Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook Numerose testimonianze scritte riportano gli aspetti ludici e festivi della realtà quotidiana bassomedievale. Connesso con il gioco e la festa si pone il problema della liceità o meno di queste pratiche e, se da una parte la Chiesa si trova impegnata nel tentativo di arginare qualsiasi fonte di peccato, lo Stato e le autorità pubbliche cercano, dall’altra, di disciplinare l’attività ludico-ricreativa, assumendo il monopolio del gioco e imponendogli delle tasse. A partire dai secoli XIII e XIV inoltre si sviluppa un forte nesso tra festa e politica: il palio, ad esempio, diviene un simbolo stesso dell’amministrazione comunale.
Negli ultimi secoli dell’età di mezzo al rafforzamento delle strutture statuali corrisponde, fra l’altro, un’aumentata produzione di testimonianze scritte in tutti gli ambiti, anche in quello ludico-festivo, del quale i contemporanei assumono piena consapevolezza, diventando, anzi, motivo ricorrente di analisi e riflessione (religiosa, normativa, dottrinaria, medica…), oltre che di notizia o racconto per storiografi, novellieri e poeti. Con ciò non significa che si giochi o festeggi di più rispetto al passato, ma sicuramente che se ne lascia memoria frequente e ragionata.
Giochi, feste e rituali emergono, allora, anzitutto come realtà di tutti (uomini e donne, adulti e minori, nobili e popolani) e variamente articolata: in essa, infatti, si fanno rientrare i giochi d’azzardo o di fortuna (i dadi soprattutto, ma non solo, purché il gioco sia interessato da scommessa in denaro o quant’altro, comunque, monetizzabile); quelli definiti, ora, d’ingegno (soprattutto gli scacchi) o “misti” (i giochi da tavolo, nei quali abilità d’esecuzione e fortuna s’intrecciano); le pratiche fisico-addestrative (le gare di tiro a segno, i giochi con la palla individuali o a squadre, le finte battaglie – “battagliole” fra gruppi cittadini variamente armati); i giochi pubblici (soprattutto palii e corse all’anello, giostre e tornei, armeggerie), generalmente parte di più complessi cerimoniali di stato (ricorrenze per commemorarne le vicende salienti, come vittorie su nemici interni o esterni, conquiste territoriali, cambi di regime, nascite o matrimoni sovrani, alleanze matrimoniali); manifestazioni calendariali (carnevale, calendimaggio) o dell’anno liturgico (Natale, Pasqua, ricorrenze patronali), nelle quali le espressioni di pietà religiosa sono quasi sempre associate alla festa profana; nel novero non mancano, infine, i passatempi: momenti, cioè, che riguardano più la sfera privata e risultano non univocamente classificabili (cavalcate, gite fuori porta o in barca, battute di caccia).
La domanda (o preoccupazione) principale di questi tempi, per chiunque si trovi variamente coinvolto nelle questioni e conseguenze connessi col gioco e la festa, riguarda la liceità o meno di questa o quella pratica, evento o manifestazione. A essere particolarmente attenti sono soprattutto autorità pubbliche e uomini di Chiesa: le prime perché impegnate a garantire l’ordine pubblico, ma anche a gestire il consenso di sudditi o governati; gli altri in quanto responsabili della cura d’anime e, quindi, preoccupati di tener lontani da qualsiasi fonte di peccato (sia la rissa, la bestemmia o, peggio, il furto e l’omicidio). Perciò le autorità civili combattono, anzitutto, i giochi troppo cruenti o pericolosi (come le “battagliole”) – quando, per esempio, non hanno più utilità alcuna (soprattutto addestrativa) o i rischi che comportano (di degenerazioni) la sopravanzano – ma soprattutto l’azzardo (i dadi per antonomasia), “moralmente” illecito (come predica pure l’uomo di Chiesa) e causa di disordini di ogni genere (anzitutto economici, ma anche sociali).
Si adotteranno soluzioni normative per reprimere le cattive usanze (ne è un esempio la ricca e complessa produzione statutaria dell’Italia di tradizione comunale), graduando le pene e inasprendole in alcuni casi: ad esempio se chi gioca a dadi è sorpreso a farlo di notte (momento di incertezza massima per i tempi), o nei pressi dei luoghi consacrati (per il rispetto che si deve avere alle “cose” di Dio), o, ancora, se sia un adulto, piuttosto che un minore, a farlo (la maturità giuridica deve corripondere anche a una responsabilità d’azioni). L’obiettivo ultimo delle autorità pubbliche, tuttavia, non è di reprimere, ma di disciplinare l’attività ludico-ricreativa contemporanea: perciò a determinate condizioni alcune pratiche sono accette o addirittura incentivate, come avviene, ad esempio, per le gare di tiro a segno, in luoghi fuori mano per scongiurare incidenti, con lo scopo dichiarato di promuovere la pratica delle armi (arco e balestra), ancora utile alla milizia locale. È, tuttavia, soprattutto nei riguardi dell’azzardo che l’autorità pubblica, attraverso un uso attento della deroga, invece di intraprendere una lotta disperata, “patteggia” con la realtà le circostanze in cui sospendere i divieti, disponendosi a orientare un settore ambiguo della ludicità. E allora l’azzardo è ammesso, a condizione, per esempio, che le puntate siano minime o in natura, magari più frequentemente nei piccoli centri; o che si giochi all’aperto, dove i controlli delle autorità risultano più efficaci; o durante le principali feste comandate (Natale, proseguendo l’antica usanza romana dei Saturnali, ma anche Pasqua); in occasione dei giorni di fiera o mercato (magari per dare nuovo fiato alle finanze) o delle nozze; nei mesi estivi piuttosto che in periodi di mobilitazione militare; agli stranieri (di preferenza se facoltosi) o alla nobiltà locale. Diverse le possibilità di deroga previste, che le comunità tardomedievali determinano, di volta in volta, calcolando attentamente il rischio sociale da sopportare e l’utile economico che si prospetta.
Anche l’uomo di Chiesa dichiara moralmente illeciti i giochi cruenti e di fortuna, collaborando talora (già nel Trecento) con l’autorità pubblica all’elaborazione di leggi d’interdizione per questa o quella pratica. Tuttavia tra fine Duecento e inizi del secolo successivo in piena “rivoluzione commerciale” canonisti e teologi francescani, discutendo su quali siano le forme di ricchezza consentita alla societas christiana, elaborano una doppia lettura del fenomeno ludico, che avrà conseguenze di non poco conto. Da una parte emerge una visione utilitaristica, che condanna il gioco d’azzardo (perché contrario alla natura razionale dell’uomo, e causa d’ozio e improduttività) e i guadagni derivanti, ma promuove il gioco d’esercizio o d’ingegno del torneo, che, al contrario, considera consono alla natura razionale dell’uomo e soprattutto utile moralmente (distoglie dalla dissolutezza) e alla società (fa apprendere l’arte militare “utilis pro defensione rei publicae”), ritenendo, infine, legittime le vincite da esso derivanti. E proprio il torneo, annullate precedenti disposizioni in materia, è finalmente riammesso da una decretale (del 1316) di Giovanni XXII, col fine dichiarato di addestrare cavalieri per la crociata. Dall’altra emerge anche una lettura contrattualistica del fenomeno ludico arrivando, in controtendenza con la precedente, a dichiarare che nonostante il gioco d’azzardo sia un peccato, i guadagni da esso derivanti sono legittimi, perché ogni uomo può servirsi dei propri beni a piacimento. In concomitanza con queste riflessioni sul contractus ludi e sulla legittimità dei guadagni derivanti, si sviluppa in giro per l’Europa l’organizzazione pubblica dell’azzardo, nella quale vige il principio che le eventuali vincite siano riconosciute e perciò tutelate.
A partire dal secolo XIII, infatti, in diversi Paesi d’Europa compare la casa da gioco controllata dall’autorità (sovrani, ma anche Comuni) e organizzata dove più dove meno come un vero e proprio “ufficio” pubblico: nel regno di Navarra e in quello di Castiglia (chiamata tafurerìa), in Germania, nelle contee di Fiandra e Hainaut, ma anche in diverse città d’Italia a partire almeno da metà Duecento. L’istituzione è una novità del Medioevo, per la prospettiva con cui si guarda, ora, al gioco aleatorio. I Comuni italiani, dunque, si dispongono a disciplinare legalmente l’azzardo nella baratteria, come risulta per tanti centri e per alcuni in particolare (come per Vicenza, Verona e Ferrara, di cui restano non norme singole, ma statuti emanati allo scopo e risalenti agli anni Settanta-Ottanta del Trecento).
L’autorità pubblica assume il controllo e il monopolio del gioco imponendogli una tassa, che col tempo sarà appaltata.
La casa da gioco rappresenta un buon compromesso per orientare a pubblico vantaggio la passione dei singoli per l’azzardo ricavandone un utile economico, ma anche per neutralizzarne i pericoli imponendo regole di condotta agli avventori (barattieri, marocchi, arnaldi, ribaldi, gaglioffi, biscazzieri, come sono chiamati nelle diverse città d’Italia), che sempre più si connotano come una categoria marginale, abietta, ma “professionale”. La baratteria, per quel che concerne il gioco di fortuna, rappresenta per lo stato tardomedievale un’alternativa possibile e nuova alla consueta alternanza divieto/deroga: regolamentare l’azzardo può significare, ora (e per sempre) anche assumerne la gestione, traendone un profitto. La nuova istituzione non prescinde, del resto, dalla realtà: si affaccia contemporaneamente all’emergere di un atteggiamento meno ostile nei riguardi dell’azzardo da parte della cultura dominante e in periodo di crescenti difficoltà finanziarie per comuni cittadini o regni che si stanno trasformando in entità statali più complesse e, perciò, alla ricerca di nuove entrate. Prova ulteriore del fatto che si guardi ora all’azzardo come anche a un “investimento”, nelle registrazioni di spesa di Francesco di Marco Datini, il noto mercante di Prato: le vincite di gioco ottenute a Firenze nel 1399 non sono semplice memoria dei suoi trascorsi di giocatore (come avviene per un altro famoso mercante trecentesco, il fiorentino Buonaccorso Pitti), ma risultano assegnate a credito di bilancio dell’azienda domestico-familiare. Fuori dalla casa da gioco, infine, l’azzardo continua a essere reato e vizio per chiunque, all’interno invece è depenalizzato, imbrigliato com’è da regole che lo trasformano in una voce d’entrata per la comunità, ma ne neutralizzano anche le possibili degenerazioni. Finché il gioco pubblicamente organizzato produce un vantaggio è possibile “sostenere” la contraddizione che l’azzardo rivela alla società contemporanea; al contrario, annullandosi l’utile, le remore riaffioreranno.
A partire dai secoli XIII e XIV, inoltre, si sviluppa in Italia e Oltralpe un nesso forte tra festa e politica. Feste d’armi (giostre, tornei, armeggerie, quintane – corse a cavallo per colpire con la punta della lancia un fantoccio – corse all’anello), celebrazioni religiose accompagnate da spettacoli di musica e giochi, parate di animali esotici per il diletto di tutti, più cruenti tiri al bersaglio (con armi diverse: bastoni, pietre, falcetti) in cui sono proprio gli animali a farne le spese (volatili di vario genere, porci, montoni) e a procurare divertimento, cacce (soprattutto ai tori), gare podistiche: tutti spettacoli promossi e sostenuti da gruppi o associazioni (brigate giovanili rapprentanti delle élite locali, società cavalleresche con finalità prevalentemente ludiche, famiglie eminenti, gruppi cittadini a base territoriale, corporazioni di mestiere, minoranze religiose obbligate dalle autorità locali), ma soprattutto al servizio di governi e pubbliche istituzioni, che ne assumono l’organizzazione e le spese (in toto o in parte) per coprire le quali si ricorre, talora, ad aumentare le tasse o a imporre tributi straordinari.
In Italia, in particolare, il palio – la corsa a cavallo a premi attestata con certezza a partire dagli anni Trenta del secolo XIII – ben rappresenta il nesso tra festa e politica: esso si collega con le vicende del regime comunale, diventandone uno dei simboli. Si corre, fin dalle origini, per un duplice scopo: per rendere omaggio a un santo e per commemorare un evento. All’interno di questo “binario”, i Comuni italiani costruiscono anche il proprio onore civico. Il palio si corre infatti, generalmente, durante la festa patronale; le prime attestazioni, poi, lo vedono anche in contesti di guerra con l’intento dichiarato di ottenere il disonore nemico e, quindi, l’onore delle armi. Il palio diventa allora, in tali circostanze, gioco per la conquista dell’onore civico aggiungendo alla connotazione religiosa, un’altrettanto forte valenza politica, entrambe essenziali per connotare di identità civica il gesto ludico (non a caso fra XIII e XIV secolo sono attestate nuove corse per festeggiare una vittoria su un nemico esterno o interno e, nello stesso tempo, per onorare il santo che ha propiziato la vittoria). Nei momenti di crisi del regime, inoltre, anche la gara può risentirne, dando pretesto a scontri, provocando sospensioni, strumentalizzazioni, volute irregolarità. A partire dal secolo XIII, infine, il palio diventa sistematicamente materia statutaria: le autorità comunali, in questo modo, “codificano” il gioco della corsa, consentendogli di porsi a uno stadio avanzato nell’acquisizione di una veste simbolica e ritualistica. La novità sta nel fatto che il Comune può disporre finalmente della “sua” festa: i magistrati cittadini, infatti, promuovono una gara, diventandone responsabili e garanti e facendole assumere funzione e dimensione pubbliche. Questo carattere “commisto” del palio, che lo vede associato alla celebrazione del santo ma anche a quella della vittoria politico-militare, consente di collocarlo all’interno del rituale festivo cittadino, insieme alle oblazioni dei ceri alle chiese locali, alle processioni dei maggiorenti e delle arti, alle funzioni religiose.