Festa
Il tema della festa è stato considerato nelle sue dimensioni religiose e politiche già prima di diventare oggetto di indagine delle scienze sociali, e anche quando lo è diventato - a partire da Durkheim - non si è mai pienamente emancipato dalle iniziali considerazioni sulla utilità o pericolosità della festa nei confronti dell'insieme sociale o di una devozione religiosa socialmente utile. Sono considerazioni riprese in questo secolo, quando si è denunciata la scomparsa della dimensione comunitaria espressa nella festa, attribuendola alle trasformazioni della società industriale.
Il carattere ideologico dei discorsi sulla festa ha fatto sì che essa fosse più proclamata che definita, più agognata o esorcizzata che descritta, più evocata da rappresentazioni allusive che circoscritta in comportamenti identificabili e isolabili. Lo studio della festa ha sofferto di un mescolamento concettuale e tematico, di una indistinzione e sovrapposizione che hanno finito per limitarne la fortuna nelle scienze sociali. L'esempio più macroscopico è la confusione piuttosto generalizzata che si fa tra festa e rito. Molti discorsi sulla festa, pur intesi a definirla, finiscono per assimilarla al rito, usando indifferentemente l'uno o l'altro termine: cosa che non capita invece nei discorsi sul rito, dove è ben difficile che questa nozione, più consolidata nella tradizione scientifico-accademica, venga confusa con quella di festa. Non per irrigidire nozioni il cui valore è operativo e non assiomatico, ma per individuare campi d'uso appropriatamente diversificati, sarà allora opportuno distinguere i due temi: mentre il rito è fondamentalmente una sequenza formalizzata di azioni, la festa è, innanzitutto, un vissuto collettivo; se il rito è qualcosa che si fa, la festa è qualcosa che soprattutto si sente. Il rito inoltre prevede una distinzione tra officianti e partecipanti, un centro e una periferia, mentre la festa può confondere le distinzioni e moltiplicare i centri (v. Clemente, 1981, p. 56). Un rito e una festa celebrati insieme possono essere considerati l'uno un testo, l'altra un contesto, l'uno un ordine di azioni obbligate, l'altra la sua cornice di vissuto degli attori in cui non sempre le azioni sono coordinate, derivate, giustificate dal rito.
Una caratteristica della festa è che già da parecchi decenni essa viene data per scomparsa o in via di sparizione da parte di coloro che se ne occupano nei loro studi. La definizione ideale della festa proietta sempre le sue caratteristiche nel passato e le dà per esaurite nel presente: ciò deriva dalla peculiare concezione olistica della festa che ha dominato negli ultimi due secoli, concezione che da una parte ha fatto della festa quel formidabile tema politico-ideologico cui si accennava, e dall'altra ha spesso reso difficile una conoscenza etnograficamente documentata dei fenomeni festivi, fuori da uno schema ideale di festa.
La concezione olistica della festa si esprime soprattutto in due direzioni, quella della festa come esperienza della comunità e quella della festa come esperienza del tempo. Quasi tutte le più significative concezioni della festa formulate dal Settecento a oggi possono rientrare nell'una o nell'altra di queste accezioni.
A partire dalla fine del Seicento l'azione congiunta di polemiche utilitariste, preoccupazioni ecclesiastiche e illuminismo progressista riduce drasticamente l'enorme numero di feste che si tenevano in Europa. "L'odio per lo sperpero si allea con il timore per tutto ciò che di smodato le feste generano. La razionalità economica segue lo stesso tracciato della predicazione morale e religiosa in quanto le 'sante giornate consacrate alla devozione' sono, nella pratica, diventate occasioni di ubriachezza e libertinaggio, di risse e di delitti" (v. Ozouf, 1976; tr. it., p. 3). I paesi protestanti, sottolineano Montesquieu e Voltaire, presentano, sul piano della produzione economica, un vantaggio immediato nei confronti di quelli cattolici, perché in essi il numero delle feste annuali è stato notevolmente ridotto (ibid., p. 2).
Una voce sensibilmente discorde nel coro unanime di condanna è quella di Rousseau, che denuncia la follia di chi pretende di ridurre il legame sociale al vantaggio utilitarista. Un 'popolo' non può restare unito senza una molla emotiva, solo per ragioni di interesse; un 'popolo felice' è quello che ritrova la sua unità nelle feste e nei divertimenti. "Piantate in mezzo a una pubblica piazza un palo coronato di fiori, ponetevi intorno un popolo, e otterrete una festa" (v. Rousseau, 1758; tr. it., p. 269). L'obiettivo di Rousseau è pedagogico: egli mira a formare un popolo che rinnovi le salde virtù patriottiche. La festa è occasione di divertimento, strumento di costruzione civile e di unificazione sociale. La tonalità pedagogica di questa festa sarà fortemente sentita dalla Rivoluzione francese, che mirerà a costruire un popolo libero anche per mezzo di un sistema di feste elaborato ad hoc, che dovrà costituire il fondamento di un continuo e rinnovato riconoscimento delle nuove virtù patriottiche. La festa nel nuovo regime ha il compito "di rendere manifesto, eterno, intangibile il nuovo legame sociale" (v. Ozouf, 1976; tr. it., p. 14).
La Rivoluzione, che si propone di sostituire le feste religiose con nuove feste civili, fa tesoro del millenario uso ecclesiastico delle feste come unificazione del popolo di Dio. Forse per una derivazione da quest'uso, la caratteristica centrale della festa sarà sempre più individuata nella sua capacità di unificare, di rifondare il patto sociale. È in questa chiave che la festa riceverà, dopo Rousseau, la sua definizione più celebre e feconda, quella di Durkheim. I 'primitivi' australiani su cui questi fonda la sua teoria sull'origine della religione alternano periodi di isolamento sociale, durante i quali sono esclusivamente dediti alle preoccupazioni della sussistenza individuale, a fasi di incontri collettivi, durante i quali si sentono come presi da una forza esterna che muta la loro percezione di sé e degli altri. In queste fasi essi avvertono un livello di realtà diverso da quello consueto, ciò che per Durkheim costituisce il sacro, contrapposto al profano della vita di tutti i giorni. Il sacro fonda la socialità e la festa è la sua dimensione costitutiva, oltre che lo strumento di rifondazione, di riconferma e rafforzamento della solidarietà sociale (v. Durkheim, 1912).
La linea Rousseau-Durkheim, fondamentale nella concezione olistica della festa, ha creato una identificazione tra festa e unità sociale: la festa è il luogo di rappresentazione del sacro, che è a sua volta la base fondante della collettività. Nella sua versione 'positiva', quella originaria, la festa è soprattutto un'esperienza della comunità attraverso la quale questa conferma i propri confini e i propri ambiti. Nella versione 'negativa' la festa è prevalentemente trasgressione e infrazione, ma la funzione è in larga parte ancora quella di rafforzare, confermare (o lasciar riaffiorare, una volta esaurito il proprio tempo) la comunità che l'ha espressa. Fortemente rappresentativo di questa seconda versione è il lavoro del gruppo del Collège de Sociologie (v. Hollier, 1979), di cui Roger Caillois è, sul tema della festa, l'autore centrale. La lezione di Durkheim è in lui tutt'altro che rimossa: "La festa, il dilapidare i beni accumulati durante un lungo intermezzo, la sregolatezza divenuta regola, ogni norma capovolta dalla presenza contagiosa delle maschere fanno della vertigine collettiva il punto culminante e aggregante dell'esistenza pubblica". Ma poi continua: "Essa appare come il fondamento ultimo di una società per il resto poco consistente. Rafforza una coesione fragile che, squallida e di modesta portata, sussisterebbe con una qualche difficoltà se non ci fosse questa esplosione periodica che avvicina, riunisce e fa comunicare fra loro individui assorbiti, per il resto del tempo, dalle preoccupazioni domestiche e da cure esclusivamente private" (v. Caillois, 1967²; tr. it., p. 106). L''eccesso' rinnova, sostiene Caillois, che rievoca il modello delle società arcaiche, la cui forza di coesione sociale nella presente società è andata smarrita. Albert Piette (v., 1988, p. 332) avanza il dubbio che la festa qual è intesa da Caillois, diversamente da quella positivamente orientata di Durkheim, si articoli intorno a un "puro negativo, che egli non spera di veder recuperare da una qualsiasi positività". Anche con Girard, che pure si richiama a Durkheim e attraverso lui a Caillois, e che lascia alla festa una valenza di rifondazione, l'ottimismo positivo di Durkheim scompare nella concezione della violenza fondatrice dell'ordine sociale: il nucleo della festa starebbe nella violenza sacrificale che essa libera vivificando e rinnovando l'ordine culturale, "ripetendo l'esperienza fondatrice, riproducendo un'origine che è percepita come la fonte di ogni vitalità e fecondità" (v. Girard, 1972; tr. it., p. 163).
Freud è ovviamente fuori dalla filiazione durkheimiana, ma può essere richiamato in questo contesto perché anche in lui è presente una sorta di "pur négatif", il fondo ambivalente e irriducibile della pulsione di morte che traluce nel gioire festivo. "La festa è un eccesso permesso, anzi offerto, l'infrazione solenne di un divieto. Gli uomini si abbandonano agli eccessi non perché siano felici per un qualche comando che hanno ricevuto. Piuttosto, l'eccesso è nella natura stessa di ogni festa; l'umore festoso è provocato dalla libertà di fare ciò che altrimenti è proibito" (v. Freud, 1912-1913; tr. it., p. 144). Ma questa festa non è un puro gioire: essa si organizza intorno a una proibizione violata, quella dell'uccisione del totem, e si accompagna al lutto.
Sia pure a partire da orizzonti problematici diversi, i fenomenologi della religione propongono una nozione della festa non lontana dalla dimensione del rinnovamento e della rifondazione. Ma non si tratta della rifondazione della comunità, poiché con i fenomenologi entra in gioco la dimensione esistenziale e contraddittoria dell'umano, che è catturato dal profano, anche se aspira alle altezze del libero gioco degli dei. Tale dimensione contraddittoria si esprime nella radicale distinzione tra tempo sacro e tempo profano. Per Eliade la festa ripete un gesto archetipico, fondatore, è sospensione del tempo profano e rinnovo della creazione; è l'utilizzazione del caos che permette il ritorno degli dei tra gli uomini; sarà poi l'energia liberata dal sacro a permettere il successivo dispiegamento del profano (v. Eliade, 1949, p. 74).
In Italia, nonostante l'indiscutibile influsso delle suggestioni fenomenologiche su un autore chiave per gli studi antropologici e storico-religiosi come Ernesto De Martino, una netta pregiudiziale storicistica e l'attenzione alle dinamiche storiche hanno ricondotto la festa - prima a opera dello stesso De Martino, poi di altri autori che si sono occupati di essa sia sul piano dell'indagine empirica che della speculazione teorica - ai suoi peculiari contesti storico-sociali. Per Lanternari la festa è sì "una categoria della cultura in quanto tale" perché incarna una "primordiale esigenza volta a fronteggiare e neutralizzare la negatività dell'esistenza", ma si esprime concretamente nelle sue "diverse determinazioni storiche e culturali" (v. Lanternari, 1983, p. 25). Più nettamente, per Clara Gallini (v., 1980, p. 417) "non esiste la festa come categoria, ma esistono le feste come istituzioni storiche e culturali".
La concezione olistica della festa si regge su contrapposizioni radicali: sacro/profano, individuo/comunità, utile/spreco, norma/trasgressione, il cui valore oppositivo può facilmente essere messo in dubbio con l'aiuto dell'etnografia della festa. Per esempio Valerio Valeri ha buon gioco a sottolineare che, affinché vi sia una festa, la sua dimensione trasgressiva, pur possibile, non è necessaria: "al contrario, molte feste [...] consistono nella rappresentazione della gerarchia e dei valori sociali e servono a riaffermarli solennemente" (v. Valeri, 1979, p. 89). Così Maconi osserva a proposito delle feste dei Karimojong dell'Uganda: "Nella dinamica delle feste calendariali karimojong non si riscontrano tuttavia elementi dissociati dalla cultura ufficiale, né contestativi delle regole sociali, né trasgressioni ritualizzate; al contrario, tutto si muove in funzione della definitiva codificazione dei rapporti sociali e della loro esaltazione grazie alla forza stessa del rituale" (v. Maconi, 1989, pp. 187-188).
Oltre a ciò il difetto principale delle concezioni olistiche sta nell'irrigidimento dei presupposti irrinunciabili della festa - la totalità comunitaria e il suo tempo unitario - che non sono considerati come suoi possibili effetti o eventuali sue costruzioni, ma come le sue ragioni ultime, ciò da cui e per cui essa nasce. È la comunità a essere considerata l'elemento caratterizzante della festa, quello senza il quale non si può parlare di festa. Da Rousseau in poi una festa non è se non comunitaria. La dimensione comunitaria è poi spesso intesa necessariamente come egualitaria: l'albero della festa di Rousseau e la comunità primitiva di Durkheim fanno pensare che la festa è tale se i componenti sono posti su un piano di uguaglianza, in cui, come nella communitas di Turner, "l'uno [è] con l'altro", in "un fluire dall'Io al Tu. La comunità è là dove si fa evento la comunità" (M. Buber, cit. in Turner, 1969²; tr. it., pp. 142-143). In realtà la festa comunitaria di Rousseau e Durkheim è una festa autoritaria. Senza parlare dell'uso politico-pedagogico della festa rousseauiana, che dalla Rivoluzione francese arriva ai grandi raduni di massa nazionalisti e nazisti (v. Mosse, 1974), già nel pensiero del filosofo ginevrino la festa oscilla tra una dimensione libertaria e una demiurgo-autoritaria, in quanto "si organizza a partire da un demiurgo, la cui influenza irresistibile si estende su tutti gli astanti" (v. De Marinis, 1981). In Durkheim, poi, è ben evidente la dimensione obbligatoria della religione totemica, di cui la festa è l'apice: come dice Evans-Pritchard (v., 1965; tr. it., p. 112), "anche se non c'è coercizione, un individuo non può che accettare ciò che ogni altro accetta; non ha nessuna scelta, non più di quanta ne abbia per la lingua che parla". Dunque il momento organico egualitario in realtà nasconde una obbligatorietà inquietante.
Ciò che della nozione di festa comunitaria appare è la condivisione di valori comuni, il senso di un'appartenenza unica, il sentimento di parità, insomma la Gemeinschaft. "La festa è comunanza - scrive Gadamer (v., 1977; tr. it., p. 43) - ed è la rappresentazione di questa comunanza nella sua forma più completa. La festa è sempre di tutti". Ciò che essa invece nasconde è la presenza del potere, sia pure quel potere che "si identifica in certa misura con la comunità: l'accettazione del potere da parte dei membri di una comunità dà a essi il senso del loro 'appartenere insieme'. [...] Una interpretazione produttiva del potere come 'agire in comune', come 'stare insieme', che confina sempre più sullo sfondo la relazione comando/obbedienza" (v. Pasquinelli, 1986, p. XXVI). Anche la recente concezione della festa come "esperienza di trasparenza", "accrescimento di senso", sostenuta da Valeri (v., 1979), non evita l'occultamento della dimensione del potere. Lo stesso Durkheim (v., 1912, pp. 234-235), del resto, aveva sostenuto che il sacro è un modo per conoscere il profano. Ma ciò che si offre alla conoscenza senza ostacoli favorita dalla festa è l'ordine socialmente appreso del mondo, determinato dal potere: la trasparenza è un prodotto della norma sociale, non un effetto dell'autoevidenza della società; è una 'invenzione' di una determinata trasparenza codificata dai processi di egemonia, non l'assoluto tralucere della 'realtà' sociale. La trasparenza non è un sereno venire in chiaro delle relazioni di una totalità sociale, ma una lotta tra soggetti sociali frantumati, ciascuno organizzato intorno a una rappresentazione che sarà trasparenza per sé, opacità per gli altri.
Victor Turner ha provato a salvare la dimensione comunitaria, riducendo il ruolo del potere, con la nozione di communitas, cioè di una "'comunità' o anche comunione non strutturata o rudimentalmente strutturata e relativamente indifferenziata di individui uguali", che nella vita di una società si alterna ai momenti in cui prevalgono le forme più consuete della 'struttura', cioè di "un sistema strutturato, differenziato e spesso gerarchico di posizioni politico-giuridico-economiche, con molti tipi di valutazioni che separano gli uomini in termini di 'più' o di 'meno"' (v. Turner, 1969²; tr. it., p. 113). La communitas, nel ragionamento di Turner, si impone di tanto in tanto sia perché la sua irruzione 'purifica' la struttura, sia perché gli individui, compresi quelli che detengono posizioni sociali dominanti, hanno bisogno di una interruzione del rigido ritmo di vita imposto dalla struttura: dunque, il bisogno di communitas è al tempo stesso sociale e individuale. Qui nasce però qualche problema. Dal momento che nel quadro durkheimiano, in cui l'individuo era libero solo di comprendere "la necessità [...] della propria sottomissione" (v. Jonas, 1968; tr. it., p. 413), si inserisce una dimensione individuale indipendente da quella sociale, chi regolerà le due istanze? Se la communitas interviene vuoi per esigenza di purificazione della struttura, vuoi per bisogno individuale di togliersi la maschera, come si accordano i due tempi, dal momento che le scansioni temporali non sono più ancorate alla rappresentazione unitaria del sociale offerta dal sacro, ma seguono anche ritmi individuali? L'unica possibilità di accordo sta nel considerare il bisogno individuale comunque regolato dal ritmo sociale: come osserva Augé (v., 1982; tr. it., p. 82), "se in ogni società c'è dialogo tra communitas e struttura, natura e cultura, è in definitiva [...] la struttura che realizza l'unità dei contrari". Torniamo dunque alla dimensione autoritaria della comunità.
Il secondo dei due presupposti della festa olistica, cui si è accennato sopra, è il suo tempo inteso come dimensione comunitaria. Valeri, per esempio, sostiene che "in primo luogo, la festa è una qualsiasi attività rituale correlativa dell'organizzazione sociale del tempo" (v. Valeri, 1979, p. 91). Le opposizioni radicali considerate alla base della festa - sacro/profano, ecc. - esigono un nesso irrinunciabile tempo-festa, perché solo in esso si possono svolgere. Purtroppo questo nesso non sfugge alle osservazioni già fatte a proposito della comunità. Ad esempio, la distinzione tra tempo sacro e tempo profano presuppone un insieme sociale che si muova in un'unica e comune alternanza temporale. La proposta di Turner di considerare accanto al tempo sociale anche quello individuale suggerisce che non è possibile parlare di un tempo comunitario unico: il tempo della festa, la sua 'calendarizzazione', non è una sua dimensione costitutiva, bensì documenta la presenza in essa del potere regolativo del tempo sociale. Il calendario, ci ricorda Le Goff (v., 1977, p. 501), "è uno dei grandi emblemi e strumenti di potere". Il tempo olistico della festa nasconde inoltre le dinamiche di tempi sociali divergenti, di cui parlano Halbwachs, Gurvitch, Mercure, che giacciono "sotto l'apparente uniformità e unità del tempo ufficiale" (v. Tabboni, 1991, pp. 215-217).
Il tempo della festa, poi, si può dividere in diversi tempi: quello dell'istituzione festiva (v. Lanternari, 1983, p. 26), che è l'unico veramente vincolato alle già ricordate opposizioni radicali, al calendario, ecc.; i tempi individuali, che possono invece sottrarsi al tempo istituzionale e cadenzare nuovi ritmi, sia nelle invenzioni di nuove feste, sia nelle modalità di partecipazione alle feste tradizionali; infine, nel quadro delle condizioni strutturali in cui si realizzano le feste contemporanee, i tempi dei media e quelli dell'industria e della pubblicità connessi alle feste.Il tempo festivo muta progressivamente, nel senso comune, in spazio festivo, l''ora' in 'qui', il calendario in viaggio. Quasi tutti gli autori che hanno adottato una concezione olistica della festa hanno sottolineato con riprovazione la riduzione della festa a vacanza. Caillois, per esempio, sosteneva che le vacanze "non possono appagare l'individuo. Sono prive di ogni carattere positivo"; e aggiungeva sintomaticamente: "È un ulteriore isolamento dal gruppo piuttosto che un modo di sentirsi in comunione con la collettività". Ciò che è intollerabile è che l'individuo sfugga alla sua comunità, anche se si sposta verso un'altra festa, un'altra comunità. In effetti la paura della disgregazione sociale rende insopportabile che l'orologio individuale non sia perfettamente calibrato su quello comunitario, che scompaia una misura comune e unica del tempo. Quando questo avviene - si argomenta - la festa come 'vero istante collettivo' cessa (v. Jesi, 1977).Ma come pensare la festa fuori dei suoi rassicuranti quadri esplicativi - il tempo, la comunità - senza rischiare, in questo modo, una sua frantumazione fino alla dispersione in un'aporetica festa individuale?
L'impossibilità attuale della dimensione olistica della festa è uno dei motivi, non sempre esplicito, per cui un buon numero di studiosi, riprendendo un atteggiamento già presente nel Settecento, ritiene che la festa sia scomparsa. Non si riconoscono nelle forme contemporanee quei caratteri di coralità e di totalizzazione temporale identificati nelle feste del passato: "La festa presuppone una comunità dotata di linguaggio organico, e questo tipo di comunità è stato, in Occidente, travolto dalla rivoluzione industriale e dallo sviluppo tecnologico, dall'eclisse del sacro e dall'alienazione" (v. Cardini, 1983, p. 23). Va segnalato questo curioso etnocentrismo rovesciato, per cui si prendono in considerazione solo le feste degli altri, dei 'primitivi', degli 'antichi', del 'mondo popolare'. Eppure le feste si continuano a praticare, anche se in forme diverse, non olistiche, non comunitarie, in forme - come per esempio nel caso del Festival dei bugiardi di Moncrabeau studiato da Vera Mark - che non possono essere considerate "una celebrazione solidale che avrebbe la funzione di integrare la collettività" (v. Mark, 1991, p. 37). La festa di Moncrabeau è esemplare perché rappresenta un caso non isolato - in Francia e altrove - di festa che raccoglie un "pubblico di paesani e un pubblico di villeggianti", in cui dunque si impone una netta distinzione tra attori della festa tradizionale (che domani potranno essere/saranno turisti) e attori della festa turistica (che domani potranno essere/saranno attori 'tradizionali'). Ne risulta evidente una irrimediabile cesura tra attori ed eventi festivi.
Infatti, se si prendono in considerazione gli eventi festivi, se ne può ammettere l'assunzione in un sistema collettivo in cui, con l'espressione di Canetti (v., 1960; tr. it., p. 74), "le feste si chiamano l'un l'altra". Per Leach è il sistema delle feste a creare il tempo, secondo un modello durkheimiano: ma proprio per assumere il nesso festa-temporalità, "dobbiamo considerarle [le feste] unitariamente, non singolarmente" (v. Leach, 1961; tr. it., p. 210), cioè in un sistema. Se invece si guarda agli attori della festa, si deve concludere che essi non sono obbligati al sistema, anzi possono esserne fuori e 'tradirlo' in almeno tre sensi: 1) possono compiere azioni festive che non corrispondono al 'significato' della festa. In questo caso, la pluralità dei codici simbolici impedisce di trovare un senso unitario nella somma delle azioni festive, e la festa sembra definirsi più come un contenitore polisemico che come un centro che abbia un senso specifico, più come un contesto di feste che come una festa; 2) quella stessa moltiplicazione dei codici culturali comporta che le occasioni di rappresentazione simbolica, di festa, non costituiscano un sistema. È non solo possibile, ma consueto, che gli attori sociali partecipino a più feste non interdipendenti, con campi simbolici che non si conciliano in un sistema formale ma possono comunicare all'interno delle biografie personali. La festa che stanno vivendo è per gli attori solo una delle feste possibili: coloro che oggi partecipano a una festa tradizionale, domani potrebbero essere protagonisti di un avvenimento festivo di tutt'altro tipo; 3) la festa dell''individuo moderno' è una festa in cui egli è anche, in parte, un estraneo che oscilla tra partecipazione e distacco. I flussi psicologici e simbolici che lo attraversano lo spingono frequentemente fuori del climax della festa, richiamando altri ricordi e altri simboli non propri di quella festa, non da essa evocati, oppure semplicemente facendo di lui un osservatore oltre che un partecipante. La stessa persona nel contesto festivo diviene attore plurimo di diversi universi simbolici.In casi come questo viene meno quella funzione della festa che soprattutto negli ultimi anni è stata più volte ipotizzata (in particolare per quelle contemporanee): la festa come strumento della ricerca di identità (a meno che non si cerchi in essa una forma di identità plurima, un 'pulviscolo' di identità).
Non si può aspirare a una definizione cristallizzata della festa, come se ci si riferisse a un qualcosa che rimane indifferenziato pur nelle diverse culture ed epoche, perché quello che bisogna considerare è ciò che gli attori sociali dicono e fanno: la festa non è un dato, ma un complesso di azioni sociali che acquista identità e forma nelle interpretazioni degli attori, nelle pratiche che essi mettono in opera. Per questo non si può andare oltre una soglia minima di definizione, utile più che a delineare una forma ideale, a delimitare la possibilità di un'analisi etnografica della festa.
Sono tre gli elementi che sostanzialmente delimitano lo 'spazio' osservabile delle feste. Il primo è in relazione con quell'"umore festoso" di cui parlava Freud o con quel "sentimento di festa" rievocato da Lanternari a proposito della "festosità" di Kerenyi. Lo si può definire 'ethos festivo', intendendo per ethos, con Bateson (v., 1958²; tr. it., p. 113), "l'espressione di un sistema standardizzato di organizzazione degli istinti e delle emozioni degli individui". I suoi tratti distintivi sono la "gioia" di Freud, la "giocondità" di Kerenyi, la "piacevolezza" sottolineata da Valeri, il "valore della socievolezza" e l' "atmosfera della partecipazione" di cui parla Lanternari.
Due osservazioni: la prima è che l'ethos festivo non è quella "cosa per sé", "distinguibile con sicurezza da ogni altra cosa" e a sua volta "assolutamente discriminante", di cui parla Kerenyi (v., 1940; tr. it., p. 35), giacché è un ethos tra i tanti che si danno in un'assetto sociale; la seconda è che esso è comunque un vincolo collettivo che non consente idiosincrasie individuali. Esso stabilisce un ordine non individualmente controllato, ma collettivamente vincolato, poiché il singolo non può né modificare né organizzare l'ethos, se non a rischio di una censura sociale. Vincolo per l'individuo, scelta per il gruppo. Scelta sempre più difficile quando la festa si istituzionalizza (v. Lanternari, 1983, p. 26), diventando per il gruppo un'"ovvietà del mondo" ma non impossibile. I numerosissimi casi presenti in tutta la storia della festività, in cui una festa si è trasformata in rivolta, potrebbero dimostrare proprio questo assunto, anche se spesso all'inizio la trasformazione della festa in rivolta non muta l'ethos festivo: la rivolta di Masaniello, per esempio, agli inizi "non aveva fatto che esprimersi in forma festevole, giocosa" (v. Burke, 1987; tr. it., p. 247).
La festa che si tramuta in rivolta è però troppo frequente, e non solo nella storia europea, perché non occorra tentare di capirne meglio le ragioni con l'aiuto degli altri due elementi qualificanti.Una festa che slitta in rivolta si alimenta di fraintendimenti tra i suoi protagonisti. Durante il carnevale di Romans del 1580, descritto da Le Roy Ladurie (v., 1979), Paumier, capo dei contadini e degli artigiani, va in giro per la cittadina e persino nel palazzo comunale mascherato da Orso della candelora. L'abito di Paumier è pienamente folklorico e carnevalesco, ma il suo avversario, Guérin, ritiene che esso, insieme al comportamento di Paumier, riveli le sue mire di sovversione e di conseguenza gli aizza contro i suoi. Ciò che avviene - cioè che quello che per alcuni è un segno folklorico, inserito in una trama di immagini simboliche, per altri sia invece segno di una minaccia di battaglia e sopraffazione - indica l'apertura della società di Romans, durante le feste carnevalesche, alla considerazione simbolica delle sue attività e dei suoi segni. Qui per 'simbolico', meglio per 'modo simbolico', bisogna intendere l'"atteggiamento semantico-pragmatico" di cui parla Umberto Eco: "un procedimento non necessariamente di produzione e sempre di uso del testo, che può essere applicato a ogni testo e a ogni tipo di segno, attraverso una decisione pragmatica ('voglio interpretare simbolicamente') che produce a livello semantico una nuova funzione segnica, associando ad espressioni già dotate di contenuto codificato nuove porzioni di contenuto, quanto più possibile indeterminate e decise dal destinatario". Esso è un modo per disciplinare associazioni mentali e affettive, selezionate "a scapito di altre che il modo simbolico decide di non considerare" (v. Eco, 1981, p. 911). Il secondo elemento che delimita l'osservabilità di una festa è dunque la decisione collettiva - non esplicita, ovviamente, ma implicita nei comportamenti e nelle disposizioni - di utilizzare come prevalente riferimento comunicativo il "modo simbolico". Non che questo venga usato solo nella festa, come è evidente, ma non v'è festa senza il suo uso.
Una caratteristica centrale del modo simbolico è che esso non elimina il senso letterale del segno, ma semplicemente accresce la possibilità di letture ulteriori: si può tranquillamente vedere solo il senso letterale di un segno o vederne invece ben altri. La tendenziosità della lettura di Guérin era favorita e permessa dalla decisione della società di Romans - propria della festa - di considerare le cose secondo il modo simbolico. Decisione non vincolante, in base alla quale Paumier poteva ben travestirsi da Orso per entrare nella festa, ma questa sua scelta consentiva interpretazioni simboliche che andassero oltre la sua, fino a valicare il confine del contesto festivo e a leggere come politica un'azione immaginata nei limiti del quadro festivo: "È come se, nel modo simbolico, si verificasse un consenso fatico: non si è d'accordo su ciò che il simbolo vuol dire ma si è d'accordo nel riconoscergli un potere semiotico" (v. Eco, 1981, p. 906). Ecco dunque a che cosa va riportato il livello comunitario: l'unica necessaria dimensione collettiva è quella fatica (le altre sono eventuali).
Uno dei risultati dell'uso del modo simbolico è di consentire un allentamento del legame tra i significanti e i loro significati codificati (v. Piette, 1988). Diventa così difficile vedere nella festa un solo significato di fondo - celebrazione, trasgressione, trasparenza, natura -, poiché le interpretazioni simboliche non si ancorano facilmente a un centro. Il modo simbolico implica però generalmente un'auctoritas che indichi o ratifichi come legittima una certa associazione semantica, poiché in esso non v'è un codice preesistente che consenta associazioni convenzionali (v. Eco, 1981, p. 906). Ma la caratteristica della festa - ed è il terzo elemento - è che l'eventuale presenza o la centralità di un orientamento autorevole (auctoritas) del modo simbolico non costringe tutti gli attori ad assumere come esclusivo riferimento simbolico ciò che è, al massimo, prevalente. Questo è un punto nevralgico della distinzione tra rito e festa.
Anche nel rito vi può essere - pur non essendo indispensabile - un determinato ethos comune; anche nel rito è all'opera una considerazione simbolica. Ma nel rito il modo simbolico è determinato da una sola auctoritas che dà le uniche interpretazioni legittime delle associazioni simboliche, o più precisamente quelle interpretazioni che si trovano su un piano di indiscussa egemonia. La decisione di adottare il modo simbolico, necessaria perché vi sia la festa, e l'impossibilità che esso si regga su una sola auctoritas rendono immediatamente e costitutivamente fragile il contesto della festa, perché legittimano, negli slittamenti delle interpretazioni simboliche, prima un suo 'snaturamento' rispetto alla definizione ufficiale della festa, poi persino un suo superamento. Questa è forse la ragione precipua del conflitto tra il modello ideale di festa - che cerca feste olistiche dal significato inequivocabile e, non trovandole, dichiara la morte della festa - e la pratica etnografica di analisi delle feste, che registra i 'fraintendimenti' simbolici nel fare festivo e trova una moltiplicazione delle feste; questa è anche la ragione dei numerosi slittamenti da festa a rivolta.La precarietà delle auctoritates simboliche nel contesto festivo rende la festa non un luogo pacifico, dato, preordinato, ma esposto al conflittuale, all'agonistico, all'imprevedibile (Romans e le feste-rivolte insegnano che persino la definizione di ciò che sta avvenendo come avvenimento festivo può essere oggetto di interpretazioni conflittuali), ma è anche ciò che la rende un luogo creativo, come vogliono Kerenyi e Gadamer, contiguo all'arte. "Tra il serio e il giocoso, tra l'essere severamente vincolato e arbitrariamente libero oscilla l'atmosfera festiva" (v. Kerenyi, 1940; tr. it., p. 46).
(V. anche Folklore).
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