immensi bacini carboniferi.
L'ultima innovazione, peraltro, che portò l'alto forno alle dimensioni e alle produzioni dei forni moderni fu quella d'usare in luogo del carbone fossile naturale, il carbone coke metallurgico, ricavato da quello. Infatti, se l'uso del carbone di legna, non permetteva di oltrepassare un certo limite (8 • 10 metri) di altezza degli alti forni, perché, non resistendo al peso della colonna di materiale soprastante, impediva il passaggio dell'aria e quindi il funzionamento del forno, d'altra parte l'uso del carbone fossile era pieno di difficoltà. Invece l'uso del coke metallurgico, carbone assai duro e resistente, rese possibile l'aumento dell'altezza degli alti forni fino ai limiti odierni, coi quali sono stati raggiunti 30 metri di altezza, e con una produzione di circa 1.000 tonn. di ghisa liquida nelle 24 ore. Per confronto basta ricordare che a Ilsenburg, alla fine del sec. XVI, l'alto forno ivi installato produceva giornalmente circa 750 kg. di ghisa. Nel 1906 fu sperimentato, infine, ad opera di Héroult, l'alto forno elettrico (fig. 11).
Per quanto concerne l'affinazione, nel 1740 fu sperimentato dall'orologiaio B. Huntsman di Sheffield il cosiddetto processo al crogiolo, cioè la fusione dell'acciaio in recipienti chiusi; metodo diffusosi poi grandemente in Inghilterra e sviluppato verso il 1810 da F. Krupp. Nel 1784 fu sperimentato da H. Cort il processo poi chiamato del puddellaggio, con il quale veniva utilizzato, per la fusione, il carbon fossile invece del carbone di legna. Ma il progresso più sensibile fu raggiunto nel 1856, quando H. Bessemer ebbe l'idea di realizzare l'affinazione, facendo attraversare la ghisa liquida da un getto d'aria sotto pressione. Egli usò all'uopo un apparecchio, detto per la sua forma pera Bessemer (fig. 12), consistente in un recipiente metallico rivestito di materiale refrattario silicioso, il cui fondo, forato, permetteva di fare entrare aria sotto pressione. Riempito l'apparecchio di ghisa liquida, si apriva il passaggio all'aria, e si dava così luogo all'ossidazione del silicio, del manganese e del carbonio. L'aumento di temperatura non solo manteneva il bagno liquido, ma permetteva di colare l'acciaio allo stato liquido. Il processo Bessemer ebbe larghe applicazioni. Nel corso di esse, si osservò però che la ghisa ottenuta da minerali di ferro molto ricchi di fosforo, dei quali esistono giacimenti assai importanti, non poteva essere affìnata con quel processo per l'impossibilità di fissare con scoria acida l'acido fosforico nascente dall'ossidazione del fosforo. S.G. Thomas nel 1878 ebbe allora l'idea di sostituire al rivestimento acido (materiale silicioso) del Bessemer, un rivestimento basico che permettesse, insieme con l'aggiunta di calce, di ottenere scorie molto basiche, e a questo scopo egli utilizzò la dolomite.
Ancora prima che si sperimentasse il processo Thomas, la siderurgia compiva importanti progressi anche in altri campi. Fino alla metà del sec. XIX non si conosceva alcun mezzo che permettesse di raggiu gere la fusione di grandi quantità di rottami di ferro e di ottenere nuovo acciaio da questi rottami. Il forno Martin-Siemens valse invece a raggiungere lo scopo. Esso deve il suo nome a W. Siemens, inventore dei ricuperatori di calore e ai fratelli Martin, che nel 1865 lo misero per primi in funzione a Sireuil. In tempi più recenti, il processo Martin-Siemens ha registrato altri notevoli progressi (v. più oltre).
Venne anche studiata la possibilità di produrre acciaio usando i forni elettrici e i primi tentativi risalgono al 1878 e 1879. Essi sono dovuti a Siemens, il quale usò un primo forno elettrico nel quale un polo era costituito da un elettrodo e l'altro era costituito dalla suola. Il circuito era chiuso dal rottame di ferro caricato nel crogiolo. Nell'anno successivo Siemens trasformò il suo forno introducendovi tutti e due gli elettrodi orizzontamente e facendo scoccare tra essi un arco voltaico: la produzione ottenuta era di 10 kg. di acciaio all'ora.
L'alto costo dell'energia rendeva il processo antieconomico e si può dire che per molti anni i tentativi furono abbandonati, finché nel 1898 il maggiore E. Stassano impiantò a Roma un forno per la produzione di acciaio partendo dal minerale di ferro. Questo forno ricordava, per la sua forma, un alto forno a coke, nel quale le tubiere erano sostituite da elettrodi di carbone, e in cui il minerale mescolato al carbone di legna, era portato a fusione quando giungeva nella zona dove scoccavano gli archi. Ma anche questo sistema non ebbe commercialmente fortuna e fu sostituito con un altro in cui il materiale era scaldato da archi scoccanti liberamente tra i carboni, e col quale Stassano riuscì effettivamente a produrre acciaio di buona qualità caricando minerale di ferro, fondenti e carbone di legna. Economicamente questo sistema non era redditizio e il forno Stassano venne invece adoperato per la produzione d'acciaio fondendo rottami di ferro.
Nello stesso anno che Stassano esperimentava il suo forno, P. T. L. Héroult in America faceva i primi tentativi con un suo forno composto da una suola sulla quale erano caricati i materiali da fondere e sui quali erano sospesi due elettrodi di carbone. La corrente, attraversando uno degli elettrodi, formava un arco tra questo e la carica, poi, attraversata la carica metallica, formava un altro arco con il secondo elettrodo chiudendo il circuito. L'effetto calorifico sviluppato dai due archi era utilizzato per la fusione del metallo. Dal 1900 in poi il forno elettrico è stato ripetutamente perfezionato e ha avuto rapida diffusione suddividendosi in una grande varietà di tipi.
Minerali e loro preparazione. - Non tutti i minerali che si trovano in natura possono essere trattati nell'alto forno. Il giudizio sulla convenienza economica per l'utilizzazione d'un minerale dipende dalla quantità di ferro metallico in esso contenuto ed anche dalla maggiore o minore facilità di estrazioe, dalla forma della sua combinazione chimica, che lo rende più o meno facilmente fusibile, ecc.
Grande importanza ha pure la pezzatura, perché, mentre minerali a pezzatura grossa devono essere prima frantumati, affinché la riduzione del ferro possa avvenire ugualmente bene in tutta la massa, quelli a pezzatura troppo minuta impediscono il passaggio dell'aria e dei gas, e il regolare funzionamento dell'alto forno, sicché si devono ridurre in forma di mattonelle (bricchette) o comunque opportunamente trasformare.
Per giudicare dell'utilizzabilità all'alto forno di un determinato minerale si deve ancora tener conto della natura delle sostanze estranee che accompagnano il ferro e che formano la ganga del minerale, e della quantità e qualità di scorie cui dànno luogo.
La ganga dei materiali di ferro è essenzialmente costituita da silice o da calce: se l'una o l'altra sono in quantità eccessiva bisogna apportare delle opportune correzioni. La ganga può, però, essere costituita da altri elementi che, se anche contenuti in quantità infime, possono riuscire molto dannosi e talvolta rendere assolutamente inservibile un minerale. Tali sono il fosforo, lo zolfo, l'arsenico, il rame, ecc. Un minerale fosforoso potrà produrre ghisa o troppo fosforosa per essere poi affinata su suola acida o al convertitore Bessemer, o troppo poco fosforosa per essere affinata al convertitore basico: perciò in questi casi si dovrà ricorrere a miscele di minerali di qualità diverse. Minerali contenenti quantità troppo elevate di zolfo, si possono difficilmente utilizzare (e in ogni caso solamento dopo arrostimento), richiedono sempre un'aggiunta abbondante di calce, dànno luogo a molta scoria e quindi a un maggior consumo di carbone per la fusione di questa. Minerali arseniosi devono essere scartati perché questo elemento, che diminuisce notevolmente la saldabilità del ferro, non può essere eliminato nell'alto forno.
Circa le qualità fisiche bisogna tener presente che l'azione riducente del gas di alto forno è resa più facile da un minerale poroso che non da un minerale compatto, e che quello pertanto permette di risparmiare combustibile. Il primo può però presentare il pericolo di polverizzarsi assai facilmente, e cagionare, oltre alle già citate difficoltà, perdite di ferro trascinato coi gas, ostruzioni delle tubazioni, ecc.
La quantità minima di ferro che rende un minerale economicamente utilizzabile senza scendere però mai sotto al 28%, varia a seconda delle regioni ove ha luogo la lavorazione. Mentre in Germania, p. es., si lavorano correntemente minerali con 30 ÷ 34% di ferro, negli Stati Uniti si lavorano solo quelli con non meno di 60% di ferro. Tra i minerali disponibili in natura, i più generalmente usati sono i seguenti:
1. Limonite (2Fe2O2•3H3O con 60% di ferro). Il minerale contiene in genere dal 28 al 450Ó di ferro, ed è il tipo più diffuso in natura: i giacimenti del Lussemburgo e della Lorena (Minette), assai notevoli, sono costituiti da limoniti con tenori assai alti di fosforo e adatti per la produzione di ghise da affinarsi al convertitore Thomas.
2. Ematite (Fe2O3 con 70% di ferro). Generalmente contiene dal 40 al 65% di ferro.
3. Siderite (FeCO3 con 48,4% di ferro). In media il minerale, contiene dal 25 al 40% di ferro, e di solito è ricco di calce e di manganese e povero di fosforo: spesso contiene anche rame. Alcune sideriti si trovano frammiste a notevole quantità di argilla e vengono chiamate allora sferosideriti.
4. Magnetite (Fe3O4 con 72,4% di ferro). Generalmente il minerale contiene dal 45 al 70% di ferro, e come impurezze è accompagnato di solito da fosforo (0,05 ÷ 3%) e zolfo.
Come minerali secondarî possono ricordarsi alcuni speciali sottoprodotti, p. es. scorie di forni di riscaldo (le quali contengono anche il 60 ÷ 65% di ferro), vecchie scorie di lavorazioni di tempi antichi (scorie di Populonia); né vanno dimenticate le ceneri di pirite, avanzate dall'arrostimento delle piriti nella fabbricazione dell'acido solforico delle quali l'Italia dispone in quantità notevole. Il loro uso in siderurgia, desolforate o agglomerate che siano, si è andato estendendo e solo con la crisi del 1930-31 il loro consumo ha subito un regresso.
Nell'alto forno, per dare alla ghisa quel tenore di manganese che è indispensabile e che normalmente i minerali di ferro non contengono, si caricano insieme a questo minerali di manganese, e precisamente:1. Minerali di ferro e manganese, con Mn fino al 12%; 2. Minerali di ferro e manganese, con Mn dal 12 al 30%; 3. Minerali di manganese, con Mn superiore al 30%. All'ultimo tipo appartengono le ottime qualità indiane con manganese = 45 ÷ 50% e silice inferiore a 10% e quelle del Caucaso.
Preparazione dei minerali. - I minerali di ferro prima di essere adoperati nell'alto forno sono spesso sottoposti a lavorazioni speciali che ne possono modificare la struttura. Si usa, ad es., adattare la pezzatura all'altezza del forno, poiché i forni molto grandi, e quindi alti, richiedono una pezzatura molto meno regolare che non i forni piccoli (p. es. quelli a carbone di legna). Altri minerali vengono invece arrostiti: e ciò a scopo vario. Nel caso di minerali molto compatti, e perciò difficilmente fusibili (magnetite), l'arrostimento provoca lo screpolamento dei grossi pezzi, sicché i gas dell'alto forno possono più liberamente penetrare nell'interno e svolgere la loro azione chimica; nel caso invece della siderite (caribonato di ferro) l'arrostimento provoca la scissione del carbonato, con formazione di ossido. Un'altra ragione dell'arrostimento è quella di togliere una parte dello zolfo a quei minerali che ne sono troppo ricchi. Poiché l'arrostimento può essere fatto in vicinanza della miniera, le spese di questa operazione sono in parte compensate dalle minori spese di trasporto, perché il peso dei minerali arrostiti diminuisce di circa il 30%. Infine in tutte le miniere si ha inevitabilmente, accanto alla produzione di minerale in pezzi, anche una rilevante produzione di minerale minuto (polverino), il quale, specialmente nei grandi forni, non può venir consumato in misura maggiore del 10 ÷ 12%, senza dar luogo a inconvenienti serî, quali sono la marcia pesante del forno, l'arresto della discesa della carica nell'interno del forno, il maggior consumo di carbone, la minor produzione di ghisa, l'aumento notevole della quantità di polvere contenuta nel gas, ecc. D'altra parte, poiché anche questo polverino dev'essere necessariamente consumato, la sua agglomerazione è indispensabile. In complesso, quindi, la preparazione dei minerali comprende i seguenti trattamenti: a) arrostimento; b) trasformazione in mattonelle (brichettatura) senza impiego di calore; q trasformazione in mattonelle (brichettatura) con successivo impiego di calore; d) agglomeramento per parziale fusione del minerale.
a) L'arrostimento viene fatto generalmente all'aperto, ammucchiando il minerale mescolato con carbone: più modernamente oggi i minerali vengono arrostiti in forni a tino, mediante lenta combustione di combustibili poveri (carbonella, cascami di legno, segatura, polvere di coke, ecc.). I dati medî di un forno per arrostimento, sono: diametro interno, m. 2,80; altezza, m. 3; produzione giornaliera in 24 ore, 20 tonn. di minerale greggio, con un consumo di carbone di circa il 5%.
b) La brichettatura, specialmente se praticata senza impiego di calore, si ottiene mescolando al minerale di ferro in polvere una sostanza agglomerante o cementante, che faciliti la formazione di mattonelle resistenti. Quest'operazione ha il vantaggio di formare una massa facilmente riducibile per la sua porosità, e di dare un prodotto che si presta, per la sua forma geometrica, a essere ammucchiato regolarmente e quindi un minore spazio. Ma l'uso di agglomeranti ha lo svantaggio di aumentare di non poco la massa delle sostanze inerti che devono essere trattate nell'alto forno, e di diminuire la percentuale di ferro contenuta nel minerale. Comunque, gli agglomeranti devono essere di tale natura da non arrecare danni, nella marcia del forno, alle proprietà del metallo prodotto, e da non reagire chimicamente con le murature del forno. Si distinguono agglomeranti di natura inorganica e organica. Ai primi appartengono la farina di quarzo e la calce in proporzione rispettivamente del 5 e 10%, la scoria basica di alto forno granulata in proporzione dell'8 ÷ 10%, scoria d'alto forno macinata (1%) unita a 8 = 10% d'idrato di calcio cloruro di magnesio, ecc. Ai secondi appartengono il catrame, i residui di distillazione di olî pesanti e leggieri, alcuni sottoprodotti della fabbricazione della celluloide, ecc. Attualmente gli agglomeranti più usati sono il cloruro di magnesio e la pece (sistema Zell). In alcuni casi l'agglomerante è sostituito dall'acqua. Oltre al polverino di minerale di ferro si possono ridurre in mattonelle anche la polvere che si raccoglie all'uscita del gas dall'alto forno, e la poltiglia di polveri che si deposita in tutte le tubazioni nelle quali il gas stesso viene fatto circolare. La polvere raccolta alla bocca dell'alto forno contiene però ossido di calcio, nocivo alla conservazione delle mattonelle per la successiva sua idratazione, e pertanto questa polvere deve essere lasciata qualche tempo esposta all'aria e all'acqua perché l'ossido di calcio possa idratarsi (spegnersi).
Nella fabbricazione di mattonelle di minerale in polvere con agglomeranti, la miscela viene pressata in presse meccaniche alla pressione di 300 ÷ 400 kg. cmq.: le mattonelle ottenute debbono esser lasciate stagionare per un periodo di tempo variabile a seconda del sistema di fabbricazione affinché durante il caricamento non abbiano a frantumarsi e rendere per conseguenza nullo il vantaggio della brichettatura.
Un esempio di fabbricazione di mattonelle è offerto dal procedimento Hasper Eisen- und Stahlwerke (fig. 14), nel quale si usa come agglomerante 25% di poltiglia di polveri depositata nelle tubazioni, 1,8 ÷ 2,2% di gesso e acqua madre di cloruro di magnesio a 32° Beaumé, e come principale materia agglomerata la polvere raccolta alla bocca dell'alto forno. La massa viene portata in una molazza perché la miscela riesca omogenea, e quindi alla pressa. La presa delle mattonelle avviene con formazione di soldato di calcio biidrato da una parte e cloruro e idrato di magnesio dall'altra.
c) Il sistema più antico di brichettatura con impiego di calore è il procedimento Gröndal usato nelle officine Cockerill (fig. 15). Esso consiste in un forno a tunnel lungo una cinquantina di metri nel quale sono introdotti appositi vagoncini portanti le mattonelle già fatte e che lo percorrono molto lentamente in circa 20 ore. Esso offre il vantaggio della grande produzione e permette una semplice regolazione della temperatura e dell'atmosfera del forno manovrando opportunamente gli appositi registri. Il riscaldamento è ottenuto con carbone polverizzato. L'aria secondaria viene aspirata dall'ultima parte del forno, che agisce come ricuperatore di calore, raffreddando le brichette già cotte. Per regolare la temperatura si aspirano i gas con un ventilatore e si soffiano nella parte del forno ove avviene la cottura delle mattonelle: in tal modo si può mantenere atmosfera neutra o riducente con maggiore facilità che non regolando la quantità d'aria di combustione.
Con questo tipo di forno, e in atmosfera neutra, è stato possibile, aggiungendo il 5% di polverino di coke al minerale prima del brichettaggio, ottenere la riduzione diretta della magnetite in modo che il tenore di ferro salisse a 70,87%, e, con l'aggiunta del 15% di polverino di coke, al 78,72%. È però necessario che le mattonelle, all'uscita del forno, siano raffreddate rapidamente per impedire una nuova ossidazione. La riduzione diretta del minerale è invece impossibile in presenza di zolfo perché la desolforazione può solamente aver luogo in ambiente ossidante. La produzione di uno di questi forni è di circa 140 tonn. in 24 ore con un consumo di carbone di circa 60%. La resistenza delle mattonelle ottenute è di circa 100 kg./cmq.
In qualunque modo i minerali minuti siano ridotti in mattonelle, queste debbono rispondere ad alcuni requisiti necessarî al buon andamento dell'alto forno, e più precisamente debbono resistere agli agenti meccanici e sopportare senza rompersi una pressione di 60 kg./cmq. e una caduta da 3 ÷ 4 metri d'altezza; resistere agli agenti atmosferici, all'immersione in acqua; al calore, agglomerarsi a 900° ma non rompersi; essere sufficientemente porose in modo che i gas possano facilmente ridurle; sopportare senza danno l'azione del vapor d'acqua a 150° in vicinanza della bocca di carica; per tutto il periodo in cui nel forno avvengono i fenomeni di riduzione resistere fino a 1000° all'azione dei gas CO ⇄ CO2.
Le mattonelle non debbono contenere sostanze che possano reagire e danneggiare le murature (alcali, cloro libero, ecc.) né il metallo prodotto (zolfo, arsenico, ecc.).
d) L'agglomeramento dei minerali minuti senza ricorrere alla trasf0rmazione in mattonelle ma con l'impiego del calore può essere ottenuto in varî modi, alcuni dei quali sono i seguenti:
Sistema dei forni rotanti. - L'agglomeramento ha luogo in forni simili a quelli che si usano nell'industria del cemento (v.), rotanti lentamente e nei quali le particelle di minerale, introdotte nella parte più alta, si agglomerano in blocchi irregolari estratti dall'estremità opposta a quella di entrata.
Sistema Huntington-Heberlein. - È chiamato anche sistema del convertitore e consiste in un recipiente ovale di ghisa, rovesciabile intorno a due pernî laterali, il cui fondo è costituito da una lamiera forata che poggia sopra una cassa a vento. Nell'interno del recipiente viene caricata una miscela di minerale e di polvere di coke che viene portata ad agglomerazione mediante il calore sviluppato nella combustione alimentata da un getto d'aria sotto pressione che attraversa il fondo del convertitore.
Sistema Dwight-Lloyd (fig. 16). - Consiste sostanzialmente in un perfezionamento del sistema Heberlein, in quanto che il procedimento, da intermittente, viene reso continuo. Il minerale viene elevato in appositi silos dai quali passa in una serie di carrelli (40 ÷ 60) costituenti un nastro continuo aventi 1 m. di larghezza e 6 di lunghezza, dotato della velocità 0,5 ÷ 1,5 m. al minuto. I singoli carrelli vengono a trovarsi in un certo momento e per un certo tratto, in corrispondenza d'una cassa a vento; allora ha luogo la reazione. Un forno di questo tipo può produrre 20 ÷ 30 tonn. per 24 ore e per mq. di superficie soffiata. Lo spessore della carica nel carrello è di circa 20 ÷ 30 cm., i ventilatori forniscono 500 ÷ 1700 mc. di aria per unita di nastro.
Il massimo impianto è in funzione a Chateaugay (Stati Uniti): il nastro ha le dimensioni di m. 1,80 × 20, con una produzione di 1200 tonn. per 24 ore. La magnetite viene mescolata col 60% di antracite e la miscela accesa con bruciatori a olio con un consumo di l. 2,7 per tonnellata di prodotto. Un impianto del genere è anche in funzione a Cogne.
Sistema Greenawalt. - Consiste in una miscela di minerali e polvere di carbone contenuta in appositi recipienti nei quali la combustione una volta iniziata continua spontaneamente in un punto qualsiasi della massa, mentre l'aria viene aspirata dall'esterno.
L'agglomerazione, comunque fatta, dei minerali, ha preso in questi ultimi anni grande sviluppo: solamente in Germania nel 1926 vennero agglomerate 3.200.000 tonn. delle quali 1.900.000 col sistema Dwight-Lloyd, 700.000 con forni rotativi e 600.000 mediante brichettaggio.
Aggiunte di fondenti alla carica dell'alto forno. - Ai minerali di ferro si aggiungono sempre alcune sostanze le quali, in relazione alla natura della ganga da eliminare, debbono servire da fondenti. Per ridurne tuttavia la quantità, allo scopo di risparmiare combustibile, si cerca di mescolare le varie qualità di minerali in modo che la loro ganga risulti per quanto è possibile vicina alla composizione ideale della scoria; tuttavia, il più delle volte è necessario aggiungere calcare, perché la ganga dei minerali è prevalentemente siliciosa; nel caso di ganga troppo calcarea, si aggiunge silice.
Lo scopo di queste aggiunte è quello di ottenere una buona scoria la quale non solo è necessaria ad assorbire le impurezze na è anche indispensabile al buon andamento delle reazioni del forno. Nel caso in cui si usino minerali molto ricchi di ferro (magnetiti degli Urali) e accompagnati da poca ganga, si usa aggiungere alla carica delle vecchie scorie. Il calcare deve essere puro (98 ÷ 99% CaCO3) ed è desiderabile che non contenga magnesia perché questa rende la scoria meno fluida e non favorisce la desolforazione.
Combustibili. - Nei primi tempi dell'industria siderurgica, negli alti forni veniva esclusivamente adoperato il carbone di legna, e solo più tardi, diminuendone le disponibilità, si tentò di sostituirvi il carbone fossile con esclusione però di torbe e ligniti per la grande quantità di acqua e ceneri in esse contenute e per la nessuna resistenza alla pressione. Ma anche i carboni fossili, inizialmente usati come si trovavano in natura, non erano generalmente adatti allo scopo, sia per deficienza di resistenza alle pressioni, sia perché alcune qualità rammolliscono prima di bruciare ostacolando il normale corso dei gas, sia per il tenore troppo elevato, e non ammissibile in pratica, di zolfo. Solo in alcuni paesi (America e Russia) si è potuto far funzionare alti forni con antracite pura o mescolata a coke e qualche tentativo del genere è stato fatto anche in Italia. Si tratta però di un procedimento che non riesce a diffondersi per la relativa scarsità dell'antracite, molto usata nel riscaldamento domestico.
Il combustibile che viene utilizzato nell'alto forno è invece il coke (v.) ottenuto dalla distillazione di carboni grassi adatti; è questo un prodotto infusibile, solido e duro, resistente alle pressioni esercitate dal materiale caricato nell'alto forno, resistente agli urti, sufficientemente poroso e relativamente povero di zolfo. Quanto più il coke è compatto, tanto maggiori sono le temperature che si raggiungono nell'altoforno.
Riduzione dei minerali all'alto forno. - L'alto forno moderno rappresenta da sé solo un ciclo chiuso di lavorazione, perché con i suoi sottoprodotti può generare l'energia occorrente a mettere in azione tutti i servizî necessarî al suo funzionamento; esso richiede tuttavia un impianto molto grandioso e complesso, che nelle sue parti principali comprende: 1° le batterie per la produzione del coke (e impianti relativi); 2° l'alto forno propriamente detto e gl'impianti accessorî (riscaldamento dell'aria di combustione raccolta e lavaggio dei gas prodotti); 3° una centrale, comprendente una serie di macchine soffianti per la produzione dell'aria compressa necessaria alla combustione; 4° una centrale elettrica messa in azione o dal vapore prodotto con caldaie di ricupero o da motori a gas dall'alto forno.
Costruzione e funzionamento dell'alto forno. - L'alto forno per la produzione della ghisa appartiene alla categoria dei forni a tino, cioè a quella dei forni che hanno la maggior dimensione nel senso verticale: le materie prime, minerali, coke, calcare, ecc., sono caricate dall'alto, mentre il prodotto finito, ghisa liquida, è estratto dal basso.
Schematicamente il profilo di un alto forno è ridotto a due tronchi di cono affacciati per le due basi maggiori, tra le quali, ma non sempre, è interposto un breve tratto cilindrico. Al tronco di cono inferiore è poi aggiunto un piccolo tratto cilindrico, detto crogiolo, nel quale si raccoglie la ghisa prodotta (fig. 17). Questo profilo trova la sua spiegazione nel fatto che il materiale di carica, entrato nella bocca dell'alto forno, incontra una colonna ascendente di gas caldi al contatto dei quali si riscalda e quindi aumenta di volume, e perciò in questa parte (tino) la sezione del forno deve sempre aumentare. Oltrepassata una certa temperatura s'iniziano le reazioni chimiche tra minerali, letto di fusione e coke, accompagnate, per la parziale fusione e per la gassificazione del coke, da diminuzione di volume, onde la sezione del forno dopo un breve tratto cilindrico (ventre) deve diminuire più rapidamente di quanto non sia aumentata, formando la sacca. Immediatamente sotto alla sacca trovano posto gli ugelli, attraverso ai quali viene soffiata l'aria calda necessaria alla combustione del coke. Il profilo così tracciato risulta razionale anche se considerato dal punto di vista dei gas che salgono: i gas hanno infatti la temperatura più alta, e quindi il maggior volume, sopra la zona di combustione, e perciò essi trovano la sacca che rapidamente si va allargando. Man mano che essi salgono verso l'alto, si raffreddano, il loro volume diminuisce e quindi anche il tino va divenendo più stretto.
In quanto allo studio del profilo d'un alto forno mancano regole precise. Questo profilo va desunto dall'osservazione comparativa del funzionamento di altri alti forni che lavorino in condizioni simili sia come qualità sia come pezzatura di minerali, coke, ecc. Di grande importanza è l'angolo α d'inclinazione del tino che va scelto opportunamente secondo che i minerali che si adoperano hanno più o meno tendenza a formare vòlta. Si dice che una carica "forma vòlta" quando a un certo punto il materiale caricato si ferma nella sua regolare discesa, formando quasi una vòlta, mentre la parte inferiore continua il suo cammino verso il basso. Si forma così un'interruzione nella carica con grande ripercussione sul funzionamento normale dell'alto forno. Talvolta per l'improvviso precipitare della massa sovrastante si possono avere conseguenze assai gravi per esplosione di gas, lancio di materie incandescenti, ecc. Le dimensioni medie delle parti principali di un alto forno moderno sono le seguenti:
1. Crogiolo: diametro interno m. 3 ÷ 4; altezza m. 2 ÷ 3.50; altezza da terra del piano degli ugelli m. 1 ÷ 1,50.
2. Sacca: diametro della parte più larga m. 6,50 ÷ 7,00; altezza m. 5 ÷ 55
3. Tino: diametro superiore m. 3,50 ÷ 4,70; altezza m. 12 ÷ 15.
Il rapporto fra l'altezza totale h e il diametro massimo della sacca, varia da 2,6 ÷ 3,8, quello fra l'altezza della sacca h1 e il suo diametro massimo varia da 0,6 a 1.
Nella tabella 2 sono riportati alcuni dati riguardanti le dimensioni di varî alti forni.
Fondazioni. - L'alto forno poggia su un blocco di fondazione assai resistente ed ampio, di calcestruzzo, le cui dimensioni variano a seconda della natura del terreno, e che si sopraeleva sul piano di officina, a seconda degl'impianti, da 2 a 6 m. (fig. 18). Data la costruzione dei moderni alti forni, e dato il peso enorme dell'apparecchiatura costituente la bocca di carica, del montacarichi, delle tubazioni di presa e conduzione del gas, non è possibile fare sopportare questo peso alle murature del forno; esso invece è fatto portare da un'armatura metallica indipendente dal forno, e poggiante su quattro colonne principali di ferro, disposte agli angoli d'un quadrato. Secondo l'altezza dell'alto forno questa armatura è suddivisa in 6 ÷ 9 ripiani distanziati m. 2,5 ÷ 3,5 uno dall'altro. I piani inferiori, quello degli ugelli e del foro di colata, debbono essere molto spaziosi per permettere libertâ di movimenti. Il tino, indipendente dal crogiolo e dalla sacca, è portato da un largo e robusto anello di ferro che a sua volta appoggia su robuste colonne metalliche ancorate all'armatura principale (fig. 19). Tutta la muratura dell'alto forno è solidamente legata sia con placche metalliche, sia con forti cerchiature di ferro. Poiché nell'interno della sacca si hanno temperature notevolmente elevate e poiché lo spessore delle murature è relativamente esiguo (cm. 50 ÷ 60 per la sacca), si rende indispensabile per la durata della muratura il raffreddamento con acqua. Per la muratura del tino non è sufficiente il raffreddamento dato dall'aria. Quindi la parte inferiore di un alto forno è mantenuta costantemente sotto un getto d'acqua che ne bagna tutta la superficie. Per il raffreddamento d'un alto forno occorrono circa 2 ÷ 2,5 mc. d'acqua al minuto. Nel crogiolo, alla distanza da terra di circa due terzi del piano degli ugelli, sono praticate due o tre aperture per l'estrazione della scoria. Queste aperture sono circondate da una cassa in bronzo con circolazione d'acqua (fig. 20).
Ugelli. - L'aria necessaria alla combustione del coke viene introdotta nell'alto forno a mezzo di ugelli in numero variabile da 8 a 12. Vi sono alti forni con 8 ugelli anche per produzione di 600 ÷ 700 tonn. di ghisa nelle 24 ore. Frequentemente al piano ordinario di ugelli se ne sovrappone un secondo nella parte inferiore della sacca, contenente ugelli più piccoli, messi in funzione solo in caso di necessità. Il diametro interno dell'ugello varia secondo la grandezza dei forni, da 10 a 22 cm. Gli ugelli di bronzo a circolazione d'acqua penetrano nell'interno del crogiolo e sono protetti alla loro volta da una cassa di rame elettrolitico o di bronzo, raffreddata a circolazione d'acqua (fig. 21). L'aria viene portata agli ugelli da un tubo ad anello di lamiera (rivestita internamente di mattoni isolanti) il quale ordinariamente appoggia su uno dei ripiani dell'armatura. La sezione dei tubi che riuniscono la tubazione del vento agli ugelli deve essere sovrabbondante per evitare inutili perdite di pressione e ottenere una conseguente economia nell'esercizio delle macchine soffianti. Le casse di protezione degli ugelli e gli ugelli stessi debbono essere abbondantemente refrigerati, e si può ritenere che per forni grossi siano necessarî circa 2 mc. d'acqua al minuto. Tenendo quindi conto della quantità d'acqua necessaria al raffreddamento delle murature, per il raffreddamento di un alto forno occorrono 4 ÷ 4,5 mc. d'acqua al minuto.
Bocca di carica. - Fino alla metà circa del secolo scorso la bocca di carica degli alti forni era sempre aperta in modo che i gas che si formavano nelle reazioni chimiche sfuggivano liberamente nell'atmosfera. Ma poiché questi gas contengono una riserva non indifferente di energia, ben presto si cercò di raccoglierli con apparecchi speciali, d'incanalarli e utilizzarli. Sorsero così diversi dispositivi di chiusura della bocca di carico tra i quali notevoli i tipi di Parry e di Langen. La chiusura Parry (fig. 22) è costituita da un cono che a mezzo di una leva a contrappeso può muoversi verso il basso nell'interno d'un imbuto; con l'abbassarsi del cono si forma uno spazio libero anulare che serve a far cadere la carica già preparata nell'imbuto. Nella chiusura Langen (fig. 23) invece, la campana cilindrica viene sollevata verso l'alto. La presa del gas avviene mediante un tubo laterale. Per impedire poi che a ogni carica si abbia una ripercussione nella pressione in tutte le tubazioni, per effetto della libera fuga di gas nell'atmosfera, si ricorre al sistema della doppia chiusura. Con tale dispositivo la carica passa prima entro uno spazio compreso tra due valvole, e solo con l'abbassarsi della seconda, entra in forno senza che si abbiano perdite di gas.
Materiali refrattari impiegati nella costruzione di un alto forno. - I materiali refrattarî coi quali vengono costruite le murature di un alto forno, non hanno solamente il compito di resistere alle alte temperature, ma anche quello di resistere sia alle reazioni chimiche che hanno luogo nell'interno del forno stesso, sia all'azione abrasiva della carica che continuamente scende. Il materiale comunemente adoperato è il tipo alluminoso (chamotte) il quale è composto di una parte di argilla refrattaria già cotta mescolata con una piccola quantità di argilla cruda. La bontà d'un mattone di chamotte non è solamente data dal suo tenore di allumina ma anche dalla densità, resistenza alle variazioni di temperatura, coefficiente di dilatazione, resistenza agli agenti chimici, ecc.
Per il crogiolo, la sacca e la parte inferiore del tino si usano mattoni di chamotte di prima qualità (35 ÷ 40% di allumina, punto di fusione 1750%), per la parte superiore del tino mattoni di chamotte di seconda qualità (30 ÷ 3200 di allumina, punto di fusione 1650ª = 1700ª). Requisito importante per questi tipi di mattone, è la resistenza allo sfregamento. In questi ultimi anni il crogiolo e la parte inferiore della sacca, sono stati costruiti con mattoni di carbone (polvere di coke finemente macinata e impastata con catrame): questi mattoni resistono molto bene alle reazioni chimiche, ma non possono essere usati a contatto dell'aria, onde anche nel crogiolo il foro di colata deve essere rivestito di chamotte, né possono essere esposti direttamente all'acqua, per cui nel raffreddamento occorre interporre tra la muratura con tali mattoni e l'acqua un rivestimento metallico.
Montacarichi. - Un alto forno, che produca 500 tonn. di ghisa liquida nelle 24 ore, consuma, nello stesso tempo, dalle 1500 alle 1800 tonnellate di materie prime. Per portare dal piano di officina al livello della bocca di carica tanta quantità di materiale, sono adottati molti sistemi, che sostanzialmente però possono ridursi a due: ascensori verticali e piani inclinati. Il tipo più diffuso è il secondo. Nella figura 24 si vede chiaramente come la carica giunta sulla bocca di carica possa, a mezzo di un meccanismo, essere infornata.
Aria per la combustione. - Essendo molto grande la quantità del coke da bruciare nell'alto forno, è necessario insufflare in questo enormi volumi di aria. Un forno che produca 500 tonn. di ghisa nelle 24 ore, poiché occorrono 3200 mc. di aria per ogni tonnellata di ghisa fusa, richiede per la combustione del coke 1.600.000 mc. d' aria pari a 2060 tonn. Quest'aria viene fornita da macchine soffianti a stantuffo accoppiate con motrici a scoppio azionate dal gas prodotto dall'alto forno stesso o anche con motrici a vapore. Convenientemente si adoperano anche turbocompressori e ventilatori centrifughi accoppiati con turbine a vapore o con motori elettrici a corrente alternata. La pressione deve essere notevole per poter vincere la resistenza opposta dai materiali caricati nell'alto forno, e normalmente si aggira intorno a 0,3 ÷ o,8 kg./cmq. Un forte risparmio di coke si ottiene quando l'aria di combustione, prima di essere soffiata nel forno, può essere preventivamente riscaldata a 600° ÷ 800°. Il riscaldamento dell'aria avviene in apparecchi chiamati cowper dal nome del primo costruttore. Essi sono costituiti da grossi cilindri di lamiera aventi un diametro di 6 ÷ 7,5 m. e un'altezza di 20 ÷ 35 m. (fig. 25). L'interno del cilindro è diviso in due parti: la camera di combustione del gas, il ricuperatore. Il gas e la sua aria di combustione, quest'ultima aspirata liberamente dall'atmosfera, s'incontrano in basso nella camera di combustione. I prodotti combusti salgono nella camera, seguono la curva della volta, lambiscono nella discesa i mattoni esistenti nel ricuperatore cedendo ad essi il loro calore, e attraverso alla valvola entrano nel canale dal quale poi passano al camino. Il ricuperatore propriamente detto è formato da una serie di canali verticali di materiale refrattario i quali assorbono il calore posseduto dai gas combusti. Dopo circa due ore che il ricuperatore è in riscaldo, il gas e l'aria di combustione vengono, a mezzo di apposite valvole, mandati in un altro apparecchio simile, mentre il primo è messo in comunicazione con l'aria fredda sotto pressione. Quest'aria compie il percorso inverso, e cioè sale nel ricuperatore e scende quindi nella camera a dalla quale, mentre la temperatura giunge a 700° ÷ 800°, viene condotta all'alto forno. Il riscaldamento di un ricuperatore richiede in genere un tempo doppio di quello che occorre per raffreddarlo, e perciò sarebbe necessario disporre per ogni alto forno di almeno tre cowper due dei quali in riscaldo e uno in raffreddamento. Per il riscaldamento dei ricuperatori occorrerebbe impiegare dal 30 al 40% del gas prodotto dall'alto forno. Più recentemente però si è studiato un processo di riscaldamento del cowper (Pfoser-Strack-Stumm), nel quale s'impiegano adatti bruciatori del gas ad aria compressa per la sua combustione accrescendo la velocità di circolazione del gas combusto e sfruttandone meglio il calore con vespai di speciale costruzione. Si è così riusciti a ridurre il periodo di riscaldo alla durata press'a poco di quello di ricupero, e a limitare l'installazione a due cowper per ogni alto forno o a cinque, con uno di riserva, per coppia d'alto forno. Il rendimento termico dei cowper è così passato dal 65 all'85% con risparmio di circa il 10% nel consumo del gas. I mattoni di chamotte che riempiono il ricuperatore vero e proprio sono disposti in modo da formare una quantità di piccoli canali (fig. 26) e debbono essere di natura tale da resistere non solo ad alte temperature ma anche alla pressione. Generalmente nel terzo superiore della camera si usano mattoni di chamotte con 32 ÷ 38% di allumina, nel terzo medio mattoni con 32 ÷ 34% di allumina e nel terzo inferiore mattoni con 26% di allumina. I mattoni debbono essere inoltre tali da potere, col minimo peso, assorbire e cedere in poco tempo la massima quantità di calore: si usano di solito canali a sezione quadrata di centimetri 10 × 10 o 20 × 20 formati con mattoni regolari oppure con mattoni sagomati speciali (fig. 27). I mattoni poggiano su una griglia di ghisa o su pilastri di muratura in modo che il vento freddo che entra dal basso possa suddividersi uniformemente in tutti i canali verticali del cowper. I condotti dei cowper vanno puliti di frequente togliendo, con spazzole metalliche, la polvere trascinata dal gas. Per il servizio dei cowper è necessario che tutte le valvole che regolano l'ingresso dei gas e dell'aria siano a chiusura perfetta anche ad alta temperatura, perché per es. una non perfetta tenuta della valvola del gas quando il cowper è in raffreddamento (e quindi pieno d'aria), potrebbe dar luogo ad esplosioni. Per l'uscita del vento caldo diretto al forno si usano di solito valvole a saracinesca nelle quali il registro, ordinariamente di bronzo, scorre entro una custodia di ghisa o di acciaio: registro e custodia debbono essere raffreddati a circolazione d'acqua. Per l'entrata del vento freddo si usa una valvola comune a saracinesca senza raffreddamento. La valvola che comanda l'entrata del gas e quella che comanda l'uscita dei fumi sono di solito del tipo Burgers (fig. 28). Questa valvola consta principalmente di una campana comandata da un'asta dentata e da ingranaggi. Tutto il corpo della valvola appoggia su rulli o sfere e può rotare intorno al suo asse verticale in modo da poter essere allontanata dalla flangia della tubazione attaccata al cowper.
L'aria calda, all'uscita del cowper, viene condotta all'alto forno mediante una tubazione detta del vento caldo, internamente rivestita di materiale isolante e di refrattario, la quale, a evitare perdite eccessive per irradiazioni, deve avere un diametro interno libero non maggiore di 100 cm.; la perdita di temperatura è di circa 1,5° ÷ 2° per m. 1 di tubazione. La tubazione deve poi essere munita di valvole di sicurezza in caso di esplosione e di giunti di dilatazione. L'impianto dei cowper è poi completato da un camino per l'aspirazione dei gas combusti, generalmente alto 2,5 volte il ricuperatore.
Principî teorici sul funzionamento dell'alto forno. - Dall'analisi dei minerali destinati alla fabbricazione della ghisa, tenuto conto del tenore di ferro e della natura della ganga (siliciosa o calcarea) in essi contenuta, si stabilisce la miscela delle diverse qualità di minerale più indicata perché la composizione della scoria si avvicini il più possibile a quella ideale. Ulteriori correzioni saranno poi fatte con aggiunte di calcare o silice. La composizione della scoria deve esser scelta in modo tale che le impurezze contenute nel minerale e nel coke, per es. lo zolfo, siano con sicurezza assorbite da essa. La carica normalmente comprende la quantità di materiale che viene introdotta contemporaneamente nella bocca del forno e che varia, con la grandezza del forno stesso, da 10 a 15 tonn. A ogni carica di minerali e aggiunte relative, per es. 10 tonn., segue una carica di 3 ÷ 5 tonn di coke.
Il modo come avviene la riduzione dei minerali non appare nemmeno oggi completamente chiaro in tutti i suoi particolari. Le reazioni principali sono però le seguenti: il vento caldo, che ha la velocità di 20 ÷ 30 m. al secondo, entrando nel forno incontra il coke incandescente il quale brucia immediatamente formando anidride carbonica (CO2). Subito dopo, una parte dell'anidride carbonica in contatto con altro coke incandescente, si trasforma in ossido di carbonio (CO). L'azoto contenuto nell'aria, facendo astrazione dalla formazione di cianuri, resta inalterato, ma assume la temperatura della zona di combustione. I gas così prodotti, salendo verso l'alto, incontrano la massa dei materiali solidi che scendono, li riscaldano e sottraggono ad essi l'ossigeno: FeO + CO ⇄ Fe + CO2. Questa reazione porta a uno stato d' equilibrio caratterizzato da un rapporto fra le concentrazioni dell'ossido di carbonio e dell'anidride carbonica caratteristico per ogni temperatura. I gas che escono dalla bocca del forno contengono perciò sempre oltre l'azoto e l'anidride carbonica, anche ossido di carbonio. I materiali solidi, che scendono dalla bocca del forno, vengono scaldati dai gas uscenti, e cominciano anzitutto a perdere il vapore d'acqua che contengono. A mano a mano che le cariche arrivano in zone più calde, s'inizia la riduzione, prima degli ossidi più elevati a protossido, e poi del protossido a metallo. Quest'ultimo inoltre nella parte inferiore del forno si trova a essere cementato (trasformato cioè in lega di ferro e carbonio) per l'azione simultanea dell'ossido di carbonio e carbone. In fine, un po' al di sopra del livello degli ugelli, la temperatura diventa abbastanza elevata per arrivare a fondere il ferro carburato e la scoria. Queste masse fuse si raccolgono nel crogiolo.
Quando per qualche causa accidentale (cariche troppo pesanti, entrata d'acqua in forno per rottura della cassa di un ugello, ecc.) la temperatura nella parte inferiore della sacca diminuisce, la riduzione risulta incompleta: gli ossidi di ferro rimangono in parte nella scoria che risulta colorata in scuro, e il funzionamento del forno diventa anormale. Esistono altre cause che possono sensibilmente peggiorare le condizioni di marcia di un alto forno, tra cui: irregolarità nella carica, irregolare discesa della carica stessa con formazione di vòlte, difficoltà di passaggio dei gas che obbliga ad aumentare notevolmente la pressione del vento, con pericolo di esplosioni nel forno e nelle tubazioni, ecc. Un funzionamento anormale dell'alto forno può durare più giorni ed anche qualche settimana con perdite enormi.
La produzione normale di un alto forno moderno varia a seconda delle dimensioni e del rendimento in ferro della carica: va da un minimo di 100 ÷ 150 tonn. a un massimo (forni americani) di 700 ÷ 800 e anche 1000 tonnellate di ghisa nelle 24 ore. Il normale andamento di un alto forno è soprattutto controllato dall'esame delle scorie e del gas prodotto. Una buona scoria che denoti andamento regolare del f0rno deve essere compatta, chiara, di aspetto magro.
Quando invece vi è in essa presenza di ossido di ferro in poca quantità, la scoria diviene verdastra, altrimenti diviene scura o nera. Se la scoria è filamentosa vuol dire che è troppo acida.
Descrizione del processo di lavoro all'alto forno (fig. 32). - Il minerale, giungendo a mezzo di vagoni, viene versato nei silos 25 dai quali, introdotto nelle casse di carica, viene portato alla bocca di carica a mezzo del piano inclinato. Allo stesso modo vi giungono le casse contenenti i fondenti; quelle destinate a portare il coke vengono caricate dove il coke viene sfornato. Normalmente, per mantenere i voluti rapporti fra le varie qualità di materiali componenti la carica, si pesano solo il minerale e le aggiunte, mentre il coke viene misurato a volume contando il numero delle casse, anche perché esso può essere più o meno bagnato e quindi il peso sarebbe errato. La regolarità delle cariche è il più delle volte controllata da un apparecchio registratore che segna le ore di apertura della bocca. L'aria sotto pressione giunge dalla macchina soffiante 2 al ricuperatore 12 a mezzo di apposita tubazione: questo ricuperatore è in raffreddamento, mentre quello di sinistra è in riscaldo. L'aria fredda percorre il ricuperatore, si riscalda e viene condotta al forno; contemporaneamente il gas raccolto alla bocca passa nel lavatore 13 dove viene liberato dalla polvere, e di qui una parte viene condotta al cowper di sinistra. I prodotti della combustione 9 passano dal cowper al camino. La parte di gas che non viene bruciata nei cowper viene condotta mediante apposita tubazione ad altro lavatore per una seconda depurazione e quindi alla centrale.
Nel crogiolo del forno, durante il funzionamento, si raccolgono ghisa e scorie allo stato fuso che si separano naturalmente per differenza di densità. La scoria viene fatta defluire dal foro 14 e portata allo scarico o utilizzata per altre lavorazioni; la ghisa viene invece estratta, aprendo il foro 16 normalmente chiuso con argilla, e fatta scorrere in canaletti e fossette apposite scavate in sabbia (fig. 33) Quando è raffreddata, i pezzi di ghisa si staccano facilmente e sono messi in commercio sotto il nome di ghisa in pani: in altri casi essa viene raccolta in appositi recipienti 17 montati su vagone e portata direttamente all'acciaieria per essere affinata. In alcuni grandi impianti per la preparazione dei pani si usano delle macchine per colare, le quali sono costituite da una serie di forme metalliche, mosse da una catena senza fine e che sono fatte scorrere sotto un getto di ghisa. Dopo percorso un certo tratto le forme sono rovesciate e i pani vengono raccolti e ammucchiati. Quando tutta la ghisa è uscita dal crogiolo il foro di colata viene chiuso con una macchina apposita e riaperto l'ingresso dell'aria sotto pressione che era stato chiuso durante l'ultimo periodo della colata per impedire che l'aria, uscendo dal foro di colata, non più interamente occupata dalla ghisa, proiettasse lontano particelle di metallo. Il funzionamento del forno viene poi accuratamente controllato con apparecchi speciali, e cioè registratori della pressione, della temperatura e della velocità dell'aria sotto pressione, della temperatura e pressione del gas all'uscita del forno, del numero delle cariche, del numero dei giri delle macchine soffianti.
Produzione dell'alto forno. Ghisa. - La ghisa prodotta dall'alto forno si divide in due grandi categorie: ghisa bianca e ghisa grigia. La prima contiene la quasi totalità del carbonio allo stato di carburo di ferro, la seconda in forma di piccole lamelle di grafite. La ghisa grigia si ottiene solamente quando la quantità di silicio è abbastanza elevata (2,0 ÷ 3,0%) perché esso ha la proprietà di sottrarre il carbonio dalle sue leghe col ferro e di farlo cristallizzare liberamente in lamelle di grafite; lo zolfo e il manganese agiscono invece in senso contrario. Sulla formazione della grafite ha influenza anche la maggiore o minore rapidità con la quale avviene il raffreddamento, maggiore essendone la quantità quanto più lentamente avviene il raffreddamento. Il fosforo contenuto nella ghisa può farne variare le proprietà entro limiti assai vasti. Altri elementi che spesso accompagnano la ghisa sono zolfo e manganese, e, se contenuti nei minerali, rame e arsenico (v. ghisa).
La suddivisione della ghisa in bianca e grigia non è però sufficiente agli scopi pratici, poiché si producono industrialmente diverse altre qualità di tal prodotto, per le quali si rimanda all'apposita voce.
Il consumo di coke, per tonnellata di ghisa prodotta, varia, oltre che in funzione della quantità di ferro contenuta nel minerale, anche in rapporto alla qualità del coke, alla ganga dei minerali, alle qualità di ghisa prodotta, e in generale aumenta con l'aumentare del tenore di silicio contenuto nella ghisa. A parità di qualità di minerale, per produrre una tonnellata di ghisa tipo Stahleisen occorrono kg. 900 ÷ 1000 di coke; per il tipo Thomas kg. 1100- 1250; per il ferro silicio 10 ÷ 12% kg. 2500-3000.
Scoria o loppa. - La scoria o loppa forma nell'interno del forno una massa fluida, vetrosa, nella quale sono contenute quasi tutte le impurezze dei minerali e del coke e la cui composizione chimica e quantità dipendono dalla natura dei minerali e dei fondenti aggiunti; in peso può oscillare dal 60 al 150% del peso della ghisa. La scoria che esce dal crogiolo può essere portata direttamente allo scarico ancora allo stato liquido in recipienti speciali, oppure, per comodità di trasporto, può venir granulata facendola cadere ancora liquida in un getto d'acqua: nel primo caso pesa 2000 ÷ 2500 kg./mc., nel secondo, contenendo 19% ÷ 33% d'acqua, solamente 550 ÷ 1800 kg./mc. La scoria d'alto forno o loppa se ha una composizione chimica adatta, può trovare varie applicazioni (v. scorie).
Gas. - La composizione del gas che si ottiene dall'alto forno non è costante poiché dipende dalla qualità della carica, dalla qualità della ghisa prodotta, dal più o meno regolare funzionamento del forno; tuttavia le sue variazioni sono comprese entro limiti che ne rendono sempre possibile l'utilizzazione.
La composizione media del gas e le sue principali caratteristiche sono le seguenti:
Il gas d'alto forno può essere utilizzato per molteplici usi, e cioè per il riscaldamento di cowper, per l'arrostimento dei minerali, per il riscaldamento dei mescolatori di ghisa, per il riscaldamento dei forni Martin unitamente al gas di forni a coke, ecc. Ma, più comunemente, la parte di gas che non viene bruciata nei cowper è utilizzata come forza motrice, sia per azionare le macchine soffianti, sia anche per azionare alternatori per la produzione di energia elettrica, di modo che un impianto di forni a coke e di alti forni può esser immaginato come un ciclo chiuso, in cui l'energia necessaria al funzionamento dei servizî di tutto il gruppo è prodotta con il ricupero dei sottoprodotti delle singole lavorazioni.
Si calcola che l'alto forno, per ogni tonn. di coke, corrispondente alla produzione di circa 1 tonn. di ghisa, produca 4000 ÷ 5000 mc. di gas, con potere calorifico di 900-1100 Cal. al mc., quindi di rilevante valore economico. Di questo enorme volume di gas, nei migliori impianti moderni, il 22% circa serve per il riscaldo forzato del vento nei cowper; l'11,5% è consumato dalle macchine soffianti e dagli altri servizî ausiliarî inerenti all'esercizio dell'alto forno (precisamente 9,7% dalle prime e 1,8% circa dai secondi), mentre il 60% è reso disponibile per impieghi estranei alla fabbricazione della ghisa.
Il gas d'alto forno prima di essere utilizzato, specialmente nei motori a scoppio, deve esser depurato dalla polvere che trascina con sé in quantità assai forte (da 5 a 15 gr./mc.). Una prima sommaria depurazione è ottenuta facendo circolare il gas in tubazioni che presentino frequenti cambiamenti di direzione, sacche di depositi, ecc. Con questi mezzi si riesce a ottenere un gas che non contiene più di o,5 gr./mc. di polvere e che come tale può essere utilizzato nei cowper o nei focolari delle caldaie. La polvere così raccolta viene pressata in mattonelle e nuovamente infornata. Per l'utilizzazione nelle macchine a scoppio, il gas deve essere raffreddato e accuratamente lavato per togliergli anche le più piccole tracce di polvere. Perciò i gas sono fatti passare attraverso torri di lamiera (skrubber) aventi 4 ÷ 6 m. di diametro e 10 ÷ 20 m. di altezza nel cui interno vi è un certo numero di lamelle di legno disposte in modo da obbligare il gas a rallentare la velocità e a suddividersi in filetti. Dall'alto di queste torri cade una pioggia d'acqua che incontrando il gas in salita lo raffredda e lo lava. All'uscita dagli skrubber il gas deve essere ancora liberato delle ultime particelle solide che tiene in sospensione, e questa depurazione può essere fatta per via umida, per via secca o più modernamente per via elettrica. Un sistema molto diffuso di depurazione per via umida è quello che si ottiene a mezzo dei ventilatori Theissen (fig. 34). Si tratta di ventilatori centrifughi i quali con il loro movimento sbattono gas e acqua fino a polverizzazione; in tal modo il gas viene completamente lavato e le particelle solide sono buttate alla periferia. All'uscita da questi ventilatori il gas mantiene ancora 0,02 gr./mc. di polveri, e prima di essere utilizzato nei motori a scoppio deve ancora essere essiccato e ulteriormente depurato attraverso filtri di stoffa.
Alto forno elettrico. - Negli alti forni una parte del coke è adoperata per produrre calore e una parte per la riduzione dell'ossido di ferro a ferro metallico. Nel forno elettrico il calore è invece fornito dall'energia elettrica e il carbone è caricato unicamente per permettere le reazioni chimiche; la quantità di carbone richiesta per questa operazione è quindi ridotta a circa 1/3 di quella richiesta nell'alto forno.
I primi tentativi di produrre ghisa al forno elettrico partendo da minerali risalgono al 1906 e furono fatti con un forno costruito da Héroult (fig. 11). Esso consisteva in un recipiente di ferro a forma cilindrica rivestito internamente di materiale refrattario e nel quale era sospeso un elettrodo di carbone. Il diametro interno del forno era di circa un metro.
La suola, fatta di carbone e nella quale per aumentare il contatto erano annegate molte sbarre di ferro, veniva collegata a un polo del trasformatore, mentre l'altro polo era collegato all'elettrodo di carbone.
La corrente, passando per l'elettrodo, attraversava la massa caricata e il circuito si chiudeva attraverso la suola. La carica, scaldata dal passaggio della corrente dapprima solamente in vicinanza dell'elettrodo, cominciava a fondere diventando maggiormente conduttrice, e aumentando di temperatura. Con l'aumento di questa avevano luogo i fenomeni di riduzione. Il gas sfuggente dalla sommità è molto ricco in ossido di carbonio, perché manca quasi completamente l'azoto, e la sua composizione media è la seguente: ossido di carbonio 41%, anidride carbonica 45%, idrogeno 15%.
La maggior facilità con la quale si possono raggiungere in questi forni alte temperature permette di eliminare più sicuramente lo zolfo sotto forma di solfuro di calcio. Agli esperimenti di Héroult ne seguirono altri, tra i quali citiamo quelli di Keller, Harmet, Turnbull, Grönwal, Lindblad e Stalhane.
Quest'ultimo tipo di forno è rappresentato dalla fig. 35. In esso si nota che una parte del gas viene aspirata da un ventilatore e soffiata sotto la vòlta del forno per raffreddarla, essendo essa il punto debole della costruzione del forno. Il consumo di corrente si aggira intorno a 3000 kWh./tonn. La quantità di carbone caricata nel forno varia fra 30 ÷ 34% del peso del minerale.
Riduzione a bassa temperatura. - Nella riduzione dei minerali nell'alto forno occorre aggiungere ad essi sostanze estranee per la formazione delle scorie le quali poi richiedono una notevole quantità di carbone per la loro fusione. Inoltre la ghisa assorbe alcune impurezze (silicio, fosforo, zolfo, ecc.) che nell'affinazione successiva debbono essere nuovamente eliminate con ulteriore consumo di carbone. Tutti questi inconvenienti hanno dato la spinta per la ricerca di nuovi metodi di produzione del ferro ricavandolo senza fusione dei suoi minerali, e negli ultimi anni si è realizzato in questo indirizzo qualche progresso. Si tratta di procedimenti di riduzione a bassa temperatura mediante aggiunte di sostanze solide (carbone), o di sostanze gassose (ossido di carbonio, idrogeno). Nel primo caso si parla di procedimenti di riduzione diretta, nel secondo di riduzione indiretta. La riduzione diretta s'inizia a una temperatura di circa 700° e continua quasi fino alla temperatura di fusione del minerale. I gas che si sviluppano dalla combustione possono a loro volta esercitare anche un'azione riducente, e nello stesso tempo cedere calore alla carica: essi però possono anche essere bruciati e il calore che si sviluppa può essere utilizzato per portare il minerale alla temperatura di reazione e arrostirlo. Quindi anche nel caso della riduzione con carbone si può avere la completa utilizzazione dei gas che si sviluppano durante l'operazione. La riduzione diretta dei minerali con impiego di carbone ha però l'inconveniente che la quasi totalità dello zolfo in essi contenuto passa nel ferro, come pure viene assorbita la maggior parte del fosforo contenuto nel minerale. Nella riduzione indiretta con gas si può invece evitare la riduzione di fosforo e zolfo e il passaggio di essi nel ferro utilizzando i gas di riduzione fino a una temperatura di 800° ÷ 850° e quindi eliminandoli dal forno; a questo modo s'impedisce la formazione di carbonio libero per la reazione 2CO ⇄ C + CO2, il quale opera facilmente la riduzione del fosforo, ma non si ha la completa utilizzazione del potere riducente dei gas, e inoltre si perde il calore posseduto dai gas stessi alla temperatura a cui sfuggono dall'apparecchio.
Confrontando i due sistemi di riduzione si può constatare:
a) per la riduzione diretta: che il limite inferiore di temperatura alla quale si può operare è 700°; che esiste la possibilità della utilizzazione completa dei gas che si producono; che non vi è nessuna necessità di avere un eccesso dei mezzi di riduzione, e quindi conseguente diminuzione delle perdite di calore; che la reazione è fortemente endotermica; che il ferro prodotto, può, a seconda delle condizioni di lavoro, contenere zolfo e fosforo.
b) per la riduzione con gas: che il limite inferiore della temperatura a cui si può operare è 800° ÷ 850°; che è indispensabile un eccesso dei mezzi di riduzione, e quindi sono sensibili le perdite di calore; che l'utilizzazione del potere riduttore dei gas è incompleta; che la reazione può essere debolmente esotermica o debolmente endotermica a seconda delle condizioni; che il prodotto è esente da zolfo e fosforo.
Riduzione indiretta. Procedimento Edwin. - Nella fig. 36 è rappresentato schematicamente l'andamento delle operazioni e il movimento dei minerali e del gas. Il minerale greggio dal frantumatore 1 giunge al mulino a palle 2 nel quale viene ridotto a pezzatura pisello. Dal mulino passa nel forno a griglia 3 ove viene portato alla temperatura di 800° ÷ 850° e quindi al forno di riduzione 4, rotante. Ultimata la riduzione, il prodotto finito è portato con un trasportatore a vite 5 in un altro mulino a palle 6 per essere ancora frantumato prima di passare al separatore magnetico 7, ove avviene la divisione tra scoria, materiale incompletamente ridotto e prodotto finito costituito da spugna di ferro. Il materiale non completamente ridotto riprende il ciclo, mentre il prodotto finito passa alla pressa 8 per la trasformazione in mattonelle.
I gas invece compiono il seguente ciclo: dal gassometro I il gas passando per il contatore III giunge ai ventilatori rotativi IV e al ricuperatore di calore II ove viene utilizzato il calore posseduto dai gas uscenti dai forno. Il gas passa quindi al forno elettrico V nel quale viene iniettato olio pesante o catrame dal serbatoio VI. La miscela di gas e olio passa nel gassogeno VII; quindi attraversa un filtro di calce e giunge al forno di riduzione VIII ove reagisce sul minerale. I gas all'uscita dal forno, passando per il ricuperatore IX, ove scaldano il gas proveniente dal gassometro, giungono alle torri di lavaggio X, ai disintegratori XI e di là al gassometro I. L'eccesso di gas viene bruciato sotto le griglie 3.
Nella fig. 37 è rappresentato il forno elettrico tipo Schönherz ed il gassogeno annesso. Il forno è costituito da un tubo disposto verticalmente a doppia parete munito in alto di un elettrodo di grafite e al basso di un elettrodo di ferro. Ad essi fa capo una corrente ad alta tensione (4000 ÷ 6000 volt) e il circuito viene chiuso attraverso un arco. Il gas che deve esser riscaldato, introdotto nella doppia parete del tubo, entra nell'interno del tubo per un'apertura posta sotto l'elettrodo superiore. A circa metà altezza del forno viene introdotto olio pesante o catrame che brucia in parte togliendo l'ossigeno dall'anidride carbonica del gas: il gas viene in seguito fatto passare su coke incandescente, ove la rigenerazione avviene in modo completo, e poi attraverso a un filtro di calce. La fig. 38 rappresenta la sezione di un impianto completo Edwin.
In alcune prove fatte in Svezia nel 1925 vennero ridotti kg. 42.751 di minerale contenente circa il 44% di ferro e 1% di fosforo. Il prodotto netto fu di kg. 31.314 di ferro spugnoso contenenti 16.083 kg. di ferro. Per ottenere una tonnellata di ferro puro si sono prodotti kg. 2335 di ferro spugnoso riducendo kg. 3211,4 di minerale. In questi 3211,4 kg. di minerale vi sono 1421,7 kg. di ferro, dei quali 300,78 kg. sono contenuti nel materiale incompletamente ridotto, mentre 120,9 kg. sono andati perduti. Le perdite corrispondono a circa l'8,5% del ferro contenuto nel minerale. Il consumo d'energia, per ogni tonnellata di ferro prodotto, è di 6020,4 kWh per il forno ad alta tensione, e di kWh 1307 per il riscaldamento del forno rotante; il consumo di coke fu di 312 kg. e di olio 44,32 kg.
Col prodotto si fabbricano delle mattonelle che unitamente a ghisa vengono fuse per la produzione di acciai. Un'analisi di materiale ottenuto col procedimento Edwin ha dato i seguenti risultati: C = 0,31; Si = 0; Mn = 0,16; P = o,032; S = 0,013; SiO2 = 0,57; O2 = 1,37.
Un altro procedimento di riduzione indiretta è quello ideato da Wiberg.
Riduzione diretta con carbone. Sistema Bureau of Mines. - Il sistema della riduzione diretta richiede impianti più semplici. Il carbone ed il minerale vengono spezzati e introdotti in un forno rotante riscaldato internamente, nel quale, dopo raggiungimento della temperatura di 800° ÷ 950°, avviene il fenomeno di riduzione. Il materiale, all'uscita del forno, viene raffreddato e il ferro è separato magneticamente dalle scorie. La figura 39 rappresenta il forno che servì per le esperienze. Quando i risultati nelle prove furono soddisfacenti, fu costruito un forno più grande, avente una lunghezza totale di m. 8,20, con un diametro interno minimo di m. o,80, avente l'inclinazione di 34 cm. sull'orizzontale con velocità di rotazione di un giro al minuto. La temperatura di riduzione non deve mai superare i 1000°. Il carbone che più si adatta al procedimento è il tipo magro, e si ha un consumo del 75% del peso del minerale. La produzione e di circa 3500 kg. nelle 24 ore.
Sul medesimo principio è basato il forno Hornsey, il quale è costituito di tre tamburi rotanti in un piano verticale, e nei quali avvengono le reazioni indicate mentre il minerale passa dall'uno all'altro.
Al momento attuale lo sviluppo di questi sistemi di produzione è ancora assai limitato e l'opportunità o meno di installare simili impianti dipende soprattutto dalle condizioni di lavoro e dalla qualità e disponibilità del minerale.
Affinazione della ghisa e produzione di ferro e acciaio. - Si è detto come fino al sec. XIV il ferro fosse estratto direttamente senza passare per lo stadio intermedio della ghisa, riscaldando in piccoli forni minerali facilmente riducibili mescolati con eccesso di carbone di legna. Una parte del minerale veniva così ridotta a ferro metallico, ma frammisto ad abbondanti loppe o scorie, le quali venivano successivamente espulse mediante fucinatura sotto al maglio. Questo metodo si chiamò catalano o del basso fuoco.
Quando con l'alto forno si cominciò a produrre su larga scala la ghisa, si trattò di trovare un metodo che eliminasse la quasi totalità delle impurezze contenute (carbonio, silicio, manganese, fosforo, zolfo, ecc.) e la trasformasse in ferro malleabile. L'eliminazione delle impurezze fu raggiunta con un processo d'ossidazione detto del fuoco di affinaggio; e mentre i prodotti d'ossidazione d'alcune impurezze (carbonio e parte dello zolfo) sfuggono allo stato gassoso, altri sono assorbiti dalle scorie. Questo processo chimico ha preso il nome, in generale, di processo di affinazione. Se in questo la temperatura sale senza però raggiungere il punto di fusione del ferro, si ottiene il ferro sotto forma di corpo solido formato di piccoli cristalli saldati tra di loro, chiamato comunemente ferro saldato o d'impasto (forni a puddellare). Se invece la temperatura sale oltrepassando il punto di fusione, si ottiene il ferro allo stato liquido e si ha allora il ferro omogeneo o ferro fuso (procedimento Bessemer, Thomas, Martin, ecc.).
Fuoco di affinaggio. - L'affinazione della ghisa era ottenuta con ripetute fusioni in un fuoco di carbone di legna; durante lo sgocciolamento della ghisa una parte delle impurezze da eliminare (poiché esse si combinano più facilmente con l'ossigeno che col ferro), era sottratta dall'ossigeno dell'aria di combustione.
Puddellaggio. - Con questo metodo di affinazione trovato come si è detto dall'inglese H. Cort per supplire alla mancanza sempre più sentita di carbone di legna, la fiamma del combustibile e non il combustibile stesso, viene in contatto con la ghisa che fonde. Il processo chimico è basato sull'ossidazione delle impurezze contenute nella ghisa per azione dell'ossido di ferro costituente la suola e la scoria del forno e in piccola parte per mezzo dell'ossigeno del gas. La presenza costante di ossido di ferro nella suola e nella scoria è ottenuta con l'aggiunta di sostanze ricche di Fe2O3 (scaglia di laminatoio, di forgia, ecc.). L'ossido di ferro agisce come trasportatore d'ossigeno prendendo dal gas quell'ossigeno che esso a sua volta ha ceduto. L'operazione viene resa più rapida con il rimescolamento meccanico del materiale caricato (puddeln).
Il forno a puddellare (fig. 40) consta principalmente di tre parti: 1. il focolare (a): 2. il laboratorio (b); 3. il condotto che va al camino (c). La griglia del focolare, secondo la natura del combustibile, è piana o a gradini. La suola del laboratorio è a forma di vasca avente da m. 1,70 ÷ 2 di lunghezza, m. 1,60 ÷ 1,70 di larghezza e m. 0,24 ÷ 0,35 di profondità (dal bordo alle placche del fondo), ed è rivestita di scoria molto ricca in ossido di ferro. Tra la griglia e il laboratorio e tra la suola ed il mnale del camino vi sono dei rialzi in muratura, i quali costituiscono l'altare (d) e il ponte del canale (e). Le pareti verticali come pure la vòlta (che cade rapidamente sul canale del camino) sono rivestite di materiale refrattario. Nella parete anteriore è praticata la porta del focolare (f), la porta per caricare e vuotare il forno (g), nella quale è praticata una piccola porta di lavoro (h).
Il processo di lavorazione è il seguente: nel forno vuoto, scaldato fino a che suola e volta sono portati al calor rosso, s'introducono circa 300 kg. di ghisa che in poco più di mezz'ora con fuoco molto vivo viene portata a fusione. Già in questo periodo i gas del focolare ricchi d'ossigeno e di anidride carbonica cominciano l'opera d'ossidazione e bruciano il silicio contenuto nella ghisa. Poiché la scoria copre il ferro e lo sottrae all'azione della fiamma, è necessario che il puddellatore, muovendolo continuamente, lo mantenga sempre in contatto con questa. Dopo il silicio vengono ossidati il manganese e in grande quantità anche il ferro per opera sia dell'ossigeno contenuto nella fiamma sia di quello contenuto nella scoria, la quale a sua volta viene nuovamente rifornita di ossigeno dalle scorie aggiunte nel forno. L'uscita dalla scoria di bolle di ossido di carbonio che bruciano con fiamma bluastra, indica che il processo di decarburazione è già iniziato e questo è anche accompagnato da un violento schiumare del bagno e rigonfiare della scoria. Col progredire della decarburazione aumenta la temperatura di fusione del bagno fino a che, superando questa quella esistente nel forno, il metallo comincia a solidificate con separazione di cristalli di ferro povero di carbonio che si saldano gli uni agli altri formando dei blocchi. La ghisa si è così trasformata in ferro, ma non ancora sufficientemente decarburato: la necessaria uniformità di composizione è ottenuta dal puddellatore con una successiva operazione consistente nello spezzare, con stanghe di ferro, in blocchi più piccoli il grosso blocco già formatosi. Il laboratorio viene così riempito di blocchi i quali sono fatti rotolare sotto la fiamma da un'estremità all'altra della suola finché, eliminata la maggior quantità possibile di scorie ad essi aderenti, vengono estratti dal forno e portati sotto al maglio la cui azione rende il ferro più compatto e lo libera dalla maggior parte delle scorie che esso tiene racchiuse. Se la ghisa inizialmente caricata è grigia, cioè ricca di silicio, l'operazione si svolge come è stato descritto e il prodotto è costituito da ferro dolce fibroso; se invece la ghisa è bianca, cioè povera di silicio, l'operazione è abbreviata perché la decarburazione comincia subito. Il calo nella lavorazione, cioè la perdita di ferro dovuta alla differenza tra il peso della carica e del prodotto varia dal 6 al 15%. Il consumo di combustibile varia da 750 kg. a 1600 kg. per tonnellata di ferro prodotto, variando esso con la qualità del prodotto finale e con la qualità della carica. La capacità di carica dei forni varia da 300 a 500 kg., la durata dell'operazione da ore 1 ÷ 2 per cui un forno in 24 ore può produrre da 2000 ÷ 4500 kg. di ferro con 12 ÷ 20 cariche. Il calore posseduto dai fumi di un forno da puddellaggio è per solito utilizzato sotto caldaie. Le scorie prodotte vengono caricate nell'alto forno.
I forni a puddellare pur successivamente perfezionati in modo da ridurre il consumo di carbone e aumentare la produzione, conservarono l'alto costo di produzione (prezzo del carbone e della mano d'opera), e furono quasi completamente abbandonati. Per le caratteristiche particolari presentate dal ferro puddellato, sono stati però nuovamente presi in considerazione, specialmente in America, e perfezionati dal punto di vista dell'economia, soprattutto di mano d'opera, rendendo automatico anche il lavoro più faticoso del rotolamento dei blocchi di ferro sulla suola. I primi tentativi di rendere meccanica la produzione sono stati fatti in Inghilterra nel 1835, e a questi ne seguirono altri numerosi, ma senza però raggiungere risultati molto brillanti. Il principio seguito era quello di muovere i blocchi di ferro mediante un giuoco di leve. Nel 1854 negli Stati Uniti si fecero nuovi tentativi partendo però dall'idea di ottenere il movimento dei blocchi rendendo mobile la suola del forno. Questo, di forma cilindrica, era animato da un movimento di rotazione intorno a un asse orizzontale; la suola, non parallela all'involucro esterno era inclinata rispetto all'asse di rotazione, e quindi i blocchi di ferro, quando il forno era messo in rotazione, venivano sollecitati a percorrere la suola in tutta la sua lunghezza. Lo studio del perfezionamento dei forni a puddellare è stato pertanto proseguito su questa strada, e i progressi sono stati continui, e hanno portato a una forma più razionale di costruzione del forno, a una migliore qualità dei rivestimenti, a una maggiore produzione. La Lebaum Iron Co. ha in funzione un impianto di 8 forni capaci di dare una produzione di ferro di 240 tonn. in 24 ore. I forni sono del tipo Sly (figg. 41-42) a forma cilindrica, dotati di movimento di rotazione intorno ad un asse orizzontale. Il rivestimento murano è fatto in magnesite. In origine il riscaldamento dei forni era a polvere di carbone, ma più recentemente si è sostituito ad essa l'olio pesante. Alla carica costituita di ghisa liquida (C = 3,5%, Si = 1.2 ÷ 2%, Mn ÷ 0,8 al massimo, P = 0,6 ÷ o,8%, S = o,04 ÷ o,06%) si aggiunge scaglia di laminatoio e scorie di silicati di ferro. Si ottengono dei grossi blocchi che sono estratti dal basso e con un trasportatore a rulli portati alle presse che offrono rispetto al maglio il vantaggio di una maggiore rapidità di lavoro e di un maggior rendimento. Il ferro puddellato così prodotto presenta rispetto ad altri tipi una maggior resistenza agli urti e alle vibrazioni, grande saldabilità, maggior resistenza alla corrosione. Quest'ultima proprietà si può spiegare con la grande purezza del materiale prodotto, e con la presenza di numerose scorie suddivise in tutta la massa che meccanicamente si oppongono alla formazione e al propagarsi della ruggine. La produzione attuale americana di ferro puddellato, è di circa 1.000.000 di tonn. all'anno.
Forni a crogiolo. - I primi forni a crogiolo, si è detto, furono dovuti all'orologiaio inglese B. Huntsman di Sheffield il quale, per produrre acciaio di ottima qualità per molle da orologi, pensò di fondere l'acciaio in recipienti chiusi (crogioli) in modo che le scorie separate allo stato fluido per densità, venissero alla superficie e non restassero più incorporate nel metallo, incoveniente che si verificava col vecchio metodo del fuoco di affinaggio. L'industria della fusione al crogiolo si sviluppò enormemente in Inghilterra e vi rimase per molto tempo localizzata, poiché le officine conservarono strettissimo segreto sui particolari del nuovo processo adottato; ma il prodotto si limitava a piccoli lingotti provenienti ognuno dal contenuto di un unico crogiolo (30 ÷ 40 kg.), ed era per lo più destinato alla fabbricazione di utensili. Solo più tardi, verso il 1800, F. Krupp riuscì a produrre getti pesanti colati raccogliendo contemporaneamente l'acciaio di più crogioli. Li destinò alla fabbricazione di tubi da cannone, conquistando immediatamente il primato nelle fusioni di acciai fini.
Fabbricazioni dei crogioli. - I crogioli sono fabbricati con una miscela formata da grafite di Stiria o di Ceylon contenente 50 ÷ 85% di carbonio, e zolfo minore di 0, 10; da argilla avente la seguente analisi media: 48% di silice, 35,5% di allumina, 2,5% d'ossido di ferro, 0,4% di ossido di calcio, 0,40%, di alcali, 13,2% di perdita al fuoco; da chamotte, cioè da argilla cotta fino a vetrificazione (1 100° ÷ 1400°); da polvere di coke; da polvere di carbone di legna dura; da rottami di vecchi crogioli senza scorie. Tutte queste sostanze, accuratamente seccate, sono macinate e passate attraverso ad un setaccio di ÷ 2.5 maglie per mmq. Dopo essere state inumidite vengono mescolate nelle proporzioni volute per fabbricare il tipo di crogiolo che si vuole ottenere. Generalmente si fabbricano tre tipi di crogioli contenenti diversi tenori di carbonio, e precisamente da 20 a 26%, da 26 a 30% e da 30 a 45%.
L'impasto per ottenere crogioli del tipo intermedio è fatto con 40 parti di chamotte, 33 di argilla, 20 di carbone di legna, 7 di coke. La miscela dopo essere stata bagnata e convenientemente stagionata, viene portata alla pressa per stampare i crogioli.
La fig. 43 rappresenta la forma di un crogiolo, la fig. 44 un coperchio per crogioli scaldati in forno a gas e forno a coke. I crogioli, dopo la formatura, debbono essere lentamente ed accuratamente essiccati (6 ÷ 8 settimane) con temperature sempre leggermente crescenti fino a raggiungere 50° 60°. Prima di essere usati debbono essere portati alla temperatura di 900° ÷ 1000°. La durata media dei crogioli di capacità di 30-40 kg. varia da 1 a 5 colate.
Tipi di forni a crogioli. - Il forno originario costruito da Huntsman è rappresentato dalla fig. 45. Si compone di una serie di laboratorî distanti gli uni dagli altri circa m. 0,90 e contenenti due crogioli ognuno. Il laboratorio, posto completamente sotto il livello di officina, ha circa 1 m. di profondità per m. 0,65 × 0,45; ogni laboratorio è riunito al condotto del camino mediante un canale munito di registro regolabile. Il funzionamento del forno è il seguente: dopo aver disposti sulla griglia i crogioli poggiati sui loro supporti, si riempie di coke tutto lo spazio disponibile fino all'orlo dei crogioli e si accende il fuoco. Quando i crogioli sono al calor rosso, vengono riempiti di rottame, chiusi, e il laboratorio nuovamente riempito di coke. La combustione procede fino a fusione avvenuta, momento nel quale con apposite tenaglie si estrae il crogiolo dal forno, e si cola l'acciaio nelle forme. Il procedere dell'operazione viene controllato sollevando i coperchi dei singoli crogioli. Il consumo di coke varia da 300 a 400 kg. per cento kg. di acciaio prodotto.
Questo tipo di forno, certamente non economico, è stato successivamente trasformato cominciando con l'utilizzare il calore perduto per riscaldare l'aria di combustione; in seguito si modificarono e perfezionarono i forni aggiungendo le camere di ricupero (forno Siemens) poi si costruirono i forni Siemens scaldati a gas (fig. 46) e quelli più moderni ancora scaldati a olio pesante (figura 47). Nei forni Siemens a gas il consumo di carbone è di 150 kg. per 100 kg. di acciaio prodotto, nei forni ad olio pesante di l. 118 di nafta.
Fabbricazione dell'acciaio al crogíolo. - I rottami destinati alla fabbricazione dell'acciaio al crogiolo con tenore di carbonio da 0,5 a 1,5% debbono essere accuratamente scelti e dosati. Un metodo comunemente seguito è quello di Huntsman e consiste nel fondere acciaio cementato in dosi tali da ottenere per semplice fusione il tipo di acciaio desiderato. Questo metodo permette di ottenere acciai di composizione molto omogenea. Si può anche fondere acciaio cementato più duro del desiderato e correggere la composizione con ferro svedese, oppure fondere ferro svedese e giungere alla composizione voluta con aggiunta di carbone di legna, ovvero anche fondere ghisa molto pura e correggere con ferro di Svezia. Quantunque la lavorazione al crogiolo consista in una semplice operazione di fusione, pur tuttavia durante questa fusione hanno luogo tra i varî elementi contenuti nella carica alcune reazioni chimiche e precisamente:
1. Il rottame caricato assorbe carbonio dalle pareti del crogiolo (se il crogiolo è fatto di grafite con più del 30% di carbonio) quando la carica contiene più del 0,30 di manganese. La quantità di carbonio assorbita aumenta con l'aumentare del tenore di manganese contenuto nel rottame, del carbonio contenuto nella parete del crogiolo nonché con la durata dell'operazione (l'aumento di carbonio può variare secondo i casi da 0, 10 a 0,30%). Quando invece il manganese contenuto nella carica è minore di 0,20% e il crogiolo è di argilla, il carbonio diminuisce di una quantità variante da 0, 15 a 0,25%.
2. Il manganese attacca fortemente le pareti del crogiolo nella zona delle scorie, e fa aumentare la quantità di silicio contenuto nell'acciaio per la reazione: 2Mn + SiO2 = 2MnO + Si. La quantità di manganese deve essere dosata nella carica, in relazione al tenore di carbonio del crogiolo, in modo che la quantità di carbonio contenuto nell'acciaio resti costante.
3. Quanto minore è la quantità di manganese contenuta nella carica, tanto minore è la quantità di silicio che viene ridotta nell'acciaio: quanto più carbonio vi è nel crogiolo, tanto più silicio passa nell'acciaio.
4. Tutto lo zolfo che è contenuto nella carica e nel crogiolo passa nell'acciaio.
5. Il fosforo contenuto nella carica resta inalterato nel prodotto.
L'acciaio al crogiolo, trattandosi di prodotto molto fino si presta per la produzione di acciai di qualità, e cioè per utensili di ogni genere, siano essi semplicemente al carbonio come pure con aggiunte speciali (cromo, nichel, vanadio, tungsteno, molibdeno, ecc.). Normalmente si colano dei piccoli lingotti di 40 ÷ 50 kg. che vengono poi successivamente fucinati o laminati. In casi speciali si possono anche produrre con acciaio al crogiolo getti assai pesanti (fino a 10.000 kg.) impiegando batterie di 200 crogioli: l'acciaio viene allora versato molto rapidamente in una secchia scaldata al rosso, e da questa, poi, nella forma preparata.
La fabbricazione dell'acciaio al crogiolo, per quanto dia acciai di ottima qualità, richiedendo l'impiego di materie prime assai pure e di numerosa mano d'opera è stata quasi completamente abbandonata e soppiantata dalla fabbricazione con forni elettrici, che dà prodotti ugualmente puri, perfettamente omogenei, pur utilizzando materie prime meno pure.
Convertitori Bessemer e Thomas. - Spetta all'inglese H. Bessemer la prima idea di affinare la ghisa liquida facendola attraversare da un getto d'aria sotto pressione. Il processo fu brevettato nel 1857. I risultati non furono sul principio molto incoraggianti, ma in seguito, per i perfezionamenti apportati dallo svedese Göransson, il procedimento ebbe rapida diffusione. La fig. 48 rappresenta il forno perfezionato da Göransson. Il principio su cui si basa il processo Bessemer è il seguente: silicio, manganese e carbonio quando si combinano con l'ossigeno formando silice, ossido di manganese e ossido di carbonio, svolgono calore (per ogni kg. di sostanza ossidata si liberano rispettivamente 7830, 1724 e 2387 Cal.). Questo calore innalza la temperatura del bagno e permette di ottenere acciaio ben fluido così da poter essere colato.
Per la ghisa ottenuta da minerali di ferro molto ricchi in fosforo, dei quali si hanno giacimenti assai importanti e che non può essere affinata con il processo Bessemer per l'impossibilità di fissare con scoria acida l'acido fosforico nascente dall'ossidazione del fosforo, S.G. Thomas nel 1878 ebbe l'idea di sostituire al rivestimento di silice del forno Bessemer un rivestimento basico che permettesse, insieme con l'aggiunta di calce, di ottenere scorie molto basiche. Egli utilizzò all'uopo, per il rivestimento dei convertitori, la dolomite. Naturalmente col processo Thomas non potevano più affinarsi ghise molto siliciose perché per neutralizzare l'acidità della scoria sarebbe occorso aggiungere quantità troppo forti di calce. Ma la mancanza del silicio come fonte di energia calorifica fu potuta supplire col fosforo, che ossidato dà per 1 kg. 5965 Cal. Sostanzialmente i convertitori Bessemer e Thomas differiscono fra loro solo per la natura del rivestimento e quindi la descrizione dell'uno vale, in generale, anche per l'altro.
Mescolatori. - I convertitori, di solito, hanno una capacità minore di quella di una colata di alto forno, e poiché la durata dell'affinazione è assai breve (15 ÷ 20 minuti), non sempre si avrebbe disponibilità di ghisa liquida al momento opportuno. Inoltre, con diversi alti forni in funzione, non sempre sarebbe possibile ottenere da tutti la medesima qualità di ghisa: ne risulterebbe perciò un conseguente funzionamento irregolare dei convertitori. Ad ovviare a questi inconvenienti la ghisa liquida che giunge dall'alto forno all'acciaieria in appositi vagoni (figura 49), in attesa di essere immessa nel convertitore viene versata in forni di grande capacità (da 400 a 1000 tonn.), detti mescolatori, ove essa è conservata calda e dove è anche parzialmente desolforata, poiché una parte (fino al 40%) dello zolfo in essa contenuto si combina col manganese trasformandosi in solfuro di manganese che passa nella scoria; con questo intento si fanno aggiunte anche di ossido di calcio. Se il mescolatore è fornito d'un mezzo di riscaldamento (tendenza oggi quasi generale) si può raggiungere in esso un principio di affinazione della ghisa aggiungendovi minerale di ferro. I mescolatori sono di due tipi:
1. a forma di convertitore, nei quali la ghisa viene immessa dalla parte del fondo, e il cui vuotamento avviene con la rotazione del forno a mezzo di un pistone idraulico. Questo tipo (fig. 50 a sinistra) ha l'inconveniente di richiedere per la sua forma una muratura molto costosa, di potersi difficilmente riscaldare e di essere di capacità limitata;
2. oscillanti, cioè a forma di vasca longitudinale, appoggiati su rulli e il cui rovesciamento è ottenuto con pistoni idraulici o con motori elettrici (fig. 50 a destra). Questi hanno capacità assai elevate (fino a 2000 tonn.), sono facilmente riparabili nel rivestimento, permettono una buona desolforazione e affinazione, e possono essere riscaldati facilmente. Per quest'ultima ragione essi sono costruiti in modo che mobile è solo quella parte centrale che serve come deposito di ghisa, mentre le teste, che servono di introduzione al gas e di uscita per i prodotti di combustione, sono fisse: fra le teste e il laboratorio vi è un piccolo giuoco che permette il movimento. I mescolatori sono scaldati con gas di gassogeno, di forni a coke o di alto forno, e sono muniti di camere di ricupero di calore.
Convertitore Bessemer.- Il convertitore Bessemer è costituito da un recipiente a forma di pera (fig. 51) rivestito di materiale refrattario (f), nel quale viene versata la ghisa liquida che si vuole affinare, e consta principalmente di tre parti: collo, parte centrale e parte inferiore. Nella parte centrale, esternamente al convertitore, vi è una cintura o anello portante (h) costituita di segmenti di acciaio solidamente uniti ai perni di rotazione (a). Uno dei due perni porta un ingranaggio (c) accoppiato con un'asta dentata (e) azionata idraulicamente e che serve al movimento di rotazione del convertitore. L'altro perno è cavo ed è attraversato dal condotto dell'aria sotto pressione che proviene dalla macchina soffiante (di solito macchina a stantuffo, con motrice a gas, potenzialità 500 ÷ 800 mc. di aria al minuto, pressione 2,5 atm.) e che è condotta alla cassa a vento (g). Da questa, passando per le piccole aperture praticate nel fondo del convertitore, attraversa la massa della ghisa liquida. I canaletti, nei quali passa l'aria, sono praticati nel fondo del convertitore che, generalmente, è preparato a parte e poi fissato, a mezzo di bulloni, sul convertitore stesso. Il fondo (fig. 52) è costituito da una placca di ghisa guarnita di refrattario nel quale sono contenute le tubiere, fabbricate in argilla di ottima qualità. Il numero delle tubiere varia da 12 a 20 a seconda delle dimensioni del convertitore. Le tubiere (fig. 53) hanno una leggiera conicità, sono infilate nel fondo quando esso è in posizione capovolta e sono fissate con dischi. Sulla conduttura dell'aria è inserita sempre una valvola, per solito a doppia sede, e a tenuta perfetta (fig. 54 b). La carica della ghisa e la colata dell'acciaio e della scoria avvengono sempre dalla sommità mettendo il convertitore in posizione orizzontale perché la massa fluidar penetrando nei canali del fondo, non li ostruisca. Il rivestimento murario deve essere fatto in modo da resistere alla temperatura e alle reazioni chimiche che hanno luogo nel convertitore: il convertitore acido sarà perciò rivestito con mattoni di silice, mentre quello del convertitore basico con pigiata di dolomite cotta fino a vetrificazione (v. sotto, Forno Martin).
Dati costruttivi. - La capacità dei convertitori varia da 1,5 ÷ 2 tonn. per le piccole fonderie (ghisa liquida fornita da cubilots) fino alle dimensioni massime di 30 ÷ 40 tonn. Allo scopo di ridurre le proiezioni di metallo è bene che il volume del convertitore sia molto grande rispetto a quello della carica (rapporto 6:1); l'altezza è di solito uguale al doppio del diametro. Un bagno profondo è vantaggioso perché aumenta la superficie di contatto tra aria e metallo, ma non deve essere eccessivo per non affaticare soverchiamente le macchine soffianti (da 500 a 700 mm.). Una grande sezione totale di tubiere e un grande numero di esse accelera l'operazione: il diametro dei fori delle tubiere varia da 12 ÷ 18 mm., il numero dei fori da 60 a 280, e la sezione è di circa 10 ÷ 20 cmq. per tonnellata. Il movimento di rotazione deve essere rapido e sicuro, e il convertitore deve esser costruito in modo che abbandonato a sé stesso, in qualunque momento e condizione, abbia la tendenza a disporsi verticalmente col fondo in basso.
Processo di affinazione. - La ghisa liquida, proveniente dall'alto forno o più generalmente dal mescolatore, è versata nel convertitore, tenuto in posizione orizzontale perché non vengano ostruiti i fori destinati al passaggio dell'aria. Ultimata la carica si apre la valvola dell'aria sotto pressione ed il convertitore viene lentamente fatto rotare fino a prendere la posizione verticale. L'aria, venendo a contatto col metallo, comincia subito ad ossidare silicio e manganese provocando di conseguenza un rapido aumento della temperatura del bagno. I gas uscendo dalla bocca del convertitore sono essenzialmente composti di azoto unito a piccole quantiià di ossido di carbonio e anidride carbonica provenienti dalla combustione d'una piccola parte del carbonio. Quando dopo pochi minuti l'ossidazione del silicio e del manganese è completa, ha inizio la combustione del carbonio, che si esplica in forma assai vivace. Prodotto di questa ossidazione è l'ossido di carbonio che all'uscita del convertitore s'incendia a contatto dell'aria dando luogo a una fiamma lunga ed accecante e f0rmando anidride carbonica. L'inizio dell'ossidazione del carbonio è accompagnata da un rumore sordo che va sempre più accentuandosi di mano in mano che la reazione aumenta d'intensità, ed è originata dal rapido sviluppo di masse gassose che cercano di uscire dal metallo trascinando con loro parti di ferro e scorie incandescenti. In circa 10 minuti anche il carbonio è eliminato, la fiamma scompare quasi completamente e il processo di affinazione è terminato. Quando si vuole produrre acciaio di determinato tenore di carbonio, si deve interrompere il getto di aria prima che il bagno sia completamente decarburato; la scelta del momento opportuno è fatta da parte di personale pratico che lo deduce dall'osservazione del colore della fiamma. Il modo come variano gli elementi contenuti nel bagno è rappresentato dalla fig. 55, nella quale le linee del fosforo e dello zolfo sono indicate con due parallele poiché questi due elementi non prendono parte alla reazione.
Ultimata l'affinazione, il convertitore è nuovamente portato in posizione orizzontale e viene chiusa la valvola dell'aria. Prelevato un campione d'acciaio e giudicata la sua composizione si procede alle aggiunte necessarie (generalmente ghisa speculare e ferro manganese), perché essa corrisponda a quella voluta. Le aggiunte sono fatte sotto forma liquida, o per lo meno fortemente riscaldate; talvolta però si usa fare le aggiunte allo stato freddo e soffiare poi ancora per pochi secondi. Lo scopo delle aggiunte di ghisa speculare e di ferro manganese è duplice; esse servono a portare al tenore voluto il carbonio del bagno e soprattutto a disossidare il metallo togliendogli l'ossido di ferro in esso disciolto e formatosi per l'ossidazione del ferro a contatto con l'ossigeno. Il calo, cioè la perdita di metallo dovuta sia all'ossidazione diretta sia alla perdita per proiezioni, può salire sino al 10% ÷ 12% della carica.
Come già si è visto nel diagramma (fig. 55) il fosforo non prende affatto parte alla reazione data la natura del rivestimento refrattario del convertitore. L'affinazione al Bessemer richiede quindi l'uso di ghisa di composizione speciale, e cioè a basso tenore di fosforo e relativamente ad alto tenore di silicio e manganese, i quali, oltre al carbonio, forniscono calore. Non tutti gl'impianti di alti fomi che lavorano con minerali differenti possono produrre i medesimi tipi di ghisa e quindi gli impianti Bessemer anche se forniti di mescolatore debbono possedere una certa elasticità di marcia. I tipi di ghisa più comunemente affinati al Bessemer, sono i seguenti:
1. Ghise a basso tenore di silicio (meno di 1%) e con alto tenore di manganese (2,4% o più): metodo svedese.
2. Ghise a basso tenore di silicio (meno di 100) e basso tenore di manganese (meno di o,5′ (′): metodo americano.
3. Ghisa con alto tenore di silicio (2 ÷ 2,5%) e basso tenore di manganese (0,75% o meno): metodo inglese.
4. Ghise con alto tenore di silicio (2% e più) e alto tenore di manganese (2%).
Un'analisi media di ghisa Bessemer è la seguente: C = 3,20 ÷ 3,40%; Mn= 0,8 ÷ 1,5%; Si = 1 ÷ 2,5%; P = o,04 ÷ 0,08%; S = 0,03 ÷ 0,06%.
L'acciaio prodotto al Bessemer è tanto più ricco di silicio quanto più la operazione è stata condotta ad alta temperatura, e poiché caratteristica del silicio è quella di ostacolare la formazione di soffiature (bolle di gas) nel metallo, i convertitori Bessemer di piccola capacità sono specialmente adatti per piccole fonderie di acciaio. La scoria Bessemer, se ricca di manganese, può essere utilizzata nell'alto forno.
Convertitore Thomas. - Dal punto di vista costruttivo, il forno Thomas differisce dal Bessemer soltanto per il rivestimento, fatto con pigiata di dolomite o mattoni di dolomite. Nel primo caso la dolomite, macinata alla grossezza pisello-nocciola, viene impastata col 7 ÷ 9% di catrame bollito (per disidratarlo) e quindi con l'aiuto di apposite sagome in legno o lamiera, viene pigiata nel convertitore con martelli pneumatici. Nel secondo caso l'impasto di dolomite e catrame è portato in presse idrauliche per la fabbricazione dei mattoni con i quali viene poi costruito il rivestimento del forno (pressione di esercizio delle presse 300 ÷ 400 kg./cmq.). Particolari cure richiede il rivestimento del fondo anche esso fatto con pigiata di dolomite, e nel quale i fori per il passaggio dell'aria sono ricavati, sia affondando direttamente nella pigiata aghi di ferro (9 ÷ 13 mm di diametro) che poi sono tolti, sia utilizzando delle piccole tubiere di magnesite. La cottura dei fondi avviene in forni a tunnel (fig. 56) aventi tre focolari per ogni lato, e che possono contenere 5 ÷ 6 fondi contemporaneamente. La cottura dura circa 36 ore e il periodo di raffreddamento dura due giorni. La durata media di un fondo è di circa 35 ÷ 50 colate, quella di un rivestimento di 200 colate.
Processo di affinazione. - Nel convertitore portato ad alta temperatura s'introduce prima la quantità di calce necessaria alla formazione della scoria basica (calcolata in misura del 13 ÷ 18% del peso della carica), quindi la ghisa liquida, e subito dopo s'inizia il soffiamento. A differenza di quanto avviene nel convertitore Bessemer, la maggior quantità di calore è fornita del fosforo, e la composizione media d'una ghisa adatta per convertitore Thomas è la seguente: C = 3 ÷ 3,5%; Si possibilmente 〈 0,5%; P = 1,7 ÷ 2,2%; Mn = 0,8 ÷ 1,3%; S possibilmente 〈 0,08.
Le variazioni che avvengono nell'interno del bagno, in seguito all'ossidazione delle impurezze contenute nella ghisa, sono rappresentate graficamente nella fig. 57. Il silicio brucia completamente all'inizio dell'operazione contemporaneamente alla maggior parte del manganese. Il carbonio, la cui combustione s'inizia lentamente durante l'ossidazione del silicio, terminata questa, cade rapidamente dando luogo alla fiamma caratteristica dovuta alla combustione dell'ossido di carbonio in contatto con l'atmosfera. La fine della combustione del carbonio è segnata da una immediata e notevole diminuzione della fiamma. L'ossidazione del fosforo, appena sensibile in principio, procede intensa appena ultimata quella del carbonio e continua rapidissima. Ma siccome il tetrafosfato di calcio è ancora facilmente riducibile in presenza di silicio e carbonio, si comprende come il fosforo non possa essere eliminato fino a che nel bagno vi è presenza di carbonio. Ultimata la defosforazione bisogna disossidare il bagno eliminando l'ossido di ferro che si è formato soprattutto nell'ultimo periodo. Prima di aggiungere i disossidanti (ghisa speculare o ferro manganese) bisogna però togliere la scoria, per impedire che le aggiunte stesse esercitino su questa la loro azione riducente, facendo ripassare nel metallo buona parte del fosforo. La formazione della scoria vera e propria non. avviene che verso il 10 ÷ 12° minuto dell'operazione, perché fino a questo punto essa è formata da pezzi di calce galleggianti sul bagno circondati da piccole quantità di silicati. A misura che la temperatura del metallo aumenta per il calore che si è andato liberando nell'ossidazione del fosforo, diminuisce la temperatura di fusione della scoria per l'assorbimento del fosforo. La quantità di questo elemento contenuta nella scoria aumenta fino a un certo limite, oltrepassato il quale diminuisce. Questa diminuzione è dovuta all'ossido di ferro che passa nella scoria, per l'ossidazione del ferro durante gli ultimi minuti dell'ossidazione del carbonio e del fosforo. In pratica lo svolgimento del processo non è così semplice perché esso è influenzato da diversi fattori tra i quali la composizione della ghisa, la sua temperatura, la qualità di acciaio da prodursi, ecc.
La temperatura del bagno sale rapidamente solo sulla fine dell'operazione per effetto dell'ossidazione del fosforo e quindi vi è pericolo di avere anche una forte ossidazione del ferro. La eliminazione dell'ossido di ferro che così si forma richiede l'impiego di forti quantità di ferro manganese, il quale è sempre ricco di carbonio. Si ha perciò uno sviluppo di ossido di carbonio, che rendendo l'acciaio non tranquillo durante l'operazione di colata, dà luogo a lingotti con soffiature. Il calo oscilla dal 7 al 9% della carica metallica.
Le scorie Thomas costituiscono un sottoprodotto di notevole valore, contenendo esse, come maggiori componenti, calce, ossidi di ferro e acido fosforico la cui composizione media è la seguente: SiO2 = 7 ÷ 7,5%,; P2O5 = 17 ÷ 22%; Fe2O3 = 5 ÷ 6%; FeO = 6 ÷ 9%; MnO = 6 ÷ 7%; CaO = 47 ÷ 48%, MgO = 1.5 ÷ 2.50% (v. scorie).
Forni Martin-Siemens. - Fino alla metà del secolo scorso, ad eccezione del Bessemer il quale però utilizzava come punto di partenza la ghisa liquida, non si conosceva ancora nessun mezzo che permettesse di raggiungere la fusione di grandi quantità di acciaio: restavano inutilizzati in particolare i rottami di ferro, che in enormi masse avanzavano da demolizioni. Fu W. Siemens ad avere l'idea di ricuperare la quantità di calore posseduta dai gas combusti utilizzandola a riscaldare l'aria e i gas destinati alla combustione. Lo stesso Siemens, oltre che inventare i ricuperatori, sostituì al combustibile solido, fino ad allora adoperato nei forni per la fabbricazione di acciaio, un combustibile gassoso, miscela di gas di distillazione, di ossido di carbonio e di azoto, ottenuto dalla gassificazione del carbone fossile entro gassogeni sotto ai quali era soffiata aria sotto pressione. Questi processi applicati dai fratelli Martin, diedero origine al forno Martin-Siemens. Naturalmente il forno ebbe un primo sviluppo (v. sopra) per l'utilizzazione dei rottami di ferro. Ma poiché durante la fusione una parte del ferro, ossidato per effetto della fiamma, passa nella scoria, si volle ridurre questa perdita aggiungendo alla carica una certa quantità di ghisa le cui sostanze estranee proteggessero, con la loro propria ossidazione, quella del ferro. Sorse così il processo ghisa-rottame. Più recentemente il forno Martin fu utilizzato per l'affinazione di ghisa liquida con l'aggiunta di minerale, e si ebbe il processo ghisa-minerale.
Rispetto al convertitore il forno Martin presenta i seguenti vantaggi: 1. possibilità di affinare ghise di non importa qual composizione, 2. possibilità di variare nella carica i rapporti tra ghisa e rottame a seconda delle disponibilità e dei prezzi; 3. possibilità di produrre quantità di acciaio molto maggiori (colate di 100 e più tonnellate).
Un impianto di acciaieria Martin comprende le seguenti parti principali: 1. gassogeni; 2. forni. La fossa di colata, i servizî di carico e scarico delle materie prime e prodotti, i servizî accessorî essa ha in comune, invece, con impianti di convertitori Bessemer o Thomas.
Gassogeni. - Per il riscaldamento del forno Martin si adopera generalmente un gas che è prodotto in apparecchi chiamati gassogeni, destinati a trasformare il combustibile solido in gassoso per combustione parziale del carbonio ad ossido di carbonio. La formazione di questo si ha solamente quando la quantità di ossigeno con la quale il carbone reagisce è insufficiente a bruciarlo completamente, perché in caso contrario esso viene trasformato in anidride carbonica che è prodotto di nessun valore. Gli apparecchi nei quali si opera la gassificazione del carbone sono rivestiti di materiale refrattario resistente alle alte temperature, e sono forniti di aperture per il caricamento del carbone, per l'ingresso dell'aria, per la presa del gas e per la rimozione delle ceneri (v. gas).
Uno dei primi tipi di gassogeno in uso fu quello Siemens, costituito da una camera in muratura rivestita internamente di refrattarî e nella quale è disposta una griglia inclinata con chiusura idraulica alla base (v. illustrazione sotto la voce gas). Dopo questo primo gassogeno si ebbe una numerosa serie di perfezionamenti e tra i varî tipi si affermarono quelli a griglia fissa, nei quali l'estrazione delle scorie si fa interrompendone o no il funzionamento.
Più moderni sono i gassogeni a griglia rotante, nei quali l'estrazione delle scorie è automatica, e dei quali vi sono innumerevoli tipi. Il principio sul quale sono basati è il seguente: la griglia, anziché essere circolare, è eccentrica, appoggiata su rulli o sfere ed animata di un movimento di rotazione continuo e lento ma regolabile (in media 6 ÷ 7 giri in 24 ore), per cui la scoria viene continuamente spinta verso la periferia ove è raccolta. L'aria ed il vapore sono soffiati sotto la griglia. Nelle figure 58, 59, 60 sono rappresentati i gassogeni tipo Kerpely, Poetter, e Ehrhardt e Sehmer. La pressione dell'aria soffiata varia con la natura e pezzatura del carbone, con lo stato di pulizia delle tubazioni ecc. da 40 a 140 mm. di acqua. Il consumo di vapore è di circa 100 gr. per mc. d'aria (20 ÷ 30 del peso del combustibile). Con i gassogeni a griglia rotante si ha il vantaggio di potere scorificare senza alterare menomamente il funzionamento del gassogeno ed anche di aver scorie quasi completamente esenti di parti combustibili.
Vi sono anche gassogeni muniti di apparecchi per il ricupero dei sottoprodotti contenuti nel gas (gassogeni tipo Mond: v. gas).
Il potere calorifico del gas di gassogeno varia da 1200 ÷ 1300 Cal./mc. Da 1 kg. di carbone si ottengono circa 4,5 mc. di gas e per la combustione teorica completa di i mc. di gas occorrono 1,3 mc. d'aria. In pratica si calcola però sempre necessario un eccesso d'aria del 20 ÷ 30%. L'impianto dei gassogeni, in un'acciaieria Martin, è fatto o immediatamente vicino ai forni, o separato da questi da uno spazio ove si raccolgono le materie prime destinate alla carica. Ogni forno Martin può essere alimentato da un gruppo di gassogeni esclusivamente addetti ad esso, come pure tutti i gassogeni possono essere riuniti da un unico canale collettore del gas al quale i forni fanno capo. Nel primo caso si ha il vantaggio dell'indipendenza di ogni forno, maggior facilità nella sua condotta, esattezza nel calcolo del consumo di carbone, maggiore facilità di pulizia delle tubazioni, ecc. Nel secondo caso si ha una maggiore elasticità d'impianto, ma ogni forno deve potersi isolare dalla tubazione del gas mediante appositi registri. Il collettore del gas può anche essere esterno o sotterraneo; nel primo caso si ha maggiore facilità per le pulizie ma maggiori perdite di calore.
Impianto dei forni Martin. Particolari costruttivi. - La pianta di un'acciaieria Martin è di solito rettangolare, e i forni sono allineati nel senso della lunghezza, distanziati gli uni dagli altri di 5 ÷ 8 metri (fig. 62). Il piano di lavoro è sopraelevato sul livello di officina di m. 4 ÷ 4,50, per meglio permettere la costruzione delle camere di ricupero e agevolare la colata. Le camere di ricupero sono parzialmente entro terra, le valvole del gas e dell'aria a piano terra. La parte di tettoia ove avviene la carica è servita da una o più macchine caricatrici scorrevoli su binario e portanti una cabina munita di braccio girevole per la presa della cassetta di carica (fig. 63). Cabina e braccio sono animati da movimenti di elevazione, traslazione, e rotazione. Le cassette di carica sono riempite di rottame negli appositi piazzali, e poi, a mezzo di carrelli, binarî ed elevatori idraulici od elettrici, portate sul piano dei forni da dove poi sono prese dalla caricatrice. Quando la carica è fatta con ghisa liquida essa, portata dall'alto forno con vagoni speciali (v. fig. 49), viene versata o nel mescolatore o direttamente nei forni Martin.
I forni Martin si dividono in basici o acidi a seconda della natura del rivestimento, e in essi si distinguono le seguenti parti principali: 1. laboratorio, ove avvengono le reazioni tra fiamma e materiale di carica, e che comprende anche le teste ossia gli sbocchi dei canali del gas e dell'aria; 2. due paia di camere di ricupero di calore per l'aria e per il gas; 3. le valvole d'inversione dell'aria e del gas coi relativi canali; 4. il camino.
I forni Martin fissi (per distinguerli da quelli rovesciabili) sono costruiti per capacità da 6 a 100 tonn.: i forni con capacità da 6 ÷ 10 tonn. servono quasi esclusivamente per uso di fonderia d'acciaio o per usi speciali. Le capacità più comunemente usate per produzioni di acciaio corrente sono da 30 a 60 tonn.
Il laboratorio è costituito da una suola a forma concava con pendenza verso il foro di colata, contiene la carica metallica e la scoria ed è coperto con una vòlta di mattoni refrattarî. Anteriormente è limitato da una parete nella quale sono praticate le porte di carica, posteriormente da un'altra parete dove è praticato il f0ro di colata ed eventualmente il foro di carica della ghisa liquida. Ai due lati più stretti è limitato dagli sbocchi dei canali dell'aria e del gas. La suola è costituita da un piano di placche metalliche sulle quali poggia un primo strato di mattoni di chamotte: sopra questi, nei forni basici, poggiano due o tre strati di mattoni di magnesite sui quali viene poi pigiata la dolomite cotta impastata con catrame (spessore 50 ÷ 60 cm.). I mattoni di magnesite sono fabbricati con magnesite calcinata e contengono 80 ÷ 85% di MgO, 3 ÷ 5% di SiO2, 3 ÷ 5% di CaO, 4 ÷ 7% di Fe2O2, 0,5 ÷ 1,0% di Al2O2. Hanno il punto di fusione intorno a 2100° ÷ 2200° ma si rammolliscono a 1400° ÷ 1600°, e possiedono una conducibilità termica assai maggiore dei mattoni dinas e chamotte. Le pareti del laboratorio sono costruite in mattoni di silice dinas, i quali contengono il 95 ÷ 98% di silice, il 0,5 ÷ 3% di Al2O3 e il 2% di CaO: quest'ultimo serve come materiale agglomerante; possiedono un forte coefficiente di dilatazione, il loro punto di fusione è di 1770° ÷ 1790° (cono Seger 35 ÷ 36), ma in contatto con ossidi metallici formano dei silicati facilmente fusibili.
Tra la muratura basica (magnesite) e quella acida (silice) si usa mettere uno strato di sostanza neutra (cromite) per impedire che le due sostanze a contatto formino dei composti facilmente fusibili. Nei forni acidi la suola, dopo il rivestimento di chamotte, è guarnita con due o tre corsi di mattoni di silice, sopra ai quali è fatta la suola con quarzo in polvere. La vòlta, tanto se essa è con forno acido quanto se è con forno basico, è costruita con mattoni di silice dinas, di spessore non superiore a 25 ÷ 30 cm., perché possa raffreddarsi ed essere eventualmente protetta contro pericoli di fusione.
La prolondità media del bagno ha una grande importanza sullo svolgimento del processo di affinazione e sulla produzione del forno (in media è di 50 cm.). Un bagno troppo vasto può offrire il pericolo di facile ossidazione del metallo; troppo profondo rende più difficile e lenta la fusione. La lunghezza del laboratorio, fra le teste, varia da 6 a 11 m.; la larghezza da 2 a 4 m., il loro rapporto da 2 : 1 a 3 : 1. Le teste sono la parte più delicata del laboratorio e del forno perché sono esposte alle più alte temperature e perciò più facilmente deperibili. La costruzione di esse deve essere fatta in modo da permettere un buon raffreddamento della muratura per mezzo dell'aria. Affinché l'azione della fiamma sulla carica sia la più efficace possibile, i canali del gas e dell'aria sono inclinati in modo che i loro assi vengano a incontrarsi verso il centro del laboratorio. Il gas e l'aria provenienti dalle camere di ricupero, sboccano in forno a velocità assai elevate (20 ÷ 30 m. al secondo). Allo scopo di proteggere la vòlta da troppo elevate temperature, lo sbocco dell'aria nel laboratorio avviene al disopra del canale del gas in modo che la fiamma sia avvolta come da un velo d'aria che impedisca al gas di salire verso l'alto. Il gas e l'aria provenienti da un gruppo di camere, s'incontrano nel laboratorio ove il gas s'incendia. I prodotti della combustione escono per l'estremità opposta del laboratorio e attraverso all'altro gruppo di camere giungono al camino. In questi ultimi anni sono state studiate e tentate molte modifiche per rendere sempre più duratura la vita delle teste dei forni. Alcuni tipi permettono costruttivamente di cambiare, con una breve fermata del forno, una testa consumata con un'altra nuova (Brevetto Friedrich). Gli Americani ricorrono invece a un notevole raffreddamento delle murature con tubi d'acqua, ma questo sistema in Europa non si è molto diffuso perché dà luogo a una notevole perdita di calore e quindi a un maggior consumo di carbone oltre che d'acqua. Una variante notevole è stata apportata da März col suo tipo di forno nel quale l'aria, anziché entrare superiormente, è fatta arrivare in condotti verticali sotto lo sbocco dei canali del gas ove avviene la miscela (fig. 68).
I ricuperatori sono costituiti da camere rivestite in materiale refrattario e riempite di mattoni pure refrattarî disposti in modo da formare canali attraverso ai quali passano i gas per cedere o assorbire calore. Queste camere sono poste o completamente sotto il forno o posteriormente ad esso. Quasi sempre i gas combusti provenienti dal forno, prima di entrare nei ricuperatori, sboccano in una piccola camera (camera a scoria) nella quale depositano la maggior parte delle scorie che trascinano e che altrimenti sarebbero depositate nei canali degl'impilaggi, ostruendoli Le camere di ricupero sono due per ogni parte del forno, una per l'aria, l'altra per il gas. La prima è più grande della seconda nel rapporto variabile da 4 : 3 a 4 : 2 perché la quantità d'aria da scaldare è maggiore di quella del gas e perché l'aria entra nella camera a temperatura minore che non il gas. L'impilaggio è fatto in genere con mattoni di chamotte disposti in modo da lasciare tra loro dei canali liberi di circa cm. 10 percorsi dai gas nei due sensi a seconda che essi debbono entrare o uscire dal forno. Le camere di ricupero sono perciò nella parte superiore in comunicazione col laboratorio, nella parte inferiore con le valvole d'inversione e col camino.
Tutto il massiccio delle camere e del laboratorio deve essere robustamente armato e ancorato con tiranti e rotaie, per fare contrasto ai movimenti dovuti alle dilatazioni dei refrattarî che sono molto forti. La temperatura della coppia di camere attraverso alle quali passano aria e gas prima di entrare in forno, sarà dopo un certo tempo diminuita, mentre in corrispondenza la temperatura di quelle opposte sarà aumentata per il passaggio dei gas combusti; sarà allora necessario invertire il corso dell'aria e del gas. Per questo si ricorre all'uso di valvole le quali sono collegate alle camere, ai gassogeni e al camino mediante appositi condotti in muratura. Le valvole per l'inversione del gas e dell'aria mettono in comunicazione il gas dei gassogeni e l'aria atmosferica rispettivamente con la propria camera di destra o con quella di sinistra ed i gas bruciati col camino. Molti sono i tipi di valvole usate specie per il gas, e una delle più semplici e delle più diffuse è la valvola Forter (fig. 69). Essa è composta da una base di ghisa munita di tre aperture, delle quali le due estreme sono in comunicazione ognuna con una camera del gas, la centrale col camino. Sulla base poggia una cassa di lamiera dalla cui sommità entra il gas proveniente dai gassogeni, e nel cui interno vi è una campana mobile che collega sempre una delle due aperture laterali con quella centrale che va al camino. La chiusura della cassa con la vasca di base è idraulica. Nella posizione della fig. 69 il gas entrando nella cassa trova libera l'apertura di sinistra, entra in questa camera e sale al forno dove brucia a contatto dell'aria. La parte dei prodotti della combustione che escono dal forno attraversando la camera gas di destra vengono a sboccare sotto la campana dall'apertura di destra e sono aspirati al camino dall'apertura centrale. Volendo invertire la direzione del gas basta spostare, a mezzo di leve, la campana mobile da destra a sinistra: durante questo spostamento il gas proveniente dai gassogeni è aspirato direttamente al camino causando una perdita non indifferente di energia, che si è tentato di eliminare con alcune valvole speciali ma più complicate e non scevre d'inconvenienti. Per l'inversione dell'aria si usa una semplice valvola a farfalla. Il camino ha il compito di aspirare i gas combusti e il suo effetto si fa sentire nel laboratorio fino all'orificio di uscita dei prodotti della combustione. Nell'interno del laboratorio non deve esservi né pressione né depressione affinché dalle porte non si abbia uscita di fiamme né ingresso d'aria.
I forni Martin, oltre che con gas di gassogeno, possono essere riscaldati con gas di forni a coke puro o mescolato con gas d'alto forno. Il consumo di gas di forni a coke, avendo questo un potere calorifico di 3700 ÷ 4000 Cal./mc., è di circa 300 ÷ 350 mc. per tonn. di acciaio. In questo caso la regolazione della temperatura del forno può avvenire variando oltre alla quantità d'aria anche la composizione della miscela (potere calorifico del gas di alto forno, 900 ÷ 1000 Cal./mc.). Col riscaldamento dei forni Martin con gas di forni a coke si ha un notevole progresso perché viene realizzato il principio di utilizzare questo gas più ricco là ove occorrono le maggiori temperature, mentre i forni che richiedono temperature notevolmente inferiori possono venir riscaldati con gas di gassogeno (potere calorifico 1200 Cal./mc.).
In America era stato anche applicato il riscaldamento a carbone polverizzato, ma recentemente questo sistema è stato abbandonato per tornare ancora al riscaldamento con gas di gassogeno. La ragione dell'abbandono dell'uso del carbone polverizzato, sebbene la gassificazione sia più costosa che non la polverizzazione del carbone, è dovuta all'alto costo di manutenzione dei forni per la minor durata delle murature e delle camere, assai facilmente ostruite dalle polveri e dalle ceneri. Nella tabella seguente sono indicate le spese per la gassificazione e per la polverizzazione di 1 tonn. di carbone (dati forniti da un'acciaieria americana).
Il rendimento termico dei forni Martin non è molto alto perché circa il 40 "o del calore è perduto per irradiazione, il 30% è contenuto nei gas che escono dal camino ad una temperatura di 500° ÷ 700°, la quale è in parte necessaria per ottenere un sufficiente tiraggio. In alcuni casi si utilizza il calore contenuto nei gas perduti per la produzione di vapore e di energia elettrica. Quando i forni Martin hanno capacità di 200 ÷ 300 tonn., essi sono del tipo oscillante (fig. 70) anziché fisso; le teste però sono fisse e il solo laboratorio è mobile. Il movimento di rotazione è idraulico o elettrico. I forni oscillanti sono soprattutto indicati per quei processi nei quali si lavorano grandi masse di acciaio, per es.: forni Talbot. Come costruzione debbono essere molto più robusti e più solidamente armati che non quelli fissi.
Processo al forno Martin basico. - Nel procedimento Martin basico vengono eliminate per ossidazione dal bagno di acciaio molte delle sostanze estranee che accompagnano il ferro, e cioè il carbonio, il silicio, il manganese, lo zolfo, il fosforo; impurezze di altra natura (rame, arsenico, ecc.) non vengono invece eliminate.
Nel processo di lavorazione più diffuso, quello ghisa-rottame, la carica è composta col 20% 35% di ghisa e col 65 ÷ 80% di rottami di ferro. La ghisa serve a proteggere il ferro dall'ossidazione con gli elementi estranei che essa contiene. Alla carica si deve aggiungere una sostanza basica, calcare, per l'eliminazione del fosforo e di parte dello zolfo.
La combustione del carbonio s' inizia col principiare della fusione, con produzione di ossido di carbonio che sfugge allo stato gassoso; talvolta, quando il bagno è molto ricco di carbonio, lo svolgimento dell'ossido è così abbondante e violento, da rendere la scoria molto schiumosa e da aumentarne il volume in modo tale che essa trabocca dalle porte. Il carbonio può essere eliminato quasi totalmente (la quantità minima che resta nel ferro varia da 0,05 ÷ 0,06%).
L'ossidazione del fosforo può avvenire soltanto in presenza di scoria basica che può fissarlo sotto forma di tetrafosfato di calcio, e solamente dopo che è stata eliminata la maggior parte del carbonio, esercitando questo una azione riducente sulla scoria. Perciò quando alla fine della operazione si fanno aggiunte di disossidanti, contenenti carbonio, si ha sempre un ritorno di fosforo dalla scoria nel bagno. Il silicio, in presenza di scorie basiche viene ossidato rapidamente con notevole sviluppo di calore e formazione di silicati: se la scoria non è sufficientemente basica, il silicio corrode la suola sottraendole le basi necessarie. Ghise molto siliciose non sono perciò adatte per l'affinazione su suola basica.
Il manganese è invece ossidato lentamente durante tutta l'operazione, con formazione di ossido di manganese. Lo zolfo è eliminato in parte sotto forma di solfuro di manganese, quando nella carica vi è manganese in eccesso, e parte sotto forma di solfuro di calcio. Una scoria ossidante però ossida il solfuro di calcio a solfato, e questo reagisce col ferro ed è ridotto a solfuro nella maniera seguente:
L'eliminazione sicura dello zolfo non può quindi avvenire al Martin per l'impossibilità di avere in esso scorie riducenti; inoltre il ferro assorbe anche facilmente lo zolfo contenuto nel gas:
I varî procedimenti di lavoro, al forno Martin basico, sono i seguenti:
a) processo ghisa-rottame. - È il sistema più antico e più diffuso poiché risponde esattamente al principio per il quale fu creato il forno Martin, e cioè l'utilizzazione dei grandi quantitativi di rottami di ferro esistenti sul mercato. Quando il forno è caldo si carica calcare sulla suola e s'introduce la carica metallica.
La ghisa viene caricata per ultima perché, avendo essa un punto di fusione più basso di quello del ferro, a mano a mano che fonde sgocciola su questo e ne facilita la fusione. Altro calcare viene messo davanti alle porte del forno. Avvenuta la fusione comincia l'eliminazione del carbonio ed il bagno si mette in ebollizione per le bollicine di ossido di carbonio che escono da esso: si dice che il bagno "lavora". Si spinge nel forno la calce che si trova sulle porte ed hanno così inizio tutte le reazioni sopra descritte. La composizione del metallo è sorvegliata prelevando di tanto in tanto un campione (provetta) ed esaminandone le proprietà. Se il bagno contiene troppo carbonio si può accelerarne l'eliminazione aggiungendo ossidi di ferro. Se invece, a fusione avvenuta, si trova che il bagno è troppo decarburato e ancora sufficientemente caldo, si aggiunge ghisa in pani. Quando si è raggiunta la voluta composizione si aggiungono i disossidanti (FeMn all'80%) per eliminare l'ossido di ferro formatosi, e l'acciaio viene colato nella secchia (siviera) e nelle lingottiere.
Il calo varia, a seconda della qualità della carica e della qualità e quantità della ghisa, dal 5 al 10%. Il consumo di carbone, a seconda della qualità del combustibile, del tipo di gassogeno, del tipo e delle dimensioni del forno, della qualità del rottame, ecc., può variare dal 22 al 32% dell'acciaio prodotto. Adoperando ghisa liquida si ha una abbreviazione del periodo di fusione di circa il 10%.
Variante di questo sistema di lavorazione è quello a rottame-carbone, nel quale cioè la ghisa è sostituita in tutto o in parte dal carbone e il manganese dal minerale di manganese.
b) processo ghisa-minerale. La carica è composta da 5 ÷ 6% di calcare, 0 20% di rottame, 10 ÷ 15% di minerale di ferro. Prima che il rottame ed il minerale siano fusi, si versa lentamente (per evitare reazioni violente di sviluppo di ossido di carbonio) la ghisa liquida in quantità variante da 80 ÷ 100°. Si manifesta allora uno svolgimento violento di ossido di carbonio, e la scoria schiuma e defluisce liberamente dalle porte. Ciò concorre a diminuirne la quantità e ad accelerare l'operazione, ma determina anche un' inevitabile perdita di metallo. Se è necessario, mentre le reazioni si svolgono, si aggiunge minerale e calcare.
Il calo diminuisce con l'aumentare della ghisa caricata, e con cariche di 80 ÷ 100 di ghisa liquida e 18 ÷ 20% di minerale si può ottenere un prodotto netto di ferro metallico superiore al peso della carica metallica (102 ÷ 105%).
c) processo Bertrand-Thiel. - Dovendo affinare una ghisa avente un elevato tenore di fosforo sarebbe molto difficile ottenere una buona defosforazione con una sola operazione. S'immaginò allora di utilizzare due forni, nel primo dei quali avveniva quasi completamente la defosforazione, mentre nel secondo si completava l'affinazione. I due forni erano posti a livelli differenti. La ghisa liquida parzialmente affinata nel forno superiore con aggiunte di minerale e calcare (ossidazione completa del silicio e quasi completa del fosforo) veniva colata mediante un canale nel forno inferiore con eliminazione della scoria. Aggiungendo rottame e calcare, nel forno inferiore si compiva l'affinazione.
d) processo Hoesch. - Questo procedimento non è che un perfezionamento di quello Bertrand-Thiel, le due fasi del processo essendo compiute in un sol forno. La ghisa defosforata viene colata dal forno in una secchia e da questa, dopo eliminazione della scoria, nuovamente versata nello stesso forno. Il processo si divide nettamente in due periodi: nel primo vengono eliminate quelle sostanze che dànno prodotti di ossidazione solidi, e cioè silicio, fosforo e manganese, mentre nel secondo viene ossidato principalmente il carbonio. L'operazione si svolge nel modo seguente: il forno viene caricato con rottame di ferro e ghisa tipo Thomas (70 ÷ 80% della carica) alla quale viene aggiunto il 20 ÷ 26% di minerale di ferro, scaglie di laminatoio, ecc., e il 10% di calcare. Quando il carbonio è sceso a circa 1,5%, il metallo viene colato in una secchia e la scoria ricca di fosforo eliminata. Chiuso il foro di colata del forno, e aggiuntovi nuovo rottame, il metallo liquido viene nuovamente caricato nel forno e nel secondo periodo completamente defosforato e decarburato. La scoria proveniente dal primo periodo (12 ÷ 15% del prodotto) contiene il 20 ÷ 25% di anidride fosforica e viene utilizzata come fertilizzante.
Un forno di 30 tonn. può dare una produzione in 24 ore di 125 tonn. di acciaio, con un consumo di carbone del 26 ÷ 28%.
e) processo duplex. - Il processo duplex di Vitkovice abbina il Bessemer ed il Martin ed è dovuto soprattutto alla circostanza locale che le officine di Vitkovice producono ghise sufficientemente siliciose da poter esser decarburate in un Bessemer, ma con un tenore di fosforo tale che, pur richiedendo un'affinazione su suola basica, è insufficiente per l'impiego al Thomas.
La ghisa, con la seguente composizione media C = 3,5%, Si = 1,3%, Mn = 2,50%, P = 0,3 ÷ 0,5% viene soffiata per circa 8 minuti nel convertitore Bessemer, ed il metallo che si ottiene (C = 0,10%, Mn = 0,25%, P = 0,4%) viene versato nel forno Martin basico e delosforato. Il lavoro del forno Martin è molto ridotto, ma questo sistema richiede due impianti completi ed è perciò assai costoso.
f) processo Talbot. - Questo è un processo continuo che viene praticato con forni oscillanti di grande capacità (100 ÷ 250 tonn.). Esso è basato sul fatto che la decarburazione avviene con la maggiore intensità quando il carbonio contenuto nel metallo si aggira intorno a 1,5%. La lavorazione si svolge così: al principio della settimana il forno viene caricato completamente con rottame di ferro, ghisa, calce e minerale e la fusione viene condotta regolarmente fino ad ottenere acciaio.
Una parte di questo, circa il 25%, viene allora colato in una secchia nella quale si aggiunge la necessaria quantità di ferro manganese, e quindi colato in lingotti; dopo le riparazioni del forno, al bagno in esso rimasto si aggiunge calce e minerale, s'innalza la temperatura e si ricompleta la carica con ghisa liquida. Quando tutta la carica è affinata si ripete l'operazione, e così di seguito. La produzione di un forno Talbot non si desume soltanto dalla capacità del forno ma anche dalla composizione della ghisa e soprattutto dal suo tenore di fosforo. Con una ghisa povera di fosforo si è ottenuta con un forno di 170 tonn. una produzione, in 24 ore, di 160 tonn., mentre con una ghisa col 2% di fosforo la produzione è scesa a 100 tonnellate. Questo sistema presenta l'inconveniente che la disossidazione non può avvenire che nella secchia e quindi non può esser perfetta; ma ha il vantaggio della forte produzione e dell'economia di combustibile (23 ÷ 25%). L'impianto è però costoso.
g) processo al forno Martin acido. - Il forno acido non ha grande applicazione perché, per la sua natura, richiede una carica di materiale assai povero di fosforo. Durante l'affinazione, carbonio, silicio e manganese si ossidano lentamente e continuamente, ma silicio e manganese non scendono al disotto di 0,10%. In seguito all'elevato tenore di silicio contenuto nel bagno si ha un acciaio privo di soffiature, e perciò questo processo di lavorazione è specialmente usato per fonderie e per ottenere acciai fini, perché, data la piccola quantità di scoria che si ha nel forno, è più facile ottenere acciai esenti da inclusioni non metalliche.
Fossa di colata. - La fossa di colata è sempre parallela alla tettoia dei forni ed è bene che sia più larga possibile (25 ÷ 30 m.) perché in essa, oltre al posto necessario per colare l'acciaio vi deve esser spazio per le secchie di colata o siviere, per il deposito delle lingottiere, per l'ammucchiamento dei lingotti, per lo sgombro delle scorie, ecc. L'acciaio liquido, sia esso prodotto al Bessemer, al Thomas o al forno Martin, viene colato e raccolto nella secchia di colata, costituita da un recipiente di lamiera a forma di pentola (spessore della lamiera 10 ÷ 20 mm.), sospeso a mezzo di due perni posti poco sopra la linea del baricentro perché abbia tendenza a non rovesciarsi, e rivestito internamente e sul fondo di materiale refrattario. La capacità della secchia deve essere superiore di almeno il 20 ÷ 25% alla portata normale dei forni, sia per poter accogliere almeno una parte della scoria che serve a proteggere l'acciaio da eccessivo raffreddamento durante la colata, sia per accogliere colate eccezionalmente più pesanti dell'ordinario. Si hanno pertanto secchie di capacità variabile da 10 a 100 e più tonnellate (figg. 75, 76). Sul fondo delle secchie sono praticati uno o due fori che possono venire aperti o chiusi a mezzo di un tappo refrattario mosso da opportune leve, e attraverso ai quali l'acciaio viene versato nelle lingottiere. Le lingottiere sono recipienti generalmente di forma quadrata, più raramente di forme diverse per lavorazioni speciali (rotonde per fabbricazione di tubi laminati, rettangolari e appiattite per lamiere, ecc.), fabbricate quasi sempre in ghisa ematite, più raramente in acciaio. Le dimensioni variano, a seconda del tipo di lingotto che si vuol ottenere, da un peso minimo di 50 kg. a quello di 50 e più tonnellate. La figura 77 rappresenta una lingottiera di tipo normale. Le dimensioni non possono essere fissate ad arbitrio ma sono invece legate da regole oramai sancite dalla pratica (per esempio, il peso della lingottiera e quello del lingotto stanno in proporzioni variabili da 1,2 ÷ 2,00, il rapporto fra altezza e dimensione di un lato del lingotto varia da 3 a 7, ecc.), a seconda degli usi ai quali il lingotto deve servire (p. es., se per fucinatura o laminazione). Normalmente le lingottiere hanno la sezione superiore minore di quella inferiore: questa differenza, chiamata rastremazione o conicità ed espressa in percento dell'altezza, ha lo scopo principale di facilitare l'uscita del lingotto dalla lingottiera quando il lingotto è stato colato, e in generale varia dal 1,5 ÷ 3%. Quando si vogliano produrre lingotti di acciaio più fino si ricorre invece a lingottiere dette rovesciate, aventi cioè la base maggiore rivolta verso l'alto; in tal modo si facilita la salita delle particelle di scoria trascinate durante la colata, e inoltre si riduce la parte di lingotto che deve essere spuntata perché non sana.
Le lingottiere possono essere riempite in due modi diversi sia versando l'acciaio dall'alto, sia facendolo entrare dal basso. In questo secondo caso le lingottiere sono posate su una placca di ghisa munita di scanalature nelle quali sono alloggiati dei tubi di materiale refrattario, muniti di aperture attraverso alle quali passa l'acciaio (fig. 78). In corrispondenza di ogni apertura si dispone una lingottiera. L'acciaio viene colato da una canale centrale e da questo risale nelle lingottiere. Il primo metodo si chiama della colata diretta o in cascata, il secondo della colata in sorgente e ognuno di essi presenta naturalmente vantaggi e svantaggi. I vantaggi della colata diretta sono: l'ultimo acciaio colato nella lingottiera è il più caldo, e ciò nella solidificazione del lingotto è un bene; non si hanno perdite di acciaio per radici, colonne, ecc. (si chiamano radici i pezzi di acciaio che restano nei canali refrattarî delle placche); si ha però lo svantaggio che la superficie del lingotto non è molto liscia e che facilmente i lingotti essendo stati colati troppo in fretta risultano screpolati. A quest'ultimo inconveniente si può rimediare interponendo tra secchia e lingottiere una paniera di refrattario dalla quale l'acciaio può essere versato in due o più lingottiere (fig. 79). La colata in sorgente è invece indispensabile quando si vogliono colare lingotti molto piccoli (si hanno placche con 70 ÷ 80 lingotti colati contemporaneamente) che sarebbe impossibile colare dall'alto. In queste placche l'acciaio sale molto lentamente ma l'ultimo colato, e perciò più caldo, invece di trovarsi nella parte più alta si trova nella parte più bassa. Con ciò s'impedisce il rapido rimontare alla superficie delle scorie trascinate e questo svantaggio è unito a quello della perdita di acciaio per radici di colata e che viene utilizzato come rottame. Questa perdita varia col numero e peso dei lingotti colati per ogni placca, e in media si aggira intorno al 2,5%. Bisogna ancora calcolare la spesa del materiale refrattario necessario alla guarnitura delle placche e che secondo il loro tipo, il numero e la sezione dei lingotti colati può variare da 10 ÷ 30 kg. per tonn. di acciaio prodotto.
Solidificazione dell'acciaio e fenomeni che l'accompagnano. - Nella produzione di lingotti l'acciaio viene colato in lingottiere di ghisa di forte spessore, le cui pareti sottraggono rapidamente calore al metallo fuso costringendolo a solidificare dall'esterno all'interno. L'acciaio, passando dallo stato liquido a quello solido, si contrae di una quantità praticamente uguale a un cinquantesimo delle sue dimensioni lineari. La grandezza del ritiro dell'acciaio può essere ritenuta, senza errore sensibile, proporzionale alla caduta di temperatura, e se il raffreddamento potesse avvenire in maniera uniforme in tutta la massa, ogni particella si contrarrebbe nella stessa misura. Condizioni simili non si verificano tuttavia in pratica perché la porzione di acciaio in immediato contatto con la parete fredda della lingottiera viene da questa rapidamente raffreddata con formazione di una crosta sottile di acciaio solidificato. La solidificazione della restante massa liquida avviene per strati paralleli. Per rendersi conto dei fenomeni che avvengono nel lingotto per effetto del raffreddamento, si pensi una lingottiera di forma perfettamente sferica, ripiena di acciaio liquido ed avente il diametro di 20 cm. Lo spessore della lingottiera sia uniforme in modo che la dispersione di calore avvenga ugualmente in tutte le direzioni. Se la sfera, durante il raffreddamento dell'acciaio e fino a solidificazione completa, viene fatta rotolare in tutte le direzioni per annullare l'effetto della gravità che tende naturalmente a far raccogliere l'acciaio liquido nel fondo, si ottiene una sfera di acciaio di 20 cm. ma con una cavità sferica centrale di volume uguale alla differenza di volume esistente tra l'acciaio liquido e l'acciaio solido. Se invece la sfera fosse costituita di materiale perfettamente isolante, e l'acciaio posto sul suo interno potesse con un mezzo qualsiasi essere raffreddato dall'interno all'esterno, si avrebbe un deposito di acciaio per strati concentrici attorno ad un nucleo centrale e si otterrebbe una sfera con il diametro massimo di cm. 19,6. Nell'uso pratico le lingottiere sono costituite da forme metalliche a sezione per lo più quadrata, sprovviste di coperchio e appoggiate su un fondo piano pure metallico. Appena l'acciaio è versato nella lingottiera, esso si solidifica nelle parti a contatto con la lingottiera e col fondo e sulla faccia esposta all'aria. Procedendo la solidificazione e intervenendo il fenomeno del ritiro, la sottile crosta superiore perde il suo appoggio e cade, mentre gli strati laterali aumentano il loro spessore per il successivo depositarsi di altro metallo. In questo frattempo il livello del metallo liquido nel centro si abbassa mentre le parti laterali superiori aumentano il loro spessore. Ne risulta una cavità a forma di cono rovesciato (fig. 80) chiamato appunto cono di ritiro. In certe condizioni, per esempio usando notevoli quantità di silicio o specialmente di alluminio, il cono di ritiro si può prolungare per buona parte del lingotto. Il raffreddamento della porzione centrale di un lingotto si può considerare come conseguenza della perdita di calore attraverso alle pareti della lingottiera, e se la lingottiera dal fondo alla sommità ha la stessa sezione, i cristalli di ferro si formeranno normalmente alle pareti e tenderanno ad incontrarsi nel centro. Tuttavia, dovendo l'acciaio ritirarsi nel raffreddamento, ed essendo la crosta esterna molto resistente, il ritiro avverrà nel centro, e per conseguenza sull'asse del lingotto solidificato si troveranno delle piccole cavità. Si ha così un cono secondario di ritiro. I cristalli che si formano perpendicolarmente alle pareti della lingottiera s'incontrano sulle diagonali della lingottiera e formano dei piani di frattura che facilmente sono origine di spaccature, specialmente nella fucinatura. La dimensione di questi cristalli è legata alla velocità di raffreddamento, e la loro disposizione è visibile nella fig. 81. L'influenza della temperatura di colata sulla qualità dei lingotti prodotti è molto grande perché la grandezza del cono di ritiro aumenta col crescere della temperatura e anche perché, con l'aumentare di questa, aumenta la grandezza della cristallizzazione primaria del lingotto, e quindi la facilità di rotture sui piani diagonali di saldatura dei cristalli.
La spiegazione del fenomeno della formazione del cono di ritiro suggerisce anche i mezzi per limitarlo ma non per eliminarlo. Si deve cioè ritardare la solidificazione della parte alta del lingotto in modo che il cono di ritiro resti limitato in questa, e ciò si può ottenere munendola di un rivestimento refrattario (materozza) il quale sottragga all'acciaio meno calore che non la parete metallica della lingottiera. Migliori risultati si ottengono se la materozza è applicata a una lingottiera rovesciata. Mentre con lingotti comuni il cono di ritiro può occupare anche il 30 ÷ 40% del lingotto, con lingottiera a conicità rovescia, munita di materozza, esso può esser sicuramente mantenuto entro il limite del 15 ÷ 20%. La fig. 82 rappresenta la forma di una materozza la quale deve essere rivestita di materiale refrattario.
Il vantaggio portato dall'uso della lingottiera rovesciata può rilevarsi dalla fig. 83, in cui è rappresentato schematicamente il modo nel quale avviene la solidificazione di un lingotto di acciaio a conicità diretta (A) e a conicitȧ rovescia (B). Possiamo ritenere nel primo caso che il raffreddamento avvenga per strati paralleli al fondo e alle pareti della lingottiera. Il punto nel quale due linee interne s'incontrano indica che l'acciaio contenuto nel piano trasversale passante per quel punto è tutto solidificato. La cavità al di sopra di quel piano rappresenta il cono primario. Ma nel triangolo indicato con K vi è ancora metallo liquido contenuto in uno spazio chiuso completamente, il quale darà luogo, nella sua solidificazione, al cono secondario di ritiro. Nel secondo caso invece, con analogo ragionamento, si vede che il cono secondario è completamente eliminato, e che quello primario viene ridotto di dimensione. Sono stati studiati e applicati altri sistemi per ottenere lingotti sani, specialmente nel caso di lingotti molto grossi per corazze, ecc., ma si tratta d'impianti assai costosi non usati nella pratica comune (metodo di Hadfield, Harmet, ecc.).
L'acciaio dopo solidificazione non è mai compatto; assai frequentemente esso presenta numerose cavità più o meno visibili chiamate soffiature, le quali generalmente scompaiono nella laminazione senza dare luogo a difetti visibili, ma senza che le pareti interne si saldino. Esse sono dovute alle quantità notevoli di sostanze gassose (contenute in soluzione nel bagno o che si originano per reazione fra sostanze in esso disciolte) come ossido di carbonio, azoto, idrogeno, le quali si liberano durante la solidificazione dell'acciaio. Quando invece l'acciaio è molto ossidato, oppure viene colato in lingottiere aventi le superficie interne molto arrugginite o comunque coperte di ossido di ferro, le soffiature sono molto grosse e il lingotto diviene inutilizzabile. Nel caso di acciai dolcissimi, convenientemente disossidati: lo svolgimento dei gas avviene regolarmente e mentre la periferia del lingotto solidifica compatta, la parte centrale resta spugnosa senza peraltro arrecare nocumento nella laminazione. Quando l'acciaio svolge troppo violentemente i gas che contiene disciolti e ribolle tanto fortemente da aver la tendenza a traboccare dalle lingottiere, può essere calmato con piccole aggiunte di alluminio metallico o di ferro silicio.
Unitamente al fenomeno del cono di ritiro si presenta, nella solidificazione di lingotti, anche il fenomeno della liquazione. L'acciaio ottenuto per fusione è omogeneo fino a tanto che si trova allo stato liquido; ma al momento della solidificazione nelle lingottiere questa omogeneità scompare, perché non avvenendo essa istantaneamente in tutta la massa, si verifica, come in tutte le leghe, una separazione di una parte dei costituenti dell'acciaio in proporzione differente per ciascuno di essi. Questa liquazione avviene nelle parti che restano liquide per ultimo, e quindi nella parte più alta e centrale, specialmente se il lingotto è colato in cascata. La segregazione è tanto più sensibile quanto più il lingotto è grosso, il raffreddamento lento e la temperatura di colata più alta. Le soffiature variano di posizione e grandezza nell'interno del lingotto a seconda della temperatura alla quale il metallo è colato. Infatti se l'acciaio è colato molto caldo oppure molto freddo, le soffiature si dispongono alla periferia del lingotto immediatamente sotto la crosta. Il fatto di ottenere lo stesso risultato partendo da due cause opposte si può spiegare considerando che nel caso dell'acciaio caldo si ha uno sviluppo violento di gas con proiezioni di particelle di metallo sulle pareti della lingottiera, ove istantaneamente si solidificano e ossidano; nel caso di acciaio colato freddo, invece, le particelle di acciaio in contatto con la superficie vengono rapidamente raffreddate e ossidate; per conseguenza tanto in un caso quanto nell'altro, particelle di metallo ossidato vengono ricoperte di acciaio liquido. L'ossido di ferro reagisce col carbonio contenuto nell'acciaio formando ossido di carbonio che, non potendo più sfuggire all'esterno, resta racchiuso sotto forma di soffiature, le quali durante la laminazione dànno luogo a difetti superficiali del prodotto ottenuto. Infatti, durante il riscaldamento dei lingotti prima della laminazione, il piccolo strato di acciaio che separa la cavità dall'esterno brucia e le pareti interne si ossidano con formazione di piccole scorie, che durante la laminazione vengono allungate e appaiono nel laminato in forma di righe superficiali. La fig. 84 rappresenta infatti la sezione trasversale di una barra laminata nella quale si vede chiaramente, intorno al bordo, la traccia delle righe longitudinali. Nella colata in sorgente la segregazione è più pronunziata nel centro e nella parte bassa del lingotto perché sono quelle che restano più a lungo liquide. L'entità della segregazione varia nei diversi elementi con la loro densità rispetto a quella del ferro, e varia anche con l'affinità che essi hanno per questo elemento: essa cresce dal carbonio al fosforo allo zolfo. Manganese e silicio segregano invece pochissimo. L'uso della materozza è indicato anche per eliminare le segregazioni, perché la maggior parte di queste resta compresa in essa.
Carico e scarico dei materiali. - Un'acciaieria di una certa importanza ha un notevole movimento giornaliero di materiali e cioè: arrivo di materie prime (rottami, ghisa, carboni, ecc.), movimento dei lingotti giornalmente prodotti, delle scorie, ecc. Essa deve perciò poter disporre di piazzali per il deposito di queste materie prime, sufficienti per almeno due mesi di funzionamento.
Lo spazio deve quindi essere calcolato senza economia e i piazzali debbono essere serviti da adeguati impianti di binarî a scartamento normale e ridotto, di mezzi meccanici per il carico e scarico dei materiali, mezzi di sollevamento, ecc. Ottimo servizio per il movimento dei materiali metallici è fatto dai magneti, con grande risparmio di personale.
Servizî accessorî. - Ogni acciaieria non è completa se non dispone di una quantità di servizî accessorî che sono indispensabili per la preparazione del rottame prima dell'infornamento, e cioè taglio a mezzo di cesoie e fiamma ossidrica, impianto di berta per la spezzatura di grossi blocchi che non si possono tagliare alla cesoia né sarebbe economico tagliare con l'ossigeno, impianto di presse idrauliche o meccaniche per l'impacchettatura del lamierino. Per quanto riguarda i forni e la loro manutenzione, occorre provvedere a un impianto per la macinazione della dolomite cotta (per i forni Martin e Thomas). Generalmente la dolomite (carbonato doppio di magnesio e calcio CaO = 30%, MgO = 20%, SiO2 = 1 ÷ 1,5%, Fe + Al = 1 ÷ 2%, perdita al fuoco 47 ÷ 48%) viene prodotta da stabilimenti a parte e spedita alle acciaierie o in reparti separati dall'acciaieria stessa. La cottura avviene in forni a manica, con consumo di coke variante dal 20 al 30% del peso della pietra cruda. La dolomite calcinata è facilmente igroscopica e deve essere conservata in cassoni chiusi. Prima di essere adoperata viene macinata in pezzatura pisello-nocciola con frantumatori speciali a cono o a mascelle.
Occorre poi disporre di un magazzino coperto per il ricovero dei diversi tipi di mattoni refrattarî occorrenti alla costruzione e manutenzione dei forni, e di macine occorrenti alla preparazione delle terre refrattarie per le murature.
Fra i paesi europei occupa il primo posto, per ricchezza di minerali di ferro, l'U. R. S. S.: il contenuto metallico delle riserve accertate ascende a circa 16.000 milioni di tonnellate, in confronto a 3200 milioni per la Francia, a 2000 milioni per la Gran Bretagna, a 1400 milioni per la Svezia, a 600 milioni per la Spagna, a 500 milioni per la Germania. Le riserve presunte sono grandissime nell'U. R. S. S., e poi specialmente considerevoli nella Gran Bretagna, in Francia, in Germania, in Norvegia. In Asia, l'India dispone di considerevoli riserve accertate, con un contenuto metallico di 2200 milioni di tonnellate; la Cina ne possiede per 500 milioni. Cospicue riserve presunte si trovano nell'India. Nell'Africa le riserve accertate sono relativamente scarse: il contenuto metallico di esse supera i 500 milioni di tonnellate nell'Unione Sudafricana; è di gran lunga minore negli altri paesi. Ma più poderose riserve presunte sono possedute dalla Rhodesia, dall'Africa Occidentale Britannica e dalla stessa Unione Sudafricana. Gli Stati Uniti emergono fra tutti i paesi americani per l'ampiezza dei giacimenti ferriferi contenuti nel loro territorio: soltanto da quelli accertati si calcola di poter ottenere più di 4900 milioni di tonnellate di metallo. Il Brasile, con 4600 milioni di tonnellate; Terranova, con 2100 milioni; Cuba, con 1300 milioni, sono gli altri paesi maggiormente dotati. S0no enormi le riserve degli Stati Uniti, cospicue quelle del Canada e di Cuba, e pur notevoli quelle di Terranova.
L'intensità con la quale vengono sfruttati i giacimenti di minerali di ferro è molto differente nei diversi continenti e nei varî paesi. Costituiscono condizioni favorevoli a un attivo sfruttamento: la vicinanza delle miniere al mare o a vie acquee interne, che consentono trasporti con basso costo; la prossimità a miniere di carbon fossile, del quale occorrono grandi quantità nelle varie fasi della siderurgia, dalla fabbricazi0ne della ghisa alla lavorazione dell'acciaio; la presenza di popolazioni dense e industrialmente progredite, che richiedono molti e svariati prodotti siderurgici. La grande industria siderurgica moderna si è sviluppata anzitutto nella Gran Bretagna, dove concorrevano tutte le condizioni favorevoli; ancora intorno al 1800 la produzione annua della ghisa superava però di poco le 150 mila tonnellate nella Gran Bretagna, mentre probabilmente non giungeva a 300 mila nel mondo intero. Verso la metà del sec. XIX la produzione britannica, 2,4 milioni di tonnellate, corrispondeva ancora a circa la metà della produzione mondiale di 4,9 milioni; accanto ad essa comparivano già ragguardevoli le produzioni della Francia, degli Stati Uniti, della Germania, della Russia. Nel 1900 la produzione mondiale della ghisa raggiungeva 41,2 milioni di tonnellate, dei quali 14,0 milioni dati dagli Stati Uniti, 9,1 milioni dalla Gran Bretagna, 7,6 milioni dalla Germania, 2,7 milioni dalla Francia. Nello scorso secolo, dunque, la produzione mondiale della ghisa si è più che centuplicata, mentre la popolazione del mondo non è neppur triplicata: la Gran Bretagna ha aumentato sessanta volte la sua produzione siderurgica mentre la sua popolazione è divenuta meno che tripla. Questi confronti sono atti a mostrare la grandiosa estensione degli usi del ferro avvenuta nel sec. XIX. L'evoluzione continua nel nostro secolo: la produzione della ghisa nel 1929 ascende a 98 milioni di tonnellate, di cui 43,6 milioni dati dagli Stati Uniti, 15,5 milioni dalla Germania (compreso il territorio della Saar), 10,4 milioni dalla Francia, 7,7 milioni dalla Gran Bretagna. Lo sviluppo economico degli Stati Uniti ha consolidato ed esteso la loro egemonia, mentre le conseguenze della guerra hanno rallentato il progresso dell'Europa; le modificazioni di confini sanzionate col Trattato di Versailles hanno avvantaggiato la Francia a danno della Germania, privata delle ricche riserve lorenesi di minerali di ferro e di una parte dei giacimenti di carbone altoslesiani.
La crescente estensione degl'impieghi del ferro nel mondo fa aumentare progressivamente la mole dei prodotti siderurgici che vengono messi fuori uso in seguito a logoramento, rottura, demolizione, ecc., e quindi mette a disposizione della siderurgia quantità sempre maggiori di rottami di ghisa, di ferro, e di acciaio, nuovamente utilizzabili specialmente per la produzione dell'acciaio. Avviene perciò che, mentre per lungo tempo la quantità dell'acciaio prodotto nel mondo si è mantenuta inferiore a quella della ghisa, ora il senso della differenza è invertito. Nel 1913 si producevano 79 milioni di tonnellate di ghisa e 76 milioni di acciaio; nel 1929 si sono prodotti 98 milioni di tonnellate di ghisa e 121 milioni di acciaio. L'aumento relativamente maggiore della produzione dell'acciaio è derivato anche dalla tendenza sempre più diffusa a surrogarlo alla ghisa nella fabbricazione di prodotti siderurgici.
Nell'esporre alcuni dati statistici sul recente andamento dell'industria siderurgica mondiale, poniamo accanto ai dati sulla produzione della ghisa quelli sulla produzione dell'acciaio: gli uni e gli altri espressi in milioni di tonnellate. Crediamo superfluo avvertire che la forte diminuzione nel biennio 1930-31 costituisce il riflesso della grave depressione dell'economia mondiale in questo periodo.
L'industria siderurgica mondiale è suddivisa fra molti paesi, ma mostra nettamente tre principali sedi: una nell'America settentrionale (Stati Uniti, Canada); un'altra nell'Europa centrale (Germania, Francia, Lussemburgo, Belgio); una terza nella Gran Bretagna. Nel 1929 la produzione dell'acciaio è salita a 59 milioni di tonnellate nella regione nordamericana, a 35 milioni in quella centro-europea, a 10 milioni in quella britannica e a 17 milioni nel resto del mondo. Indichiamo la produzione di ghisa e acciaio nei principali paesi siderurgici nello stesso anno 1929; tutti i dati sono espressi in milioni di tonnellate.
Indichiamo anche la distribuzione per continente della produzione dell'acciaio: Europa 58,4, Asia 2,9, Africa... (quantità trascurabile), America 58,7, Oceania o,4.
La mancanza o la scarsa potenzialità delle industrie siderurgiche in paesi che pur abbisognano di grandi quantità di prodotti di tali industrie determina la formazione di ampie correnti di traffico internazionale, come quelle dirette verso le repubbliche sudamericane. Altre correnti sono determinate, o almeno favorite, dalle differenti condizioni dei varî paesi produttori di ferro: p. es. la Francia, essendo ricchissima di minerali ferriferi, ma non altrettanto ricca di carbone, esporta minerali di ferro e importa carbon fossile naturale e coke; e possedendo un'industria meccanica meno sviluppata di quella siderurgica, esporta prodotti siderurgici mentre importa prodotti delle industrie meccaniche. Quasi un terzo delle esportazioni complessive di prodotti siderurgici dei cinque maggiori paesi produttori, che sono ascese in complesso a quasi 22 milioni di tonnellate nel 1929, consiste in scambî tra i paesi stessi; i rimanenti due terzi sono diretti ad altri mercati. Indichiamo per i cinque paesi le importazioni e le esportazioni siderurgiche del 1929, espresse in milioni di tonnellate.
Nonostante la loro enorme produzione gli Stati Uniti esportano quantità di prodotti siderurgici non grandi in confronto a quelle che vengono esportate dai paesi siderurgici europei, taluno dei quali ha organizzato la propria industria principalmente con riguardo ai bisogni e alle esigenze dei mercati esportatori. In via relativa, il massimo contributo di esportazione è dato dal Belgio-Lussemburgo: seguono la Gran Bretagna, la Germania, la Francia. Le precedenti cifre, però, non dànno adeguata idea dei traffici internazionali connessi con la siderurgia: per completare il quadro occorrerebbe tener presente da un canto le grandiose correnti di minerali di ferro e di carbon fossile (naturale o trasformato in coke) che affluiscono alle industrie siderurgiche; dall'altro le correnti di minor volume ma di maggior valore, di prodotti delle industrie meccaniche e affini, che defluiscono dai paesi industriali (macchine, strumenti scientifici, veicoli, navi, ecc.: prodotti nei quali l'acciaio entra come il principale, se non sempre unico, costituente). La Germania e il Belgio-Lussemburgo sono tra i principali importatori di minerali di ferro; gli Stati Uniti, la Germania e la Gran Bretagna sono i principali esportatori di prodotti dell'industria meccanica; ma innumerevoli minori correnti di scambî di queste merci s'intrecciano sulle vie del traffico mondiale.
L'esistenza di tutti questi scambî difficilmente riducibili a una comune misura rende difficile calcolare con precisione il consumo di prodotti siderurgici proprio di ciascun paese; ma per dare un'idea dell'ampiezza che esso può raggiungere indichiamo una stima approssimativa del consumo degli Stati Uniti nel 1929-55 milioni di tonnellate, che corrispondono a 450 chilogrammi per abitante. In Italia non si giunge a 100 chilogrammi per abitante e in paesi industrialmente arretrati come l'India e la Cina si è ancora lontani dai 10 chilogrammi annui per abitante.
La concorrenza tra i mercati esportatori di prodotti siderurgici è attualmente molto intensa perché circostanze economiche e politiche derivate dalla guerra hanno determinato un eccessivo sviluppo degl'impianti di produzione. Il bisogno di grandi quantità di armi, di munizioni, di macchine, ecc., ha promosso l'estensione delle industrie siderurgiche e meccaniche nei paesi belligeranti; le difficoltà di ottenere da questi i prodotti occorrenti ha spronato altri paesi, neutrali, a costituirsi industrie proprie o ad accrescere quelle che avevano. I mutamenti territoriali sanzionati coi trattati di pace hanno suscitato analoghi stimoli: la Germania ha voluto ricostituirsi nel più ristretto territorio un'industria poderosa come quella che possedeva nel più ampio territorio del 1913; la Francia si adopera per rendere più armonica la costituzione della sua siderurgia, disegualmente accresciuta nei suoi varî stadî per l'acquisto delle miniere e delle officine lorenesi; la Polonia, ben provvista di carbone e provvista di minerali di ferro, coordina i suoi mezzi per la formazione di una grande industria siderurgica; i minori stati sorti dalla sconfitta degl'imperi centrali cercano tutti, con maggiore o minor fortuna secondo le varie possibilità, di sviluppare la produzione e la lavorazione della ghisa e dell'acciaio. Nei primi anni successivi alla guerra, mentre il consumo di prodotti siderurgici in Europa si manteneva relativamente ristretto, per conseguenza del generale impoverimento, la capacità di produzione si andava continuamente accrescendo. Da quest'antitesi è derivata una grave depressione della siderurgia europea, che ha avuto ripercussioni sensibili negli altri continenti. La concorrenza fra i mercati esportatori è divenuta eccezionalmente aspra; le ampie oscillazioni dell'equivalenza aurea delle monete hanno favorito ora l'uno ora l'altro mercato: prima la Germania, poi la Francia e il Belgio. I prezzi sono caduti così in basso da rendere rovinosa la lotta tanto per i vincitori quanto per i vinti. Tale condizione di cose ha favorito la conclusione di accordi internazionali, intesi a migliorare le condizioni del mercato siderurgico mondiale: nel 1926 i rappresentanti delle industrie siderurgiche della Germania, del territorio della Saar, della Francia, del Belgio e del Lussemburgo si sono vincolati ad una comune disciplina, costituendo un cartello. Ad agevolare gli accordi ha concorso la necessità, che s'imponeva, di attenuare i danni derivanti dalla spartizione politica della regione, economicamente una, produttrice di minerale di ferro e di carbone, ove s'incontrano i confini dei quattro stati. Fissato un ammontare complessivo per la produzione dell'acciaio dei paesi aderenti, a ciascuno di questi è stato assegnato un contingente, da non sorpassarsi sotto pena di una multa proporzionata all'eccesso di produzione; questo accordo fondamentale è stato accompagnato da una serie di convenzioni speciali. Nel periodo dall'autunno del 1926 all'autunno del 1929 l'azione del cartello è apparsa abbastanza efficace; ma si deve notare che è stata favorita dalla vivace ripresa della domanda di prodotti siderurgici e dagli effetti delle stabilizzazioni monetarie belga e francese. La depressione economica che s'inizia nella seconda metà del 1929 ha determinato condizioni meno soddisfacenti; ma la compagine del cartello è rimasta formalmente intatta, anzi nel 1930 si è cercato di estendere l'associazione internazionale nel campo dello smercio dei prodotti. Con l'aggravarsi della depressione nel 1931 l'azione del cartello si è praticamente annullata. Si mantengono estranei al cartello, fra i grandi paesi siderurgici, la Gran Bretagna, la cui industria non ha convenienza a consolidare una situazione d' inferiorità che essa spera temporanea, e gli Stati Uniti, la cui industria ha scarse interferenze con quella europea e quindi scarsa convenienza a vincolarsi. Tali assenze limitano le possibilità di azione del cartello sui prezzi (d'altronde per il momento annullate dalle condizioni del mercato), vietandogli di attuare forti rialzi, che stimolerebbero la concorrenza britannica e nordamericana.
Gli accordi internazionali sono stati resi possibili dall'esistenza di grandi sindacati nazionali nei paesi aderenti: sindacati alla loro volta sorti per frenare la troppo intensa concorrenza nei singoli paesi. Il sorgere dei sindacati nazionali è favorito dalle condizioni tecniche di esercizio della siderurgia che rendono più economica, in ciascuno stadio di essa, la grande impresa in confronto alla media e alla piccola impresa, e che rendono inoltre opportuna l'associazione fra stadî successivi allo stesso fine della riduzione dei costi di produzione. Il concentramento delle imprese rende più facile o più conveniente la fusione o l'associazione fra esse, per il più ampio dominio del mercato nazionale e per la più efficace azione nel campo della concorrenza internazionale.
In Italia la relativa povertà dei giacimenti di minerali di ferro (che hanno una consistenza accertata di 40 milioni di tonnellate e una consistenza presunta di altri 50 milioni) e la mancanza di carboni adatti ha reso difficile lo sviluppo della siderurgia. L'estrazione dei minerali di ferro è stata contenuta entro limiti relativamente modesti, anche per evitare l'esaurimento delle riserve: il massimo ammontare, 994 mila tonnellate, è stato raggiunto nel 1917 sotto la pressione delle necessità belliche, e la più alta produzione postbellica è stata quella di 625 mila tonnellate, conseguita nel 1928. Un notevole contributo di materie prime ferrifere si ottiene ora anche dalle ceneri di pirite, residuo della fabbricazione dell'acido solforico: si calcola di poter disporre annualmente di circa 450 mila tonnellate di tali ceneri, aventi un contenuto di 270 mila tonnellate di ferro metallico. S'importano anche, in quantità non grandi, minerali esteri. Soprattutto la fabbricazione della ghisa trova ostacolo nella mancanza di carboni nazionali; l'alto costo degl'indispensabili carboni importati da mercati lontani, che concorre con un elevato coefficiente nel costo complessivo di produzione, rende arduo alle ghise italiane di sostenere senza speciali difese la concorrenza di quelle francesi, tedesche, britanniche. Pur essendo protetta dal dazio doganale sulle ghise estere, la produzione italiana si è mantenuta entro modestissimi limiti (poche decine di migliaia di tonnellate all'anno) nell'ultimo trentennio del sec. XIX. Nel 1905 ha superato per la prima volta le 100 mila tonnellate; nel 1913 era salita a 427 mila; nel 1917 ha toccato. le 471 mila. Dopo la crisi postbellica, è gradualmente risalita da un minimo di 61 mila tonnellate nel 1921 ad un massimo di 671 mila nel 1929. La depressione economica l'ha fatta discendere a 537 mila tonnellate nel 1930 e a 509 mila nel 1931. Più vigoroso sviluppo ha avuto la produzione dell'acciaio e del ferro omogeneo, solo in parte alimentata dalle ghise nazionali e in parti maggiori da rottami di ferro, prevalentemente importati e da ghise estere. Tale produzione da 99 mila nel 1900, a 989 mila nel 1913, a 1.332 mila nel 1917; caduta a 714 mila tonnellate nel 1921, è poi risalita fino a un massimo di 2.253 mila tonnellate nel 1929, per ridiscendere nei due anni successivi, sotto l'influenza della depressione economica generale, rispettivamente a 1.868 e a 1.560 mila tonnellate.
L'industria siderurgica italiana attraverso varie vicende di attività, ha conosciuto rari periodi di prosperità economica: non solo le condizioni naturali sfavorevoli ma anche, e forse maggiormente, difetti di organizzazione hanno concorso a rendere i risultati finanziarî dell'esercizio inadeguati ai risultati tecnici. È da augurare che il coordinamento tra le imprese promosso dal governo ai primi del 1932 mercé la costituzione di consorzî obbligatorî, segni il primo avviamento a una più razionale ed economica organizzazione. La siderurgia nazionale provvede a una parte considerevole dei bisogni del mercato italiano; cosicché si importano molte materie prime e relativamente pochi prodotti siderurgici. Anche le industrie meccaniche soddisfano una buona frazione della domanda nazionale ed esportano quantità tutt'altro che trascurabili dei loro prodotti; è tuttavia ancnra ingente l'importazione di macchine.
Bibl.: Antichità classica: H. Blümmer, Technologie und Terminologie der Gewerbe und Künste, Lipsia 1886, IV, i (a pp. 205-06 la bibliografia precedente), pag. 205 segg.; J. Beloch, Griech. Geschichte, 2ª ediz., Strasburgo 1912, I, i, pagina 212 segg.; L. De Launay, in Daremberg e Saglio, Dict. d. antiq. gr. et rom., s. v.; Blümner, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., V, coll. 2142-49, s. v. Eisen; E. De Ruggiero, Dizionario epigrafico di antichità romane, III (1922), p. 59 segg., s. v. Ferrum.
Epoca moderna e contemporanea: Committee on Industry and Trade, Survey of metal industris, Londra 1928; G. Scagnetti, La siderurgia in Italia, Roma 1923; id., La siderurgia italiana durante e dopo la crisi del 1920, in Giornale economico, 25 giugno 1926.
Fonti statistiche: Statistique générale de la France, Annuaire statistique, 1928 (dati retrospettivi annuali sulla produzione dei principali paesi); Société des Nations, Bulletin mensuel de statistique (dati mensili sulla condizione dei principali paesi); National Federation of Iron and Steel Manufactures, Statistic of the iron and steel industries (ampî confronti internazionali annuali di produzione, commercio, prezzi) e Statistical bulletin (mensile, con dati analoghi); Direzione generale delle miniere, Relazione sul servizio minerario (annuale; informazioni per l'Italia); A. Stella, Le miniere di ferro dell'Italia, Torino 1921.
Ferro battuto.
Il Medioevo - se pure in qualche periodo scarseggiò del prezioso metallo - fu veramente l'epoca del ferro. Adoperato per fare utensili adatti a ogni uso della vita, il ferro spesso fu lavorato con durezza e conservò i segni del pesante martello, talvolta con delicatezza e arricchito di sbalzi e di cesellature: in linea generale, si deve riflettere che la fineżza non sempre contribuisce all'eccellenza artistica dell'opera, poiché spesso riescono di maggior effetto i lavori in cui le qualità della materia sono lasciate in vista e non nascoste dall'arte. La facile deperibilità del materiale non ci ha conservato per i primi secoli del Medioevo che gli oggetti in ferro restituiti dalle tombe barbariche: armi, arnesi, oggetti varî, fra cui specialmente notevoli le fibule ornate d'incavi, di silicio, e anche di rapporti d'argento e d'oro (Ginevra, Museo).
Secoli XII e XIII. - Le prime notevoli opere in ferro battuto dell'epoca romanica si trovano nel sud della Francia e nel nord della Spagna, dove si sfruttava il minerale ricco di ferro dei Pirenei (ferri delle porte delle chiese di Coustouges, di Corneille de Conflent, dell'abbazia di Marcevols, del secolo XII; cancello d'una cappella di S. Vincenzo in Avila; porta della cattedrale di Valencia, del sec. XIII). Un intreccio più vario e ricco di motivi ornamentali presentano le coeve porte delle chiese dell'Inghilterra (abbazia di S. Albano, 1160-1190, ora nel Victoria and Albert Museum; cattedrale di Durham, principio del sec. XIII, ecc.). Ma il capolavoro dell'arte fabbrile del sec. XIII sono i ferri delle porte di Notre-Dame di Parigi, mirabili per la complessa ornamentazione gotica. Da quelli derivano i ferri di molte altre porte gotiche francesi (museo di Liegi, museo di Rouen). Confrontata coi ferri battuti spagnoli, francesi e inglesi dei secoli XII-XIII, la produzione tedesca appare più grossolana e semplice. Essa s'inizia quando la Francia aveva in questo campo già raggiunto uno stile perfettamente compiuto. Dai modi francesi la lavorazione del ferro tedesco nettamente si differenzia: in luogo delle spirali e dei viticci lineari e astratti, disposti in successione regolare e continua, dei cancelli ispano-francesi, la decorazione delle porte tedesche dei secoli XII-XIII presenta motivi isolati (rosette, spirali, liste unite ad angolo acuto o incrociate diagonalmente). Una delle più antiche porte con ferrature tedesche è quella della chiesa conventuale di Sindelfingen (Württemberg), della fine del sec. XI o principio del XII, cui seguono le porte dei conventi di Arnstein, di Maulbronn, ecc., tutte del sec. XIII. In Italia, che in questo periodo non può gareggiare coi paesi d'oltralpe e con la Spagna, una delle più antiche opere conservate è la cattedra di S. Barbato nel duomo di Benevento, anche se non possa risalire al sec. VIII per i suoi ornati bizantineggianti. Sono poi da ricordare, tra altro, il comunichino di S. Chiara ad Assisi e le bandelle di due porte della cattedrale di Fidenza.
Secoli XIV-XV. - L'arte del Trecento in Italia ha opere mirabili per ricchezza d'effetto congiunta alla massima semplicità di fattura del ferro annodato in cerchi, in quadrilobi, e ritagliato in lamine a formare ornati nelle cancellate di Verona, di Firenze, di Siena (v. cancello). A Siena, dove si lavorò più elegantemente il ferro, va ricordato Conte di Lello Orlandi, che eseguì fra l'altro le cancellate del coro del duomo di Orvieto (1337-1338), dove poi ne seguirono l'arte Matteo di Ugolino da Bologna e Giovanni di Michele da Orvieto, nella cancellata del Corporale (1366). In Germania, le ferrature della porta del duomo di Erfurt, ancora del secolo XIV, preludono allo sviluppo che la composizione ornamentale prenderà nelle porte tedesche del secolo seguente, che segna un'epoca di meravigliosa fioritura nella lavorazione dei ferri battuti (porte nel Landesmuseum di Wiesbaden, della chiesa della Madonna di Zwickau in Sassonia, ecc.). Alla fine del sec. XV appartiene una serie di porte tedesche interamente ricoperte di lamine di ferro, scompartite da riquadri a losanga ricchissimamente decorati di svariati motivi, spesso anche araldici, con le spranghe animate da borchie (porta della sacrestia della prepositurale di Bruck a. d. Mur, ecc.). Dei cancelli tedeschi vanno ricordati il cancello della chiesa di S. Elisabetta a Marburgo sul Lahn, del sec. XIV, per il curioso coronamento a fogliame e figure di principi, cavalieri e musici ritagliati nella lastra; quello della cappella del vescovo Ernesto (1498) nel duomo di Magdeburgo, di massiccia architettura, il cancello della parrocchiale di Hall in Tirolo della fine del sec. XV, sormontato da una cimasa d'un esuberante stile gotico tardo.
Ma il fabbro ferraio non si limitò ad ornare solo opere di maggior mole; si adoperò a produrre una grande quantità di oggetti sia per servire alla decorazione delle chiese, sia per appagare il lusso dei signori feudali e i bisogni più modesti della vita: mensole da torcia, lanterne, serrature, picchiotti, architravi e carrucole da pozzo, campanelle, reggiceri, tripodi, caldani, lumiere, catene per camini, alari, cofani e casseforti, griglie, fontanelle, armi da taglio, armi da fuoco, armature, ecc. Tra le raccolte e musei particolarmente ricchi di tali oggetti citiamo, in Italia, il Museo civico di Torino, il Museo nazionale di Firenze (coll. Carrand e Ressmann), il Museo sforzesco (coll. Garovaglio), il Museo Poldi Pezzoli e la coll. Mylius di Milano, il Museo civico di Bologna; in Francia il museo di Cluny e il Museo delle arti decorative di Parigi; in Inghilterra il Victoria and Albert Museum di Londra; in Germania, il Kunstgewerbemuseum di Berlino e il Bayrisches Nationalmuseum di Monaco.
L'indiscusso primato nel battere il ferro con inesauribile varietà di forme e abilità tecnica meravigliosa spetta nei secoli XIV e XV alla Germania (esempî: armadio di Schulpforta, del sec. XIV, ora nello Schlossmuseum di Berlino; cofano e scrigno del tesoro della Corona nel German. Nat. Mus. di Norimberga, del sec. XV; picchiotti di Hall in Tirolo, della chiesa di S. Giorgio a Dinkelsbünl). La tendenza che si osserva durante il corso del sec. XV verso forme sempre più decorative e complesse, si affermò nelle lumiere tedesche, composte di lastre sbalzate e quasi sempre anche traforate e sostenute da catene o aste curvilinee (lumiere della parrocchiale di Vreden in Vestfalia di Gert Bulsinck (1489), del duomo di Magdeburgo, di Halberstadt (1516).
In Francia, dove nella lavorazione del ferro del sec. XV viene un po' meno la serrata coerenza di stile dei secoli precedenti, sono particolarmente notevoli, tra i numerosi oggetti, alcuni cofani sovente decorati con damaschinature in oro e argento e le bellissime serrature ora nel museo di Cluny. Una particolarità francese del sec. XV sono i ferri di pozzo, poi sempre più numerosi nei secoli seguenti (Hôtel Dieu di Beaune; Castello di Sauvage presso Amboise, ora nel museo di Cluny). Stupendo quello del castello di Anna di Bretagna a Nantes, con gigli e funi meravigliosamente rifiniti che s'intrecciano tra le sbarre di sostegno della carrucola.
In Italia il ferro battuto del '400 si distingue per la semplicità e razionalità di struttura, per la sobrietà della decorazione. In molte opere il ferro battuto allora fu sostituito dal bronzo a foggiare oggetti più ricchi per i palazzi e le chiese: il fabbro spesso parve ispirarsi ai lavori di bronzo, mentre lasciando, sia pur a rilento, le tradizioni gotiche, accedeva al nuovo stile del Rinascimento, modellando e cesellando il ferro con figure e ornati. Gli oggetti più preziosi - forzieri, armadioli, targhe - furono arricchiti anche di damaschinature. Esempî di cancelli caratteristici ci offrono la cappella Barbazza in S. Petronio a Bologna (1482), a cordami intrecciati, la cappella del palazzo dei Diavoli a Siena (circa 1400), a scomparti quadrilobati, la chiesa di Santa Trinita a Firenze e il Museo civico di Torino, del principio del sec. XV. Tra i balconi del sec. XV si distingue quello splendido del palazzo Bevilacqua a Bologna, a spirali contrapposte e annodate, mentre assai più semplice è il balconcino della loggetta del convento di Santa Maria della Quercia a Viterbo, con bifore gotiche. Ma dove la chiarezza e precisione compositive e le qualità plastico-architettoniche del ferro battuto italiano del '400 si manifesta più luminosamente, è nelle lanterne, portastendardi e braccioli dei palazzi toscani. Celebri su tutti le lanterne all'angolo di palazzo Strozzi a Firenze, attribuite insieme con altre dei palazzi Riccardi e Guadagni, a Niccolò Grosso, detto il Caparra, fiorentino: la loro armoniosa struttura è accompagnata da un sottile lavoro di cesellatura negli ornati, e dalla forte modellazione delle arpie che le sorreggono. Altrimenti semplici, fatte di sbarre inchiodate, sono le lanterne a gabbia che si trovano sulla Loggia del papa (circa 1470) e del palazzo San Giusto (fine del sec. XIV) a Siena; le lanterne dell'antico palazzo del podestà a San Gimignano (secolo XV) e della torre o palazzotto dei Gualandi a Pisa (sec. XIV).
Le città della Toscana sono anche famose per le belle roste' dalle sbarre disposte a raggera, spesso allacciate da volute, che sormontano le porte di case e palazzi; fra esse eccellono le roste lucchesi, nelle quali persistono stranamente reminiscenze gotiche (roste dei palazzi Orsetti, Brancoli - Busdraghi, Boccella, Ceccani, del monastero delle Barbantine). Elementi gotici si notano pure in alcune eleganti e leggiere lanterne lucchesi, adorne di motivi floreali, del principio del sec. XVI (palazzo Pretorio e altri palazzi).
Tra gli oggetti più minuti di ferro quattrocenteschi, ricordiamo il candelabro con braccia a steli fioriti del duomo di Lucca, una torcera quadripode a forma di cestello traforato sormontato da gigli sagomati nel Museo nazionale di Firenze, un bracere a zampe leonine e mensolette traforate nel museo del duomo di Siena. I "ferri da cialde", lavorati a incavo come i sigilli, furono in uso dappertutto: l'Italia ne possiede squisiti esemplari, cesellati dal Roscetto, nel museo di Perugia.
Sec. XVI - Nel sec. XVI la semplicità e sobrietà di sagome quattrocentesche vengono man mano sopraffatte dal desiderio di maggiore ricchezza che conduce al moltiplicarsi dei girali e dei viticci, alla mania dei contorcimenti, al bisogno di dare prova di virtuosismo, in cui spesso naufraga la logica primitiva: ne dànno prova i cancelli, le inferriate, le roste, ecc., che risalgono alla fine del secolo XV e al secolo seguente (cancelli del duomo di Trieste, di Via Garibaldi a Genova, del palazzo Giovannini a Lucca; inferriate del palazzo Sanudo ora Barozzi e della scuola di S. Giorgio a Venezia; inferriata nel museo Lesecq des Tournelles a Rouen; alcune inferriate del palazzotto Besta a Teglio di Valtellina; roste in piazza Arengo di Ascoli Piceno e a Grossotto di Lombardia).
Il secolo XVI ha prodotto anche letti di ferro (splendido esemplare nella collezione R. Peruzzi de' Medici a Firenze), scrigni, portaceri, picchiotti di porta, campanelle, portastendardi, e una infinità di cose piccole e grandi. Capolavori del ferro battuto italiano del '500 sono, nel castello d'Issogne, l'albero di melograno sorgente nel mezzo d'una fontana (dal suo fusto partono quattro rami terminanti con teste di drago da cui zampilla l'acqua) e la lumiera a forma di cornucopia colma di grappoli d' uva e d' altra frutta, firmata e datata (Giulio Seraphini Aquilani, 1500), proveniente dal palazzo Gualtiero di Orvieto (Museo nazionale di Firenze). Maestri lombardi modellarono il ferro con figure, ornandolo all'agemina, per armi, per cofanetti, per mobili (musei di Brescia, di Milano; museo Poldi-Pezzoli di Milano; Museo nazionale di Firenze; armerie di Madrid, di Vienna e di Torino).
In Spagna, dove nel Quattrocento la produzione delle opere di ferro battuto, pur essendo molto intensa, appare alquanto slegata, si assiste nel sec. XVI a una mirabile organica rinascita dell'attività dei fabbri ferrai. Dappertutto nelle chiese s'innalzarono davanti al coro e alle cappelle e intorno alle tombe di vescovi e principi cancelli monumentali, altissimi, la cui fitta rete di aste verticali venne spesso agli angoli rafforzata da solidi pilastri e coronata da una cimasa a fogliami, a candelabri, a figure ritagliate e volute intrecciantisi (cattedrale di Toledo, di Granada, di Plascencia, ecc.). Tipicamente spagnoli sono i pulpiti di ferro, di forma poligonale, coi singoli pannelli fittamente ricoperti con ornati traforati (cattedrale e S. Pietro di Avila; cattedrale di Zamora, di Toledo, ecc.).
In Francia e in Germania si osserva, in paragone con la Spagna, una maggiore leggerezza di disegno e di fattura. Due motivi ornamentali predominano: l'intreccio e la spirale, spesso terminante a pigna. Per la Germania, assai più ricca di sontuosissimi cancelli cinquecenteschi della Francia, sono da ricordare i cancelli della scala del municipio di Lüneburg (Hans Ruge, 1576), della tomba dei Fugger nella chiesa dei Ss. Ulrico e Afra (Hans Mezger, 1588), della tomba di Massimiliano I nella Hofkirche di Innsbruck (Jörg Schmidhammer, 1572).
Alla fine del sec. XV si cominciò a produrre nella Francia, nelle Fiandre e nella Germania meridionale le cuffie di pozzo riccamente traforate che poi, nel secolo seguente, ebbero una diffusione sempre maggiore (pozzo nel castello di Grafenegg (Austria), nel Neukloster di Wiener-Neustadt, nel Malé náměstí di Praga, ecc.).
Secoli XVII e XVIII. - Il ferro si adattò anche mirabilmente alle fantasie barocche del Sei e del Settecento. Solo, o unito al bronzo, servì per foggiare cancellate, inferriate, ringhiere di scale, roste di porta, ecc., appoggiandosi al marmo o alla pietra in composizioni grandiose che sono l'ornamento di chiese, di palazzi, di ville e di monasteri. Nei cancelli, che anche in questo periodo mostrano i maggiori sviluppi del ferro battuto, la parte ornativa viene sempre più accentuata; essi s'innalzano spesso isolati all'ingresso di parchi o cortili - la grille d'honneur francese - oppure diventano un elemento importante in un vasto insieme architettonico (cancelli del castello di Versailles; cancello nel castello Belvedere in Vienna, 1720-24 circa; cancello di Jean Lamour nella piazza Stanislao in Nancy, metà del sec. XVIII, e di Angers. di Würzburg, ecc.). Sotto l'influsso dell'architettura barocca, alcuni cancelli tedeschi tendono a rappresentare prospettive (v. cancello).
In questi lavori, come pure nei parapetti dei balconi e nelle ringhiere delle scale, il disegno degli ornati, intrecciandosi e ricomponendosi con inesauribile ricchezza di motivi, assume, nel sec. XVIII, specie in Germania, aspetti d'una levità aerea, d'una preziosità lineare, che spesso rammenta la finezza di trama dei merletti. In Francia il cancello conserva, nello stile Luigi XIV, la sua solida struttura verticale, abbandonando alla cimasa il vario giuoco degli ornati (cancello del castello di Maisons Laffitte sur Seine, ora al Louvre). In Italia, che in questo periodo non può competere con la Francia e la Germania, i ferri battuti si conservano in compenso più puri nella linea prevalentemente classica, più razionalmente costruiti, meno tormentati nei particolari. Molte sono le opere di ferro battuto che il Barocco ha lasciato nelle varie regioni italiane, a Roma (cancello dei Ss. Giovanni e Paolo e della cappella del Sacramento in S. Pietro), nel Veneto (cancelli della Villa Rosa a Tramonte presso Padova, del palazzo Poiana a Vicenza), nell'Emilia (chiese di Bologna) dove il ferro è avvivato dallo splendore degli ottoni, in Lombardia, specialmente a Milano (cancello della basilica di Fausta nella chiesa di S. Ambrogio), a Genova in molti palazzi, ecc.; opere che dalla severità architettonica degli schemi secenteschi italiani arrivano sino alla preziosità, ai merletti imitati dai ferri battuti francesi. Ma qui il ferro cessa di esprimere la forza e si adatta a una gracilità più propria di altri materiali. L'unico artefice del ferro che nel Settecento italiano si presenti con una schietta personalità è Giovanni Battista Malagoli di Modena (1729-1797), che in pieno trionfo del Barocco inquinato d'influenze francesi rivela ancora un visibile attaccamento allo spirito cinquecentesco, e pure indulgendo ai nuovi gusti, sa conservarsi logico nella linea costruttiva e sobrio nella decorazione per la quale ama ispirarsi alla natura floreale con un'acuta osservazione del vero. I suoi principali lavori sono le roste dell'università e le inferriate e sovrapporte dell'ospedale maggiore di Modena e i cancelli dell'atrio.
Secoli XIX e XX. - Con l'avvento dello stile neoclassico l'arte del ferro battuto decade: pur ritornando a forme più elementari e costruttive, essa rivela povertà di fantasia e freddezza di esecuzione. I motivi che il fabbro ha a sua disposizione si riducono a un minimo impressionante: aste parallele sormontate da lance, frecce. greche, volute di Vitruvio, scomparti romboidali, qualche foglia d'acanto stilizzata. E poi in quest'epoca si fa strada il ferro fuso (ghisa) che richiede l'opera del modellatore e non più quella dell'artefice-fabbro: ciò segna, non solo in Italia, il declino completo di un'arte che aveva avuto periodi di tanto splendore. In qualche centro provinciale l'arte fabbrile persistette: ma in genere si può dire che per oltre mezzo secolo nell'arte decorativa il ferro battuto fu completamente dimenticato.
Verso la metà del secolo scorso il ferro battuto risorge in Francia, timidamente, per iniziativa del Viollet-le-Duc. La sua rinascita pratica è dovuta all'attività rinnovatrice di Emilio Robert e della sua scuola, tra cui emerge la personalità di Edgard Brandt, e in Italia ad Alessandro Mazzucotelli, che raccoglie intorno a sé nella sua bottega, e specialmente nell'officina della Società umanitaria (Villa Reale di Monza), allievi numerosi, fra i quali va ricordato Carlo Rizzarda.
Degli altri artisti italiani, noti non solo in Italia, ma anche all'estero, citiamo Umberto Bellotto di Venezia, Alberto Gerardi di Roma, Luigi Matteucci di Faenza, Pietro Maccaferri di Bologna, Benedetto Zalaffi di Siena, i fratelli Molfettini di Bergamo, Guido Ravasi di Como, Alberto Calligaris di Udine, ecc. Nell'esposizione di Parigi del 1925 il ferro battuto italiano ha proclamato la sua rinascita, confermando il suo pieno rigoglio nelle esposizioni internazionali delle arti decorative di Monza.
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Inghilterra: W. Twopeny, English Metalwork. 93 drawings (1797-1873), Londra 1904; B. S. Murhpy, English and Scottish Wrought Ironwork, Londra 1904; I. Starkie Gardner, English Ironwork of the 17.th and 18.th Centuries, Londra 1911; C. I. Ffoulkes, Decorative Ironwork from the 11.th to the 18.th Centuries, Londra 1913.
Il ferro in architettura.
La storia dell'architettura dalle sue origini fino al principio del sec. XIX si identifica con la storia delle strutture murarie: pietra, laterizio, calcestruzzo costituiscono l'ossatura dell'edificio e contribuiscono a determinarne la forma. Il ferro sino a quel periodo è adoperato solo per costituire grappe, ancoraggi, tiranti - elemento accessorio nella costruzione - se anche per esso soltanto possano essere raggiunti i maggiori ardimenti: la statica di molti edifici del Rinascimento si basa sull'uso delle catene, nascoste nello spessore delle vòlte o in vista all'imposta o alle reni degli archi; nella Mole Antonelliana di Torino, eretta a metà del sec. XIX, quasi a dimostrazione delle estreme possibilità acquisite mediante i nuovi studî sulla resistenza dei materiali nell'impiego dei vecchi materiali murarî, l'equilibrio dell'arditissima copertura è affidato a un sistema di tiranti in ferro nascosti fra le sovrapposte vòlte a nervatura.
Il veneziano Fausto Veranzio nel sec. XVII fu forse il primo a ideare la costruzione di ponti in ferro. Ma l'altissimo costo del materiale impedì l'attuazione dei suoi progetti.
Col sec. XIX nasce l'industria nel senso moderno della parola, e, fra le industrie, quella siderurgica che consente la produzione a ragionevole prezzo di grandi quantità di ghisa e di ferro nelle forme più varie. La ghisa offre al costruttore le sue qualità di resistenza, di durevolezza, d'incombustibilità; nelle prime applicazioni essa si sostituisce in sezioni ridotte alla pietra, senza che gli schemi tradizionali ne risultino alterati; così nel ponte di Severn in Inghilterra, così nei molti ponti sulla Senna a Parigi, ove i cunei scheletrici in ghisa, fra loro collegati da chiavarde, sono disposti ad arco con effetto nettamente monumentale. Il ferro offre al costruttore più larghe possibilità; in ferro si possono foggiare travi elastiche la cui lunghezza può essere illimitata, la cui sezione può essere conformata nel modo più adatto a sopportare le particolari sollecitazioni cui esse devono essere sottoposte; più elementi possono essere fra loro connessi con chiodature; diviene possibile lanciare ardite travate rettilinee fra sostegni distanti molte decine di metri. Roberto Stephenson alla metà del sec. XIX tocca, basandosi su dati sperimentali dedotti da un modello a 1/6 del vero (allora la scienza delle costruzioni era ancora bambina) il maggiore ardimento col ponte Britannia a travate tubolari a quattro luci di cui le maggiori di ben 140 metri.
L'uso del ferro, ovunque accettato nella costruzione dei ponti, viene inoltre esperimentato nel campo delle grandi costruzioni civili e industriali. Per esso le massime espressioni costruttive raggiunte nei mirabili edifici termali romani, nelle cattedrali gotiche, nelle grandi cupole del Rinascimento, possono essere superate. L'arte di costruire ne è rivoluzionata; i più entusiasti estendono l'impiego del metallo in pilastri composti di travi o in colonne cave di ghisa o di acciaio, ai ritti portanti e aspirano all'abolizione delle pesanti murature.
Ma tanti secoli di tradizione non possono essere cancellati d'un tratto. Il materiale metallico è accolto volontieri per la sua utilità, ma nelle costruzioni nobili per destinazione esso viene nascosto; serve, ma dissimulato sotto false strutture che si ricollegano all'architettura tradizionale. Ed è caratteristica dell'architettura del sec. XIX questa ricerca tormentosa di annegare sotto i più varî aspetti, che l'eclettismo dominante suggerisce con le fluttuazioni della moda, le strutture che si vanno evolvendo a causa dell'impiego dei nuovi materiali. E, anche quando si osa lasciare in vista la struttura metallica, si cerca di apparentarla con le circostanti strutture murarie e di ravvicinarla alle forme tradizionali che ne derivano, col vestire di basi e capitelli gli esili pilastri, col traforare a guisa di fregio a ornati arieggianti il Rinascimento le alte lamiere che formano anima nelle travi composte, con l'inflettere le mensolature a somiglianza di mensole cinquecentesche o barocche.
È accettata ovunque l'orditura in metallo per le coperture dei grandi ambienti (stazioni ferroviarie, mercati, biblioteche); la luce filtra abbondante attraverso le vetrate che costituiscono, totalmente o parzialmente, il materiale di copertura. Ma le grandi capriate o le travate ad arco si lanciano assai spesso fra opposti edifici che traggono le forme dal Rinascimento e non si apparentano alle caratteristiche della sovrastante architettura in ferro. Taluno, cogliendo i legami formali che esistono fra uno schema resistente in ferro e le più ardite espressioni dell'arte ogivale, a quella si appoggia nella centina delle travate e nella decorazione; così nella chiesa di S. Paolo a Montluçon, l'architetto Boileau senior raggiunge, con l'uso della ghisa nelle sottili colonne tubolari e del ferro nelle nervature delle vòlte, una trasparenza che supera le più audaci espressioni della tecnica costruttiva gotica: così nel nuovo museo di Oxford gli architetti Deaune e Woodward sovrappongono alle esili arcate a sesto acuto la copertura vetrata.
Ma verso la metà del sec. XIX l'impiego delle esili colonne di ghisa suggerì più spesso il tentativo di dar vita nella realtà della costruzione alle irreali architetture dipinte delle decorazioni parietali pompeiane del III e IV stile. La moda della decorazione pompeiana derivò probabilmente dai ritrovamenti degli scavi di Pompei ripresi con nuovo fervore dopo l'annessione delle Due Sicilie al regno d'Italia; e, come già durante l'impero gli architetti avevano cercato nelle forme greche ed egizie un correttivo all'irrigidimento degli schemi classici, così durante il rinnovato impero di Napoleone essi s'ispirarono alla ellenizzante arte pompeiana; e delle aeree architetture derivate da Pompei si valsero nel suddividere le grandi aperture vetrate che in corrispondenza alle nuove necessità (magazzini, sale di esposizione, ecc.) e ai nuovi mezzi costruttivi (travi metalliche) venivano ad animare le superficie di pareti realizzate ancora con materiali tradizionali e concepite con forme contenute nei canoni dell'architettura classica. Tutte le maggiori città d'Europa, Roma compresa (v. la cosiddetta Galleria Sciarra e lì presso il fabbricato in angolo fra via delle Muratte e via delle Vergini e ancora il palazzo all'inizio di via due Macelli), ebbero una fioritura di questi edifici che rappresentano il tentativo di valorizzare esteticamente i nuovi materiali senza peraltro dare un netto taglio alla tradizione.
Ma più spesso nell'architettura del sec. XIX si riscontra il dissidio insanabile fra tecnica e arte: il costruttore batte le vie nuove, l'architetto si chiude nell'accademia, preoccupato di nascondere ciò che dei portati del suo tempo è costretto ad accettare. Solo là dove il costruttore si libera da ogni preoccupazione architettonica e decorativa, negli edifici industriali, nelle grandi coperture, nelle travate dei ponti, nasce la vera e organica architettura del ferro.
I grandi ponti in ferro, in forma di travate a contorno superiore rettilineo o a trapezio o ad arco (espressione massima il ponte a mensola con luci mediane di ben 521 metri sul Firth of Forth in Scozia) o sospesi alle lunghe catenarie discendenti dalla sommità di alti piloni (ponte di Friburgo, ponte Elisabetta a Budapest e i ponti fra Brooklyn e New York e il Williamsbury e il Manhattan pure sull'East River) derivano ancora dal concetto di una netta distinzione fra elementi portanti (verticali) ed elementi portanti o di copertura (orizzontali).
Con l'adozione delle travate ad arco, il cui calcolo è reso snello dall'adozione delle cerniere in chiave e alle imposte, si aprono alla tecnica del ferro nuove possibilità. E la stazione di Lilla prima e poi il Salone delle macchine all'Esposizione di Parigi del 1889 rappresentano le prime applicazioni nel campo delle costruzioni civili di un concetto già adottato nella costruzione dei ponti. Lo schema tradizionale è superato; e, come la linea delle spinte passa con continuità dalle coperture ai piedritti, ogni tradizionale separazione formale fra parete e copertura cessa di esistere e una nuova estetica ambientale si afferma, che ha le radici nelle ragioni della costruzione.
Il Palazzo di cristallo (1851) a Hyde-Park presso Londra è una tipica e grandiosa espressione della tendenza a ricercare un'espressione estetica del nuovo materiale; ferro e vetro, con abolizione completa dei materiali murarî. Posteriori di un ventennio sono le Halles centrali di Parigi, l'edificio della biblioteca nazionale e quello della biblioteca di Sainte-Geneviève, ove la copertura a forma di vòlta con scheletro di ferro e specchiature a vetri, è portata da esili sostegni metallici. Una valorizzazione delle possibilità acquisite col nuovo materiale è la stazione di Anversa: tutto il prospetto è portato in sbalzo da una ossatura in ferro, nobilissima nella più semplice espressione costruttiva. E nell'Esposizione di Parigi del 1889 si lancia al cielo per un' altezza di 300 metri la sottile guglia della torre Eiffel, solo per dimostrare le possibilità del materiale metallico.
Alla ventata del liberty non si sottrae neppure l'architettura del ferro. Per quanto affetta dal male di ciò che fu creduto stile e non era che una moda, resta, fra i documenti notevolissimi della tendenza a un'evoluzione verso nuove forme aderenti alle ragioni costruttive, la Casa del popolo di Bruxelles, dell'architetto Victor Horta. Qui, nella fronte concava, si alternano i materiali murarî con le sottili membrature di ferro e, negl'interni, l'orditura dei solai appare con le travi di ferro in vista; e solo dallo scomparto delle campate risulta l'effetto decorativo.
Ma gli edifici con ossatura di ferro restano in Europa e nell'anteguerra, di eccezione. Il ferro viene impiegato normalmente per costruire architravature o tessere solai e tetti; è spesso in vista nelle grandi coperture a lucernario degli edifici industriali o in edifici che partecipano del tipo degli edifici industriali; o si tenta di far apparire la suola inferiore delle travi di ferro dei solai nel soffitto degli ambienti, foggiando a testa di padiglione le estremità terminali delle voltine tessute fra di essi, o di mostrare in prospetto le architravature di porte o di finestre, costituite da una coppia di travi di ferro, assegnando funzione decorativa alle rosette di cui si guernisce la testa dei bulloni di collegamento.
L'impiego del ferro diviene per contro normale in America per l'ossatura dei grandi edifici a grattacielo (sky-scrapers). Tali edifici traggono la ragione di esistere dall'enorme costo delle aree: spesso sorgono su aree in concessione temporanea trentennale; in tale periodo, l'enorme spesa della costruzione, che ascende a centinaia e centinaia di milioni, deve trovare ammortamento. La necessità di far presto, di preparare la casa in officina ed eseguirne solo il montaggio sul luogo, a mezzo di maestranze specializzate che senza impiego di armature provvisorie in brevissimo periodo di tempo spingano la gabbia metallica ad altezze vertiginose, domina il problema edilizio. Ma anche in questi edifici, la cui costruzione fu resa possibile solo dall'impiego dei profilati di ferro, il materiale utilissimo valse per molti anni a raggiungere gli scopi tecnico-pratici che il costruttore si prefiggeva senza portare una decisiva influenza nell'architettura esterna. La gabbia di ferro si eleva svelta ad enormi altezze; greve la segue e in ritardo l'opera del muratore o del marmorario, nascondendo la struttura sotto il peso delle decorazioni in laterizio o in pietra, che non solo sono inorganicamente a essa sovrapposte, ma in nessun modo risentono dell'elasticità dello scheletro che nascondono.
E nella selva di grattacieli delle metropoli americane è un'assurda sovrapposizione di forme nate dalla pietra e per la pietra, ove talvolta gli ordini si distendono ad abbracciare un inverosimile numero di piani.
Il Birkmire così riassumeva in piena febbre edilizia i concetti che nel suo paese prevalevano al principio del nostro secolo: "Mentre molti teorici ritengono che il più adatto modello degli alti edifici commerciali sia ancora costituito dalla colonna classica, con le sue divisioni in base, fusto e capitello, altri invece si lasciano guidare da un simbolismo mistico e si riferiscono ai molteplici esempî della natura e dell'arte in cui la massima perfezione è data dalla divisione in tre e vogliono che l'insieme architettonico abbia tre parti in un solo complesso...; altri pensatori più sobrî e severi vogliono che l'edificio mostri chiaramente il principio, il mezzo e la fine del suo sviluppo...". Sono questi ultimi esponenti di una corrente razionale, quelli che hanno dato nell'ultimo decennio nobilissimi tentativi alla ricerca dell'aderenza tra forma e costruzione.
Il più alto fra i grattacieli di New York è tipico rappresentante di tale sana tendenza: l'Empire State Building (379,33 metri di altezza, 85 piani oltre i sotterranei). In esso, non soltanto i volumi si liberano da ogni servitù stilistica, ma la struttura di ferro, resa con nuovissimi procedimenti inattaccabile alla ruggine, appare elemento divisorio di superficie, e in metallo (alluminio e ferro cromato) sono le specchiature fra gli elementi portanti.
Anche in Europa, e soprattutto in Germania, il bisogno di rinnovamento in ogni campo che le mutate condizioni spirituali del dopoguerra hanno direttamente o indirettamente determinato, ha suggerito nuove forme anche all'archittetura. E i materiali elastici (ferro e cemento armato) hanno determinato nuovi schemi, spesso comuni ai due materiali, in cui è possibile ridurre al minimo gli elementi portanti alla base, aprire vaste pareti a vetrata, portare arditamente in sbalzo intere porzioni di edificio: i magazzini Breuninger a Stoccarda degli architetti Eisenlohr e Pfennig sono un'espressione tipica di questa tendenza.
Ma non solo negli edifici industriali o nei grandi edifici da reddito a molti piani trovano applicazione le strutture metalliche: a Rothemberg presso Kassel è in costruzione tutta una colonia di edifici per case di abitazione economiche cbe prevede 2500 abitazioni da eseguirsi in serie con ossatura metallica per alloggi minimi da 31 a 72 mq. e tipi varî di casette economiche sono stati esperimentati con successo, aventi ossatura di metallo e rivestimento esterno o interno in lamiera, o tutte costruite in elementi di lamiera ripiegata sui bordi a costituire insieme montante e specchiatura.
È alla base di tali costruzioni economiche il concetto di standard che deve essere adottato in pieno così nella distribuzione interna come nell'aspetto esteriore degli edifici; e l'opera dell'architetto, ideata la cellula standardizzata, si volge ad ottenere il miglior effetto dall'aggruppamento di cellule identiche in masse rispondenti insieme alle ragioni pratiche e alle ragioni di un'estetica modernissima.
Nella sua chiesa d'acciaio a Colonia l'arch. Bartning ha raggiunto la perfetta sincerità: il tema è risolto con forme nuove aderenti alle ragioni costruttive. È certo questa del Bartning notevolissima fra le architetture di questo affannoso periodo di ricerca in cui viviamo ed è evidente dimostrazione che i più augusti temi possono essere affrontati e risolti con forme e materiali nuovissimi.
Ferro e vetro sono gli elementi da cui la moderna architettura nord-europea trae partito nella creazione di nuovissime forme. Come ultima espressione di un tale concetto, l'arch. Van der Rohe, per un palazzo per uffici immagina di lanciare nel cielo qualcosa che è più vicino alla stilizzazione d'una formazione cristallina che non alla tradizionale concezione d'un edificio.
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V. tavv. IX-XXII.