Feudo
Quando nel 1216 gli estensori del Liber Consuetudinum Mediolani dedicarono ben quattro capitoli alla materia feudale, chiarendo con precisione la natura essenzialmente beneficiale del feudo, beneficium idest feudum, o meglio "feudum autem nihil aliud est quam beneficium" (Liber Consuetudinum, 1949, 24, 3, p. 119), e la necessità di un vassallaggio con relativo giuramento di fedeltà per godere del reddito proveniente dal patrimonio beneficiale, da tempo era avvenuta in Lombardia una profonda trasformazione nell'ambito del concetto di beneficio. Prima del sec. XII il beneficio, e per conseguenza anche il feudum, termine equivalente ma meno usato, era sempre stato pensato come una sorta di 'rimunerazione' per un servizio in genere di natura militare che un vassallo, o vassus, doveva prestare a un dominus, o senior, previa l'esibizione pubblica della fidelitas, o meglio la prestazione di un giuramento di fedeltà. Il beneficio, o feudo, era dunque un fare, un'attività costante, anche se non sempre armata, a stretto contatto con il signore e al suo servizio. Ma a partire dalla fine del sec. XI nei contratti notarili emerse che le concessioni in beneficio e i servizi vassallatici tendevano a essere unificati, pensati come un che di unico, tanto è vero che sia il servizio, sia il sacramentum fidelitatis, qualora le parti si fossero accordate, potevano anche essere oggetto di rinuncia, o non essere prestati. In altre parole emergeva una tipologia di feudo vassallatico istituito con una forma di contrattus in feudo, la cui più chiara attestazione appare in un documento aretino del 1129. In quella fonte il contratto feudale si costituiva con una munifica disponibilità alla concessione di un beneficio da parte di un dominus, alla quale faceva riscontro un giuramento di fedeltà di un vassallo. Il contratto era valido subito dopo l'accettazione della fidelitas, anche se non era stato scritto, e non poteva essere annullato senza l'evidente prova di una colpa; mentre in caso di controversia la riconciliazione fra le parti doveva avvenire per mezzo di mediatori, scelti tra amici comuni. Ma nel testo del 1129 non si faceva cenno a un servitium come condizione per possedere il beneficio, il quale sarebbe passato in perpetuo ai discendenti.
Anche un testo giuridico lombardo dei primi decenni del sec. XII si sforzò di qualificare la natura del feudo, natura feudi; essa consisteva nel fatto che se un sovrano aveva attribuito a un 'capitaneo', cioè a un marchese o a un conte, un feudo, non avrebbe potuto sottrarglielo senza dimostrare che egli aveva commesso una colpa. La stessa cosa era valida se l'investitura fosse stata fatta da uno dei sopraddetti 'capitanei', o dai valvassori di rango più elevato, che a quell'epoca erano, come dice la fonte, impropriamente chiamati 'capitanei'; ma la validità della disposizione cessava qualora la concessione di un feudo fosse stata fatta dai valvassori minori, o da quelli minimi, i quali potevano togliere il feudo senza che l'avente causa avesse commesso delle colpe.
Da quanto si è sin qui detto, il beneficio o feudo tendeva a caratterizzarsi come una forma di diritto su di un bene altrui: lo affermava chiaramente il giudice milanese Oberto dell'Orto, che tuttavia lo inseriva, in modo errato, nella categoria romanistica degli usufrutti, che invece non potevano essere trasmissibili ai discendenti e, quindi, perpetui. Secondo il giurista lombardo l'oggetto, che la benevolenza del signore attribuiva a una persona, era dato in modo che la proprietà dell'immobile rimanesse nelle mani di chi lo concedeva, mentre l'usufrutto del bene spettava in perpetuo a chi lo riceveva, in quanto passava agli eredi maschi e femmine. Se questa definizione appare fortemente impropria, maggiore forza ebbe una seconda chiarificazione del concetto: in essa si affermava che il vassallo aveva una potestas sul beneficio tale da essere quasi equivalente a quella del concedente, che tuttavia aveva un superiore dominium in quanto proprietario. Il feudo dunque si inseriva nella categoria dei diritti reali.
Ma come era potuto avvenire un simile passaggio dalla forma rimunerativa di un contratto di servizio all'acquisizione di un diritto sulla proprietà di un altro? In primo luogo va notato che nel corso del sec. XII in Lombardia gli obblighi tipici dei vassalli tendevano a essere riassunti in una fidelitas negativa, in quanto essi nel ricevere il feudo giuravano di non muovere guerra al signore, di non abbandonarlo sul campo di battaglia, di non invadere i suoi beni, di non manifestare i segreti da lui confidati, di non partecipare a riunioni in cui si congiurasse contro di lui, contro la sua famiglia e contro i suoi beni e il suo potere. In questi obblighi di fedeltà non compariva alcuna indicazione su possibili mancate prestazioni di servizio. Eppure nella definizione di beneficium, data da Oberto dell'Orto, il giurista affermava che esso era concesso in perpetuo, affinché chi lo riceveva e i suoi discendenti potessero servire fedelmente il signore.
Tuttavia negli scritti dei feudisti successivi a Oberto emergevano due tipi di benefici, quelli condizionali e quelli non condizionali. I primi, beneficia aut feuda conditionalia, comportavano sempre la prestazione di servizi e qualora questi ultimi non fossero più effettuati il feudo ritornava immediatamente al concedente. Erano i feudi degli scudieri, dei gastaldi, dei decani, i quali erano indicati come feudi impropri. Feudi in senso pieno erano invece quelli non condizionali, per i quali non esisteva, come si è visto, un diretto rapporto tra la continuità della concessione e le prestazioni di servizio dovute al concedente. Essi furono nella seconda metà del sec. XII indicati con le espressioni feudum rectum, paternum, antiquum et gentile e comportavano sempre l'obbligo di un aiuto militare al signore. Ma verso la fine del secolo fu introdotta in Lombardia l'eccezione che i vassalli avrebbero potuto non servire militarmente il loro signore qualora lo stesso dominus avesse ingiustamente dichiarato guerra a qualche istituzione, in particolare al comune della città in cui essi vivevano, contra patriam, o a qualche persona, paragonando tale caso a quello di un signore scomunicato o bandito dall'imperatore, i cui vassalli erano tenuti a non ubbidire ai suoi comandi. Inoltre il mancato adempimento del servizio militare non era più visto da Oberto dell'Orto come causa per la revoca del beneficio; infatti egli parla genericamente di 'ingratitudine' verso la 'benevolenza' del signore, che obbligherebbe il vassallo, qualora fosse necessario, a prendere le armi per difendere gli interessi del dominus.
Infine, proprio perché il feudo era sostanzialmente pensato come patrimonio del vassallo, Oberto si domandò se in caso di revoca per giusta causa il beneficio dovesse ritornare al signore, oppure se dovesse essere devoluto agli eredi del vassus; quesito privo di significato per tutti i secoli precedenti l'età comunale. La risposta di Oberto fu perentoria: il feudo avrebbe dovuto rientrare tra le proprietà del signore, ma solo come se si fosse trattato di una sorta di confisca dei beni, perché quest'ultimo potesse avere una ultio per l'ingiuria subita. In ogni caso chi godeva del beneficio doveva sempre evitare il peccato di omissione, consistente nel ricusare il servizio militare al senior, qualora quest'ultimo l'avesse richiesto per sfuggire a un grave pericolo. Insomma, gli obblighi sembravano dipendere più dalla disponibilità del vassallo che da una rigorosa imposizione giuridica.
In questo senso i feudi divennero patrimonio dei vassalli, in quanto essi acquisivano sui medesimi un diritto reale. Pertanto questi ultimi a partire dai primi decenni del sec. XII incominciarono a operare delle subconcessioni di parte del loro beneficio dietro pagamento di un prezzo preciso, utilizzando la formula dei contratti livellario nomine, quasi si trattasse di una compravendita, poiché il censo, sempre previsto nei livelli, si riduceva a un versamento simbolico, tanto che a volte i contratti specificavano che non dovesse essere versato. Nello stesso tempo non si richiedeva la fidelitas, quasi si trattasse di un feudum sine fidelitate. Il compratore del feudo infatti non subentrava negli obblighi vassallatici dovuti al dominus dal venditore, che avrebbe dovuto in ogni caso garantirli, pena l'estinzione automatica del livello, anche se il livellario acquirente si premuniva con apposite pattuizioni contro tale iattura, che si verificava solo in caso di morte senza figli maschi del vassus venditore, oppure per un suo notorio delitto di fellonia. In altri casi per la 'commercializzazione' dei feudi, quasi sempre nella loro totalità, si utilizzava un contratto feudo-vassallatico, con l'indicazione di un vero e proprio prezzo, specificando che il venditore non richiedeva alcun servizio. In questo caso la revoca del feudo poteva avvenire solo dopo che il venditore avesse versato all'acquirente la somma ricevuta. Insomma, in Lombardia il feudo era oggetto di commercio quotidiano e le prestazioni di servizio erano di fatto scomparse.
Contro tale prassi insorsero gli imperatori tedeschi, in quanto si accorsero che un numero elevato di vassalli era impossibilitato a rispondere alla chiamata all'esercito con le armi e i cavalli. Il primo a intervenire fu Lotario II nel 1136 con la Constitutio de feudorum distractione, un testo importante per comprendere ciò che era avvenuto e come il sovrano pensava di poter ovviare ai mali che indebolivano il suo esercito. "Abbiamo saputo che i cavalieri, milites, hanno alienato i loro benefici e quindi senza patrimonio cercano di evitare il servizio militare dovuto ai loro seniores; per questa ragione noi sappiamo che le forze dell'Impero si sono fortemente ridotte" (Die Urkunden Lothars III., 1927, nr. 105). Il sovrano per ovviare al danno stabilì che a nessuno fosse lecito alienare i benefici avuti dai seniores senza il loro permesso, oppure commerciarli a danno dell'Impero e a diminuzione dell'utilitas dei signori, che avevano concesso il feudo, pena la privazione del medesimo. I notai che avessero rogato i contratti di livello o altri documenti come l'investitura ad fictum, oppure la costituzione del pegno, avrebbero perso il loro ufficio e sarebbero stati infamati. Tuttavia il sovrano non elencava tra le forme negoziali la subconcessione nomine feudi, allora non molto diffusa, ma che proprio per questo fu sempre più utilizzata attorno alla metà del sec. XII.
Toccò quindi a Federico I porsi di nuovo il problema nelle due assemblee di Roncaglia del 1154 e del 1158: gli era stata presentata dai grandi vassalli italiani, marchesi, conti, vescovi e abati, una grave querela per fatti che diminuivano la forza dell'Impero. Infatti essi denunciavano che i loro beneficiati, senza aver ottenuto il loro permesso, obbligavano in pegno, vendevano e alienavano sotto forma di livello i feudi e quindi non fornivano più alcun servizio militare. Pertanto il sovrano stabilì di proibire che, senza il permesso dei loro domini, i vassalli alienassero, vendessero, concedessero in pegno l'intero beneficio, o feudo, oppure solo una parte di esso. La legge sarebbe stata retroattiva e l'imperatore avrebbe annullato tutte le operazioni di coloro che avessero compiuto simili atti anche prima della promulgazione della stessa. Sin qui il testo di Lotario era sostanzialmente riconfermato, con l'aggiunta della retroattività della norma, ma subito dopo Federico I affermò che per evitare astute macchinazioni, callidae machinationes, era necessario proibire i contratti di coloro che, dopo aver ricevuto una somma di denaro, vendevano i feudi o li trasferivano ad altri, utilizzando la forma dell'investitura, che dicevano fosse per loro lecita. La pena sarebbe stata la perdita immediata del feudo, che sarebbe stato devoluto ai loro seniores. Nonostante la severità del dettato della legge, essa fu sistematicamente elusa. Infatti dall'ultimo quarto del sec. XII era possibile, almeno per i due giudici milanesi Gerardo Cagapisto e Oberto dell'Orto, che colui che acquistava il beneficio, qualora fosse un miles, potesse prestare il servizio militare, non a chi gli concedeva il feudo, ma al dominus di quest'ultimo. Tale sotterfugio era fondato sull'eccezione dum tamen militi detur e sulla norma che imponeva al vassallo, qualora non potesse partecipare all'esercito, di inviare al suo posto un altro che sapesse svolgere uguali funzioni militari.
D'altra parte nel medesimo periodo si era introdotta anche l'usanza di convertire il servizio con il pagamento di una contribuzione in denaro: ad esempio a Vercelli i vassalli versavano ai domini 40 soldi ogni 100 moggia di terra; a Milano un soldo per ogni moggio. Anche il Barbarossa dovette accettare la consuetudine, limitandosi a inasprire la multa per chi non si fosse presentato in armi per le spedizioni militari, portandola sino alla metà del reddito annuo del beneficio. Inoltre l'imperatore permise che i feudi diversi dai ducati, dalle marche e dai comitati fossero materialmente divisi tra i consorti contitolari del beneficio: era la strada più sicura verso la possibilità di non assolvere più i compiti di servizio armato e di monetizzarli con una tassa altrimenti detta servitium.
I comuni, in seno ai quali avvenivano queste trasformazioni, ripensavano i rapporti feudo-vassallatici secondo nuove modalità, diverse da quelle del Regnum Italiae, che era destinato a essere esautorato dai nuovi centri di autonomia. Nelle città il ceto militare, suddiviso in 'capitanei' e valvassori, creò delle coniurationes con i cives e ciascuno dei tre ordini elesse propri rappresentanti nei consigli dei comuni. In questo modo gli obblighi militari dei due ordini di milites verso i loro signori, vescovi o capitanei, si sovrapposero agli obblighi verso il comune e finirono per limitarli, sinché il servizio dei vassalli perse ogni significato. I milites, avendo acquisito diritti pubblici e privilegi, iniziarono un processo di chiusura sociale nei confronti di nuovi elementi provenienti da ceti più bassi e assunsero una fisionomia aristocratica. Se il servizio militare non era più reso, continuavano invece le forme esteriori del rapporto vassallatico: la funzione di par de curia, la fedeltà verso il signore, intesa come gratitudine, e la fedeltà verso l'imperatore con l'obbligo di accompagnarlo a Roma. Ma soprattutto restavano i feudi nella nuova accezione.
Tale evoluzione del feudo lombardo era talmente legata al trionfo della civiltà comunale e del comune su ogni altra potenza politica che nelle aree periferiche italiane, in cui i poteri cittadini tardavano ad affermarsi sulle famiglie comitali e capitaneali dotate di milizie di 'lambardi' e di masnadieri, il termine feudo e le contese giuridiche feudali compaiono pochissimo nelle fonti. Questo fatto era una sicura testimonianza che il feudo come ius in re aliena presupponeva una società e un'economia in cui il rapporto militare feudo-vassallatico avesse perso ogni legame con le sue origini, quando svolgeva una funzione di servizio per la guerra.
Appare curioso quindi che proprio ove il rapporto beneficiario aveva perso la sua antica finalità, esso continuasse a perpetuarsi e a moltiplicarsi, fuori dal servizio verso il Regno. Infatti stavano nascendo ovunque in Lombardia delle forme di signoria sugli uomini, basate su fondamenti giuridici diversi: signorie di dinastie comitali che, come nel caso dei conti di Biandrate, cedevano benefici e poteri amministrativi minori a milites entro un castello per ottenere i servizi militari e il controllo dei rustici; signorie di ecclesiastici e di laici potenti che incastellavano villaggi e corti e imponevano il loro banno su tutti gli abitanti, trasformando in potere pubblico quello che un tempo era solo un diritto di comando, legato alla proprietà privata. Ma nella genesi delle signorie rurali vi erano anche le città, che imponevano la loro forza sui territori circostanti, eliminando le signorie rurali più piccole e cercando di estendere il loro potere su tutto il territorio della diocesi. In questo contesto il nuovo concetto di feudo trovò la sua massima espansione in quanto definiva la sottomissione di una potenza a un'altra: esso assicurava alla potenza vassalla i diritti sui suoi territori e nel contempo, attraverso la prestazione della fidelitas, la potenza egemone affermava i suoi diritti e i suoi interessi. In questo modo il contratto feudale strutturava obblighi strettamente politici e quindi garantiva sempre più il dominio di un signore, o di un'istituzione comunale, su gruppi di uomini, mentre un tempo il rapporto vassallatico beneficiale serviva solo a mantenere il vassus e aveva una funzione esclusivamente economica.
Nello stesso periodo il feudo si inserì per iniziativa di Federico I anche nel diritto pubblico dell'Impero; Piero Brancoli Busdraghi ha a ragione affermato che "la 'feudalizzazione' degli uffici territoriali pubblici non è in Italia più antica del XII secolo" (19992, p. 235), in quanto si collega direttamente con lo sforzo operato dal sovrano svevo per ripristinare il potere imperiale e riorganizzare su basi sicure il Regno. Il presupposto di tale inserimento fu il concetto di iura regalia, elaborato e fissato in modo preciso nella dieta di Roncaglia del 1158. L'imperatore mirava infatti a controllare l'esercizio dei diritti regi, dai quali dipendevano il governo e l'economia del Regno italiano, e per raggiungere tale scopo utilizzò due strategie: l'uso di funzionari e il feudo. In primo luogo inserì sul territorio italiano dei funzionari, quasi sempre tedeschi, la cui carica era revocabile, i quali attuavano in modo sistematico la volontà del sovrano. Ma Federico I sapeva che nelle città e nelle campagne operavano dei centri e dei poteri di giurisdizione locale, quali i vescovi, i signori terrieri, i monasteri e gli stessi comuni, che sarebbero stati difficilmente eliminabili, anche se la iurisdictio era il più importante diritto del Regno. Occorreva trovare un compromesso con tali forze in modo che le regalie continuassero a essere prerogativa del re, ma insieme anche diritti soggettivi dei signori locali, dei monasteri e delle Chiese diocesane. Il feudo, nella sua evoluzione verso la forma di ius in re aliena, poteva ben servire a questo scopo, assumendo una funzione interamente nuova.
Infatti prima di quest'epoca l'ufficio dei conti e dei marchesi, i poteri giurisdizionali delle Chiese e la capacità di esercitare il districtus da parte dei proprietari di castelli e di grandi aziende agricole non erano stati considerati feudi del Regno, ma solo come proprietà private che i documenti dei sovrani garantivano nel passaggio da padre a figlio. Insomma i vescovi, prima di Federico I, non devono essere pensati come 'feudatari' del Regno, anche quando le loro Chiese diocesane erano diventate titolari di diritti comitali e di iura appartenenti al potere pubblico, a loro concessi in 'beneficio', ma solo nel senso di rimunerazione o stipendio. Non si trattava dunque di feudi, ma di proprietà, come Giovanni Tabacco ha ben dimostrato (1970, pp. 565-615), sottolineando l'uso nei documenti imperiali di espressioni quali donamus et tradimus, oppure tradimus ac perpetua proprietate concessimus, oppure de nostro iure et dominio in tuo iure et dominio tradimus. Si tratta dell'allodialità del potere, affermazione che poteva valere sia per i vescovi, sia per i conti, sia per i signori di fortezze o di corti almeno sino ai primi decenni del sec. XII.
Dunque Federico I seppe introdurre il feudo, come sin qui lo abbiamo definito, nel diritto pubblico dell'Impero, interpretando in modo giuridico nuovo i rapporti con il sovrano che in precedenza erano stati pensati in senso privato e in questo modo incrementò l'uso di qualificare come 'feudi', o benefici del Regno, i beni che erano confermati ai figli con una investitura dopo la morte dei padri per le famiglie di alto lignaggio. Ma il sovrano svevo fece di più, in quanto correlò strettamente i due concetti di feudo e di iura regalia, come elementi indispensabili per l'esercizio della giurisdizione. In un documento del 1157 il Barbarossa fece scrivere che "ea que ab imperio tenentur, iure feudali possidentur" (M.G.H., Leges, 1893, nr. 169) e quindi tali benefici, o feudi, non potevano essere alienati senza il consenso del re. Il feudo era diventato da quel momento la forma giuridica necessaria perché persone o enti potessero esercitare diritti regi o goderne i proventi. Il sovrano approvava in genere il godimento di simili iura regalia, ma nel contempo si sforzava di definirli e limitarli. L'operazione di Roncaglia nel 1158, secondo il racconto di Rahevino, era appunto consistita in queste due categorie di atti: "usò tanta liberalità nei confronti dei possessori che a chiunque potesse dimostrare con documenti di possedere delle regalie, egli le confermava in perpetuo a nome del regno e con investitura beneficiaria imperiale" (Ottone e Rahevino, 19123, l. IV, par. 8). Nelle investiture feudali di Federico I rientravano pertanto non solo gli uffici comitali e marchionali e i poteri pubblici dei vescovi, ma anche quelli dei comuni e dei signori rurali, che agivano accanto ai loro castelli e alle terre allodiali dotate di honores et districtus.
Eppure lo sforzo dello Svevo, se diede origine nella grande nobiltà a una coscienza giuridica della natura feudale delle concessioni dei comitati e dei marchesati, presso i comuni lombardi non ebbe grande successo. Infatti essi avevano ottenuto, dopo la vittoria di Legnano e il diploma di Costanza, di poter godere degli iura regalia, ma senza la formula iure beneficiario o iure feudi e con l'imposizione di far riconfermare l'investitura. Il feudo non serviva, agli occhi dei lombardi, per consacrare giuridicamente l'acquisizione faticosa delle autonomie comunali, ma per sottoporre le città al controllo del sovrano e dei suoi funzionari, attraverso appunto l'uso della riconferma. Il feudo era "uno strumento di dominio per l'impero, non già uno strumento di autonomia per le forze particolari" (Brancoli Busdraghi, 19992, p. 247). Le stesse affermazioni non potevano valere anche per i vescovi e per gli abati che, diversamente dai comuni, erano in genere assimilati ai grandi vassalli del sovrano, principes nostri, e quindi capaci di cedere con una investitura i diritti regalistici a dei vassalli, utilizzando la formula per regale sceptrum.
Il concetto di feudo come diritto reale fu pure applicato dallo Svevo alle giurisdizioni di origine allodiale rurale, o meglio alle signorie rurali di banno. In questo caso la tesi esposta da Gian Piero Bognetti, secondo la quale i centri di dominatus della campagna avevano avuto in età postcarolingia un'origine pubblica, come somma di diritti e di poteri regalistici appartenenti un tempo al Regno e successivamente trasferiti dai sovrani ai domini, abati, vescovi, conti, milites attraverso concessioni feudali o infeudazioni, ha dato origine a numerosi fraintendimenti. Al contrario, dopo gli studi di Cinzio Violante e di Tabacco, sono chiaramente emersi due momenti nell'evoluzione delle signorie rurali, che in antico erano connesse con la proprietà della terra, in genere di curtes con numerosi mansi e con poteri di comando sui rustici che le lavoravano, fossero essi servi, aldi, liberi livellari o commendati. Solo in un secondo momento, a partire dal tardo sec. X e per tutto il corso dell'XI, con la costruzione di castelli sui territori curtensi e con il moltiplicarsi della popolazione, il potere di districtio dei signori si ampliò, acquisendo capacità legate non più al semplice ambito del possesso della terra, ma ai rapporti di natura politica che intercorrevano tra tutti gli abitanti e tra costoro e il loro dominus. La necessità di difendere il castello, di ristrutturarlo, di riparare le torri o di scavare i fossati, la garanzia di assicurare la pace all'interno della fortezza e la tutela dei possessi allargarono il potere di banno del signore, potere che tendeva ormai a estendersi non solo ai lavoratori delle sue terre curtensi, ma anche a tutti coloro che usavano il castello per ritirare e proteggere i raccolti e per alloggiare gli animali, oppure per rinserrarsi in caso di pericolo.
Dunque il potere di districtio tendeva a coincidere con uno spazio di territorio compatto, sul quale si allargava l'influenza del castello, e ben definito da precisi confini, per evitare liti con signorie rurali contermini. Il dominatus loci pertanto si formò in modi diversi: per acquisizioni di honores a titolo allodiale, oppure per conferme di poteri fiscali e amministrativi appartenenti al Regno, da parte di sovrani ai vescovi, conferme a titolo di proprietà, oppure, nel caso di famiglie marchionali o comitali, per la titolarità delle funzioni sul territorio dei comitati o delle marche. In ogni caso era presente nella larga maggioranza delle stesse signorie l'autonoma iniziativa dei domini nella loro veste di grandi e medi proprietari terrieri; essi agirono, come insegnava Violante, dal 'basso' e la loro legittimazione risiedeva nella forza di contrattazione con le popolazioni locali, era cioè di natura negoziale, ancora una volta privatistica, e si fondava su accordi stipulati con i residenti sul territorio, presi in gruppo, oppure singolarmente.
Orbene tali signorie rurali di banno, a cui rare volte competevano diritti di alta giustizia, quali i processi sull'omicidio, sul furto, sull'adulterio, sul tradimento e sullo spergiuro, nella seconda metà del sec. XII divennero di natura regalistica e pubblica, quando furono assimilate agli iura regalia rivendicati dal Regno. A Roncaglia nel 1158 una celebre costituzione affermò che era vietato a chi vendeva i suoi possedimenti allodiali, privati, alienare con gli immobili anche districtum et iurisdictionem dell'imperatore. Il nuovo concetto di feudo serviva anche in questo caso per affermare il potere di controllo del sovrano, il quale finì per considerare tali signorie rurali di antica ascendenza privatistica come dei feudi regi. La nuova concezione si affermò durante i decenni finali del sec. XII e fu ben strutturata nel Liber Consuetudinum Mediolani del 1216. Il testo affermava che poteva possedere legittima capacità giurisdizionale o di di-strictio solo chi l'aveva ricevuta dall'imperatore o da coloro che avevano causam ab Imperio, da cui discende omnis iurisdictio, come l'arcivescovo, i vescovi, i conti, i 'capitanei' e i cives. Tuttavia anche chi non possedeva diritti giurisdizionali legittimi, cioè aveva dei diritti extra ordinem, poiché aveva comperato la districtio su di una località da qualcuno, oppure per altre ragioni che non fossero quella del per feudum, avrebbe potuto esercitarli, a meno che non appartenesse al ceto dei rustici. Insomma solo l'investitura per feudum, operata da un avente causa dall'Impero, conferiva i legittimi poteri giurisdizionali sulla signoria rurale. Tuttavia la deroga relativa agli acquisti e alla iurisdictio extra ordinem dimostrava che le signorie rurali continuavano a essere vendute e comperate sul mercato delle contrattazioni private. Ma dal punto di vista giuridico nel corso del Duecento e del Trecento si affermò la dottrina secondo cui tutti i poteri derivavano dall'imperatore ed essi potevano essere conferiti solo attraverso una concessione feudale.
Alla morte di Federico Barbarossa il feudo come istituzione giuridico-politica aveva trovato applicazione in Lombardia nell'ambito del diritto pubblico con la funzione di raccordo tra diversi ordinamenti di natura politica. Federico II ereditava tale evoluzione e si inseriva nella stessa mirando ad accentuare gli aspetti che permettevano al feudo di divenire un forte strumento di dominio per l'Impero. Su questa linea si era già posto suo padre Enrico VI, affermando di avere un potere assoluto, la cui unica limitazione era legata alla sua esclusiva volontà, era cioè quella che egli avrebbe voluto imporsi. Così l'imperatore, all'indomani della sua incoronazione a re di Sicilia avvenuta a Palermo nel Natale del 1194, volle sottoporre a verifica tutte le precedenti concessioni beneficiarie dei re normanni, privando molti nobili meridionali dei loro feudi, ma ridistribuendo nello stesso tempo numerosi benefici vassallatici e dignità del Regno ai potenti cavalieri tedeschi, a lui legati da rapporti di fedeltà e di servizio, quali Marcovaldo di Annweiler, conte dell'Abruzzo, Diopoldo di Vohburg, conte di Acerra e giustiziere di Terra di Lavoro, Corrado di Urslingen, vicario del Regno e duca di Spoleto, Corrado di Luetzelinhard, conte del Molise. Erano concessioni di feudi legate a funzioni di governo, in quanto Enrico VI, utilizzando i cavalieri tedeschi, voleva coordinare la dominazione nel Mezzogiorno con un disegno di generale preponderanza in Italia.
Il Regno di Sicilia era dunque ben strutturato, in quanto fondato su di un sistema amministrativo e finanziario i cui due piani erano in molti casi perfettamente sovrapponibili, e avevano come vertice il maestro giustiziere, capo della Magna Curia, massimo organismo giudiziario, al cui funzionamento erano chiamati tutti i giustizieri delle singole province. A costoro, responsabili della giustizia e delle finanze, erano sottoposti i camerari, i baiuli, i secreti e gli altri ufficiali minori attivi in campo finanziario e civile. Tuttavia non si può parlare di un Regno caratterizzato da una legislazione antifeudale, in quanto sia Enrico, sia lo stesso Federico II, organizzarono un Regno feudale, nel quale i 'feudatari' dovevano piegarsi alle finalità imposte dal sovrano. Infatti nelle leggi emanate a Capua nel dicembre 1220 il giovane imperatore mirava a riacquisire gli iura regalia usurpati dai grandi vassalli del Regno normanno, nel periodo di carenza di governo, chiedendo la restituzione di castelli, villaggi e baronie appartenenti alla Corona e la distruzione delle fortezze edificate senza alcun permesso regio. Inoltre nel de resignandis privilegiis egli impose alla nobiltà, ai monasteri e alle Chiese di presentare alla sua Curia tutti i precetti concessi dai sovrani normanni e svevi dal 1189 in poi. In questo modo l'imperatore poteva riavere feudi, rendite e dazi sottratti alla Corona negli anni della sua minorità e poteva espropriare qualsiasi bene, anche legittimo, adducendo l'interesse del Regno. Quest'ultima decisione fu applicata in rapporto alle fortezze di grande interesse strategico, che furono occupate dalle truppe imperiali.
Tra il 1220 e il 1224 il programma di ridimensionamento della nobiltà meridionale fu pienamente realizzato: i conti e i domini, che si erano impadroniti con la violenza e con la frode delle fortezze e dei casali della Corona, furono costretti a restituirli, sottomettendosi al re e accettando formalmente che sulle loro terre la giustizia fosse amministrata dai giustizieri, ufficiali del Regno. Diversamente dall'Italia settentrionale le signorie rurali erano, almeno dal punto di vista del diritto, tutte sottoposte al controllo militare e giurisdizionale del sovrano. La grande nobiltà del Mezzogiorno perse pertanto forza economica e politica e fu affiancata da un ceto di funzionari esperti di diritto e di finanza reclutati tra i ministeriales, o meglio tra i vassalli di secondo rango del Regno, i quali per il compito svolto erano pagati dal re e la loro carica era revocabile ad nutum del sovrano. Per questa ragione Federico II li concepiva come 'fedeli servitori del Regno'. Ma i grandi signori del Mezzogiorno non furono dimenticati e accantonati: l'imperatore aveva ereditato dagli antenati normanni un esercito feudale e pertanto doveva assicurarsi il servizio militare da parte dei baroni e attraverso questa strada riutilizzarli nella compagine del Regno. Ma Gina Fasoli ha a suo tempo osservato con acutezza che il nesso feudale fu trasformato a vantaggio dell'imperatore, in quanto "cessava di essere bilaterale, sinallagmatico, per diventare un rapporto di soggezione puro e semplice, un rapporto di sudditanza che assumeva il suo particolare carattere dal servizio che i feudatari erano tenuti a prestare e dal controllo a cui erano sottoposti importanti momenti della loro vita privata: matrimonio, successione, minore età, vedovanza, costituzione di dote" (Fasoli, 1951, p. 58). In altre parole la struttura feudale del Regno non fu smantellata, ma fu sottoposta al vigile controllo del sovrano. Entro questi precisi limiti la nobiltà vassallatica fu di nuovo inserita nell'esercito e nelle strutture della burocrazia e a molti grandi signori e baroni furono riservate alcune cariche di giustiziere provinciale. Infine ai maggiori vassalli fu assicurato il pieno inserimento nella 'curia dei pari', che aveva competenza in materia feudale e vassallatica e riduceva di fatto il potere giurisdizionale dei giustizieri nel campo del diritto feudale. Federico II ricercava, come ha scritto Salvatore Tramontana, "un sistema di potere nel quale l'equilibrio tra corona e feudatari venisse garantito, oltre che da un apparato burocratico strettamente dipendente dal sovrano, da una politica di privilegi e di adescamento economico" (Tramontana, 1983, p. 671).
Dopo il ritorno da Gerusalemme e dopo la pace di San Germano con il pontefice, l'imperatore si accinse a riorganizzare completamente l'intero Regno, senza alcuna distinzione tra l'isola e il continente, tenendo conto delle precedenti esperienze concrete di governo. Ebbero così origine nel 1231 le Constitutiones di Melfi, che in materia feudale lasciano intravedere una di-screpanza tra la teoria del potere, sino ad allora enunciata, e la vita quotidiana. Infatti i domini loci, nono-stante le disposizioni di Capua, continuavano ad amministrare la giustizia sui loro rustici, poiché si mantenevano invariate le consuetudini locali. I giuristi del sovrano considerarono pertanto la materia dei feudi entro l'ambito del diritto consuetudinario locale, che poteva avere valore solo se avesse ricevuto l'approvazione del re. La posizione teorica delle Constitutiones nei confronti delle consuetudini, e quindi anche del diritto feudale, fu espressa nel proemio al Liber Augustalis in cui Federico II affermò che le sue leggi abrogavano tutte le consuetudini a esse contrarie, in quanto il compito di giustizia che Dio gli aveva affidato consisteva nell'abolire gli usi superati e inadeguati a raggiungere il fine della equitas, prerogativa tipica del monarca.
In rapporto all'ordinamento feudale lo Svevo disciplinò a Melfi la materia relativa al diritto di successione, stabilendo che anche le figlie avrebbero potuto ereditare il feudo in assenza di figli maschi. Qualora queste fossero state minorenni il sovrano avrebbe dato loro un tutore, che avrebbe provveduto a maritarle con il raggiungimento del venticinquesimo anno. In rapporto poi al diritto successorio di coloro che tenevano un feudo in capite, come i conti e i baroni, Federico II stabiliva che potessero succedere i figli, i nipoti, i pronipoti e i trisnipoti in linea discendente, sia maschile che femminile, avuto però riguardo al fatto che, per chi viveva secondo il diritto dei franchi, alle donne erano da preferire gli uomini e tra questi ultimi quelli più anziani. Era possibile inoltre ereditare un feudo anche in linea collaterale, come per i fratelli e per le sorelle non sposate (in capillo), con l'esclusione del padre, qualora fosse stato ancora vivo, perché ovviamente troppo anziano e incapace di compiere i servizi richiesti dal vassallaggio. Inoltre le sorelle sposate e già dotate non potevano in alcun modo concorrere all'eredità del feudo del fratello. Ma la parte in cui i poteri del re erano evidenti e rafforzavano la compagine del Regno era posta nel paragrafo conclusivo della costituzione 27 del libro III in cui si permetteva ai parenti di ultimo grado, che avrebbero dovuto essere esclusi dalla successione, di poter ricorrere alla grazia del sovrano, il quale avrebbe potuto decidere di preferirli agli estranei, qualora essi fossero disposti a offrire alla Curia regia, a cui il feudo era stato devoluto, una somma pari a quella promessa dai competitori. Infine se il sovrano avesse voluto trattenere per sé i feudi devoluti al demanio, oppure donarli con grande liberalità ad altri, nessuno avrebbe dovuto pensare che con tale decisione Federico II avrebbe potuto commettere un'ingiuria, perché i feudi giustamente devoluti erano di suo pieno diritto. Il controllo della Corona sulla materia feudale era poi accentuato dalla disposizione che prevedeva, ampliando una costituzione di Ruggero II, la necessità del permesso del sovrano per poter effettuare l'alienazione dei feudi e dei benefici feudali. Inoltre la costituzione 5 del libro III annullava tutti i negozi giuridici relativi alla compravendita e alla permuta dei medesimi feudi, i cui contratti erano stati effettuati senza alcun permesso regio.
A tali leggi vanno aggiunte due altre disposizioni, tendenti a garantire sul piano teorico il principio della equitas: la prima serviva a evitare che i domini effettuassero illecite pretese di servizi dai vassalli. Essa mostra in modo molto chiaro la profonda differenza dell'istituzione feudale entro i due territori italiani. Se a Nord il feudo rientrava tra i diritti reali lasciando al vassallo ampio spazio di azione nell'esercizio dei suoi diritti, a Sud avveniva esattamente il contrario in quanto si stabiliva che nessun signore potesse opprimere contro giustizia i suoi vassalli, o richiedere cose illecite. La pena prevedeva il risarcimento delle spese al vassallo e una multa da pagare alla Curia regia pari al doppio di quanto era stato estorto. Segno evidente che i vassalli erano di fatto alla totale mercé dei domini. Infatti, e questa è la seconda disposizione, i feudatari, secondo Giovanni Cassandro (1943, pp. 189-190), attraverso l'uso sistematico delle reintegrationes feudorum, che regolamentavano le disposizioni fiscali, potevano restaurare i loro antichi diritti sul mondo dei lavoratori delle campagne inserite nelle loro signorie e costringere a loro piacimento i vassalli, i cui benefici erano assimilabili ai benefici condizionati dell'Italia settentrionale.
Il risultato della politica federiciana fu sostanzialmente negativo: una parte dei grandi feudatari del Regno di Sicilia, seppur organicamente inseriti nel governo della cosa pubblica e dei territori rurali, anche attraverso il sistema funzionariale, negli ultimi anni di governo di Federico II tradì l'imperatore e la sua causa. Un simile atteggiamento si ebbe anche tra i grandi vassalli del Regno dell'Italia settentrionale.
In Lombardia e nella Marca trevigiana lo Svevo era intenzionato a mantenere in materia di feudi degli atteggiamenti simili a quelli praticati nel Mezzogiorno, che di fatto continuavano la linea predisposta dal Barbarossa e da Enrico VI. Si trattava di attribuire a dei comites o a dei marchiones, 'feudatari' ormai da parecchi decenni, poteri di natura funzionariale su territori diversi da quelli aviti, trasformandoli in conti funzionari. Ad esempio nel 1221 Federico II concesse con un solenne precetto al conte Gotifredo di Biandrate, i cui feudi aviti erano ubicati tra la Sesia e il Ticino, il comitato di Romagna, con tutti i poteri giurisdizionali e con la facoltà di esercitare su quel territorio tutto ciò che l'imperatore avrebbe potuto compiere, ma solo finché fosse piaciuto al sovrano, "donec nostro placuerit beneplacito et voluntati" (Brancoli Busdraghi, 19992, p. 243). Ma a Nord la situazione politica era molto diversa, l'imperatore si trovava di fronte a un ceto feudale diviso tra l'irrinunciabile raccordo vassallatico con il Regno e con la persona del re e la tensione verso il mondo politico ed economico-finanziario delle città comunali, che di volta in volta attraevano o respingevano i grandi casati di Lombardia e della Marca. I comuni utilizzavano il rapporto feudale per stringere legami di natura politica e finanziaria con le famiglie feudali. Costoro, pur salvaguardando l'honor dell'imperatore e la fidelitas a lui dovuta, in caso di richiesta di prestiti, o di sottomissione militare dopo una guerra, alienavano i loro feudi ai comuni, riottenendoli nello stesso momento a titolo feudale, nomine feudi, con obbligo di giuramento di fedeltà, di servizio armato in caso di conflitto e di consegna delle loro fortezze. In rapporto a tali adempimenti essi erano costretti a esprimere nei giuramenti la prioritaria dipendenza dall'Impero e dall'imperatore dei beni, dei castelli e delle loro persone.
Le autonomie cittadine e la forza economica dei gruppi dirigenti dei centri urbani, solo teoricamente vassalli del re, ma intenzionati con Milano a negare ogni fedeltà allo Svevo, pur continuando a godere degli iura regalia, creavano forti difficoltà alla grande vassallità del Nord Italia. A ciò si deve aggiungere la posizione sempre più avversa all'Impero e alle sue prerogative politiche del papato romano. Nei confronti di questi grandi vassalli, possessori di feudi pubblici, Federico poteva solo operare in due modi: riconfermare in primo luogo la titolarità e la consistenza dei medesimi feudi, così come essi li avevano ricevuti dai loro predecessori, mantenendoli nella situazione di nobili feudatari titolari di nobile, gentile et paternum feudum. In secondo luogo, per favorirli ulteriormente e legarli con nuovi vincoli di fedeltà, egli poteva trasformarli in feudatari-funzionari su territori amministrativi concessi in temporaneo governo. Finché l'imperatore e il papa mantennero un equilibrio, seppur sempre più precario, la dipendenza della feudalità padana dall'Impero fu garantita; anzi, all'indomani della vittoria di Cortenuova, anche molte città passarono in campo imperiale, riconfermando i giuramenti di fedeltà per poter godere legittimamente degli iura regalia. Solo Milano, Piacenza, Brescia e Genova rimasero ostili; ma dopo il 1243-1244, e soprattutto dopo il concilio di Lione del 1245, in cui Innocenzo IV scomunicò e depose l'imperatore, la situazione cambiò profondamente. Molte città lombarde tradirono e costrinsero con le armi o con vincoli finanziari iugulatori i titolari di signorie rurali, i conti feudatari e altri possessori di feudi regi a passare nel campo della Chiesa. Il sovrano in Lombardia poté così contare solo su titolari di feudi pubblici a lui legati da stretti vincoli di parentela o da lunga familiarità amministrativa, come Ezzelino da Romano, Manfredo e Galvano Lancia, Tommaso di Savoia, Giacomo del Carretto, Uberto Pallavicini, Buoso di Dovara. Ma altri grandi titolari di feudi regi, come i marchesi di Monferrato o gli Este, mantennero atteggiamenti incerti e ondeggianti, emblematici per comprendere la situazione della feudalità settentrionale, seriamente minacciata dalla potenza sempre crescente dei comuni.
Occorre sottolineare tuttavia che solo le grandi famiglie nobiliari, i cui patrimoni e i cui territori signorili erano ubicati in zone marginali per lo sviluppo della civiltà comunale, riuscirono a svolgere una coerente politica di raccordo con l'imperatore, di cui furono fedeli servitori, attuando un impegno militare in primo luogo antipapale e insieme contrario alle libertates urbane, o meglio alla piena attuazione delle autonomie cittadine. Tuttavia costoro lavoravano anche per costruirsi dei principati simili a quelli tedeschi, di cui si dovrà parlare più avanti. Gli esempi di Tommaso II di Savoia, di Manfredo Lancia, di Uberto Pallavicini e di Ezzelino III da Romano sono indicativi di questa situazione. Ezzelino a partire dal 1239, forte della parentela con l'imperatore acquisita attraverso il matrimonio con una figlia naturale dello Svevo, Selvaggia, esercitò pieni poteri militari sulle città della Marca trevigiana, con l'esclusione di Treviso e di Brescia, esautorando in modo sempre più evidente i funzionari dell'Impero. Questi videro sempre più ridotto il loro spazio di azione giurisdizionale, politica e amministrativa, sostituito da un accentramento dispotico di poteri operato da Ezzelino, che dette origine a una forma presignorile di governo, tacitamente approvata da Federico II. Tuttavia l'appoggio imperiale da solo non spiega questa istituzione presignorile, in quanto studi più recenti hanno messo in evidenza che Ezzelino avrebbe tratto vantaggio dagli sviluppi socioeconomici delle città, in particolare di Padova, e avrebbe realizzato una relativa apertura delle cariche pubbliche comunali, affidandole a famiglie e a uomini 'nuovi', a lui legati da vincoli di fedeltà. Inoltre Ezzelino agiva anche in modo autonomo, con atti alternativi verso l'Impero, come nel caso della conquista di Monselice, importante fortezza nel Padovano strappata a un capitano pugliese di Federico II.
Diversamente dalla feudalità dell'Italia meridionale, quella del Settentrione si appoggiava al sovrano per attuare azioni politiche autonome con finalità presignorili allo scopo di impadronirsi e di controllare una o più istituzioni politiche urbane. In questo senso potevano servire i precetti di nomina funzionariale per la carica di vicario imperiale, ottenuti da Manfredo Lancia, oppure quelli celebri di Tommaso II di Savoia, che nel novembre 1247, dopo il matrimonio tra Manfredi e Beatrice di Savoia, ricevette un nuovo feudo regio con i poteri giurisdizionali su Torino, Moncalieri, Ivrea e sul Canavese, mentre l'anno successivo fu creato vicario imperiale 'da Pavia in su' e nel febbraio del 1249 divenne legato generale dell'imperatore per la Lombardia 'dal fiume Lambro in su'. Le sue funzioni durarono poco, poiché dopo la morte di Federico II egli sposò una nipote di Innocenzo IV Fieschi, ma i documenti ottenuti poterono servire per creare forti ipoteche per i futuri sviluppi signorili del suo casato sui territori della Lombardia occidentale e del Piemonte.
Pur mantenendo un atteggiamento consequenziale di utilizzazione, entro i due Regni italiani, dei feudi e della nobiltà feudale, che avrebbe dovuto essere uno strumento militare, giurisdizionale e amministrativo-fiscale del potere dell'imperatore, il programma di Federico II ebbe esiti diversi, legati alle reali situazioni economiche e politiche dei territori in cui si realizzò.
Per completare il quadro è ora opportuno analizzare la situazione del Regno di Germania, che può confermare la tesi sin qui espressa. Sul territorio tedesco i principi costituivano l'ossatura portante dell'esercito feudale del re, i cui contingenti erano sempre stati utilizzati anche nella Pianura Padana contro le truppe dei comuni e della Chiesa; pertanto l'imperatore fu propenso a garantire quanto di fatto essi avevano già ottenuto nel corso del sec. XII. Lo Statutum in favorem principum, promulgato su pressione dei grandi vassalli tedeschi nel maggio 1231 a Worms da re Enrico (VII), figlio di Federico II, e da quest'ultimo ratificato nel 1232, costituisce il documento fondamentale per comprendere la politica dello Svevo nei confronti dei feudi tedeschi. Esso riprendeva le disposizioni della Confoederatio cum principibus ecclesiasticis, una costituzione concessa dal sovrano nel 1220 ai vescovi del Regno di Germania, con cui si attribuivano agli ecclesiastici, come benefici, ampi poteri di governo sui territori appartenenti alle loro Chiese diocesane, un tempo di proprietà del Regno, ma in quel momento di pieno possesso dei presuli. Nel documento era previsto che il re non potesse imporre nuove tasse sui beni ecclesiastici, non potesse costruire fortezze sulle proprietà vescovili e non intervenisse in materia di successione di beni feudali. Prima dell'incoronazione imperiale Federico era quindi costretto a rafforzare in Germania una pluralità di principati territoriali ecclesiastici, ampiamente autonomi, governati da presuli legati al re solo da vincoli di fedeltà e dalla necessità di dare nel momento dell'elezione episcopale una giustificazione, o meglio una legittimazione giuridica, al loro potere giurisdizionale.
Nello Statutum del 1231 i diritti attribuiti dieci anni prima ai vescovi furono estesi ai principi laici, a cui furono sottomesse le città della Germania, nelle quali era in corso un ampio movimento di acquisizioni di libertates e di autonomie, richieste e sostenute da societates di artigiani e di mercanti. Questa decisione ritardò lo sviluppo delle autonomie comunali nei territori tedeschi, ove nei feudi concessi ai principi erano compresi, oltre all'amministrazione della giustizia, anche i privilegi di battere moneta e di edificare città e castelli, nonché di istituire mercati. Tuttavia, se il Regno perdeva importanti diritti di sovranità e consistenti proventi economici, l'imperatore si assicurava l'aiuto militare, oppure la benevola neutralità dei principi tedeschi, due elementi importanti per la realizzazione della sua politica in Italia. Con questo non si vuole affermare che Federico II non comprese l'importanza politica ed economica delle città tedesche; infatti, anche se odiava il loro desiderio di libertà, egli auspicava che i centri urbani facessero parte dei territori germanici appartenenti alla Corona e alla casa di Svevia, per consolidare la forza della monarchia contro il grande potere dei principi. Per questa ragione egli incoraggiò, come d'altronde aveva fatto suo nonno, la creazione e lo sviluppo in Germania di molti centri urbani, che con la sua protezione e con l'assicurazione giurata di mantenere una perpetua fedeltà ottennero privilegi commerciali, diritti di costruire le mura e libertà di traffico sui fiumi e sulle strade tedesche, favoriti anche dagli ufficiali del Regno. La tendenza si invertì attorno agli anni Trenta del Duecento, quando le societates cittadine, potenziate dall'appoggio del giovane re Enrico (VII), figlio primogenito di Federico, furono in grado di creare difficoltà ai principi, che erano stati assenti dalla Germania in quanto impegnati nella crociata. Nello scontro Federico si schierò per ragioni di opportunità politica dalla parte della grande feudalità tedesca, contro suo figlio, e lo Statutum sancì tale scelta, ritardando lo sviluppo politico e amministrativo delle città, ma consolidando nel contempo la presenza di una molteplicità di territori autonomi, affidati in feudo ai principi, primo passo verso l'affermazione di un potere federale. Infatti i medesimi principi si sforzarono di coordinare in modo gerarchico i poteri subordinati delle giurisdizioni signorili inferiori, organizzando a loro volta delle istituzioni di tipo 'statuale' di natura e di orientamento feudale. Questa tendenza fu a stento imbrigliata nel 1235, quando Federico II a Magonza promulgò la Constitutio pacis: in essa si proibiva la vendetta privata, le guerre tra signorie confinanti e si vietava l'alienazione ai principi dei rimanenti diritti regi sull'amministrazione della giustizia, sulle scorte militari e sui dazi. Ma la nuova legge non arrestò il pieno e libero sviluppo dei principati, che ormai consideravano l'Impero, come ha scritto Tabacco, "poco più di una formula feudale" (1983, p. 101).
Diversi dunque furono gli esiti della politica basata sulle concessioni di feudi da parte di Federico II: in Germania l'imperatore ne incrementò la diffusione e il potenziamento, ottenendo come risultato il trionfo dei principi e delle autonomie dei principati territoriali, tenuti dai grandi vassalli per mezzo di concessioni beneficiarie e di leggi che li favorivano. Inoltre il Regno non fu in alcun modo capace di coordinare le grandi signorie territoriali in quanto, già con gli Svevi, era divenuto sempre più debole. Lo strapotere dei principi finì per rallentare lo sviluppo delle città e dei gruppi dirigenti urbani, legati al commercio e all'attività bancaria, anche se la politica del sovrano era diretta a creare dei mercati e dei centri finanziari in Germania per ragioni di natura economica.
Anche in Italia settentrionale l'imperatore perseguì la finalità di potenziare le famiglie marchionali e comitali e quelle dei domini che tenevano iure feudi delle signorie rurali, ma l'esito fu molto diverso. I grandi vassalli del Regno avevano possessi e castelli sui confini territoriali di più città e da tempo erano divenuti cittadini di comuni a volte tra loro rivali; in questo modo miravano, sfruttando i contrasti tra i gruppi politici, a mantenere il loro potere sul contado, in cui vivevano numerose clientele militari a loro legate da vincoli vassallatici. Essi erano resi forti da questi milites, che costituivano il nerbo degli eserciti del Duecento, e alla loro testa essi potevano essere ingaggiati come capi mercenari di eserciti cittadini in guerra contro altri comuni rivali o contro altri nobili. Oppure potevano essere scelti per esercitare la carica politica di podestà in città amiche o alleate. In questo modo i guadagni della grande feudalità padana erano molto consistenti e potevano permettere ai domini di realizzare una politica di vasto respiro territoriale. L'intervento a loro favorevole di Federico II fu valutato in senso positivo da entrambe le parti: al sovrano erano utili le loro esperienze militari, il loro prestigio politico entro il mondo comunale, le loro numerose clientele vassallatiche e le loro possibilità economiche. Al contrario i grandi signori lombardi trovavano vantaggioso raccordarsi con l'istituzione imperiale al fine di creare delle signorie feudali territoriali su città, castelli e villaggi della campagna. Tali signorie si fondavano su poteri di comando che l'Impero poteva giustificare, legittimare e garantire, oppure solo delineare in vista di futuri sviluppi politico-amministrativi. Insomma la sottomissione della feudalità alla monarchia determinava in alcuni casi la temporanea fortuna di progetti signorili.
Diverso ancora fu l'esito della politica feudale di Federico II per il Regno di Sicilia, ove esisteva una robusta tradizione ideologica e politica del potere della monarchia, fondato sia su una gerarchia funzionariale dipendente dal re, sia su un ceto di vassalli, i baroni, tenuti al servizio armato nell'esercito. Tuttavia le città e i loro gruppi dirigenti, pur attivi, possedevano una minore capacità economica, politica e militare rispetto a quelle della Pianura Padana. Federico II, dopo i primi anni di politica repressiva antibaronale e dopo la costituzione de resignandis privilegiis, mise in atto una decisa politica di integrazione tra le forze più disponibili della piccola e media nobiltà e quelle delle grandi famiglie comitali e baronali, in modo da realizzare un perfetto equilibrio tra la monarchia e i feudatari in funzione antiurbana e antimercantile. A tutti i nobili il sovrano riconfermava, qualora avessero riconosciuto il suo pieno potere, i tradizionali privilegi e i feudi aviti, ma anche ampi spazi di azione entro l'organizzazione burocratica e amministrativa del Regno, possibilità di fortune militari nella Pianura Padana, nonché diritti signorili sui territori rurali, sui castelli e sui relativi rustici. Eppure molti di questi possessori di feudi meridionali, collaboratori e funzionari della monarchia, che Federico aveva gratificato ponendoli a capo di città e di territori della Lombardia o della Toscana, tradirono la causa dell'Impero, furono scoperti, giustiziati e i loro beni feudali e allodiali devoluti al patrimonio della monarchia. Pertanto alla lunga essi non furono uno strumento di governo del Regno, come non lo furono i vassalli della Corona di Lombardia e di Germania. La politica feudale di Federico non servì al suo Impero, come egli aveva pensato; tuttavia con i suoi interventi in campo beneficiario egli contribuì al definitivo successo del feudo entro il diritto pubblico dell'Impero, ambito in cui i feudi poterono vivere e prosperare sino al tardo sec. XVIII e alla rivoluzione francese.
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