fictio
Parola adoperata una sola volta da D., in un passo famoso del De vulg. Eloq. (II IV 2 fictio rhetorica musicaque poita), dove costituisce il termine essenziale, la parola base della definizione dantesca della poesia.
Secondo il Marigo " fictio e fingere in Dante hanno solo il significato di immaginare ", epperò il termine indicherebbe " opera d'immaginazione " (p. 186 n.), " creazione fantastica " (p. 188 n.). In tal modo si sacrifica il valore semantico di fictio nel testo dantesco a un'accezione estetica estranea alla cultura medievale. Questa interpretazione è sostanzialmente accettata dal Di Capua, che ne accentua la tendenza modernizzante con una soluzione (" un'invenzione della fantasia espressa in versi ") risultante da una sorta di contaminazione fra la traduzione (" invenzione ") e il commento (" creazione fantastica ") del Marigo. Viceversa lo Schiaffini ha proposto una nuova interpretazione: " La poesia è finzione (allegorica), ossia fictio, elaborata in versi, ossia poita, secondo l'arte retorica e musicale ". Tale interpretazione, pur superando positivamente l'astrattezza e l'anacronismo proprio della posizione del Marigo e del Di Capua, ha però il torto di considerare f. come parola strettamente ed esclusivamente legata alle formulazioni di una poetica allegorica e di dare a quest'ultima, per il Medioevo in genere e per D. in particolare, un valore assoluto, con esclusione di ogni altra possibile formulazione. Il che non è esatto - come osservava anche il Barbi: " Non dappertutto si devono vedere altri sensi oltre il letterale " - e viene comunque esplicitamente contraddetto da D. stesso in Mn III IV 6 sulla scorta di s. Agostino (CIV. XVI 2): non omnia quae gesta narrantur etiam significare aliquid putanda sunt. Certo, f. è parola quanto mai elastica, che può avere anche il valore di " finzione allegorica ", ma ad essa possono di volta in volta - con non minore legittimità e frequenza - corrispondere non solo i vari significati che lo stesso Schiaffini elenca (formazione, creazione, invenzione, argomento, ipotesi), ma molti altri ancora corrispondenti al francese ficción, allo spagnolo ficcidn, all'inglese fiction, al tedesco Fiktion.
In realtà f. è parola tecnica, di ordine essenzialmente retorico, tendente a definire il processo creativo della poesia in genere - di là da ogni possibile indicazione di contenuti, di atteggiamenti, di tendenze - anzi a risolversi semanticamente in termini di coincidenza con la pura e semplice denominazione di essa.
Ai fini di una non astratta determinazione semantica di f. non resta che il diretto richiamo della parola a quella linea fingere - facere - ποιει̃ν, chiaramente asserita da autori antichi e medievali certamente noti a D. - quali Cicerone, Orazio, Quintiliano, Boezio, s. Tommaso e altri - e addirittura cristallizzata dalla tradizione delle arti grammaticali (specialmente per la latinizzazione di termini come onomatopeia, " fictio nominis "; prosopopeia, " fictio personarum "; e simili) e poetiche (per frasi come facere versus, fingere carmina, e simili). Del concreto uso di f. (o figmentum) come sinonimo di poesis (o poema) da parte di scrittori medievali di varia e persino opposta tendenza è possibile indicare numerosi esempi. Basterebbe pensare a Uguccione: il quale, se per fingo indica in primo luogo proprio quei valori che ne determinano la corrispondenza a poio (" ornare, componere, facere, formare, plasmare, excogitare et componere quod verum non est, id est simulare. Unde hic fictor-is qui componit et ornat ", ecc.), per poio non solo indica fingo come sinonimo (" Poio, pois, poivi, poitum, id est fingo is, fingere "), ma richiama direttamente l'equivalenza fra poeta e fictor (" Unde hic poeta - tae, id est, fictor, et proprie carminis, alta verba loquens "), spiegando poetor - aris con " carmina et poemata facere vel componere " e così giungendo all'equazione poesis - figmentum nel duplice senso di arte poetica e di poema (" Item a poio hic poetes - tis, quaedam forma vel figura: et haec poesis ipsa ars poetandi vel figmentum ").
La piena equivalenza tra f. e poesis è affermata da Eberardo di Béthune nel Grecisme: " Carmina qui fingit aut metra poeta vocatur " (IX 316) e anche più direttamente: " Arte poetica fungor dum fingo poema / ipse poeta vocor, mea fictio dicta poesis " (XII 98 ss.).
Accertato così il valore di f. come puro e semplice equivalente semantico di poesis (e versificatio), rimane pur sempre da esprimere il concetto con una corrispondente parola italiana. In questo caso, anche più del solito, interpretazione e traduzione s'integrano e si delimitano a vicenda.
Noi non abbiamo un verbo come fingere capace di tradurre con soddisfacente approssimazione il greco ποιει̃ν: di corrispondere tanto al generico facere, quanto a quel particolare ‛ fare ' che è proprio della poesia e per il quale D. adopera poire; di adeguare insieme l'idea di cosa astratta, immaginaria, ficta, non vera, e di cosa concreta, realizzata, ‛ fatta ', ficta, poita in una certa forma; di riassumere il dato fantastico e il dato retorico, condensando il rapporto tra inventio ed elocutio per più o meno espliciti richiami di mimesi, di plasticità, di elaborazione formale, di ornatus verborum, e così appunto identificando l 'idea pura e semplice di ' creazione ' - del dar vita a qualcosa di inesistente - in quella specifica di ' creazione poetica '.
‛ Creazione ' è forse la parola nostra che più direttamente corrisponderebbe a questa complessità di valori, alle ragioni e ai modi del loro coesistere. Se non che quando noi, parlando di arte, diciamo ' creare ', siamo invariabilmente portati ad attribuire alla parola il valore di ciò che noi stessi intendiamo per arte: a sottolineare il momento intuitivo, fantastico, soggettivo, a danno di quello pratico, tecnico, normativo; a riferirci piuttosto all'idea pura e semplice di concepimento, generazione, produzione, che a quella di esecuzione, di lavoro concreto e insomma di elaborazione e costruzione testuale; a riflettere più sull'essenza dell'opus, della cosa realizzata, che sulle fasi e sulle condizioni dell'opera, sui mezzi e sugli oggetti della realizzazione. C'è sempre il pericolo che la parola - per dichiarare la propria accezione artistica - inclini a definirsi piuttosto da determinate facoltà e disposizioni proprie dell'artifex (fantasia, immaginazione) che non dai dati concreti, dagli elementi costitutivi e dal loro mondo di comporsi e risolversi nell'artificiatum. Infine, ‛ creazione ' è parola certo specifica delle arti, ma non propriamente della poesia.
‛ Invenzione ' (che è forse il termine più spontaneo) potrebbe essere accettabile, a patto di sottolineare piuttosto la coincidenza con il provenzale trobar in modo da eliminare ogni possibile equivoco di rapporti tra inventio ed elocutio. Il che, in sede di traduzione, riesce ovviamente problematico. Nel suo significato moderno ‛ invenzione ' è termine anche più astratto e unilaterale e meno specifico - rispetto alle arti e alla poesia - di ‛ creazione '.
Lo stesso dicasi per ‛ immaginazione ' nel suo complesso di valori astratti (come vis imaginandi, fabulositas) e concreti (di ‛ racconto immaginario ', ‛ fabula '). Riportata a un valore strettamente etimologico, la parola tende piuttosto ad accentuare che a superare il contrasto fra il concreto e l'astratto, fra la res e la sua imago. Si otterrebbe l'effetto di sottolineare il lato plastico, figurativo, ma a scapito di quello più strettamente elocutivo e retorico. Rilievo, quest'ultimo, che vale anche - su un piano di maggiore concretezza per ‛ rappresentazione ', ‛ raffigurazione ' e simili: termini che meglio corrisponderebbero a effictio e si addicono solo a talune ben determinate, particolari e sporadiche accezioni di fictio.
Per adeguare quel complesso di valori che il sostantivo riflette da fingere, e chiarirne in pari tempo il rapporto di equivalenza a poesis, ci vuole un termine che, pur essendo specifico delle arti e più particolarmente della poesia, resti d'altra parte fedele all'idea di poesia in genere senza scendere a distinzioni e caratterizzazioni particolari - di contenuto e di forma - e senza insistere su singoli aspetti e momenti propri del comporre poetico.
‛ Comporre ' - appunto - pare sia il verbo più adatto a conciliare in sé questa duplice esigenza di specificità e generalità di riferimenti; a riprendere l'idea indeterminata di facere, " creare cosa che non è ", nell'accezione propria di poire; a condensare in sé i due distinti eppur complementari momenti di inventio ed elocutio, e insomma a tradurre - con soddisfacente approssimazione di sensi e di richiami - quell'idea di fingere (o facere) versus che D. ha condensato in fictio.
Come pura e semplice traduzione di fingere nel senso equivalente appunto a poire, il nostro " comporre " trova già una diretta conferma nel latino componere registrato da Uguccione - sia sotto fingo, sia sotto poio - come equivalente di poetari (" item a poeta , poetor-aris, carmina et poemata facere vel componere ") e puntualmente riecheggiato non solo da Giovanni da Genova, ma anche da Petrarca (Seniles XII 2 " fingere, id est, componere atque ornare ") e Coluccio Salutati (De Laboribus Herculis): " totum opus ad unam rem compositum poema ".
La validità del termine volgare è attestata da Boccaccio, non solo dal punto di vista strettamente etimologico per l'asserito rapporto fingere poire (" il qual fingo ha più significazioni, per ciò che egli sta per " comporre ", per " ornare ", per " mentire " e per altri significati ", Esposizioni, ediz. Padoan I 70); ma anche per il modo con cui egli concretamente l'impiega. Passando dal latino del De Genealogia al volgare del Trattatello e delle Esposizioni e viceversa (prescindiamo dal rapporto cronologico tra opere e singole parti di esse), egli tende generalmente a rendere fingere latino con " fingere " volgare e f. quasi sempre con " fizione " (anche più indicativo di " finzione "). Ed è pur vero che i due termini corrispondono spesso all'idea di ' opera ' a doppio senso, cumulando così i diversi significati di poire, simulare, mentiri. Ma quale sia il loro valore esatto risulta dal modo con cui la formula " fingere carmina " viene resa in volgare, appunto con il verbo " comporre ". Infine, " componere " è il primo significato che Papias registra per fingere; e " compositio " per fictio.
Considerando dunque che nel passo in questione del De vulg. Eloq. D. parla di poesia in generale e non del particolare rapporto tra poesia e allegoria, tenendo conto dell'intraducibilità del rapporto fonico poesis - poita, si può senz'altro tradurre: " poeti essi [qui vulgariter versificantur] sono senz'altro, se ben si considera che cosa significhi poesia: che non vuol dire altro se non ‛ composizione ' poita (cioè appunto " composta ") mediante retorica e musica ".
Bibl. - F. Di Capua, Insegnamenti retorici medievali e dottrine estetiche moderne nel De vulg Eloq. di D., Napoli 1945, 131 ss. (rist. in Scritti minori, Roma 1959, II 252-355); M. Barbi, Problemi fondamentali per un nuovo commento della D.C., Firenze 1956, 188; A. Schiaffini, " Poesis " e " poeta " in D., in Studia philologica et litteraria in honorem L. Spitzer, Berna 1958; G. Paparelli, Fictio. La definizione dantesca della poesia, in " Filologia romanza " VII (1960) 1-83.