FIAMMA (dal lat. flamma; fr. flamme; sp. flama; ted. Flamme; ingl. flame)
Quando un combustibile (v.), viene portato alla temperatura di accensione, le velocità delle reazioni di combustione (v.) assumono valori molto elevati e il calore svolto innalza rapidamente la temperatura dei prodotti gassosi della combustione i quali diventano luminosi: si ha cioè formazione di fiamma. La luminosità d'una fiamma è molto spesso dovuta o accentuata da particelle esilissime di carbonio solido portate all'incandescenza. Una fiamma d'idrogeno purissimo, in aria perfettamente esente da pulviscolo atmosferico, non appare luminosa ai nostri sensi, perché le radiazioni da essa emesse stanno esclusivamente nel campo dell'ultravioletto dello spettro. Tipico è l'esempio della fiamma d'una candela stearica (fig. 1). Il combustibile solido (miscela di paraffina e stearina), gradualmente liquefatto dal calore prodotto dalla fiamma, sale per capillarità lungo lo stoppino e si riscalda fino a raggiungere la temperatura di accensione, alla quale, già parzialmente evaporato, esso comincia a bruciare. Nell'interno della fiamma si può distinguere: una zona interna (a), non luminosa, costituita da vapori di stearina e paraffina; essa è circondata da una seconda zona più ampia (b) nella quale si svolgono le reazioni chimiche della combustione. Queste si completano in un esile mantello esterno di luce azzurra, che costituisce la zona (c) a più alta temperatura. La luminosità della zona intermedia è dovuta a particelle di carbonio incandescente che bruciano poi ad anidride carbonica nella zona esterna non luminosa. Facendo lambire la fiamma da una superficie fredda, su questa si posa subito una macchia di fuliggine dovuta alle particelle di carbonio istantaneamente raffreddate. Lo spettro continuo, che si ha osservando con lo spettroscopio la fiamma d'una candela, prova che la luminosità è impartita dai costituenti solidi o liquidi, o da vapori altamente condensati forse allo stato colloidale.
Anche nella combustione del gas illuminante che brucia all'uscita d'un semplice foro, si ha una fiamma analoga a quella d'una candela. Lo stesso si dica per una fiamma di acetilene e di altri gas combustibili. Osservando una fiamma a ventaglio di gas illuminante che brucia uscendo da una stretta fessura (fig. 2) si ha l'impressione di vedere una lamina continua di carbonio incandescente; si potrebbe perciò pensare che, in un istante dato, fosse rilevante la quantità di carbonio in sospensione nella fiamma. In realtà le particelle di carbonio sono talmente disseminate nella lama di gas in combustione che, se esse non fossero incandescenti, riuscirebbero appena percettibili. Fotografando una fiamma di gas illuminante contro il cielo si ha un'immagine appena visibile. La fiamma del petrolio risulta più opaca, e più ancora quella dell'acetilene perché, a parità di volume, esse contengono più carbonio in sospensione. Se si dispongono più fiamme una dietro l'altra, l'effetto luminoso totale è, per la loro trasparenza, di poco inferiore alla somma dell'effetto luminoso di ciascuna fiamma. La quantità di luce fornita da una fiamma a ventaglio, nella direzione ortogonale al piano della lamina luminosa, è solo del 10% circa maggiore di quella fornita nella direzione ortogonale alla sezione: se la quantità di carbonio fosse tale da rendere opaca la fiamma, il rapporto fra i poteri illuminanti nelle due direzioni indicate dovrebbe essere uguale al rapporto fra le due superficie e la differenza dovrebbe essere grandissima.
Il potere illuminante per le fiamme di questo tipo, riferito a volumi eguali di gas o di vapori, varia entro limiti molto estesi con le condizioni nelle quali si effettua la combustione. Una grande influenza è esercitata dalla velocità di efflusso del gas. Con fori di 0,1 mm. e con pressioni sufficienti per assicurare la costanza della fiamma questa risulta incolora: gl'idrocarburi contenuti nel gas illuminante si mescolano con l'aria necessaria alla combustione in un tempo così breve che risulta insufficiente il periodo di preventivo riscaldamento durante il quale si effettua la messa in libertà di carbonio dalla decomposizione degl'idrocarburi.
Queste decomposizioni nell'interno delle fiamme sono molto complesse. L'ipotesi che la luminosità della fiamma dell'etilene fosse semplicemente dovuta alla reazione C2H4 = C + CH4 non è più sostenibile. Secondo Bone e Coward l'etano e l'etilene sotto l'azione del calore darebbero luogo a una decomposizione primaria con messa in libertà d'idrogeno e formazione di residui (radicali liberi) =CH2, ⊄CH, con immediata formazione di H2C=CH2 e HC⊄CH, oppure con scissione diretta in carbonio e idrogeno o infine, in presenza d'idrogeno, con idrogenazione a metano, secondo gli schemi seguenti:
per l'etano C2H6:
Per l'etilene C2H4:
L'ossigeno poi si fissa sugl'idrocarburi dando prodotti intermedî (aldeidi, alcoli) che si decompongono nei prodotti finali dell'ossidazione. Ad esempio, per l'etano:
I varî idrocarburi che possono essere presenti nel gas illuminante esercitano potere diverso sulla luminosità della fiamma. I due terzi del potere illuminante d'una fiamma a gas sono dovuti al benzolo (1% in vol.), un terzo agl'idrocarburi etilenici. Il metano, composto esotermico molto stabile fino a 1000°, dà fiamma pochissimo luminosa. L'aggiunta di 1% in vol. di vapori di naftalina è sufficiente a triplicare la luminosità di una fiamma a gas. L'acetilene, composto endotermico, dà pure fiamma luminosissima, sia per la temperatura molto bassa alla quale s'inizia la decomposizione, sia per il calore svolto nella decomposizione stessa che rende più calda la fiamma. Per queste ragioni l'acetilene deve essere fatto bruciare con beccucci speciali, a fori molto sottili e in generale a getti incrociati (fig. 3), in modo da aumentare la superficie della fiamma e facilitare la rapida miscela con l'aria, in caso diverso la fiamma risulta fuligginosa e fila.
Le condizioni della combstione risultano radicalmente modificate, se il gas viene mescolato con l'aria prima di essere acceso, come avviene nel bruciatore tipo Bunsen (fig. 4). Con una sufficiente quantità d'aria la fiamma perde la sua luminosità e risulta allora costituita essenzialmente da due parti: un cono interno, formato dalla miscela gassosa incombusta e fredda, e un mantello esterno nel quale hanno luogo le reazioni della combustione, senza che si metta in libertà carbonio. Aumentando la quantità d'aria mescolata al gas, il cono interno appare sempre più visibile per la luce verdastra emessa dalla superficie di separazione con il mantello esterno, poi esso si restringe sempre più fino a che, tendendo ad annullarsi, la fiamma si propaga lungo il tubo del bruciatore e il gas si accende direttamente al foro interno di efflusso. Ciò avviene tanto più facilmente quanto maggiore è il diametro del tubo del bruciatore e quanto minore è la pressione del gas; il fenomeno dipende cioè dalle condizioni di propagazione della fiamma nella miscela gassosa combustibile (v. più oltre).
Analizzando i gas che costituiscono il mantello esterno al cono verdastro, lungo la superficie del quale s'inizia la combustione, si è trovato che i gas sono: idrogeno, ossido di carbonio, anidride carbonica e vapor d'acqua, per lo stabilirsi dell'equilibrio del gas d'acqua:
Soltanto lungo la superficie esterna della fiamma, in presenza dell'eccesso d'aria ambiente, si ha la combustione completa dell'idrogeno a vapor d'acqua e dell'ossido di carbonio ad anidride carbonica.
Temperatura delle fiamme. - La misura diretta della temperatura di una fiamma per mezzo di termocoppie e con pirometri ottici offre notevoli difficoltà: con tali sistemi la temperatura di una fiamma Bunsen è di circa 1500°. F. Haber e F. Richardt hanno cercato di ricavare questa temperatura calcolandola dal valore della costante dell'equilibrio del gas d'acqua che si stabilisce nell'interno della fiamma. La temperatura teorica di una fiamma, cioè quella cui verrebbero portati i gas della combustione se tutto il calore svolto fosse destinato soltanto a innalzarne la temperatura, può essere calcolata partendo dal valore termico delle reazioni di combustione, dalla massa e dal calore specifico dei prodotti della combustione (v. combustione, X, p. 922 seg.). Per tale calcolo si trascura quella parte di energia chimica che non si sviluppa come calore, ma viene trasformata in energia raggiante.
Nel caso di una fiamma Bunsen si ritiene che secondo il grado di aerazione, venga irradiato dall'8 al 12% dell'energia totale messa in libertà dalla combustione. Nel caso di piccole fiamme di gas illuminante accese direttamente, senza preventiva immissione d'aria, la quantità di energia irradiata è solo del 2-3%. Robert e Helmholtz hanno confrontate fiamme della stessa forma e dimensioni di gas combustibili diversi e hanno trovato che l'energia irradiata dalla fiamma dell'idrogeno era 3%, quella dell'ossido di carbonio 8%, del gas illuminante circa 5% dell'energia totale. La fiamma dell'ossido di carbonio avrebbe quindi a parità di condizioni un potere irradiante 2,4 volte maggiore di quella dell'idrogeno. Per le fiamme di metano, di etilene, ecc. il potere irradiante risulterebbe dalla somma del potere irradiante apportato dalla combustione dell'ossido di carbonio e dell'idrogeno che bruciano rispettivamente ad anidride carbonica e a vapor d'acqua. Ammettendo che la radiazione venga prodotta dalle vibrazioni delle molecole di anidride carbonica e vapor d'acqua, e che la vita di ciascuna delle molecole di anidride carbonica e vapor d'acqua, come corpi radianti, si estenda dal momento della formazione a quello in cui si annulla l'energia vibrazionale per irraggiamento e per collisione con altre molecole più fredde come quelle dell'aria esterna circostante alla fiamma, risulta che la frazione di energia irradiata sarà tanto più piccola, per unità di superficie della fiamma, quanto più piccola sarà la fiamma stessa. Questi fatti, controllati dall'esperienza, presentano particolare importanza nella costruzione ed esercizio dei forni a riverbero.
Nel calcolo della temperatura teorica di una fiamma occorre anche tener conto della dissociazione dell'anidride carbonica e del vapor d'acqua: 2CO2 ⇄ 2CO + O2; 2H2O ⇄ 2H2 + O2, che sono tanto più dissociati quanto più elevata è la temperatura e più bassa la pressione. L'influenza della dissociazione è particolarmente senbile nel caso di fiamme a temperature elevatissime come la fiamma ossidrica e quella ossi-acetilenica.
L'acetilene può bruciare secondo le due equazioni:
Nel primo caso: per un volume di acetilene sono necessarî 2,5 volumi di ossigeno, nel secondo caso la combustione si effettua a volumi uguali di gas. Bruciando un mc. di acetilene secondo la (1) si mettono in libertà 13.500 Cal., secondo la (2) sole 4760 Cal., ciò nonostante la temperatura teorica della fiamma, secondo la reazione (1), è di circa 3100°, mentre supera i 4000° se la combustione avviene secondo la reazione (2). Ciò dipende dal più elevato calore specifico dell'anidride carbonica e del vapor d'acqua in confronto dell'ossido di carbonio e dell'idrogeno e dal fatto che a 3000° il grado di dissociazione dell'anidride carbonica, a una pressione parziale di o,66 Atm., raggiunge l'80% e quello del vapor d'acqua, a 0,33 Atm., il 20%. Inoltre una fiamma ossiacetilenica, alimentata da una miscela gassosa a volumi eguali, irradia molto meno energia per il suo minor volume. Nel cannello ossiacetilenico si ha infatti un piccolissimo dardo a temperatura elevatissima, ove la fiamma si svolge secondo la reazione (2), dardo che viene utilizzato per il taglio o la saldatura dei metalli e che è contornato da una fiamma voluminosa e poco appariscente ove avviene la combustione finale dell'ossido di carbonio e dell'idrogeno con l'aria atmosferica circostante.
Propagazione delle fiamme. - La velocità con la quale si propaga la fiamma in una miscela costituita da un gas combustibile con aria od ossigeno, varia molto con la natura dei gas, col rapporto fra combustibile e comburente, con le dimensioni dello spazio nel quale si trova la miscela gassosa. Anzitutto, perché si abbia propagazione di fiamme è necessario che la miscela gassosa sia portata almeno in un punto alla temperatura d'infiammazione; inoltre è necessario che il gas combustibile sia contenuto fra i limiti superiore e inferiore di infiammabilità, entro i quali soltanto la temperatura raggiunta con l'accensione di un primo strato di miscela è superiore alla temperatura di accensione della miscela stessa. Facendo avvenire l'accensione di una miscela gassosa esplosiva all'estremità aperta di un cilindro orizzontale si osserva (esperienze di Le Chatelier e Mallard, 1880) che la fiamma si propaga dapprima lentamente lungo il tubo, con velocità costante (figg. 5 e 6); a questo primo periodo d'infiammazione (cui si dà il nome di propagazione per conduzione) succedono oscillazioni regolari e di sempre maggiore ampiezza della fiamma, infine la propagazione della fiamma assume valori elevatissimi con tutti i caratteri dell'esplosione (v.). Se l'accensione della miscela avviene fin dall'inizio con moto accelerato e sotto l'influenza delle onde compresse respinte dall'estremità chiusa del tubo si passa subito al regime dell'esplosione violenta.
Presentano speciale interesse pratico le esperienze che sono state fatte fra l'altro con miscele di metano e aria, per le esplosioni di grisou in miniere di carbon fossile. La velocità massima di propagazione della fiamma si ha con miscele contenenti 9,5-10% di metano.
A parità di condizioni la velocità di propagazione lungo condotte diminuisce col diminuire della sezione e su questo fatto si fonda l'uso di reti metalliche a maglie sottili comunemente adoperate per le lampade di sicurezza tipo Davy La trasmissione della fiamma è ostacolata dallo stato di movimento in cui si trova la miscela gassosa. Lo scambio di calore fra lo strato caldo acceso e quello immediatamente vicino non si compie più esclusivamente per conduzione e irradiamento, l'agitazione della miscela accelera questi scambî di calore e i limiti d'infiammabilità risultano ampliati. Se poi l'agitazione è tale da provocare bruscamente il miscuglio dei gas caldi con una troppo grande massa di gas freddi si ha l'estinzione della fiamma.
Bibl.: J. Newton Friend, The chemistry of combustion, Londra 1922; W. A. Bone, Coal and its scientifics uses, Londra 1918; H. Le Chatelier, Le chauffage industriel, Parigi 1922; D. Meneghini, Chimica applicata ai combustibili industriali, Padova 1926; H. Menzel, Die Theorie der Verbrennung, Berlino 1924; F. Haber e F. Richardt, Uber Wassergasgleichgewicht in der Bunsenflamme und die chemische Bestimmung von Flammentemperaturen, in Zeitschrift für anorganische Chemie, XXVIII (1904) p. 5 (v. anche combustione).