PARRI, Ferruccio
PARRI, Ferruccio. – Nacque a Pinerolo (Torino) il 19 gennaio 1890 da Fedele e Maria Marsili, quarto di cinque figli.
I genitori erano di origini marchigiane, ma il lavoro del padre – insegnante di letteratura italiana nelle scuole del Regno – spinse la famiglia a spostarsi frequentemente. Dopo l’approdo a Pinerolo nel 1889, essa fu trasferita nuovamente nell’ottobre dell’anno successivo quando Fedele venne nominato direttore alla Scuola normale Giovanni Lanza di Casale Monferrato.
Dopo aver completato gli studi liceali, Parri si iscrisse nell’autunno del 1908 alla facoltà di lettere dell’Università di Torino, scegliendo l’indirizzo storico-geografico. Da studente fu un avido lettore delle riviste fiorentine, in particolare La Voce di Giuseppe Prezzolini, che si sovrappose al mazzinianesimo familiare nell’indicargli il compito che le nuove generazioni dovevano fare proprio, ovvero battersi per una riforma etica della politica e promuovere l’educazione civile del popolo italiano. Insieme a Roberto Longhi, l’amico più caro di quegli anni, fondò un gruppo di ‘vocianismo studentesco’, animato da forti intenti polemici.
Tornato per qualche tempo a vivere con la famiglia, nel frattempo trasferitasi a Genova, Parri completò sotto la direzione di Pietro Fedele la tesi di laurea in storia moderna, dedicata alla vita economica piemontese del Settecento. Svolto a Genova nel 1913 il servizio militare (frequentò il corso per allievi ufficiali presso il 90° reggimento di fanteria), si decise a seguire la carriera paterna, dedicandosi all’insegnamento. In seguito al superamento di un concorso a cattedre, fu incaricato nel gennaio 1914 come insegnante di lettere presso l’Istituto tecnico e nautico di Genova. L’anno successivo dovette trasferirsi a Reggio Emilia, dove svolse un ruolo di supplenza nella Scuola normale femminile, ottenendo in seguito la nomina alla cattedra di storia e geografia nella scuola Filippo Re. Qui insegnò fino a quando venne richiamato alle armi.
A questo periodo risalgono le prime riflessioni politiche, largamente ispirate a motivi che circolavano nella cultura delle riviste di quell’epoca. In particolare, la critica del socialismo e del parlamentarismo gli derivava dall’intensa frequentazione dei motivi antigiolittiani di derivazione prezzoliniana. Il vagheggiamento di un’«aristocrazia a ruoli aperti» (Polese Remaggi, 2001, p. 38), che Parri confidò in una lettera scritta a Prezzolini pochi mesi dopo l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915, esprimeva infatti l’insofferenza per un sistema politico che gli appariva bloccato, incapace cioè di promuovere il ricambio generazionale. Ai suoi occhi, la guerra dunque giunse come la grande occasione per intraprendere una ‘rivoluzione antigiolittiana’.
Parri affrontò l’esperienza della guerra mondiale, armato di queste convinzioni. A Genova, aveva prestato il servizio di prima nomina come sottotenente di complemento presso il 42° reggimento di fanteria dal 15 marzo al 15 novembre 1914. Partì dunque per il fronte alla fine del maggio 1915 come sottotenente di complemento dell’89° reggimento di fanteria. Combatté sul monte Merzli, riportando due medaglie e diverse ferite, compreso un congelamento ai piedi. Diventato tenente per meriti di guerra, combatté nel 1916 sull’altopiano di Asiago e poi sul Carso, dove fu nuovamente ferito. Il suo disprezzo per il pericolo fu riconosciuto dalle autorità militari che lo premiarono più volte, conferendogli tre medaglie d’argento al valore. Nel gennaio 1917, a suggello di questo importante palmarès, ricevette l’ambita Croix de guerre della Repubblica francese. Le medaglie furono accompagnate da rapidi avanzamenti di carriera.
Nel 1917 fu promosso al grado di capitano, ma non poté riprendere il servizio in trincea a causa delle conseguenze del congelamento ai piedi. Da allora, svolse mansioni di ufficiale di collegamento presso il comando della 28ª divisione sul Carso. Promosso nel corso dello stesso anno al grado di maggiore, partecipò al primo corso per ufficiali di stato maggiore che era stato aperto agli ufficiali di complemento. Si classificò al primo posto e nell’aprile 1918 venne assegnato all’ufficio operazioni del comando supremo. Il nuovo incarico si collocava nell’ambito delle sostituzioni ai vertici militari seguiti alla disfatta di Caporetto che Parri aveva avuto modo di seguire da vicino, percependo con largo anticipo i sintomi del malcontento che serpeggiava tra i soldati.
Fra il corso ufficiali e servizio al comando supremo, Parri strinse alcune relazioni destinate a rivelarsi di grande importanza per la sua vita a venire. Conobbe Guido Visconti Venosta, figlio del decano della politica estera italiana, Ugo Ojetti, scrittore del Corriere della sera e impegnato nell’ufficio stampa e propaganda del comando, Giorgio Mortara, chiamato nel 1916 a dirigere i servizi statistici, Vincenzo Porri, impiegato anch’egli all’ufficio operazioni, e infine Umberto Zanotti Bianco.
Parri svolse nell’ufficio un ruolo importante, ancorché misconosciuto, nella preparazione della controffensiva di Vittorio Veneto. Sua fu infatti l’idea – prontamente recepita dal suo superiore, Ugo Cavallero, e da questi girata al generale Armando Diaz – di concentrare il massimo sforzo per lo sfondamento delle linee nemiche nella zona in cui effettivamente avvenne. Con la fine della guerra, Parri continuò a occuparsi di questioni politico-militari relative all’armistizio e allo studio dei nuovi confini. Compì studi per il riordinamento dell’esercito, prima di lasciare il servizio militare il 17 giugno 1919.
Si trasferì a Roma dove rimase fino alla fine del 1921, lavorando come impiegato nei servizi sociali dell’Organizzazione nazionale combattenti, istituita presso il ministero del Tesoro nel 1917. Tornò per qualche tempo a svolgere il suo precedente mestiere, quello di insegnante di scuola. Vincitore del concorso per le grandi sedi, infatti, il 1° ottobre 1920 fu destinato alla scuola tecnica Maurizio nella quale insegnò per un anno prima di trasferirsi a Milano.
Nel periodo romano si adoperò per far circolare un progetto di riforma dell’esercito negli ambienti politici e governativi. Partecipò attivamente alla vita del combattentismo, schierandosi a favore di una riforma dell’Associazione nazionale dei combattenti (ANC), alla quale facevano riferimento gli ex soldati per le loro rivendicazioni economiche e sociali. Soprattutto, spese le proprie energie per la formazione di un partito politico ispirato agli ideali del mondo della trincea. Scrisse su alcuni giornali e riviste che si ispiravano ai valori della guerra quali La nuova giornata di Milano, Il Piemonte di Vercelli e Volontà di Roma. Nella capitale, insieme ad Achille Battaglia, Federico Comandini, Vincenzo Torraca e altri, fece parte di un gruppo di reduci che si ritrovava abitualmente in un caffè in via Cola di Rienzo. Essi condividevano il sentimento di appartenere a una giovane aristocrazia morale e intellettuale in conflitto con il mondo politico che li circondava.
La persistenza delle suggestioni antigiolittiane caratterizzò la riflessione di Parri negli anni del primo dopoguerra. Fino quasi alla marcia su Roma, guardò al fascismo con fastidio, ma senza coglierne il significato profondo di movimento in guerra contro lo Stato liberale. L’occasione di abbandonare l’ambiente tutto sommato ristretto dei combattenti venne grazie alla conoscenza della famiglia Visconti Venosta, che lo aiutò a entrare in contatto con Luigi Albertini. All’inizio di gennaio del 1922 fu assunto al Corriere della sera. Chiese l’aspettativa dall’insegnamento fino al 1° ottobre del 1922 allorché ottenne il trasferimento alla scuola tecnica Fusi di Milano. A partire dall’anno successivo, nell’ottobre 1923, passò come ordinario di lettere nel ginnasio inferiore del liceo Parini. Appena sposatosi con Ester Verrua, già compagna di liceo e da allora in avanti inseparabile compagna di tutta la vita, Parri andò a vivere in via Moscova, non distante da via Solferino. La casa di Ferruccio e di Ester Parri divenne di lì a poco uno dei luoghi della cospirazione antifascista, dove passarono Ernesto Rossi, Carlo Rosselli e Piero Gobetti.
La frequentazione del Corriere albertiniano coincise con una rapida maturazione di Parri in senso liberal-democratico. La prima importante iniziativa antifascista fu la fondazione de Il Caffè, un quindicinale che uscì il 1° luglio 1924, nel pieno della crisi Matteotti, per chiudere i battenti nella prima decade del maggio 1925, quando oramai la strada della fascistizzazione dello Stato era stata intrapresa. Attorno a Parri e Riccardo Bauer si strinse un gruppo di antifascisti di vario orientamento culturale. Questo gruppo era unito dalla prospettiva politica di combattere il fascismo, evitando che quella lotta finisse per promuovere la diffusione del comunismo e del massimalismo socialista. Il gruppo di Parri e di Bauer era convinto che fosse necessario conquistare il ceto medio per promuovere la democratizzazione dello Stato liberale.
Un’altra iniziativa di Parri fu la pubblicazione, a partire dal novembre 1924, del periodico La Patria, un settimanale dei combattenti lombardi che intendeva contrastare, fino a quando fosse stato possibile, la fascistizzazione dell’ANC. Soggetto a continui sequestri per ordine del prefetto, La Patria riuscì a resistere fino al giugno 1925, allorquando la fascistizzazione dello Stato spinse un anonimo autore – probabilmente Parri stesso – a confessare ai pochi lettori che «nel grigiore dei tempi prebellici ci eravamo quasi dimenticati dello Statuto, non sentivamo più il valore di quei benefizi politici che vi erano sanciti […]. Confessiamo che li sentiamo nostri, li sentiamo necessari ora che ci sono contesi» (Polese Remaggi, 2004, p. 153). Il ciclo della rivoluzione antigiolittiana era quindi finalmente chiuso, mentre si apriva allora quello della battaglia antifascista per la democrazia.
Nel novembre 1925 Parri si dimise dalla redazione del Corriere che oramai era stato sottratto agli Albertini e allineato dalla nuova proprietà alle direttive del governo fascista. Le dimissioni furono per Parri l’occasione di compiere il primo gesto pubblico del suo antifascismo integrale, senza compromessi. Iniziava allora quella faticosissima strada che lo fece assurgere al cospetto dei suoi coetanei e delle generazioni successive quale coscienza stessa della democrazia italiana. Dopo l’abbandono del Corriere, Parri partecipò alla costruzione di una rete clandestina, che si dette diversi compiti: realizzare espatri di personalità dell’antifascismo, pubblicare all’estero scritti che non trovavano più spazio sulla stampa italiana e provvedere, infine, all’assistenza legale e finanziaria dei perseguitati politici. Assieme a Carlo Rosselli, a Sandro Pertini e altri, realizzò, nel dicembre 1926, l’impresa di trasferire Filippo Turati in Francia, sbarcando in Corsica.
Arrestato insieme a Rosselli sulla via del ritorno, fu protagonista, dopo un periodo di carcerazione, del processo celebrato a Savona, destinato a entrare nella memoria dell’antifascismo. Parri e Rosselli accusarono dal banco degli imputati il regime di Benito Mussolini, tacciandolo di essere l’incarnazione dell’‘antinazione’ che condannava al carcere i combattenti della Grande Guerra. I due antifascisti si rivolsero all’opinione pubblica europea, costantemente sollecitata a monitorare la situazione italiana grazie all’azione di esuli come Gaetano Salvemini. Le pene inflitte dal tribunale di Savona furono seguite da una vera e propria persecuzione di tipo amministrativo, condita dall’assenza della più elementare certezza del diritto. Parri trascorse sei anni tra carcerazione e confino che si conclusero il 20 dicembre 1932 in seguito all’amnistia concessa dal regime in occasione del decennale della marcia su Roma.
Passò attraverso due processi (Savona e Roma), fu inviato in ben quattro luoghi di confino (Ustica, Lipari, Campagna in provincia di Salerno e Vallo della Lucania), stazionò in molte carceri del Regno (Massa, Savona, Civitavecchia, Roma e Palermo) e fu infine soggetto a una sorveglianza costante nel breve intervallo di libertà di cui godette nel corso del 1930. Pur essendosi rifiutato ripetutamente di firmare la domanda di grazia, nel 1930 Parri fu liberato condizionalmente con un atto di clemenza di Mussolini. Tornato a Milano, svolse per qualche tempo una vita quasi normale, con pochi problemi di polizia, potendo così allacciare nuovamente le vecchie amicizie e riprendere la vita familiare. Questa situazione durò poco, perché si trovò coinvolto nella retata del 29 e 30 ottobre 1930 che portò in carcere il gruppo di Giustizia e Libertà di Milano. Parri fu assolto dalla commissione istruttoria del tribunale speciale per la difesa dello Stato per insufficienza di prove, ma le sue pene non erano finite. Infatti, alla fine del marzo 1931, ancora recluso nel carcere romano di Regina Coeli, nonostante il proscioglimento dalle accuse di aver partecipato alla cospirazione giellista, subì una nuova condanna a cinque anni di confino, inflittagli da una commissione provinciale presieduta dal prefetto di Roma, ma non la dovette scontare per intero, potendo usufruire dell’amnistia del 1932.
Il ritorno a Milano aprì una stagione nuova, caratterizzata dalla libertà personale e da una maggiore stabilità economica per la moglie e il figlio Giorgio. L’interessamento di amici di vecchia data fu cruciale. Tra questi, Giorgio Mortara – lo studioso di statistica, conosciuto ai tempi del comando supremo – era stato invitato da Giacinto Motta, presidente dell’Edison, per curare un’opera che illustrasse la vicenda dell’industria elettrica in Italia in occasione del suo cinquantenario. Mortara colse l’occasione per suggerire la collaborazione di Parri, il quale prese così a lavorare presso l’ufficio studi dell’azienda milanese. Grazie ancora all’intercessione di Mortara, Parri prese a collaborare al Giornale degli economisti e rivista di statistica, con saggi e recensioni retribuiti. Un’intera rete di contatti si stabilì a Milano, all’insegna del nesso fra moderno capitalismo industriale e antifascismo, coinvolgendo gli uffici studi di aziende e banche, tra cui quello della Banca commerciale italiana (Comit), dove si trovava Ugo La Malfa.
Dai non molti scritti di questo periodo, emerge che Parri continuò a coltivare un liberismo di derivazione einaudiana come antidoto al nesso tra autoritarismo politico e regolamentazione economica, caratteristico degli anni Trenta. Sul versante dei suoi interessi storico-politici, pubblicò sulla Nuova rivista storica (XVII (1933), 1-2, pp. 160 s.) un importante saggio dedicato alla figura di Carlo Pisacane sotto forma di recensione al volume che Nello Rosselli aveva dedicato all’eroe di Sapri l’anno precedente (Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano, Torino 1932).
Lo scenario aperto dalla caduta di Mussolini il 25 luglio 1943 convinse definitivamente Parri che il momento di impugnare le armi fosse tornato. Il progetto iniziale di coinvolgere parti dell’esercito regio nella lotta antifascista gli aveva fatto accettare con difficoltà i pronunciamenti repubblicani del Partito d’azione (PdA), al quale aveva aderito fin dalle prime battute nel 1942. Le conseguenze dell’8 settembre 1943 misero fine però alle suggestioni provenienti dalla memoria della Grande Guerra, che pure Parri non aveva mai smesso di coltivare. Dopo aver accettato l’incarico di responsabile militare del PdA all’inizio di settembre, fu naturale che in autunno i vertici del partito pensassero ancora a lui come guida delle formazioni di Giustizia e Libertà. Assunto il nome di battaglia di Maurizio, Parri accettò l’incarico non senza qualche esitazione, perché, pur rendendosi conto del ruolo crescente che le formazioni politiche stavano esercitando nella Resistenza antifascista, restava in lui ferma la convinzione che la nazione venisse prima dei partiti.
Parri divenne quasi naturalmente il capo del comitato militare del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) milanese che si riuniva nei sotterranei della Edison. Coadiuvato da Alfredo Pizzoni, presidente del CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) fino al 27 aprile 1945 e tesoriere della Resistenza, egli mostrò di avere fin da subito le idee molto chiare: separazione fra decisioni politiche e scelte militari, accentramento su di sé e sul proprio entourage (formato da Giovan Battista Boeri, Fermo Solari, Alberto Damiani, Alberto Cosattini) delle seconde, centralizzazione della direzione operativa sottratta ai capi diretti delle formazioni, costrizione dell’opera dei commissari politici entro i limiti dell’educazione politica unitaria, preferenza accordata a formazioni agili a scapito di quelle grandi (come quelle garibaldine) e monopolio dei rapporti con gli Alleati.
Tutto ciò fu sufficiente a provocare uno scontro con i comunisti. Essi lo accusarono, infatti, di lesinare mezzi alle formazioni garibaldine, di concedere troppo spazio a elementi apolitici, di mantenere molte attività fuori dal controllo del CLN e dello stesso comitato militare. La tensione intorno alla presunta ‘dittatura incontrollata’ di Parri traeva origine anche da episodi particolari, come, ad esempio, il viaggio che egli aveva compiuto in Svizzera nel novembre del 1943. A Certenago, aveva incontrato insieme a Leo Valiani i rappresentanti dei servizi alleati, Allen Dulles per la statunitense Office of strategic service e John Mac Caffery per la britannica Special operations executive. Durante quell’incontro furono prese decisioni importanti, ma nonostante le buone premesse, l’esclusività dei rapporti tra azionisti e potenze occidentali non fu mai realizzata.
La svolta di Salerno, quando l’arrivo di Togliatti da Mosca cambiò la posizione del Partito comunista, ebbe l’effetto di diminuire drasticamente il timore di un’insurrezione. La nomina di Luigi Longo a capo delle formazioni Garibaldi, incaricato di gestire il comitato militare del CLN assieme a Parri, contribuì a svelenire i rapporti. Parri e Longo si dedicarono congiuntamente a rafforzare le strutture della Resistenza. Pur reputando necessario un compromesso tra monarchia e antifascismo, Parri temeva a quel punto che le istanze di rinnovamento politico potessero venire affossate dal ripristino del gioco politico tradizionale, riorganizzatosi a Roma all’ombra delle armi alleate.
L’intera vicenda del Corpo volontari della libertà (CVL) – di cui il generale Raffaele Cadorna divenne comandante nel novembre 1944, coadiuvato da due vicecomandanti, Longo e Parri – si svolse all’insegna della necessità di stabilire collegamenti con Roma e con gli Alleati senza disperdere però la spinta autonomistica proveniente dalle file del partigianato. I vertici politici e militari della Resistenza furono catapultati nell’Italia liberata per prendere contatto con le autorità militari anglo-americane e le autorità politiche di Roma. Per quanto la memorialistica e una parte della storiografia abbiano giudicato negativamente i Protocolli di Roma del 7 dicembre 1944 e il riconoscimento da parte del governo Bonomi il 26 dello stesso mese, nei fatti la firma di questi importanti documenti permise al CLNAI e al CVL di trovare finalmente una sistemazione giuridica e finanziaria che permise loro di arrivare fino ai giorni della Liberazione.
Prima che gli aiuti giungessero a destinazione, le ultime settimane del 1944 furono segnate dal ridimensionamento delle strutture della Resistenza parallelamente a un nuovo slancio operativo da parte delle polizie fasciste e naziste nei territori urbani.
Il 2 gennaio 1945 Parri venne catturato dalla Gestapo in un appartamento milanese dove era stato appena nascosto sotto falso nome assieme alla moglie. Insieme a lui furono presi alcuni giovani a lui fedeli, tra i quali l’olandese Walter de Hoog, nome di battaglia Tulipano. Parri fu interrogato nei locali dell’hotel Regina per poi essere trasferito nel carcere di Verona. Il suo caso entrò in una complessa trattativa fra i servizi segreti anglo-americani e le autorità naziste in cerca di un salvacondotto. Una volta liberato, trascorse le ultime settimane prima della Liberazione in Svizzera. Partecipò quindi a una seconda missione nel Sud d’Italia.
Nell’immediato dopoguerra, Parri si ritrovò al centro della vita nazionale, allorquando i partiti antifascisti lo invitarono a presiedere il primo governo nominato dopo la Liberazione.
Il ‘governo della Resistenza’, nominato nel giugno 1945, fu caratterizzato dal confronto fra diverse ipotesi di ricostruzione democratica che oscillavano da quella di coniugare la democrazia con una qualche idea di rivoluzione, emersa dall’esperienza resistenziale appena conclusasi, a quella invece di innestare i processi di democratizzazione sul troncone della continuità statale. Parri si sentiva distante dalle risoluzioni più radicali dell’azionismo, attestandosi piuttosto su posizioni che nel partito venivano definite moderate. Egli sentiva in effetti la responsabilità di guidare la nazione verso la ricostruzione morale e materiale, superando le lotte di partito e le diversità ideologiche. Si rifiutò di considerare il partigianato in via di smobilitazione una categoria a cui lo Stato dovesse riconoscere particolari privilegi. La politica della responsabilità promossa da Parri era del resto sollecitata dalle spinose questioni che egli dovette affrontare nel corso dell’estate: la sistemazione del confine orientale, il separatismo siciliano, gli innumerevoli casi di disordine sociale sparsi per la penisola. Il presidente del Consiglio non mancò mai di parlare in nome della nazione, che egli considerava un valore superiore a qualsiasi ideologia.
Allo stesso tempo, tuttavia, Parri non nascose che la rivoluzione dei CLN dovesse essere in qualche misura istituzionalizzata, come mostrò la celebre polemica che ebbe con Benedetto Croce alla Consulta nel settembre 1945 intorno alla definizione del regime liberale precedente il 1922. Dai rapidi riferimenti fatti da Parri nel suo intervento, emerse che, secondo il presidente del Consiglio, le istituzioni della democrazia in Italia dovevano essere create ex novo, perché il liberalismo prefascista non ne aveva prodotte. Era giunto insomma per Parri il momento di tradurre in cifra giuridica lo spirito della Resistenza. A più riprese in quei mesi, egli si mostrò convinto che la ricostruzione democratica spettasse a un’assemblea costituente dotata di forti poteri, comprendendo con difficoltà la proposta avanzata dalle autorità alleate per una ricostituzione commune by commune del tessuto della rappresentanza politica. Gran parte delle questioni che si trovarono nell’agenda del governo – dall’estensione dell’epurazione alle scadenze elettorali, dal cambio della moneta alla gestione delle lotte mezzadrili – risentì di un conflitto politico generale sull’idea di regime rappresentativo che in definitiva contribuì a minare l’unità delle forze politiche.
Nel novembre 1945, i liberali aprirono la crisi che avrebbe costretto Parri alle dimissioni, chiudendo anche simbolicamente le speranze di rinnovamento attribuite da molti al movimento resistenziale. Nel febbraio 1946, Parri abbandonò il PdA, oramai degenerato nella conflittualità ideologica interna. Fondò assieme a La Malfa il Movimento della democrazia repubblicana che permise a entrambi di essere eletti all’Assemblea costituente. Dopo l’estate, i due leader ex azionisti entrarono nelle fila del Partito repubblicano italiano (PRI). Nel corso del 1947, Parri profuse le sue energie per la costruzione di una terza forza laica, che raccogliesse il consenso delle forze sociali non ancora egemonizzate dai partiti di massa. Nel contesto della guerra fredda incipiente, acquisì rapidamente la consapevolezza che lo spazio per un’élite resistenziale chiamata a forgiare uno Stato-nazione democratico di tipo nuovo si era oramai esaurito. Si convinse che una fragile democrazia rappresentativa come quella italiana avrebbe potuto consolidarsi soltanto attraverso uno stretto legame con le democrazie occidentali. Vicino alle posizioni del Movimento federalista europeo (MFE), aderì all’Union européenne des fédéralistes nella convinzione che la federazione europea potesse nascere soltanto in chiave antisovietica quale frutto di una forte interazione euro-americana. Entrò a far parte dell’Unione parlamentare europea, partecipando nel settembre del 1947 al congresso di Gstaad e, nel settembre 1948, in posizione di primo piano, a quello d’Interlaken. Dopo le elezioni del 18 aprile 1948, divenne presidente del gruppo parlamentare per l’Unione Europea al Senato italiano. Il discorso che Parri tenne nella Camera alta a favore del Patto atlantico nel marzo del 1949 rappresentò in un certo senso il culmine del suo occidentalismo democratico.
Queste scelte ebbero una ricaduta anche sul terreno a lui più caro, l’indipendenza politica del partigianato. Di fronte alle pressioni comuniste, reputò necessario distaccare i partigiani che avevano aderito alle formazioni Mazzini, Matteotti e Giustizia e Libertà dall’Associazione nazionale partigiani. Nonostante questo strappo, Parri restava l’uomo simbolo della Resistenza agli occhi sia dei suoi antichi compagni sia dei suoi eterni nemici. Gli attacchi provenienti da periodici della destra qualunquista e neofascista quali Il Merlo giallo e Meridiano d’Italia gli derivarono dal costante impegno che egli stava profondendo nelle aule dei tribunali contro Rodolfo Graziani, già viceré d’Etiopia e ministro della Difesa nazionale della Repubblica sociale italiana. Nel 1949, convinto che nell’Italia divisa dalla guerra fredda fosse necessario tessere il filo condiviso della memoria resistenziale, si pose al centro di un’iniziativa di grande rilievo: la formazione dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia.
L’occidentalismo implicito nel federalismo di Parri ebbe una vita intensa, ma breve. La speranza che, rompendo la sovranità degli Stati nazionali, si potesse procedere speditamente verso la formazione di uno Stato federale europeo fu presto ridimensionato dalla configurazione che i governi nazionali impressero alle iniziative europeistiche. Dopo averlo inizialmente approvato, Parri vide nel progetto della CED (Comunità Europea di Difesa) una sostanziale rinuncia alla dimensione sovranazionale e persino un potenziale di degenerazione in senso militaristico. Nello stesso periodo, sul piano della politica interna, Parri si allontanò dalle posizioni di La Malfa. Nell’autunno 1952, la proposta politica di stabilizzare la democrazia italiana attraverso la modifica della legge elettorale in senso maggioritario fece scorgere a Parri il rischio di uno strappo in senso autoritario. Ruppe così con il gruppo dirigente del PRI, diventando, in vista delle elezioni del giugno 1953, protagonista della battaglia contro la ‘legge truffa’, combattuta dalla piccola formazione di Unità popolare, la quale, assieme ad altre, impedì che scattasse il quorum previsto dalla legge per l’assegnazione del premio di maggioranza alla coalizione vincente.
Il sostrato antifascista del discorso politico di Parri travalicò in questa occasione gli argini del centrismo. Nel suo discorso, il problema del fascismo in Italia non era più soltanto confinato al revival neofascista e alle volgarità del qualunquismo. La stessa maggioranza centrista, timorosa di cedere terreno alle sinistre, si stava infatti avviando, secondo Parri, sulla strada dell’autoritarismo clericale. Parri abbandonò dunque nel 1953 l’anticomunismo democratico, una componente tradizionale del suo pensiero, nella convinzione che la democratizzazione del sistema politico repubblicano dovesse passare soprattutto per il rafforzamento del suo fondamento antifascista.
Pur non eletto nel nuovo Parlamento, nel 1955 si ritrovò a figurare come candidato delle sinistre, allorquando la scadenza del mandato di Luigi Einaudi pose il problema dell’elezione di un nuovo presidente della Repubblica. Confluita Unità popolare nel Partito socialista italiano (PSI), Parri tornò in Parlamento in seguito alle elezioni del 1958. A partire da allora, fu uno dei protagonisti della piena legittimazione della Resistenza antifascista che nel corso degli anni più duri della guerra fredda era rimasta ai margini dell’insegnamento scolastico e delle commemorazioni pubbliche.
Assieme a uomini quali Umberto Terracini, Leopoldo Piccardi e Riccardo Lombardi, Parri lavorò all’inizio del 1959 alla costituzione di un consiglio federativo della Resistenza e fu uno dei protagonisti indiscussi delle giornate del luglio 1960. Il 12 luglio fu latore in Parlamento di una nuova proposta per lo scioglimento del Movimento sociale italiano (MSI), mentre il 21 dello stesso mese parlò a Porta S. Paolo a Roma di fronte a una piazza gremita, sottolineando ancora una volta il carattere antifascista della Costituzione repubblicana. Nominato senatore a vita dal presidente della Repubblica Antonio Segni il 2 marzo 1963, Parri continuò la sua battaglia politico-culturale lungo il sentiero tracciato negli anni precedenti. Fondò nell’aprile dello stesso anno L’Astrolabio assieme a Ernesto Rossi. A Parri, uno dei simboli riconosciuti della democrazia antifascista e uomo dal passato di graduato dell’esercito, si rivolsero ufficiali dei carabinieri fedeli alla Repubblica per denunciare il pesante condizionamento esercitato da manovre di tipo golpista sulla formazione del secondo governo Moro nell’estate del 1964. Nel corso del 1965 e del 1966, Parri fu autore sull’Astrolabio di una serie di interventi giornalistici che fecero da battistrada alle indagini sul caso del generale Giovanni De Lorenzo pubblicate successivamente da Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi sull’Espresso.
Gli anni successivi si svolsero all’insegna di un costante avvicinamento di Parri al Partito comunista italiano (PCI), sia pure nella posizione di indipendente di sinistra. Grazie ai legami personali con Luigi Longo, risalenti ai tempi della Resistenza, ebbe la possibilità di guidare per alcuni anni un drappello di parlamentari, eletti con i voti comunisti, ma provenienti da aree diverse della sinistra italiana, dai socialisti Tullia Carettoni e Luigi Anderlini al dissidente cattolico Adriano Ossicini fino agli ex azionisti Carlo Levi e Giorgio Agosti. Nel corso degli anni Settanta, l’attività politica e giornalistica di Parri si ridusse progressivamente, a causa della vecchiaia e delle malattie.
Ricoverato presso l’ospedale militare del Celio di Roma, morì in seguito a un collasso cardiocircolatorio alle tre e trenta del mattino dell’8 dicembre 1981.
I funerali si svolsero il giorno successivo alla presenza del capo dello Stato, Sandro Pertini, mentre toccò a un altro compagno della lotta antifascista, Leo Valiani, il compito di pronunciare l’orazione funebre. Il corpo fu seppellito a Genova nel cimitero di Staglieno, non lontano dalla tomba di Giuseppe Mazzini.
Scritti e discorsi. Fra le numerose pubblicazioni si segnalano: Problemi di riforma del nostro Parlamento, in La sinistra davanti alla crisi del Parlamento, Milano 1967, pp. 89-106; Due mesi con i nazisti. Dal tavolaccio alla branda, Roma 1973; Dalla Resistenza alla Repubblica, alla Costituzione, in Fascismo e antifascismo. Lezioni e testimonianze, II, Milano 1976, pp. 611-653; Scritti 1915-1975, a cura di E. Collotti et. al., Milano 1976; Discorsi parlamentari, Roma 1990.
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio centrale dello Stato, Archivio Ferruccio Parri (su cui si veda: P. Puzzuoli, P.: il suo archivio e la documentazione dell’Archivio centrale dello Stato, in Il governo P., Roma 1995, pp. 130-139); Milano, Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, Fondo Ferruccio Parri, Fondo Corpo volontari della libertà; Torino, Archivio Centro studi Piero Gobetti, Corrispondenza gobettiana, b. Parri Ferruccio; Fondo Giustizia e Libertà; Firenze, Istituto storico della Resistenza in Toscana, Archivi di Giustizia e Libertà. Sull’attività parlamentare di Parri si possono consultare il Portale storico della Camera dei deputati (ad nomen, http://storia.camera.it/deputato/ferruccio-parri-18900119#nav) e il Sito storico del Senato della Repubblica, dove sono disponibili le schede personali dalla I all’VIII legislatura (http:// www.senato.it/sitostorico/home, s.v.).
G. Quazza et. al., F. P. Sessant’anni di storia italiana, Bari 1983; F. P. La coscienza della democrazia, mostra storico-documentaria, a cura di A. Scalpelli - R. Guerri - A.G. Ricci, Milano 1985; A. Aniasi, P. L’avventura umana, militare, politica di Maurizio, Torino 1991; L. Polese Remaggi, «Il Ponte» di Calamandrei 1945-1956, Firenze 2001, ad ind.; Id., La nazione perduta. F. P. nel Novecento italiano, Bologna 2004; Maurizio la coscienza della democrazia, a cura di G. Morrone, Milano 2008; W. de Hoog, Tulipano. Un partigiano olandese ricorda la Resistenza e F. P., Roma 2009; L. Polese Remaggi, La democrazia divisa. Cultura e politica della sinistra democratica dal dopoguerra alle origini del centro-sinistra, Milano 2011, ad ind.; F. P. a trent’anni dalla morte, numero monografico di Storia e memoria, XXI (2012), 1.