Feste, giochi, cerimonie
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il passaggio dall’Evo antico al Medioevo registra un deprezzamento delle pratiche ludiche nel contesto della nuova cultura cristiana. Ciononostante giochi e spettacoli della tradizione antica perdurano nell’Età di mezzo, soprattutto a Costantinopoli, dove assumono rilevanza nella dialettica fra popolo e potere. In questo stesso periodo, inoltre, il confronto romanitas/barbaritas avviene anche sul piano della ludicità, che diventa talora fattore di assimilazione, talaltra di distinzione.
Col termine “ludicità” si identifica una dimensione e una funzione dell’uomo irrinunciabili del suo vivere e intimamente collegate con la sua vicenda storica e culturale. Insieme all’homo sapiens i contemporanei riconoscono infatti, fra gli altri, un homo ludens: “normale” se si pensa agli spazi occupati dallo sport nella realtà contemporanea o dalle pratiche ludico-addestrative nella Grecia antica. Assai più scarse sono, invece, le attestazioni di eventi ludici o più complessi e articolati rituali festivi e commemorativi nei secoli dell’Età di mezzo. In proposito si deve senz’altro ipotizzare uno scarto fra attenzione e consapevolezza del loro valore da parte della cultura dominante ed effettiva diffusione nella società del tempo. Un’antica “disattenzione” che ha condizionato, anche in un recente passato, il mondo degli studi.
L’inizio del Medioevo coincide con la crisi dell’auctoritas e del sistema economico imperiali, lo stanziamento entro il limes romano di genti straniere e la promozione del cristianesimo a religione di Stato, che segna profondamente la cultura contemporanea, modificando modi di pensare e di percepire la realtà. Sintomatico degli effetti prodotti dai nuovi schemi culturali sulla sfera del ludus è lo stravolgimento di senso che subisce l’otium degli antichi, occupato, fra l’altro, dall’attività ludica e ricreativa. Se, infatti, per intellettuali di spicco quali Ovidio, Cicerone o Seneca l’otium rappresenta un’esperienza utile, intellettualmente attiva, che rigenera dalle fatiche della vita pubblica, man mano che si procede nel Medioevo esso diventa proverbialmente generatore di vizi e causa dei peggiori mali, fra i quali preoccuperà, sul lungo periodo, soprattutto la miseria. Quel che è avvenuto, dunque, nel passaggio fra l’Evo antico e quello medio è “la subordinazione dell’otium al negotium o, meglio ancora, al labor; soprattutto il tempo del loisir cede al tempo dello spirito e della preghiera” (G. Ortalli, Tempo libero e medio evo: tra pulsioni ludiche e schemi culturali, 1995). Coi Padri della Chiesa s’inaugura, allora, una tradizione che mette al bando ogni evento riconducibile alla sfera ludica: se, ad esempio, Tertulliano ritiene le manifestazioni del circo e del teatro idolatriche e contrarie alle promesse battesimali, Giovanni Crisostomo le considera un pericolo per i giovani, uno spreco di tempo e denaro, e ritiene un vero scandalo che i cristiani preferiscano partecipare ai ludi pubblici che dedicarsi a Dio.
Nonostante il disprezzo della nuova cultura, gli spettacoli pubblici perdurano, soprattutto nell’Oriente bizantino, dove si prolunga la struttura statuale romana. Nell’ippodromo di Costantinopoli, dove popolo e basileus hanno finalmente occasione d’incontrarsi, si svolgono alcuni atti cerimoniali importanti (proclamazioni sovrane e trionfi) e spettacoli molto apprezzati (corse coi carri e a piedi, lotte fra atleti, cacce, esibizioni di animali feroci, giochi di abilità e rappresentazioni sceniche): quelli che in età giustinianea (VI secolo) deve offrire il console annuale in carica sono regolamentati da una legge speciale. Le manifestazioni del circo, in particolare le corse dei carri, oltre a rivestire valore simbolico (l’imperatore tardoantico vi appare come reggitore cosmico e guida del “carro” dello Stato), assumono rilevanza politica. Le fazioni sportive (i verdi e gli azzurri), che raccolgono gli aurighi, protagonisti delle corse coi carri, e forniscono il necessario agli organizzatori delle gare, assumono la fisionomia di veri e propri partiti militarizzati. L’imperatore dei Romei, durante le gare, attraverso il sostegno a una o all’altra fazione, incrementa il potere personale, raccoglie consensi, celebra vittorie militari, corregge gli effetti prodotti da provvedimenti impopolari. I sudditi, d’altra parte, sono consapevoli del loro duplice ruolo di supporter sportivi e sostenitori politici e considerano gli spettacoli circensi non solo per la loro dimensione “ludica”, ma anche per dar voce al dissenso politico: la nota rivolta Nika(il grido con cui si incitavano i campioni nelle corse dei carri), scoppiata a Costantinopoli nel 532, in occasione delle corse e repressa a fatica con le armi, che vede occasionalmente alleati verdi e azzurri contro l’inasprimento fiscale del governo di Giustiniano I, dilagherà, alla fine, all’intera cittadinanza. Bisogna attendere il passaggio dei crociati (fine XI - inizi XIII secolo), perché tali gare siano soppiantate da nuove mode, come quella feudale del torneo.
La capitale bizantina, del resto, risente della sua posizione di cerniera fra due mondi, subendo anche il fascino dell’Oriente. Un antico gioco equestre a squadre con la palla (lo tzukanion, probabile progenitore dell’odierno polo), largamente attestato a corte per educare i giovani sovrani destinati a governare, sarebbe giunto a Costantinopoli dalla Persia. Il lungo e duro confronto politico e militare fra i due imperi, risoltosi soltanto nel VII secolo, comporta fra l’altro un’“osmosi di modelli e di echi nell’ambito simbolico-formulare e del rituale”, nel cui “alveo” si inserisce anche tale pratica (C. Azzara, Tzukanion. Un gioco equestre con la palla alla corte di Bisanzio, 1996). Con le crociate, infine, il gioco si trasferisce nella Francia medievale (chicane): ulteriore esempio di “permeabilità” fra culture diverse nei momenti di più intenso confronto.
Anche a Occidente i ludi romani non s’interrompono coi primi divieti: a Roma i giochi gladiatori (munera), probabilmente aboliti da Onorio nel 399, scompaiono verosimilmente negli anni Quaranta del V secolo, quando risultano ormai troppo costosi per i finanziatori – questori o principes –, i quali tendono a diradarli, con un conseguente decadimento della qualità dei combattimenti e dell’interesse del pubblico, che ne determinerà la scomparsa. Le ultime attestazioni delle venationes (i combattimenti contro gli animali), sopravvissute ai munera e all’interdizione di Anastasio I nel 499, risalgono alla prima metà del VI secolo, e allo stesso periodo si riconducono pure le ultime corse dei carri. Vi assistono, fra gli altri, il goto Teodorico a Ravenna e i re franchi ad Arles: esempio dell’ascendente esercitato sui sovrani germanici dalla romanitas, di cui si pongono come eredi, cogliendo l’importanza di questi spettacoli nei rapporti fra imperator e populus.
Il confronto romanitas/barbaritas avviene anche sul piano della ludicità. Sidonio Apollinare, vescovo di Clermont dal 472, nota una somiglianza fra i passatempi della nobiltà gallo-romana (cui appartiene) e quelli dell’aristocrazia visigota (caccia, tiro con l’arco, esercitazioni di abilità marziale, nuoto, dadi e giochi da tavolo o con la palla), considerati perciò “un importante fattore di assimilazione” fra i vertici delle due etnie (J. M. Carter, Medieval Games. Sports and Recreations in Feudal Society, 1992). In contesto diverso, invece, proprio l’attività ludico-addestrativa fa la differenza fra romanitas e barbaritas. Lo storiografo bizantino Procopio riferisce dell’ostilità dimostrata dall’aristocrazia ostrogota alla romanizzazione del giovane sovrano Atalarico, voluta dalla madre Amalasunta, verosimilmente perché dal “programma educativo” mancano proprio quegli esercizi con le armi molto apprezzati nell’universo barbarico.
Dell’universo ludico delle popolazioni barbariche andrebbe distinto anzitutto quanto resiste del loro passato pagano e tradizionale e quanto, invece, si deve all’incontro con la cultura latina e cristiana. Le testimonianze scarse e disomogenee sono spesso filtrate da scrittori romani ostili, e prive di un interesse specifico per l’argomento.
Nel mondo germanico, pur nella sua articolazione interna, ricorrono alcune usanze ludiche e, in particolare, quelle a cui si dedica il maschio adulto, guerriero, sul quale s’incardina quel tipo di società. Si tratta di esercizi con le armi (a cavallo e non), dimostrazioni di forza, gare di lotta o di sollevamento pesi, corse: pratiche con uno scopo chiaramente utilitaristico (per addestrare all’uso delle armi e mantenere l’efficienza fisica nelle pause della guerra), ma anche dimostrativo (per esibire abilità e coraggio). Protagonisti sono soprattutto i sovrani germanici (in quanto capi militari): dal goto Totila, che in vista dello scontro finale contro i Bizantini, a Gualdo Tadino nel 552, davanti agli eserciti schierati si esibisce in acrobazie con la lancia a cavallo, ai longobardi Grimoaldo, che tira con l’arco alle colombe, o Agilulfo, che per farsi riconoscere dalla futura sposa Teodolinda, si palesa in prove di forza scagliando una scure contro un albero. Alla grandezza di Carlo Magno, inoltre, contribuisce, seguendo il suo biografo Eginardo, la sua “superlativa” abilità sportiva: nella corsa a cavallo, nella caccia, ma soprattutto nelle sfide di nuoto che lanciava a molti. Infine, l’alleanza fra Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo – il Giuramento di Strasburgo dell’842 – per disputarsi, a spese di Lotario I, l’eredità imperiale di Ludovico il Pio, è suggellata da un finto scontro militare fra gli eserciti dei due fratelli, nel quale si minaccia l’ira dei due sovrani contro chi vorrà tradire.
Paesaggio e clima condizionano la pratica ludica: nel nord Europa divinità ed eroi della mitologia scandinava sono spinti a eccellere nel nuoto, in regate o gare a cavallo, ma soprattutto di pattinaggio sul ghiaccio e velocità con gli sci; non mancano, inoltre, sporadiche attestazioni per giochi specifici, come il knattleikur (probabile antecedente dell’hockey moderno). Praticata per procurare cibo, la caccia è anche un passatempo comune, soprattutto per il maschio adulto e aristocratico, e un tratto dell’educazione e dell’addestramento del giovane guerriero nelle diverse stirpi barbariche, non solo germaniche. Un momento privilegiato di espressione di socialità è il banchetto, che acquisisce una fisionomia ludica: quando il mangiare e il bere molto e in compagnia oltre a dare piacere diventano vere e proprie sfide di prodezza e resistenza; una fisionomia festiva, attraverso cui l’organizzatore (imperatore, re, principe...) dà conto della propria ricchezza, generosità e, quindi, del potere raggiunto; infine un’altra politica, dove gli elementi che lo compongono (assegnazione dei posti, cibi, bevande) sono anche quelli di un rituale che comunica solidarietà fra pari o fedeltà al signore, una pace raggiunta, la volontà di commemorazione, o, al contrario, ribellione, umiliazione.
Fra le attività del tempo libero l’universo barbarico ne annovera di attinenti alla sfera intellettiva, come la musica, la poesia e la narrazione di storie che tramandano il patrimonio storico e mitologico di una etnia, in linea col carattere prevalentemente orale di queste culture. Tali attività, peraltro, diventano strumento di distinzione sociale: chi eccelle in esse, infatti, acquista risalto nel gruppo d’appartenenza. Attestati sono pure i giochi “da tavola”, i giochi praticati su un supporto, sul quale si fanno muovere pedine, con o senza l’ausilio dei dadi. Rodolfo, re degli Eruli (probabilmente all’inizio del VI secolo) gioca ad tabulam, mentre il suo esercito è impegnato in uno scontro fatale coi Longobardi; ma sono soprattutto i corredi funebri scandinavi e longobardi del VII secolo a restituire esemplari di pedine/piastrine di varia fattura.
Alla dimensione storica e materiale di questi giochi se ne aggiunge un’altra simbolico-culturale. La letteratura celtica medievale richiama spesso il fidchell – un gioco di antica origine, su una scacchiera, con un numero diverso di pedine per ciascun giocatore e un pezzo centrale, col ruolo di re –, le cui regole implicano l’alta probabilità di una vittoria alterna fra due avversari esperti. Nei testi epico-leggendari esso è un vero e proprio topos letterario, “emblema della saggezza che il giocatore vittorioso dimostra di possedere” (A. Nuti, Il gioco del fidchell nella letteratura celtica medievale, 2001), praticato da figure eroiche o regali, le cui supposte qualità intellettive superiori sono simboleggiate, appunto, dall’abilità con cui lo praticano.
Anche i dadi (a cui si appassiona l’ostrogoto Teodorico) hanno una certa diffusione nel mondo barbarico. Tacito sottolinea la pervicacia dei Germani per questo gioco, res prava perché procura insieme alla perdita di tutte le sostanze anche quella della libertas. Ciò si spiega perché la pratica è da ricollegare probabilmente a una più antica usanza di interrogare il destino col lancio dei dadi, gesto nel quale i Germani continuano a vedere una manifestazione immediata del fato, alla cui volontà non ci si può opporre. Tale prospettiva, allora, legittima ai loro occhi qualsiasi scommessa e obbliga chi perde “a subire le conseguenze della propria sconfitta” (R. Ferroglio, Ricerche sul gioco e sulla scommessa fino al secolo XIII, 1998), qualunque sia la posta in gioco, libertà personale inclusa.