Feudalità ecclesiastiche e laiche, regno di Sicilia
Nobiltà e aristocrazia
Nel Regno svevo di Sicilia erano attive e operanti almeno due concezioni della nobiltà, che ora esamineremo. Esse erano teorizzate e sostenute, nella corte di Federico II, dallo stesso sovrano e dai suoi curiali, ed erano suggerite dalla composizione dei ceti aristocratici che detenevano il potere politico ed economico nel Regno.
Il concetto di nobiltà nel 'Liber Augustalis'
Il primo concetto di nobiltà che analizziamo è quello presente nella grande raccolta legislativa che va sotto il titolo di Liber Augustalis. Senza voler entrare nel complesso e forse irrisolvibile problema degli autori, è indubitabile che sia nella prima stesura delle leggi promulgate a Melfi, sia nelle successive Novellae, l'intervento dell'imperatore dovette essere determinante nella scelta delle soluzioni e nella definizione dei concetti. Ecco perché la visione della nobiltà che si evince dall'esegesi dei termini nobilis e miles, presenti nel testo tràdito del Liber, è da identificare con quella che, come vedremo, i contemporanei attribuivano a Federico II.
Dall'esame delle ricorrenze dei termini nobilis e miles nel Liber Augustalis constatiamo che nella prima metà del XIII sec. si era rotta l'equazione nobiltà=feudalità, che era stato uno dei caratteri fondamentali della nobiltà normanna. La nobiltà era ora identificata con la sola militia: i feudatari erano nobili perché erano milites.
L'introduzione generalizzata del servitium pecuniarum in sostituzione di quello personarum aveva tolto al rapporto feudo-vassallatico uno dei suoi elementi distintivi ed aveva aperto il varco alla diffusione di quel 'feudalesimo bastardo' che avrebbe caratterizzato la feudalità regnicola nei secoli successivi.
Gli esponenti della gerarchia feudale appartenevano alla nobiltà, perché tutti erano dei milites; ma non tutti i milites erano dei feudatari. Non lo erano, per esempio, i figli cadetti, che non possedevano beni feudali. Per affrontare le spese per il loro equipaggiamento cavalleresco così da poter ricevere il cingolo militare, i rispettivi fratelli primogeniti, che avevano ereditato i feudi paterni, potevano richiedere un moderato e proporzionato adiutorium (Const. III, 21).
Nel Liber l'identificazione della nobiltà con la feudalità è ammessa come un dato acquisito, ma non è mai codificata nel disposto legislativo. Ad esempio, le costituzioni I, 101 (De fide nobilium et ignobilium super declaratione debiti faccenda), III, 24 (De successione nobilium in feudum) e III, 27 (De successione nobilium in feudis), che nei titoli potrebbero fare pensare all'identificazione della nobiltà con la feudalità, nel loro disposto non fanno trasparire nulla al riguardo: i rispettivi titoli sono dovuti agli editori!
Che cos'è la militia? Si tratta di un ordo che ha conservato le caratteristiche attribuitegli da re Ruggero II (Const. III, 59): ad esso si accede soltanto per diritto di nascita. In Const. III, 60 è stabilito che "in futuro nessuno, che non provenga da una stirpe di cavalieri, debba trovare accesso all'onore della militia, senza particolare concessione e mandato della Nostra benevolenza. I Cavalieri, che, dal divieto di re Ruggiero, di memoria divina, Nostro nonno, hanno ricevuto finora il titolo di cavaliere, devono mantenerlo, in base a una dimostrazione di grazia della Nostra Altezza, fintanto che essi ‒ come è di norma ‒ vivono e fanno servizio da cavaliere".
Essere cavaliere significa militariter vivere. È questa la condizione necessaria e indispensabile.
Essere cavaliere non significa ‒ lo abbiamo visto ‒ essere dei feudatari. Ma non significa neppure avere la prerogativa e il privilegio di combattere a cavallo. In Const. II, 40 è previsto che "se colui che viene sfidato a duello è un cavaliere ed egli vuole difendersi a cavallo, allora anche il suo avversario deve presentarsi contro di lui a cavallo, anche se costui non è un cavaliere. Se, al contrario, colui che tenta di difendersi è un fante, allora lo sfidante al duello ‒ anche se si tratta di un cavaliere ‒ deve combattere contro l'accusato non come un cavaliere, bensì come qualsiasi altro combattente; la scelta, cioè, di come egli, invitato dall'altro, possa difendersi meglio, deve essere di colui che è in difesa".
Essere cavaliere, militariter vivere, significa difendere e salvaguardare "la dignità del ceto dei cavalieri" (Const. III, 90), "come si conviene, rispetta[re] l'onore e l'onere della cavalleria, cioè cavalli, armi ed altri emblemi cavallereschi, di cui baroni e cavalieri devono debitamente fare sfoggio": ciò comporta la possibilità di "valersi dei privilegi cavallereschi" (Const. II, 32).
Quali sono i privilegi che sono prerogativa dei cavalieri, "militaribus tamen privilegiis in omnibus supradictis et aliis causis et casibus in quibus prerogative militum aliquid indulgetur" (Const. II, 32)?
Il testo del Liber Augustalis offre una risposta a questo interrogativo identificando i privilegi della militia con quelli della nobiltà, in Const. I, 47: "affinché ai nobili del nostro Regno sia riconosciuto il dovuto onore, universalmente e singolarmente, riserviamo reciprocamente ai conti, ai baroni e agli altri appartenenti alla militia i loro tribunali"; e in Const. II, 33: "ci siamo preoccupati sufficientemente delle prove, attraverso il duello, per i cavalieri e gli altri nobili del nostro Regno".
In effetti la nobiltà in Const. II, 32 è definita una qualitas che fa occupare, a chi la possiede, un posto privilegiato nella società del Regno. Lo ripetiamo: "Militaribus tamen privilegiis in omnibus supradictis et aliis causis et casibus in quibus prerogative militum aliquid indulgetur".
Questa qualitas pone chi la possiede al di sopra degli altri regnicoli: "universibus hominibus regni nostri et nobilibus maxime" (Const. III, 22). Anche se, avverte il legislatore, "ognuno deve essere ritenuto un uomo libero, che sottostà direttamente all'Altezza imperiale e al potere regio" (Const. III, 4.2).
La differenza tra i nobiles e gli ignobiles non è, dunque, voluta dal potere sovrano, ma è determinata per diritto di nascita, come l'appartenenza alla militia. I nobili sono coloro che nascono bene.
La gerarchia della nobiltà corrisponde alla gerarchia della militia (Const. III, 43). Tutti gli appartenenti all'ordomilitum sono dei nobiles: vi sono dei militesnobilioris gradus; vi sono dei milites eque nobiles; vi sono, infine, dei milites minus nobiles. Questa gerarchia non è volutamente identificata con quella feudale, anche se nella realtà fu quest'ultima a essere seguita.
La nobiltà secondo Federico II
Secondo la testimonianza di Dante Alighieri nel Convivio (II, iii, 6) Federico 'di Soave' avrebbe definito la nobiltà "antica ricchezza e belli costumi": la nobiltà avrebbe avuto per l'imperatore il suo fondamento nella nascita e si sarebbe manifestata attraverso l'agire. Si trattava di una concezione della nobiltà di ascendenza aristotelica, che fondeva la virtù con la generis nobilitas: "quod vocant ingenuitatem assequitur duobus: ingenuitas enim est virtus et divitiae antiquae" (Aristotele, Politica, IV, 8, 1294a, 20-22). Essa fu commentata dopo qualche decennio da s. Tommaso in questo modo: "Nobilitas enim est virtus generis, hoc est inclinatio ad virtutem descendens a parentibus in filios, et in parentes ab aliis prioribus, et sic secundum quandam antiquitatem. Similiter nobilitas est divitiae antiquae" (Tommaso d'Aquino, 1864, Comm. Polit. I, IV, qu. VII).
Questa testimonianza dantesca è stata generalmente ritenuta poco attendibile, perché non è stata mai rilevata la sua concordanza con il concetto di nobiltà che è presente nel Liber Augustalis. Se, infatti, è indiscutibile che la fonte delle obiezioni dantesche alla teoria aristotelico-tomistica della nobiltà è la Summa virtutum ac vitiorum di Guglielmo Peraldo, è altrettanto vero che quest'ultimo non riferisce a Federico II di Svevia la definizione della nobiltà, che, al contrario, gli attribuisce Dante. È molto probabile che in questo caso il poeta avesse a disposizione una fonte diversa da Peraldo, la quale lo informò intorno all'imperatore svevo. Certamente, infatti, Dante non conosceva ancora bene Aristotele. Solo più tardi, quando scrisse il De Monarchia, egli tenne ben presente la concezione aristotelica della nobiltà, che, forse, fece sua: "Sed constat quod merito virtutis nobilitantur homines, virtutis videlicet proprie vel maiorum. Est enim nobilitas virtus et divitie antique, iuxta Phylosophum in Politicis; et iuxta Iuvenalem: nobilitas animi sola est atque unica virtus. Que due sententie ad duas nobilitates dantur: propriam scilicet et maiorum" (Opere minori, II, Milano 1979, pp. 372-374).
Quale fu la fonte di Dante? Non sappiamo nulla di preciso. Un contemporaneo illustre, Bartolo da Sassoferrato (1317-1358), che conosceva soltanto il testo della canzone dantesca Le dolci rime d'amor ch'i' solia, e non il commento scritto dal Poeta nel Convivio, non era in grado di risalire a Federico II. Bartolo fece questa annotazione: "Prima ergo opinio fuit quod quidam Imperator dixit quod nobilitas est antiqua possessio aeris et divitiarum cum pulcris regiminibus et moribus […]. Primum quod dixit, quod quidam Imperator posuit definitionem praedictam, hoc non reperitur in Corpore Iuris, sed forte ipse [Dantes] in aliis historiis invenit" (K. Witte, Dante-Forschungen: Altes und Neues, I, Heilbronn 1869, pp. 463 ss., dove è pubblicato per intero l'opuscolo di Bartolo). L'anonimo autore del Fiore di virtù, da parte sua, nel copiare la definizione di gentilezza, riferita nel Convivio a Federico II, pensò bene di mutarne l'attribuzione ad Alessandro, sulla base della mediazione offertagli dalla Summa di Guglielmo Peraldo e del Tresor di Brunetto Latini (Corti, 1959, p. 68).
Dante, dunque, fu informato sul concetto aristotelico di nobiltà e su quello di Federico da una fonte che è a noi sconosciuta; non mi sembra che si possa sostenere che tale fonte sia stata la 'fama corrente' proprio perché l'opinione dell'imperatore svevo non ebbe un'ampia circolazione. La veridicità dell'informazione del poeta, tuttavia, è confermata dal riscontro che abbiamo individuato nelle Constitutiones.
Bisogna, inoltre, notare che vi sono anche altri luoghi in cui Federico appare molto vicino alla concezione della nobiltà attribuitagli da Dante.
In una di quelle lettere di contenuto pedagogico che scrisse al figlio Corrado, Federico sostiene che la nobiltà procede attraverso il veicolo biologico del sangue. Ecco perché i principi sono le creature dotate del maggior grado di nobiltà: "giacché la nobiltà del sangue regale per l'infusione d'un'anima nobile e sottile, fa che essi prima degli altri uomini siano suscettibili alla disciplina della saggezza […]. Onde necessariamente si conviene che tu ami la saggezza" (Historia diplomatica, V, 1, pp. 274-275). Federico ribadisce la stessa opinione in un'epistola ai senatori romani, dove afferma che la generositas proavorum trasmette la nobilitas (Friderici II imperatoris epistolarum libri VI, a cura di J.R. Iselius, I, Basileae 1740, ep. 27). Il problema, infine, è accennato anche nel breve di fondazione dell'Università di Napoli: "cum sterilis esse non possit bonitatis accessio, quam nobilitas sequitur" (Riccardo di San Germano, 1936-1938, p. 113).
La nobiltà nell'opinione dei curiali fridericiani
Nella corte fridericiana, di contro alla concezione della nobiltà che era sostenuta anche dallo stesso imperatore, se ne andò propugnando un'altra che, eliminato ogni valore alla nascita, vedeva il fondamento dell'essere nobile interamente nella capacità che ha ogni individuo, dotato come il progenitore Adamo naturaliter della ratio, della capacità di agire 'bene'. Nel proemio delle Constitutiones Adamo è indicato come il simbolo dell'uomo 'naturale' e 'nobile' ("quem Deus rectum et simplicem procreavit"), e la ratio come la forza che ha preservato ogni individuo dalla distruzione dopo il peccato originale. La nobiltà consiste nella capacità di superare il primum defectum attraverso la ratio, che è la potenza che riconduce, nobilitandolo, ogni individuo alla giustizia e semplicità originaria di Adamo. Sono nobili, dunque, coloro che adoperano la ragione e conquistano le scientiae.
In una epistola longa scritta da un "Magister T." a Pier della Vigna e a Taddeo da Sessa si pone in modo esplicito il problema della superiorità della animi probitas sulla generis nobilitas. Il "Magister" chiede ai due curiali la loro opinione intorno alla disputa avvenuta "nella mia scuola […] sulla nobiltà della stirpe e la bontà d'animo, su quale delle due sia superiore all'altra; sappiate che da entrambe le parti si è discusso in modo molto credibile. Nella disamina di questo problema non si è poi arrivati a una soluzione per il moltiplicarsi delle obiezioni, come da una scintilla attizzata dal vento si arriva a un incendio: così la mia ignoranza non è bastata da sola a risolvere una questione così complicata. E siccome essa richiede una sensibilità molto elevata, è necessario fare ricorso a voi due, come a dei giudici acuti che sanno cogliere in un attimo circostanze che superano la sensibilità umana, così che possiate dare il vostro parere su questo scontro sorto dall'una e dall'altra parte. Viene avanti un difensore della causa per ciascuna delle due parti, ma poiché la nobiltà richiedeva tutta la difesa con una certa solennità, uno che stava avanti pigliò l'onore di parlare, e così cominciò: 'È chiaro, e risulta a tutti quelli che sono abituati alla riflessione, che l'origine della stirpe umana deriva […] da un unico identico principio, cioè dal primo genitore, che ci ha lasciato il modo di riprodurci attraverso la sua discendenza. Ma quel primo che degenerò dalla nobiltà della sua creazione trasmise ai posteri il vizio della corruzione, a chi più e a chi meno: vi furono infatti alcuni che desiderano riparare al proprio difetto originale e tornare alla gloria di quella prima nobiltà, quando sanno effettuare imprese degne e meritare pienamente le lodi; altri, invece, mandati in questa parte […] si tramandavano un modo di vivere da bestie, e si risolsero alle occupazioni più ignobili, come arare il terreno, raccogliere frutti, non difendere assolutamente quel titolo di nobiltà […]. Perciò se è grande chi fa le cose grandi e maggiore chi fa le cose maggiori, allora è da preferire la nobiltà […]. Aggiungo inoltre che dei frutti ancora più candidi derivano dal sangue dei nobili, così come da un liquido raffinato e da elementi puri'. Essendosi costui così espresso [per] difendere la parte avversa così cominciò a parlare l'avvocato della probità d'animo: 'Non è un vero avversario chi agevola e rinforza il proprio avversario […]. Infine, se la nobiltà è un qualche titolo che proviene dai meriti degli antenati e se i meriti che si acquistano sono solo quelli della virtù, allora devono derivare dalle virtù; e poiché la nobiltà sta nella virtù, la si può acquistare solo grazie alla probità d'animo. Ho dunque dimostrato come la probità sia comunque da anteporre alla nobiltà'" (G. Paolucci, La giovinezza di Federico II di Svevia e i prodromi della sua lotta col Papato, "Atti della R. Accademia di Scienze, Lettere e Belle Arti di Palermo", ser. III, 6, 1901-1902, pp. 53-55).
L'idea che la nobiltà debba essere collegata a un preciso ideale di vita, a una particolare forma mentale, a un genere di educazione e, infine, a un rigido codice etico, è espressa anche da Pietro da Prezza, un allievo di Enrico d'Isernia, a sua volta allievo di Pier della Vigna. Egli parte dal concetto che la ragione è non soltanto l'elemento distintivo dell'uomo dalla bestia, ma è anche ciò che lo nobilita. "Se è la presenza della sola ragione a determinare la differenza tra l'uomo e l'animale bruto, essendo per altri motivi entrambi animali, ed essendo entrambi mortali, e siccome non si può giungere ad una perfetta nozione di essa senza la guida della nobile scienza della parola, che ha per sua natura come sua particolarità di legare l'uomo alla ragione e la ragione all'uomo, perché queste due come sorelle si abbracciano reciprocamente, come se avessero in comune l'esserci e il non esserci, dobbiamo aspirare con tutta la nostra concentrazione all'acquisizione di questa scienza, con cui conquistiamo anche la ragione, in modo tale da non essere paragonati agli animali bruti, nel caso che non la conoscessimo e ci mancasse la capacità di parlare". Pietro da Prezza, prigioniero, chiede che gli siano inviati autori classici, esorta suo fratello e suo figlio a darsi da fare con le scienze, perché "in scientia captes famam, in fama alios prevenias ad honorem, in honore divicias consequaris". Ma la scienza nobilita anche l'uomo: "Hec est enim illa scientia, que ditat hominem et suum nobilitat possessorem […] et de stercore erigens pauperem cum principibus eum locat" (E. Müller, Peter von Prezza, ein Publizist der Zeit des Interregnums, Heidelberg 1913, pp. 136-138).
Tutto lascia pensare che molti dei funzionari di Federico, nati da modesti genitori, aderissero toto corde a questa concezione della nobiltà, che sarà del primo Rinascimento.
L'aristocrazia feudale
La nobiltà, alla quale si accedeva per diritto di nascita, portò al consolidamento di un ceto aristocratico che traeva dal possesso della terra a titolo feudale e dall'esercizio delle connesse potestà i mezzi necessari per esercitare la militia.
Federico era consapevole di ciò. Ecco perché a partire dal 1221, per potere rafforzare la sua autorità nel Regno, procedette alla revisione di tutti i titoli di possesso relativi ai beni e ai privilegi feudali e, dopo avere fatto demolire, ovvero devolvere al demanio, le fortezze e i castelli costruiti abusivamente, disciplinò tutta la complessa materia feudale.
Egli iniziò col provvedere a ridefinire il servizio militare dovuto dai singoli feudi, per poter così ricostruire l'esercito regio. Ripristinata la distinzione normanna tra feuda integra e feuda non integra, fissò in 20 once d'oro la rendita annua di un feudo integro e, sulla base di questo rapporto, rese possibile la commutazione del servizio militare dovuto per un feudo con un versamento in denaro proporzionato alla consistenza del feudo posseduto (adohamentum). La lacunosa documentazione di cui si dispone ci impedisce di cogliere nei particolari l'attuazione di questo importante provvedimento che, liberando i feudatari dall'obbligo di prestare, necessariamente attraverso l'invio di cavalieri e di uomini armati all'esercito del re, il servizio militare dovuto per i propri feudi, pose le premesse per cancellare quella connotazione squisitamente militare che re Ruggero II d'Altavilla aveva attribuito alla feudalità del Regno. Di questa riforma fridericiana abbiamo soltanto delle prove indirette.
Innanzitutto la testimonianza di Andrea d'Isernia, che ricorda come "a principio enim statutum fuit quod feudum esset integrum, scilicet de viginti unciis" (Peregrina lectura. Commentarium in Constitutiones Regni Utriusque Siciliae […], a cura di G. Sarayna, Lugduni 1568, p. 223).
Poi un ordine dell'imperatore, forse da datare al 1236, che si legge tra le Epistolae di Pier della Vigna. Federico, nel prescrivere alle città demaniali e ai feudatari del Regno di Sicilia la contribuzione dovuta per la guerra che si accingeva a intraprendere in Lombardia, afferma che egli ha coscientemente adottato una soluzione diversa da quella dei re normanni, suoi predecessori. Mentre costoro hanno quasi reso disa-bitato il Regno a causa delle innumerevoli spedizioni intraprese in Africa e nelle altre regioni, egli, che può contare sugli uomini forniti dalla Germania ("multas enim nobis personas Germania germinat"; Historia diplomatica, III, p. 930), dispensa i regnicoli dal servire personalmente nell'esercito regio e commuta quest'obbligo nel versamento di una somma di denaro.
Infine, la testimonianza di Riccardo di San Germano, che ricorda come proprio nel 1236 l'abbazia di Montecassino abbia pagato l'adohamentum per le terre feudali che possedeva e non abbia fornito alcun uomo armato all'esercito del re.
I feudatari che detenevano feuda integra, e che non pagavano l'adohamentum, dovevano fornire, secondo la consuetudine normanna, all'esercito del re un numero di cavalieri (milites) proporzionato alla consistenza dei feudi posseduti. Essi, inoltre, dovevano provvedere al loro sostentamento per l'intera durata di una campagna militare, anche quando questa si fosse tenuta fuori dei confini del Regno. Ogni cavaliere doveva essere convenientemente munito di armi, di cavalli e di tutte le cose utili secondo gli usi militari ("munitus sit in exercitu competentibus equis et armis et aliis omnibus opportunis et necessariis que opportunitas et necessitas more exercitali inducunt"; Const. II, 20); doveva anche avere al suo seguito due scudieri o armigeri.
Federico fu molto attento nel controllo dell'armatura e dell'equipaggiamento dei cavalieri forniti dai feudatari. Nel 1231 ordinò esplicitamente a tutti coloro che erano tenuti ad inviare cavalieri per i feudi posseduti "preparari se debeant in duobus equis somario uno, et armis, ac ceteris proportionaliter" (Capasso, 1868, p. 350). Altra volta lo stesso imperatore richiese che ciascun cavaliere avesse almeno quattro cavalli e che fosse "bene munitus equis, armis, copertis ferreis, et aliis opportunis" (Regestum Friderici, in Historia diplomatica, V, 1, pp. 357, 403).
I feudi non integra non fornivano alcun cavaliere all'esercito del re, ma inviavano come era avvenuto in epoca normanna i servientes e i pedites, cioè i componenti della cavalleria ausiliare e della fanteria. Questi feudi, infatti, non erano costituiti da una terra, ma consistevano, nella maggior parte dei casi, in un certo numero di villani, anche di affidati e recommendati.
I villani erano coloro "qui in villis et casalibus habitant". Costoro, che nelle Assise normanne sono detti rustici, e nei documenti greci παϱοίχοι, erano divisi in due grandi categorie: quelli che servivano "personaliter, intuitu personae suae" e quelli che servivano "respectu tenimenti vel alicuius beneficia" (Const. III, 3). I primi, detti anche adscriptitii, servi glebe, angarii, dovevano servire con i propri animali e le proprie persone. Essi "non reddunt nisi servitia et salutes" (Catalogus Baronum, Roma 1972, § 1263, a. 1175), cioè le opere dei campi (servitia) ‒ quali arare, mietere, zappare, andare al mulino o al bosco e simili ‒ e le prestazioni (salutes) di frutta, uova, polli, carne porcina, agnelli. I secondi erano i tributarii e i censiles, erano cioè coloro che "solvendis redditibus annuisque pensionibus obnoxii" (Capasso, 1868, p. 339). A questa categoria di villani appartenevano gli affidati o recommendati, che erano quegli uomini liberi che si 'affidavano' o si 'raccomandavano' alla protezione di un feudatario, nel feudo del quale prendevano dimora. Essi dovevano solo redditus et salutes, e non servitia (ibid., p. 340)
È molto probabile che i servientes e i pedites, forniti all'esercito del re dai possessori di feuda non integra, appartenessero alla categoria dei villani che servivano "personaliter intuitu personae suae". Ma, purtroppo, lo stato delle fonti a disposizione non permette di essere più precisi.
Alla ridefinizione del servizio militare dovuto dai feudatari, Federico fece seguire l'attuazione di una serie di attente e incisive azioni politiche nei confronti della feudalità, che non furono dettate da un atteggiamento antifeudale, secondo quanto si è ritenuto sulla base di un ormai desueto topos storiografico, ma che ebbero come scopo quello di rinnovare e di ridare ‒ come ha sostenuto Gina Fasoli ‒ "alle istituzioni feudali il carattere originale accentuando l'elemento personale della fidelitas e il servizio militare", e di rendere il nesso feudale "un rapporto di soggezione puro e semplice, un rapporto di sudditanza che assumeva il suo particolare carattere dal servizio che i feudatari erano tenuti a prestare e dal controllo cui erano sottoposti importanti momenti della loro vita privata: matrimonio, successione, minore età, vedovanza, costituzione di dote" (G. Fasoli, La feudalità siciliana nell'età di Federico II, "Rivista di Storia del Diritto Italiano", 24, 1951, p. 58).
Enrico Mazzarese Fardella ha illustrato, con grande acume critico, questo aspetto della politica fridericiana nei confronti della feudalità, pervenendo a conclusioni che non si possono non condividere. Egli ha dimostrato come l'imperatore operasse in modo da rendere praticamente inesistenti, almeno in Sicilia, non solo i feudi comitali, ma anche i suffeudi.
Per quanto riguarda i feudi in capite de domino Rege, Federico provvide a imbrigliarli all'interno di una rigida normativa, codificata nel Liber Constitutionum.
Con le costituzioni Constitutionem divae memoriae e Hac edictati lege il sovrano, rifacendosi alla costituzione Scire volumus di suo nonno Ruggero II, provvide a proibire le alienazioni di qualsiasi natura che riguardassero i feudi e che fossero prive della licenza regia; e a stabilire il principio che i servizi dovuti per un feudo non potessero essere soggetti a diminuzione: "rivedendo la legge del re Ruggiero II di venerata memoria, nostro avo, sulla vietata alienazione dei feudi e dei beni feudali, noi stabiliamo che tutte le vendite o qualsiasi contratto sui feudi e beni feudali che comportino diminuzione o commutazione degli stessi, non abbiano validità se non sono confermati da una speciale autorizzazione della nostra sovranità"(Const. III, 5).
Con la costituzione Honorem Nostri diadematis, Federico impose l'obbligo della sua approvazione alle nozze dei feudatari: "Mantenendo l'onore dovuto alla nostra corona regale, ordiniamo con la presente legge che nessun conte, barone, uomo d'armi, o chiunque altro possiede per noi o per altri dei feudi o luoghi fortificati, elencati nel nostro catasto, osi sposarsi senza la nostra approvazione; né, senza la nostra approvazione, possono maritare le figlie, le sorelle, le nipoti, o altre parenti strette" (Const. III, 23).
Con le costituzioni Comite vel barone e Post mortem baronis, Federico impose come essenziale e prioritario l'intervento regio nelle successioni legittime dei feudi e nella nomina di un nuovo suffeudatario: nel primo caso intimò agli eredi di non osare fare nulla "nisi prius de sacramentis ipsis recipiendis ab excellentia nostra" (Const. III, 24); nel secondo caso egli rivendicò a sé il diritto di nominare il titolare di un suffeudo rimasto vacante.
In conclusione, attraverso una normativa, di cui abbiamo dato soltanto qualche cenno, l'aristocrazia feudale fu posta in una posizione di assoluta dipendenza dal sovrano. Costui, senza essere un giacobino ante litteram, non fu mai tendenzialmente ostile alla feudalità, della quale difese con forza i privilegi di classe (si pensi, ad esempio, alla particolare normativa da lui stabilita per lo svolgimento dei processi in cui fossero implicati esponenti della feudalità). Egli intese soltanto ridimensionare il ruolo politico e militare dell'aristocrazia feudale nei confronti del potere e delle prerogative regie.
Le aristocrazie cittadine
Le città dell'Italia meridionale avevano visto sempre attivo un ceto di operatori commerciali, anche nei secoli altomedioevali di più profonda depressione economica. Il Mediterraneo e l'Impero bizantino avevano offerto alla regione la possibilità della sopravvivenza di un'economia monetaria e di forme di possesso della terra non dissimili dalla proprietà romana.
L'arrivo nell'Italia meridionale dei normanni determinò la diffusione ‒ anche se non in modo esclusivo ‒ delle forme di possesso della terra proprie dell'ordinamento feudale carolingio.
Le città furono solo in parte assimilate al possesso feudale. Molti esponenti dell'aristocrazia cittadina, soprattutto quelli di origine longobarda, entrarono a far parte della gerarchia vassallatica, riottenendo a titolo feudale le terre che già detenevano. Alcune città, grazie all'ordinamento statutario, conservarono forme di autonomia organizzativa, che consentirono, in particolare al ceto dei mercanti, di continuare a svolgere le proprie attività, fino a costituire nel Regno un'aristocrazia che detenne potere politico ed economico. Federico fece ampiamente ricorso ai mercanti regnicoli, utilizzandoli come funzionari nel settore dell'amministrazione finanziaria del Regno e ricorrendo ad essi per appaltare le imposte o per ottenere dei prestiti a interesse. Tutto ciò favorì la nascita di una nuova aristocrazia cittadina, che prosperò accanto a quella assimilatasi per tempo alla feudale. Questa nuova aristocrazia cittadina fu determinante non soltanto nelle scelte di politica economica di Federico, ma anche nella formazione di quel ceto dei togati, che fu tra Quattrocento e Cinquecento uno dei pilastri della dialettica politica del Regno.
Federico fece ricorso ai mercanti regnicoli, in particolare a quelli della costiera di Amalfi, ma anche a quelli provenienti da altre città, come Napoli, Capua, Messina, Bari, Trani, Pescara, utilizzandoli nei diversi livelli dell'amministrazione del Regno. Innanzitutto, si servì di loro come funzionari centrali, regionali e provinciali.
I dirigenti della dohana desecretis erano sempre appartenuti, fin dalla fondazione dell'ufficio da parte dei re normanni, all'aristocrazia araba e siciliana. Dal 1220 al 1232 Federico prepose alla direzione dell'amministrazione finanziaria provinciale della Calabria e della Sicilia orientale due esponenti di una famiglia di mercanti il cui nome documenta antichi rapporti di commercio con l'Impero bizantino: i "de Romania". Prima "Matheus", poi "Iohannes", furono nominati magister regie dohane de secretis. I loro discendenti restarono al servizio della Corona, prima sveva poi angioina, e sono documentati per avere effettuato dei prestiti alla Curia regia.
A partire dal 1231, in concomitanza con la promulgazione delle Costituzioni di Melfi, Federico realizzò alcune grandi e radicali riforme dell'economia del Regno. Accrebbe, a tutti i livelli, il numero dei funzionari incaricati dell'amministrazione finanziaria. Nel settore provinciale, il camerario fu affiancato da nuovi ufficiali, che costituirono una nuova gerarchia e che furono deputati all'espletamento di compiti specializzati: magistri procuratores, magistri portulani, magistri fundicarii, magistri salis et ferri e magistri massarii nelle terre demaniali. Queste nuove cariche furono affidate tutte a mercanti, che le appaltarono secondo un sistema che si andò perfezionando nel tempo, soprattutto dopo il 1240.
Nel 1231 la collecta generalis fu trasformata in una imposta generale annuale. Divenne competenza dei giustizieri la sua distribuzione e la sua riscossione, che fu appaltata ai collectores pecunie collecte generalis, quasi sempre dei mercanti.
Il mercante Angelo Frisario, dopo aver operato a Ischia nel 1231, ottenne il portulanato del nuovo porto di Agrigento, poi la carica di maestro portulano della Sicilia orientale. Operò traendo un alto utile, così da potere inviare fondi alla corte, saldare alcuni debiti che Federico aveva contratto con dei mercanti romani, acquistare dei gioielli. Sembra che convincesse l'imperatore dell'opportunità di intraprendere una nuova politica del grano, eliminando l'intermediazione dei mercanti genovesi e trasportandolo con navi regnicole. Nel 1240 ricevette l'incarico di esportare l'ottanta per cento del grano prodotto nel demanio regio attraverso i due porti di Agrigento e di Milazzo.
Negli stessi anni in cui operava Angelo Frisario, un altro mercante, Angelo de Marra (v.), appaltava per l'anno 1238-1239, nella sua qualità di maestro procuratore, il monopolio della seta calabrese a un consorzio di sei mercanti originari di Scala.
Non sembra che siano documentati, per gli anni del governo di Federico, esempi di appalti delle cariche statali, ottenuti con il sistema dell'augmentatio, cioè con l'aumento della base dell'asta. Ma non vi è dubbio che l'aggiudicazione di un appalto fosse già fortemente ambita dai mercanti. L'appalto, infatti, era fortemente redditizio e consentiva al titolare di poter soddisfare interamente alle condizioni poste dal sovrano. Il mercante, vincitore dell'appalto di una carica, anticipava, grazie al capitale di cui disponeva, le rendite che l'appalto avrebbe procurato nel corso dell'anno. Inoltre, l'assunzione di una carica statale consentiva di poter estendere a tutti gli esponenti della famiglia del mercante i benefici che ne derivavano. La vincita di un appalto comportava anche la scelta di un personale specializzato per la gestione. Per questo personale venivano scelti i membri più giovani, che erano così in grado di conciliare le attività commerciali con il servizio per la Corona. Ecco qualche esempio significativo. L'aggiudicazione della carica di maestro zecchiere da parte di un mercante (per gli anni di governo di Federico conosciamo soltanto quattro nomi) comportava l'incarico di coniare nuove monete con un contenuto di fino più basso. Agli stessi zecchieri era poi demandato il compito di far arrivare una quantità prestabilita di monete nei capoluoghi delle province. Per questo compito essi si servivano dei distributores pecunie, che erano quasi sempre esponenti della loro famiglia. Costoro prendevano dalle zecche una quantità prestabilita di monete e la portavano sub eorum pericolo nella periferia del Regno. Nel 1232, ad esempio, il mercante Tommaso "de Pando" fu incaricato della distribuzione della nuova moneta d'oro, gli augustali, che era stata coniata nelle zecche di Brindisi e Messina a partire dal dicembre dell'anno precedente. Nelle province i giustizieri costringevano i comuni e i cittadini a cambiare le monete al cambio nominale. La differenza tra il valore nominale e quello reale costituiva il guadagno, che per le monete di argento, svalutate in modo inflazionistico, era molto alto. I distributores riportavano le monete revocate alle zecche e venivano remunerati con una percentuale dell'utile: il resto del guadagno andava alla Corona (si trattava di una voce fissa nel bilancio del Regno) e ai maestri delle zecche.
Questa aristocrazia mercantile rafforzò ulteriormente, dopo la morte di Federico e nella prima età angioina, il suo prestigio e il suo potere nel Regno, fino a monopolizzare la riscossione delle imposte indirette, facendo ricorso sempre più massicciamente agli esponenti delle proprie famiglie. In questo modo fece accrescere l'ammontare delle imposte e aiutò la Corona, anticipando i finanziamenti di cui necessitava, come ad esempio quelli per il potenziamento della flotta e dei cantieri navali.
Nonostante questa posizione di assoluta preminenza economica, l'aristocrazia dei mercanti regnicoli non poté sviluppare per tempo quegli strumenti finanziari in grado di trasformare le proprie società mercantili in società capaci di muovere grandi capitali, senza dovere ricorrere al contante: capaci, cioè, di trasformarsi in società mercantili a livello internazionale, come contemporaneamente avveniva per le società mercantili senesi e fiorentine. Quando, a seguito della rivolta del Vespro, la monarchia dovette ricorrere a forti prestiti, i mercanti regnicoli non furono in grado di provvedervi e il pontefice fu costretto a servirsi di una sovvenzione dei banchieri europei, che fu effettuata sotto forma di sussidio per la crociata.
Perduta la possibilità di affermarsi a livello europeo, i mercanti regnicoli si chiusero in un'aristocrazia cittadina che continuò a essere al servizio della Corona e a consolidare il proprio prestigio sociale attraverso l'acquisto delle funzioni pubbliche. La fondazione dell'Università di Napoli e la recezione, ivi verificatasi, della dottrina della Scuola di Orléans, aprì a quest'aristocrazia una nuova opportunità di ascesa sociale: quella dell'esercizio della professione togata.
Manfredi "Trara", dopo aver appaltato la carica di erarius nella Sicilia orientale, diventò iudex assessor del giustiziere di Terra di Lavoro. Falco "de Pando", esponente di una famiglia di mercanti che avevano ricoperto molte cariche pubbliche, lo si incontra come esperto di diritto nella Sicilia orientale e in Terra di Lavoro. Alla fine del Duecento Angelo "de Pando", Ansaldo "Trara", e Angelo "de Afflicto", iuris civilis professores, insegnarono tutti nell'Università di Napoli ed entrarono poi a fare parte della Magna Curia.
Insomma, gli esponenti dell'aristocrazia cittadina del Regno convertirono per tempo la propria vocazione a essere al servizio della Corona. Essi abbandonarono la pratica dell'assunzione delle cariche attraverso lo strumento dell'appalto, e già alla fine del Duecento generarono una tradizione di dotta professionalità nella scienza giuridica che avrebbe dato vita tra Quattrocento e Cinquecento a quella forma di aristocrazia, inimitabile e irripetibile, che fu il ceto dei togati napoletani.
L'aristocrazia ecclesiastica
Nel 1212, prima della sua partenza per la Germania, Federico rinnovò gli impegni del concordato del 1198, sottoscritto da sua madre Costanza. Al suo ritorno conservò tutti interi i privilegi in materia ecclesiastica che erano appartenuti ai re normanni, perché le norme per l'elezione dei vescovi, emanate dal concilio lateranense del 1215, divennero operanti soltanto nel 1230 con la pace di San Germano: ma anche in questa occasione fu riconosciuto al sovrano siciliano il privilegio di partecipare alla concessione della licentia eligendi di un vescovo, nonché quello dell'assensus a elezione avvenuta.
A questi diritti in materia ecclesiastica di cui godeva il re di Sicilia facevano riscontro i privilegi giuridici di cui usufruivano gli ecclesiastici, privilegi che erano anch'essi sconosciuti al resto d'Europa. I re normanni e poi quelli svevi, infatti, assicurarono il mantenimento dei vescovi, rendendoli beneficiari di una parte delle entrate dello stato.
La concessione delle decime per assicurare alla Chiesa le necessarie risorse non fu una prassi successiva alla nascita del Regno di Sicilia, ma ad essa incominciarono a fare ricorso i primi signori normanni nell'ambito delle rispettive signorie territoriali. Il cronista Goffredo Malaterra, ad esempio, ricorda come il gran conte Ruggero, "vedendo che tutta la Sicilia, ad eccezione di Butera e di Noto, era ormai, con l'aiuto di Dio, in suo potere", decidesse di essere grato al Signore e, tra l'altro, di "decimationes omnium redditum suorum sacris ecclesiis attribuere" (Goffredo Malaterra, 1927-1928, p. 88).
La percezione della decima ecclesiastica fu diffusa e generalizzata in tutto il Mezzogiorno e contribuì in modo determinante a conferire alla Chiesa meridionale legami strettissimi con il potere politico fridericiano. Emblematico, a questo riguardo, è il titolo settimo del primo libro delle Costituzioni di Melfi, dove Federico ricollega esplicitamente le sue disposizioni in materia di decime ecclesiastiche alla precedente legislazione normanna: "Mandamus, ut decimas integre, prout regis Guillelmi tempore consobrini et predecessoris nostri, ab antecessoribus officialibrus et bajulis evolute fuerunt, locorum prelatis exsolvere absque omni difficultate procurent". E ancora: "Subiectis nostris etiam indicimus, ut decimas, quas de feudi set bonis suis antecessores eorum predicti regis Guillelmi tempore prestiterunt, venerabilibus locis, quibus decime ipse debentur, cum integritate persolvant".
Come ben sottolineò Norbert Kamp, l'assegnazione alle Chiese delle decime su tutti i redditi in natura e in denaro dei baroni, dei principi e della monarchia ‒ assegnazione che fino alle riforme economiche operate da Federico nel 1231 riguardava anche le entrate future ‒ era una forma di intervento statale a sostegno della Chiesa che, per quanto è dato di vedere, era completamente sconosciuta non solo all'Europa del Nord, ma anche alla prassi amministrativa bizantina (Kamp, Monarchia, 1985, p. 127).
La concessione delle decime fu accompagnata da un regime immunitario che comportava soltanto alcune modestissime esenzioni, che furono limitate ai soli beni allodiali e al semplice condono delle imposte, oneri e pubbliche funzioni, e che non riguardarono comunque mai l'esercizio della giustizia. Ben a ragione, dunque, un grande giurista napoletano del Settecento, Carlo Pecchia, riassumeva in questi termini l'atteggiamento dei re di Sicilia verso gli ecclesiastici: "furono liberalissimi colle Chiese, perché in quanto al temporale l'ebbero come parte del loro Stato; e quindi ammisero i Prelati agl'impieghi più cospicui del Governo politico, economico, militare e civile, non già come direttori nello spirituale, ma come lor feudatari. Di qui l'obbligo di servire direttamente col contingente di militi pel feudale, e il peso di contribuire coll'allodiale assieme cogli altri possessori di burgensatici negli ajutori" (Pecchia, 1777, p. 165).
In conclusione, la dotazione delle Chiese e dei monasteri del Regno di Sicilia mediante decime statali, diritti regi di monopolio e complessi di beni feudali o ad essi assimilabili contribuì a creare un'aristocrazia ecclesiastica che rappresentò un fattore di coesione della monarchia fridericiana, mentre nel resto d'Europa l'episcopato rivendicava la sua piena autonomia e si poneva come elemento di disgregazione dello stato.
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