FEUDO (lat. mediev. feodum, dal germanico [v. sotto]; fr. fief; sp. feudo; ted. Lehen; ingl. fief)
Le origini del feudo racchiudono molti problemi non ancora interamente risolti. Chiara non è neppure l'origine della parola, che nelle sue prime menzioni appare nel Mezzogiorno della Francia con la forma feum, fevum, più tardi feudum. In Italia troviamo il vocabolo feo, verso la metà del sec. IX, in un elenco di beni appartenenti al vescovado di Lucca. Secondo alcuni, feum deriverebbe dal gotico thiut corrispondente a "bene", altri invece vogliono accostare tale termine a feoh = pecus. Con questo termine di fevum o feodum si designarono nel sec. VIII, in Francia, beni concessi dal re o dai maestri di palazzo a loro fedeli, cioè i cosiddetti benefici. L'origine del feudo si connette perciò da un lato all'origine del particolare legame che univa i vassi o gasindi al re e ai grandi signori del regno franco, dall'altra all'origine delle concessioni beneficiarie. Quanto al primo istituto, cioè al vassallaggio, è da ricordare che in tutti i tempi nei quali l'autorità dello stato è debole, o perché esso è in decadenza oppure perché si trova ancora nelle prime fasi della sua formazione, si nota lo sviluppo di legami che uniscono ai potenti persone che desiderano avere la loro protezione o che sperano di ottenere, con tal mezzo, uffici, vantaggi, ecc. Così avvenne nella decadenza romana. Nella Gallia, accanto a ogni famiglia cospicua, v'era un numero notevole di questi protetti, che si chiamavano amici o suscepti. Più tardi, quando i Franchi conquistarono la Gallia e un po' alla volta sottomisero al loro potere anche gli altri barbari, come i Burgundî, gli Alamanni, i Visigoti, ecc., che li avevano preceduti nel paese, i grandi proprietarî franchi si videro circondati dallo stesso stuolo di protetti. Si trattava d'una società ben diversa da quella romano-gallica: questa era eminentemente civile, mentre la società franca era strettamente militare. Si comprende quindi come fra i protetti che circondavano il potente franco ed erano da lui mantenuti nella sua casa e ricambiavano i favori del patrono con servigi d'indole familiare o erano impiegati nell'amministrazione dei beni o nel governo della casa, ve ne fosse un gruppo che era adibito alla sua difesa personale e lo seguiva nelle sue imprese guerresche. Erano costoro appunto, nel linguaggio franco del sec. VIII, i vassi o vassalli, che potevano essere liberi, ma anche servi che dimostrassero particolare audacia e assoluta fedeltà. La classe più elevata di questi fedeli era costituita dai giovani nobili, che circondavano il re e ne difendevano la vita a costo di qualsiasi sacrificio: erano gli antrustioni, che, tutti insieme, formavano la scorta del re, la trustis dominica.
Questi fedeli, sia dei re sia dei grandi signori, avevano dal loro patrono mantenimento e sovente anche doni, che dovevano però restituire se avessero rotto il rapporto. Questo si costituiva con un giuramento che veniva fatto ponendo le mani nelle mani del patrono, il quale dava un dono al vasso per riconoscimento del vincolo che s'era così formato fra essi, vincolo che importava per il vasso l'obbligo della fedeltà, ma per il patrono fondava quello della protezione. Questo atto si chiama in manu domini se commendare, e poi commendazione. I doni che il patrono dava al vassallo potevano consistere in oggetti mobili, ma anche in terre, che venivano concesse in donazione col nome di benefici, con particolari restrizioni. Il vasso infatti non poteva dare ad altri tali beni, e anche la trasmissione agli eredi era soggetta al beneplacito del concedente. In sostanza, più che di vere donazioni, si trattava di concessioni in godimento, con corresponsione di servigi resi: un rapporto giuridico non ignoto al mondo romano.
Un importante svolgimento ricevono tali rapporti al tempo dei maestri di palazzo della casa Arnolfinga, i progenitori dei Carolingi. Costoro si trovarono a dover riorganizzare dal lato militare il regno merovingio caduto in sfacelo per la debolezza degli ultimi re. Il demanio regio era stato dilapidato con le enormi donazioni fatte alle chiese e ai favoriti, le fazioni indebolivano l'esercito, gli Arabi minacciavano l'estrema rovina allo stato franco. In tali condizioni, Carlo Martello diede al legame vassallatico e al regime beneficiario una funzione eminentemente pubblica, che prima non aveva. Il maestro di palazzo concesse ai suoi numerosi vassi beni tolti al vistoso patrimonio della Chiesa, facendo una vera e propria secolarizzazione. Di tali vassi, una parte fu collocata lungo i confini, dove la minaccia degli Arabi era più forte, e i beni concessi servirono al mantenimento di questi fedeli, che, alla loro volta, avevano seguaci partecipi dei loro obblighi militari. La concessione non fu più fatta però con la forma delle donazioni, come in antico, ma con le forme usate nelle concessioni dei beni ecclesiastici, che venivano dati a concessionarî, i quali, per ottenerli, dirigevano una lettera di preghiera (precaria) all'ente proprietario.
La spogliazione del patrimonio ecclesiastico, avvenuta in particolar modo a danno delle chiese d'Austrasia, cioè della parte orientale-meridionale del regno Franco, suscitò grandi ire nei vescovi, ma l'autorità di Carlo Martello vincitore degli Arabi fece tacere, mentre era in vita, queste querimonie. Più tardi avvenne un accomodamento tra i figli di lui e il clero, in seguito al quale una parte dei beni fu restituita alle chiese, e una parte rimase in possesso dei fedeli vassalli. Per questa parte però i possessori di benefici si obbligarono a dare all'ente ecclesiastico proprietario non solo la decima ecclesiastica, ma anche un censo, che in teoria sarebbe dovuto ammontare a una seconda decima del reddito, ma in realtà ascendeva a molto meno. Abbiamo così tutta una serie di vassi che hanno come precipuo scopo della loro concessione la prestazione d'un servizio d'indole schiettamente militare, e ciò conincia a imprimere al rapporto di commendazione quel carattere guerresco che doveva poi divenire essenziale. Non erano però spariti i vassi che avevano un carattere familiare, e stavano perciò, dal punto di vista delle origini, in più stretto rapporto con l'antica clientela gallo-romana. Fra questi vassi ve n'erano molti i quali, ben lungi dall'avere carattere militare, cercavano anzi di sottrarsi, per mezzo della commendazione, all'onere di recarsi all'esercito, quando il re o il maestro di palazzo intimava l'eribanno, cioè la chiamata alle armi, e tutti i liberi dovevano raccogliersi sotto le bandiere. Questo ci spiega l'apparente contraddizione delle fonti nelle quali troviamo, nell'epoca carolingia, molte prescrizioni contro i vassi che cercavano ogni pretesto per non comparire all'esercito, mentre, d'altro lato, dimostra l'esistenza di altri vassi schiettamente militari. Fra l'altro, questi vassi domestici pretendevano di non andarvi, quando il loro signore non vi fosse stato chiamato. I capitolari franchi ordinano agli stessi seniori di condurre con sé i proprî vassi, qualora si rechino all'esercito, oppure d'inviarli al seguito del governatore della provincia, cioè del conte, quando essi stessi non partecipino alla spedizione guerresca.
La conquista dell'Italia da parte di Carlomagno fa sì che la presenza di vassi franchi si noti quasi subito nella penisola. Evidentemente si tratta di guerrieri fedeli al re, che questi colloca nella penisola per avere così disseminati fra i Longobardi di dubbia fede uomini interamente fidati. Le frequenti ribellioni dei Longobardi dovettero accrescere il numero di tali vassi, che furono riccamente dotati di benefici, mediante terre confiscate ai ribelli, oppure anche, come ci dimostrano le fonti documentarie, tolti alle chiese. Questa nuova secolarizzazione di beni ecclesiastici fu particolamiente usata dal nipote di Carlomagno, Lotario, che collocò in tal modo in Italia buon numero dei suoi fedeli. Costoro avevano poi alle loro dipendenze altri guerrieri, ai quali distribuirono parte dei loro benefici con un rapporto di sub-vassallità.
In Italia, le concessioni beneficiarie a vassi franchi s'incontrarono con patti non dissimili avvenuti già al tempo dei Longobardi. I re, i duchi, i gastaldi e forse altri personaggi erano circondati da fedeli, legati loro da uno speciale giuramento, chiamati, come in altri popoli germanici, gasindi; anche questi, come i vassi, potevano essere servi. Questi gasindi erano adoperati nella corte, ncll'amministrazione del palazzo regio o ducale, e in missioni delicate. Si ricorda, nei racconti di Paolo Diacono, la leggendaria fedeltà d'un gasindo del re Grimoaldo che, inviato dal re al figlio Romualdo assediato dai Pizantini, e da questi preso prigione, finse di accondiscendere alle imposizioni dei nemici che lo volevano costringere ad annunziare a Romualdo la sconfitta e la morte del padre, per farsi condurre sotto le mura di Benevento, ma giunto là, annunziò invece a gran voce a Romualdo che tenesse fermo perché il padre stava per giungere con un forte esercito. I crudeli Bizantini gli mozzarono la testa che fu gettata con una catapulta entro le mura e che il giovane duca baciò piamente sulle labbra.
Una parte di questi gasindi passò fra i vassi franchi, quando la dominazione dei nuovi signori si fu rassodata. Non tutti i vassi che troviamo poi, numerosissimi, nel regno franco d'Italia sono dunque di schiatta franca: ve n'ha anche di sangue longobardo, come più tardi ve n'ha di Provenzali, di Sassoni, di Franconi, secondo l'origine dei varî dominatori della penisola.
Ai vassi furono spesso attribuite alte cariche: li vediamo divenire conti, marchesi, duchi, nel periodo della decadenza carolingia e nella successiva età dei re d'Italia indipendenti. Seguiamo nei documenti questa ascensione dei vassi, che d'altronde è ben naturale, poiché i re avevano il maggiore interesse di porre le principali cariche in mano di persone loro legate da un vincolo di fedeltà strettissimo che esigeva, secondo la mente del tempi, l'assoluta dedizione del vassallo al seniore. Avvenne così che in breve tempo tutti i posti di comando del regno passarono in mano ai vassi: i posti maggiori, ai vassi dipendenti direttamente dal re, i posti minori invece, come le circoscrizioni delle contee, ai vassi dipendenti dai vassi-conti. Avvenne, per un fenomeno di mimetismo assai comune in tutte le età, che ogni legame di diritto pubblico venne poi configurato sul tipo di quello vassallatico, anche quando si trattava di rapporti preesistenti all'introduzione del sistema beneficiario. Non era infatti certamente ignoto già al mondo romano, per certe categorie di militari (e si trovò poi diffuso nei regni romano-germanici) il sistema di corrispondere lo stipendio dovuto a persone che occupavano certi uffici, mediante la concessione dei redditi di certi beni adibiti a questo scopo: si tratta, nel mondo romano dei bassi tempi, dei fondi concessi a militi more salario, e così, nell'Alto Medioevo, di beni dati in godimento a chi prestava determinati servizî, in luogo di retribuzione. Questi rapporti tendono a configurarsi, dopo l'estensione dei legami vassallatici-beneficiarî, sul modello di questi.
Quanto alla figura giuridica del beneficio vassallatico, essa varia secondo i tempi. In origine, come dicemmo, si tratta d'una concessione di beni di carattere precario, nel senso che durava quanto il rapporto di fedeltà costituito con la commendazione. Si trattava di terre e di redditi, e il nome che si dava comunemente a tale concessione era quello di honores: Carlomagno parla infatti dei servi qui in vassallatico honorati sunt. Honos e beneficium sono dunque equivalenti. Più tardi s'introduce anche l'epiteto di feodum, fevum o feo, che doveva soppiantare gli altri. Sembra che in Italia (a differenza di ciò che accade in Germania neì primi tempi) esso fosse adoperato per designare in particolare i benefici di carattere militare. In Italia per la prima volta il telmine feo, cioè feudo, si trova usato, come già si disse, nella seconda metà del sec. IX; nel secolo seguente il termine diviene frequente e verso la fine di esso viene adoperato comunemente. Durante questo periodo avveniva però una profonda trasformazione nella struttura del rapporto feudale. In origine il legame vassallatico aveva un carattere transitorio e personalissimo, come già vedemmo; sarà potuto accadere però anche in quei tempi che il figlio si accomendasse allo stesso seniore del quale era vassallo il padre suo e che tali rapporti si mantenessero attraverso successive generazioni. La tendenza all'ereditarietà è una delle caratteristiche del mondo medievale. Niente di più ovvio che anche i beni dati in godimento a un vassallo fossero lasciati al suo discendente, qualora esso si mantenesse negli stessi rapporti di commendazione. Quando i vassi ebbero importanti uffici militari e divennero il nerbo della dominazione franca nei varî paesi che si aggiungevano via via agli originarî territorî soggetti ai Carolingi, questi uffici dovettero passare con molta facilità di padre in figlio, ciò che del resto non era una novità assoluta negli ordinamenti bellici dell'Alto Medioevo, perché anche gli arimanni che stavano a guardia dei confini avevano, per il loro mantenimento, fondi che si trasmettevano ereditariamente, ma che non potevano di regola alienare, giacché erano legati a quella funzione militare. Sin qui però, nel caso dei vassi e dei loro benefici, si tratta di un'ereditarietà di fatto e non di diritto. I seniori non avevano alcun obbligo di riconoscere al figlio il beneficio che era spettato al padre. È naturale però che, dal canto loro, i vassi mirassero a mutare la situazione di fatto in un diritto, e questo diveniva più grave, quando a essi, come si vede, furono attribuiti grandi uffici, quali i ducati, le marche, le contee: l'amministrazione, cioè, delle grandi provincie dell'impero carolingio. Sino a che rimasero al potere Carlomagno e i suoi immediati discendenti, figli e nipoti, l'intento di questi vassi potentissimi non poté riuscire: Ludovico il Pio, Lotario, Luigi il Germanico e lo stesso Carlo il Calvo non riconobbero diritti ereditarî ai grandi vassi per i loro honores. Essi mantenevano il punto di vista dei re Merovingi e dei primi Carolingi, che era poi lo stesso dei re longobardi, i quali mutavano a loro talento i duchi e i conti. Carlo il Calvo però dovette impegnarsi nell'843, quando venne al trono, a non revocare le cariche "per capriccio, o per malevolenza, o per insinuazioni maligne, ma soltanto in seguito a un giudizio rispondente a giustizia ed equità". L'imperatore non riconobbe quindi l'ereditarietà esplicitamente. Nondimeno, dal celebre capitolare di Kierzy (o Quierzy, Carisiacum) dell'877, se non risulta, come per lungo tempo si è creduto, un legale riconoscimento dei diritti ereditarî dei vassalli alle loro cariche, l'imperatore vi dà tali istruzioni a suo figlio Ludovico il Calvo, che se ne ricava come ormai il passaggio ai discendenti fosse divenuto una regola. Fra l'altro, l'imperatore dà disposizioni per la conservazione del comitato, nel caso in cui il titolare fosse morto lasciando un figlio in età minore: il benefizio come tale sarà custodito dai parenti e dai ministeriali, finché l'imperatore possa investire il detto figlio degli honores goduti dal padre. Come si vede, neppure la minore età ostava alla trasmissione ereditaria.
Questa trasformazione è dovuta alla debolezza nella quale era caduta la monarchia, ormai interamente mancipia dei vassalli, che sostenevano o abbandonavano i re, secondo che speravano o no di ottenerne nuovi favori. È noto come la rovina del regno d'Italia indipendente fosse dovuta appunto a questi turpi maneggi dei feudatarî italiani che amavano sempre aver due re contemporaneamente, per poter trarre dalle loro competizioni maggiori profitti. Le grandi cariche divengono così retaggio d'illustri famiglie feudali e sono considerate da queste come un loro diritto patrimoniale e la sovranità si spezza in tanti frammenti, quanti sono questi dinasti. Più difficile è il riconoscimento dell'ereditarietà dei benefici minori, cioè dei feudi dei sub-vassalli: tuttavia anche questi riescono attraverso lunghe lotte a ottenere tale privilegio, ciò che avviene con la celebre constitutio defeudis dell'imperatore Corrado II il Salico, dato all'assedio di Milano il 28 maggio 1037. Con questo decreto l'edifizio feudale è compiuto: tutte le cariche, tutti gli uffici, dai più modesti ai più elevati, dalla sorveglianza d'un piccolo valico al quale presiede un'umile cortina o un castelluccio, fino al governo d'un'intera regione, tutto ciò è divenuto ereditario ed è retaggio di singole famiglie.
La concessione del feudo si faceva mediante la solenne cerimonia dell'investitura, che discende da quella, della quale già parlammo, della commendazione in vassatico; con essa il feudale promette la fedeltà al proprio signore e questi a sua volta concede protezione e conferisce il feudo. Ciò può avere, come s'è visto, varia importanza. Si formano gerarchie di feudali che vanno dai gradi più elevati ai più bassi: in capo stanno i principi, cioè duchi, marchesi, conti; vengono poi i capitanei, i quali presiedono a una circoscrizione della contea, cioè a una pieve; seguono i valvassori o vassi vassorum, dipendenti dai capitanei, che hanno, per solito un castello oppure la custodia di parti importanti della difesa cittadina, e finalmente i valvassini, che si trovano adibiti alla custodia delle mura di città o di terre forti. Tutti avevano l'obbligo di militare a cavallo armati alla pesante, ciò che costituiva la caratteristica della classe feudale.
Queste varie categorie di feudi avevano particolari diritti, maggiori quelli di grado elevato, minori gli altri. I conti avevano pienezza di giurisdizione, non così i feudali minori, che per solito non godevano il "diritto di sangue", ossia quello di giudicare i processi criminali. Un certo diritto di giurisdizione spettava però ai feudatarî in tutte le terre feudali e dipendeva dal cosiddetto diritto d'immunità, che a esse derivava sin dai tempi più antichi, per il fatto che si trattava d'ordinario di terre tratte dai beni del patrimonio regio o di quello ecclesiastico, nei quali i giudici ordinari non potevano esercitare diritti di coercizione, e in cui il proprietario o il suo rappresentante s'era arrogato il diritto di giudicare sui proprî dipendenti nelle questioni di poco conto, oppure, se si trattava di casi più gravi, di accompagnarli egli stesso al tribunale del conte. Questi diritti immunitarî trasmessi ai beni feudali portavano pure all'esenzione dalle imposte. Il feudale era obbligato soltanto a dare dei donativi al seniore in certi casi stabiliti dalle consuetudini feudali: quando il signore si sposasse, quando cadesse in prigionia e dovesse essere riscattato, quando dovesse recarsi presso il sovrano. Altro importante diritto del feudatario era quello d' essere Capitano nato dei suoi dipendenti, i quali, in caso di chiamata alle armi, andavano all'esercito sotto la sua guida, diritto che, come vedemmo, risale ai tempi carolingi. Da questi tempi antichissimi derivava pure un altro diritto dei feudali, quello d'essere giudicati dai loro pari: un privilegio che già spettava ai gasindi del regno longobardo. Perciò il principe era giudicato da una curia di principi, il capitaneo da una di capitanei e cosi via. In queste curie e in particolare in quelle della Lombardia si elaborarono, attraverso la prassi formata con numerosi giudicati sulle controversie feudali, le consuetudini che, raccolte sul finire del sec. XII e nel sec. XIII, formarono il nucleo dei cosiddetti Libri Feudorum, fonte precipua del diritto feudale in buona parte dell'Europa.
Il feudale aveva diritto d'essere lasciato dal suo seniore in tranquillo godimento del suo feudo: soltanto in alcuni casi, determinati dal diritto feudale, il seniore poteva privarlo del feudo, quando cioè egli avesse mancato gravemente ai doveri che gl'imponeva il suo giuramento di fedeltà, p. es. se avesse abbandonato in battaglia il suo seniore, o se non l'avesse informato di gravi pericoli che lo minacciassero; se ne avesse insidiato l'onore, o l'avesse assalito, o avesse tentato di avvelenarlo, oppure non lo avesse liberato dalla prigionia mentr'era in potere di farlo.
Oltre all'assistenza militare, il signore aveva diritto di chiedere al suo vassallo che gli desse consiglio nelle contingenze politiche e che frequentasse certe adunate, che formavano la delizia del mondo feudale, le cosiddette "corti bandite", giornate nelle quali i grandi castelli dei maggiori dinasti feudali ospitavano signori venuti dai dintorni, e si facevano tornei e altre feste.
Quanto abbiamo detto si riferisce soprattutto al feudo imperiale. In Italia però si svolgono altre cerchie di rapporti feudali. Nell'Italia settentrionale, e anche in quella centrale, durante l'ultima età carolingia e nel successivo periodo, dà luogo a un'intensa rete di concessioni feudali il grande accrescimento di poteri dei vescovi. In particolare, gl'imperatori della casa di Sassonia, per meglio tener soggetta l'Italia, poco fidandosi della feudalità laica che aveva cagionato tante lotte intestine nel periodo dei re indipendenti con le sue interminabili ribellioni, pensarono di porre le sedi vescovili in mani fedeli. Esercitarono così un'influenza del tutto predominante sulle nomine dei vescovi, che venivano fatte allora dal clero e dal popolo, ma che in realtà erano avocate alla volontà imperiale. Abbiamo in seguito a ciò, per oltre un secolo, di regola, vescovi tedeschi in gran parte delle sedi vescovili dell'alta Italia. A questi vescovi gl'imperatori concedono, in aggiunta alle vastissime donazioni che erano state fatte alle loro sedi dai Carolingi e dai re d'Italia, poteri amplissimi e, non di rado, l'ufficio di conte nella città di loro residenza e in un limitato territorio fuori delle mura. All'antico conte rimangono le restanti terre che, da allora, presero il nome di "contado". Questi vescovi, divenuti così proprietarî di vastissimi beni e per di più forniti spesso di poteri comitali, ebbero dagl'imperatori il mandato di organizzare una propria feudalità, d'erigere castelli e fortificazioni, in modo da costituire forti presidî sui quali i principi germanici potessero contare per dominare il paese. Si formò quindi, accando alla feudalità che derivava direttamente dall'imperatore, un'altra feudalità che dipendeva dai vescovi. Costoro la formarono con proprî parenti e seguaci, ma trovando ostacolo a ciò nelle prescrizioni ecclesiastiche che vietavano di dare beni della chiesa in feudo a uomini liberi, diedero spesso castelli e giurisdizioni a servi chiamati "ministeriali", perché servivano nei ministeria nella corte vescovile. Si forma così una nuova feudalità, che ha carattere alquanto diverso dall'altra, perché il legame feudale, che si forma fra i vescovi e questi loro vassalli, ha un carattere meno personale e più patrimoniale. Vediamo anzi non di rado avvenire concessioni di beni, in terre forti o in grossi castelli, a gruppi di persone che hanno l'obbligo di difendere le mura e di tenere le opere in buon assetto, e ciò sotto forma di livello o d'enfiteusi, benché l'indole della concessione sia evidentemente feudale. Ciò avviene perché si facevano valere i divieti dati dai concilî di concedere (per es., nel concilio di Ravenna dell'anno 877, can. XV) beneficiali more aut scripto i beni ecclesiastici.
Ne deriva che, ad es., l'alienazine del feudo, che era assurda nel rapporto feudale imperiale fondato interamente sul legame personale, non appare repugnante a questi feudi ecclesiastici e la consuetudine se ne diffonde in tutto il campo feudale, così che i Libri Feudorum (Vulgata, II, 9) ci attestano come molte curie feudali ritenessero legittima tale alienazione, purché l'acquirente assumesse gli obblighi dell'alienante. Intervennero su questo proposito un decreto dell'imperatore Lotario dell'anno 1136 e poi una costituzione di Federico Barbarossa del 1156, che vietarono severamente l'alienazione, benché non togliessero interamente l'abuso.
Dobbiamo poi ricordare che da questo svolgimento di rapporti feudali era rimasta quasi interamente immune l'Italia meridionale, giacché nei principati longobardi s'erano mantenuti soltanto rapporti di gasindiato, senza ulteriore svolgimento, mentre la Sicilia era caduta in mano agli Arabi e la costa adriatica e la Calabria soggiacevano ai Bizantini. Un generale svolgimento di rapporti si ha nell'Italia meridionale soltanto col dilatarsi delle signorie normanne della seconda metà del sec. XI e, soprattutto, con la fondazione della monarchia per opera di Ruggiero II. Questi riduce a obbedienza i varî capi normanni che avevano costituite signorie autonome assoggettando le popolazioni mediante violenze e soprusi. Si forma così una vasta gerarchia feudale che i re normanni e svevi tennero a dovere, affermando la loro sovranità. Degna di ricordo è per questo l'opera di Federico II, che ridusse gli abusi dei feudatari avocando alla corona la parte più importante della giurisdizione. L'opera del grande svevo non fu però continuata né dagli Aragonesi in Sicilia, né dagli Angioini nel continente, cosicché i poteri dei feudi crebbero a dismisura.
Queste diverse origini del feudo si riflettono nelle formalità che accompagnano la concessione e più ancora nella sua struttura interna, particolarmente dal punto di vista del diritto successorio. Nella sua forma più antica, come già vedemmo, il sorgere del rapporto feudale derivava da due atti: la prestazione dell'omaggio che creava il legame di vassallaggio e l'investitura. La forma del primo rimase sempre la medesima e consisteva, come già si disse, in ciò che il vassallo poneva le proprie mani in quelle del seniore, il che significava, da parte di quest'ultimo, come ci dice l'inglese Bracton, "protectio, defensio et warandia"; da parte del vassallo "reverentia et subiectio". A questa formalità essenziale s'aggiunge talvolta il bacio dato dal seniore al vassallo. Quanto all'investitura, mediante la quale il vassallo acquistava il diritto reale sul beneficio, questa si dava con un bastone, simbolo della signoria sulla cosa. Se però si trattava di feudi molto importanti, con diritti comitali, l'investitura si dava con la consegna d'una o più bandiere. In questo modo il patriarca d'Aquileia e duca di Friuli Bertrando diede nel 1338 l'investitura della contea di Gorizia ai conti Alberto, Mainardo ed Enrico. I vescovi usavano però dare l'investitura dei feudi minori anche col far toccare al vassallo un lembo della loro veste, o un fibbia della medesima, oppure l'anello. Il vescovo di Trento la dava con la berretta.
Quanto alla successione nel feudo, essa pure variava secondo le sue specie. I feudi più antichi passavano di primogenito in primogenito. Più tardi però, anche per l'influenza dei nuovi rapporti feudali creati nei possessi ecclesiastici, i feudi andarono divisi fra i discendenti maschi, benché tali divisioni fossero proibite dalle leggi imperiali. Talvolta queste divisioni spezzavano le signorie in moltissime parti: così il comune di Vercelli acquistò nel 1215 dai signori di Robbio 11/32 del castello omonimo, 13/32 del villaggio, 1/37 della corte di Meleto e altre frazioni di varie e castelli. Ciò portò al gravissimo inconveniente che piccole parti della signoria di una stessa terra spettassero a diversi signori, talvolta fra loro in lotta. Non di rado però gli eredi costituirono fra loro un consorzio e i membri del casato, della domus, esercitarono i poteri inerenti al feudo a vicenda, secondo regole stabilite. Quanto alle donne, esse erano necessariamente escluse dal feudo, secondo la primitiva essenda di questo, tutta militare. Viceversa, più tardi, venne ammesso in alcuni paesi e per alcuni feudi la successione femminile, quando non ci fossero eredi maschi. La figlia nubile erede del feudo non poteva però andare a marito senza l'assenso del signore, il quale così s'assicurava che lo sposo fosse in grado d'assolvere pienamente gli obblighi inerenti al feudo stesso. Nel secolo XIII l'antica esclusione delle donne dalla successione feudale era in molti luoghi scomparsa, non soltanto in Italia, ma anche in altri paesi.
La successione normale del feudo si estendeva soltanto ai discendenti del primo investito: era questo il caso del cosiddetto feudo "retto e legale", che in talune regioni si dice anche "pazionato". Però l'atto costitutivo poteva anche estendere la cerchia dei successori, come quando la formula assicurava la successione a coloro che, nel diritto ereditario comune, sarebbero stati eredi (feudo misto).
In generale potevano acquistare feudi soltanto i nobili, cioè i discendenti di feudali, giacché i vassalli delle varie classi delle quali abbiamo già parlato avevano la tendenza a costituirsi in cerchie chiuse. Soltanto coloro che vi appartenevano avevano la cosiddetta manus feudi, cioè la capacità di possedere feudi e nobiltà. V'erano però anche feudi ignobili, cioè quei piccoli benefici che si estendevano oltre le cerchie ricordate e che, come non conferivano qualifica di nobile a chi li possedeva, così potevano essere acquistati da plebei. Il re poteva però con usa patente abilitare anche plebei al possesso di feudi nobili, conferendo così loro la nobiltà: ciò era invece conteso, in qualche paese, anche ai grandi principi, come ad es., in Francia, al conte di Fiandra nel sec. XIII. Più tardi, l'avere esercitate importanti cariche alla corte o nelle amministrazioni provinciali dava capacità al possesso di feudi nobili; in Italia, nei territorî che obbedivano ai comuni, dava tale capacità anche l'aver coperto uffici comunali.
L'estensione dei feudi non fu in Italia così grande, come in altri paesi: non si può asserire che qui vigesse il principio, che invece ha valore in gran parte della Francia: nulle terre sans seigneur, per il quale tutte le terre sono feudali.
Sviluppo storico del feudalismo. - Il sistema feudale sorto con questi lineamenti si estende a tutta l'Europa occidentale. Le crociate prima, e più tardi la costituzione dell'impero latino d'Oriente, diffusero il feudo anche nei dominî costituiti dai baroni occidentali in Palestina, in Siria, nelle isole dell'Egeo, nel Peloponneso, nella Tracia e fin nel Mar Nero.
La feudalità ha varie vicende nei diversi territorî. In Italia nei secoli X-XII le grandi contee confinarie o "marche" del Friuli, d'Ivrea, di Spoleto, il ducato di Toscana esercitano un vero predominio nelle sorti della penisola, e i re ed imperatori escono sovente dal seno delle grandi famiglie che ne reggono le sorti. Così Berengario I era marchese del Friuli, mentre il suo nipote Berengario II era marchese d'Ivrea; Guido e Lamberto erano marchesi di Spoleto. Quanto alla casa di Toscana, essa ha una posizione di altissima importanza in tutto il periodo delle lotte fra la casa di Franconia e il Papato, e celebre è il nome dell'ultima discendente di quest'illustre prosapia, Matilde.
Il sorgere dei comuni diede però un grave colpo a queste grandi signorie feudali nell'Italia superiore e nella media. La grande lotta che l'imperatore Federico Barbarossa combatté contro i comuni, stretti nella Lega lombarda nella seeonda metà del secolo XII, mira a ristabilire non solo i diritti imperiali, ma anche quelli dei grandi feudatarì spossessati dai comuni. Le soldatesche cittadine sono però sostenute da feudali alleati alle città, che combattono strenuamente contro l'esercito feudale del Barbarossa, che anch'egli però aveva dal suo lato alcune città, coi loro contingenti militari. Essa finisce con la pace di Costanza (1183), nella quale vi è un riconoscimento soltanto formale dell'autorità dell'imperatore, ma, in sostanza, i comuni vedono riconosciute le loro autonomie. I mercanti e gl'industriali che dominavano nelle città si posero in lotta contro i feudatarî e li distrussero, oppure li obbligarono ad accettare la dominazione comunale. Così avvenne degli Aldobrandeschi, degli Ubaldini, dei conti Guidi, dei Della Gherardesca in Toscana, così dei Da Romano, degli stessi Estensi, che più tardi riuscirono a ricostituire la loro posizione storica soltanto mercé il favore acquistato nei comuni di Ferrara e di Modena.
Non si deve credere però che la feudalità scomparisse intcramente in Italia per effetto del prepotente movimento comunale. Anzitutto vi è l'Italia meridionale, dove, all'ombra della casa d'Angiò e poi in Sicilia, sotto gli Aragonesi, si mantiene un gran numero di baroni, i quali, per la debolezza di queste case, riescono a riconquistare i privilegi che avevano usurpati prima che Federico II di Svevia ne tarpasse gli abusi con le sue ferree riforme. Oltre a ciò nell'Italia settentrionale stessa vi sono ampî territorî, nei quali il movimento comunale non fu abbastanza forte per sopprimere i rapporti feudali. Così avviene nel Piemonte nei dominî della casa di Savoia e nei marchesati di Monferrato e di Saluzzo; così nel Trentino all'ombra del potente vescovo-conte di Trento; nel Friuli, dove sino al 1420 continua il potere del patriarca-duca d'Aquileia, nella contea di Gorizia, nella contea del Tirolo.
Nel corso del sec. XV, si nota un apparente risveglio degl'istituti feudali, giacché parecchi signori che, valendosi delle discordie continue dei partiti esistenti in seno ai comuni, erano riusciti a costituire in alcuni territorî dominî di una certa stabilità, come i Gonzaga a Mantova, gli Scaligeri a Verona, i Carraresi a Padova, i Visconti a Milano, cercano di consolidare queste loro signorie col farsi concedere mediante investiture feudali dagl'imperatori tedeschi, in occasione delle loro discese in Italia, titoli imperiali. Essi divengono dapprima vicarî dell'imperatore, ma poi alcuni, come gli Estensi, i Gonzaga, i Visconti e più tardi gli Sforza, ottengono addirittura il titolo di duchi. Si tratta però di concessioni che hanno soltanto in apparenza un carattere feudale. Altrettanto si dica delle numerose investiture di titoli nobiliari, concessi, mediante denaro, a famiglie mercantesche dei comuni dagl'imperatori, senza che alla concessione del titolo corrispondesse una giurisdizione territoriale. Nei paesi d'oltralpe la feudalità continuò vigorosa durante i secoli XV-XVI, ma le varie monarchie cercarono di ridurre questa potenza che le minacciava di continuo. In Francia, in quel periodo, ducati c contee che erano divenute retaggio di potenti famiglie, che ben poco si curavano dei loro obblighi di soggezione al re, caddero in potere della corona. Ciò avvenne in parte per fellonia; il re cioè s'impadronì dei possedimenti di grandi signori che lo avevano tradito, oppure s'erano macchiati di gravi delitti. Così Filippo Augusto, all'inizio del sec. XIII, ottenne il possesso della Normandia, della Turenna, dell'Angiò e del Poitou, avendo dichiarato decaduto il re d'Inghilterra Giovanni Senzaterra suo vassallo, in pena dell'assassinio del nipote Arturo; così Francesco I occupò il Borbonese, l'Alvernia e altri grandi feudi quando il connestabile di Borbone passò a Carlo V. Altri territorî decaddero alla corona, perché le famiglie che li possedevano s'estinsero, oppure per matrimonio. La Bretagna venne alla eorona di Francia per il matrimonio della duchessa Anna con Carlo VIII; alla morte di questo, per conservare questo grande possesso alla corona, il nuovo re Luigi XII dovette, nel 1499, ripudiare la sua virtuosa moglie Giovanna per sposare la vedova regina Anna. Altri grandi feudi furono acquistati dai re di Francia per denaro, come il Lionese e il Delfinato; altri finalmente furono incorporati per autorità regia. Così i re di Francia riuscirono nel sec. XVII a riunire nelle loro mani tutto il territorio francese. Rimasero però le minori signorie feudali; ma anche qui l'opera della monarchia mirò a diminuirne l'estensione e l'importanza coi più varî mezzi. I re obbligarono i signori feudali a venire per molti mesi dell'anno alla corte e con ciò ne fecero decadere la potenza nelle provincie; si avocarono in molti casi i processi alla giustizia reale; si stabilì la possibilità d'appellare sempre al tribunale regio contro la decisione dei tribunali signorili. Tuttavia in Francia, se anche molto diminuite di potenza, si deve riconoscere che, anche nel sec. XVIII, un grande numero di signorie feudali si mantiene e con esse permangono infinite gravezze che legittimamente o abusivamente i signori esigevano dai loro dipendenti. Il feudo aveva perduto, è vero, il suo carattere politico; il re aveva il suo esercito stipendiato e i suoi generali, del tutto all'infuori delle gerarchie feudali; ma il signore feudale conservava diritti di pedaggio, di pesca e di caccia, esigeva prestazioni personali della più varia natura dai suoi dipendenti, li costringeva a macinare il loro grano al suo molino, a pagare forti diritti per i mercati a lui sottoposti: aveva insomma numerosi diritti che costituivano un vantaggio pecuniario rilevante.
La lotta condotta dalla monarchia francese contro le grandi case feudali si trova anche in altri paesi, come a esempio in Spagna, dove porta alla formazione del potere assoluto del sovrano.
In Italia nei secoli XVII-XVIII si mantengono ancora varî grandi feudi imperiali, come quelli dei Del Carretto in Liguria, dei MalaspinaCibo negli Appennini, dei Pico a Mirandola, e altri, e feudi pontifici come il principato di Masserano in Piemonte. Feudi numerosi esistevano nei territorî della Repubblica veneta, tenace conservatrice degli antichi ordinamenti esistenti nelle vaste provincie che essa aveva acquistate in Lombardia e nella Venezia; alcuni feudi esistevano anche in Toscana. Ma i paesi più schiettamente feudali erano, ancora nel Settecento, da un lato il Piemonte, dall'altro i regni di Napoli e di Sardegna. Quando Carlo di Borbone pervenne al regno di Napoli vi trovò oltre 10.000 feudatarî, cosicché ì tre quarti della popolazione del regno erano soggetti al vincolo feudale e soltanto un quarto dipendeva direttamente dal re. Lo stesso avveniva in Sicilia. Quanto al Piemonte, ai tempi di Carlo Emanuele III vi esistevano 5800 feudatarî regi. Tutti i diritti, che abbiamo ricordati più sopra, spettavano a questi feudali ed essi erano particolarmente estesi nel regno napoletano, dove i baroni, non contenti di questi numerosi balzelli e d'infinite prestazioni personali, v'aggiunsero altre gravezze abusive, che per la debolezza o la connivenza dei viceré spagnoli divennero inveterate. Fra questi abusi il più celebre è lo ius cunnatici o diritto di "prima notte". Esso consisteva in una tassa che lo sposo doveva pagare al signore per poter passare a nozze. In varie regioni d'Italia, ma particolarmente nelle Puglie, ciò diede luogo ad abusi: in alcune terre del Barese e del Leccese i baroni pretendevano dai loro dipendenti, come diritto di cunnatico, persino una tassa settimanale per poter giacere con le loro mogli! Non parliamo poi di quanto avveniva nell'esercizio delle giurisdizioni, affidate dai baroni a giudici ignoranti e corrotti. L'immensa miseria e l'abbrutimento delle popolazioni di moltissime provincie del Napoletano e della Sicilia nel Seicento e nel Settecento fu cagionata in gran parte da questi abusi.
Non poche ribellioni furono provocate da questo stato di cose, e ciò mosse i principi a provvedere. Abbiamo già nel sec. XVI provvedimenti del duca Carlo Emanuele I di Savoia che vieta ai suoi baroni dazî e gabelle abusive; la repubblica di Venezia ordinò nel 1596 ai rettori delle sue provincie di terraferma di mandare ogni tre anni sindaci a ispezionare i territorî feudali. Provvedimenti del genere furono emanati anche dal granduca Cosimo III di Toscana, sul finire del Seicento. Per giungere però all'abolizione di gran numero di diritti feudali bisogna giungere fino al sec. XVIII. Il granduca di Toscana Francesco di Lorena nel 1749 riservò a sé stesso ogni podestà legislativa, la giurisdizione criminale, i diritti di regalia, la scelta e l'obbedienza delle milizie. Nel 1771 le costituzioni estensi per il ducato di Modena soppressero tutte le prestazioni personali. Per la Lombardia austriaca l'imperatore Giuseppe II limitò i diritti giurisdizionali dei feudatarî alla pura e semplice nomina dei giudici. Anche la Repubblica veneta col codice feudale emanato nel 1780 restrinse grandemente i diritti feudali e larghe riforme fecero Carlo Emanuele III e Carlo Emanuele IV negli stati sabaudi. Poco effetto ebbero invece i tentativi di riforma degli abusi feudali nel regno di Napoli promossi da Carlo di Borbone e da Ferdinando IV, nel Settecento.
Nel 1796 sotto l'impero delle riforme rivoluzionarie portate nell'Italia Settentrionale dalle armi francesi, la Repubblica Cisalpina soppresse ogni autorità feudale. Quanto all'Italia meridionale, il merito della soppressione spetta al re Giuseppe Bonaparte che, allo scopo di usare, nelle relative operazioni, la maggiore equità, nominò una commissione feudale, presieduta da un eminente e coraggioso magistrato, il Winspeare, coll'incarico di decidere tutte le controversie che dovessero insorgere in materia di diritti feudali. L'eversione generale dei feudi così nel continente, come nella Sicilia si ebbe però soltanto nel successivo periodo della restaurazione borbonica, giacché il governo di Ferdinando I continuò l'opera iniziata dai re Giuseppe e Gioacchino nel Napoletano, e l'estese nell'isola. Col 1832, anche in Sardegna, gli ordini feudali, che s'eran protratti, pure diminuiti nei privilegi, sino al regno di Carlo Felice, furono soppressi definitivamente per opera di Carlo Alberto.
I "libri feudorum".
Si disegnano con il nome di Libri Feudorum quelle compilazioni del diritto feudale che s'iniziarono nel sec. XII per opera privata e continuarono ad aumentare di mole nel successivo, finché furono comprese nell'ultima parte del Corpus Iuris e acquistarono così un valore ufficiale.
La più antica redazione è la cosiddetta Obertina, così chiamata perché il suo nucleo principale è costituito da due lettere scritte, intorno alla materia feudale, da Oberto dall'Orto, giudice milanese, al figlio Anselmo, che studiava giurisprudenza a Bologna. Le lettere furono scritte fra il 1137 e il 1158. La prima tratta delle fonti del diritto feudale, dell'oggetto del feudo, dei diritti e obblighi che ne sorgono sia per il signore, sia per il vassallo, dei modi dell'investitura, delle regole della successione feudale, della procedura osservata nelle cause riguardanti i feudi. La seconda riguarda invece la devoluzione dei feudi. La recensione però non si esaurisce con le lettere di Oberto dall'Orto, essa contiene anche alcuni brevi scritti di diritto feudale dovuti a feudisti del sec. XII, come quello sulla successione e reversione dei feudi di un Ugo da Gambolado che fu giudice palatino a Pavia all'inizio di quel secolo. Una parte della redazione è dovuta inoltre a un Gerardo, che secondo alcuni autori si ritiene possa essere identificato nel console milanese Gerardo Nigro Capagisti.
Questa prima redazione consiste soprattutto in esposizioni succinte delle leggi feudali di Corrado il Salico e di Lotario II e di consuetudini formatesi nelle curie feudali lombarde, intorno ai punti controversi del diritto feudale. La redazione Obertina che si presenta assai interessante dal lato storico, ma ancora informe e disordinata, fu ordinata e rifatta da Iacopo di Ardizzone fra il 1220 e il 1233. Si divide in due libri, e i libri sono a loro volta divisi in titoli. La recensione ardizzonica ha una certa importanza perché tratta la materia in forma organica e tiene conto delle costituzioni di Federico Barbarossa e di Federico II (ad decus).
Nel contempo si forma, per opera d'ignoti giuristi, un'altra redazione pure divisa in libri in forma assai prossima a quella ardizzonica, ma con più ampiezza. È la cosiddetta Vulgata che, secondo il racconto di Odofredo, il glossatore Ugolino introdusse nell'ultima parte del Corpus Iuris; essa fu inserita nel volumen dopo la nona collatio dell'Autentico formando così la decima. Ciò accadde verosimilmente prima del 1233, anno nel quale troviamo l'ultima menzione di Ugolino nei documenti. I Libri Feudorum acquistano così un carattere ufficiale. Essi sono glossati, secondo il sistema del tempo, e Iacopo Colombi scolaro di Azzone raccolse queste glosse e le completò in un apparatus, che formò la base della glossa d'Accursio a questa parte del Volumen.
Più tardi si sentì il bisogno di rivedere e riordinare questi testi, ma tali tentativi non ebbero fortuna; il più celebre è quello fatto da Antonio Da Pratovecchio, che fu maestro di gran fama nello Studio bolognese, nei primi decennî del 400.
I Libri Feudorum conservarono a lungo grande importanza ed ebbero larga diffusione e commentarî non solo in Italia, ma anche in Germania. Ancor oggi vengono citati nei dibattiti giudiziarî relativi a questioni di carattere feudale o per titoli nobiliari. Sono stati editi da Lehmann (Das langobardische Lehnrecht, Gottinga 1896).
Bibl.: F. Schupfer, Il diritto dei popoli germanici, II, Città di Castello 1907, p. 198 seg.; R. Trifone, Feudi e Demani, Milano 1909; B. Croce, Storia del Regno di Napoli, Bari 1925; P. del Giudice, Nuovi studi di storia e diritto, Milano 1913, p. 108 seg.; E. Chenon, Histoire générale du droit français public e privé, I, II, Parigi 1926-29; P. S. Leicht, Gasindi e Vassalli, Roma 1927 (nei Rendiconti della Reale Acc. dei Lincei, s. 6ª, III); G. M. Monti, Il dominio universale feudale e l'"Ius cunnatici"), in Terra d'Otranto, Bari 1927; E. Besta, Il diritto pubblico italiano, Padova 1930, p. 171 segg. Per i Libri Feudorum, v. C. F. Dieck, Literargeschichte des Langobardischen Lehnrechts, Halle 1828; E. A. Laspeyres, Über die Entstehung und älteste Bearbeitungen der Libri Feudorum, Berlino 1830; F. Schupfer, Manuale di storia del diritto italiano, Le Fonti, 3ª ed., Roma 1903.