fiera (Fera)
Significa " animale " in genere, in If IX 72 fa fuggir le fiere e li pastori; Pg VI 94 guarda come esta fiera [l'Italia] è fatta fella, dove è parte della metafora del cavalcare (il Pagliaro [Ulisse 742] ricorda l'esperienza di equitazione di D. " feditore "); Rime CII 8 di qual fiera l'ha [il cuore] d'amor più freddo (" Fera non è sì strana, / che non fosse venuta pietosa ", Guittone Ahi, Deo 59), e CVI 143 chiamando amore appetito di fera.
In Pd IV 127 Posasi... come fera in lustra, vale invece " animale selvatico " (" sicut enim fera diu vagatur et venatur per sylvam, et post omnes labores requiescit in antro ", Benvenuto); così in If XIII 8.
Significa ogni animale feroce e pertanto pericoloso, in If I 42 quella fiera a la gaetta pelle, che è la lince dalla pelliccia macchiettata; II 119 d'inanzi a quella fiera ti levai, dove si riferisce in particolare alla lupa, la cui minaccia è stata determinante nel distogliere D. dall'ascesa del colle; Pg XXVII 84, Cv II I 3 Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere.
Nel significare i mostri infernali, il valore di questa accezione quasi sempre si accentua con il concorso di aggettivi quali ‛ crudele ', ‛ pessima ', ‛ orribile ': così per Cerbero, fiera crudele e diversa (If VI 13), per Pluto, fiera crudele (VII 15), per Gerione, che è la fiera con la coda aguzza, la fiera pessima (XVII 1 e 23; cfr. anche il v. 114); l'orribil fiera è uno dei serpenti della settima bolgia (XXV 59; cfr. anche il v. 113 e il v. 136, ove il vocabolo è usato come predicativo: L'anima... era fiera divenuta).
Si attenua, invece, nel significare l'eccezionalità delle figure mostruose, in If XII 76 Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle, i centauri, per i quali, oltre l'impegno demoniaco di guardiani, non ricorre, nell'episodio, alcuna indicazione di ferocia. Lo stesso valore di " figura mostruosa " in Pg XXXI 80 la fiera / ch'è sola una persona in due nature, 122 (la doppia fiera) e XXXII 96 (la biforme fera): si tratta del grifone (cfr. XXIX 108-114), in cui si fondono l'aquila e il leone (animal binato, XXXII 47: si noti l'insistenza sul concetto di duplicità), simbolo della persona di Cristo in cui si fondono la natura umana e la divina.
Le tre fiere. - Compaiono nella piaggia diserta, all'inizio dell'erta, impedendo a D. la desiderata ascesa del colle illuminato dai raggi del sole. La prima delle f. è una lonza, successivamente si muovono contro il poeta un leone e una lupa che lo respinge verso la selva (If I 31 ss., 45 ss., 49 ss.).
Ciascuna delle tre f. ha caratteri ben distinti: la mobilità, la screziata pelle danno un vivace, colorito risalto alla lonza; statuarietà e impeto confluiscono nell'immagine del leone e si trasmettono alla stessa atmosfera che parea... ne tremesse; il profilo più nervoso e più intimo è quello della lupa, fondato su un'allucinante magrezza che fa tutt'uno con la sua famelicità, con la sua irrequietezza (di tutte brame / sembiava carca ne la sua magrezza). E vi è una nitida successione di movimento dalla stessa mobilità della lonza che sta dinanzi al volto di D. come se fosse, è stato ben detto, sempre pronta al balzo, al muoversi rabbioso del leone, all'avanzare lento e implacabile della lupa, in una gradazione crescente, in un'intensità di paura che emana progressivamente dalle f., come dalla selva, in una specie di sogno, d'incubo. L'ora del tempo e la dolce stagione contraddistinguono l'apparizione della lonza, separandola quasi dall'apparizione pressoché simultanea del leone e della lupa.
Con la comparsa della lonza, si è mantenuta la continuità spaziale della prima scena del canto (al piè d'un colle... là dove terminava quella valle), e si costituisce parallelamente una dimensione temporale che, riprendendo la precisazione cronologica del primo verso, la determina maggiormente, approfondendola di ulteriori significati: il rinnovarsi del giorno, il coincidere dell'inizio primaverile con il ritorno dei giorni della creazione. L'ora del tempo è per così dire precisata e rischiarata dall'ora della dolce stagione che dà un senso incipiente di dolcezza, di speranza, ben diverso da quello di paura, di sgomento dato dalla selva, dall'incontro con le tre f., anzitutto la stessa lonza, e che è pure preannunciato dalla vista del colle (le spalle del colle vestite già de' raggi del pianeta... ). Si profila una contemplazione, la prima nel poema, del cielo, della divinità; alla contemplazione dell'amor divino si contrappone la vista della fiera a la gaetta pelle, ma i raggi del sole sembrano riflettersi su quella gaetta pelle ed esprimere quell'attesa di rinnovamento che si spegne con la luce stessa del sole ( 'l sol tace).
In una successione spaziale e temporale di luce e di tenebre, la luce del sole, il buio della selva, sono da raffigurarsi le tre f., oggettivazione, ci sembra, di una precisa esperienza individuale di D. uscito dalla selva e diretto inutilmente verso il colle: perdei la speranza de l'altezza (il concitato iterare del pronome personale di prima persona e dei verba videndi ne sono, come all'inizio del canto, la dimostrazione stilistica); e tutta questa parte del canto è ben delimitata fra le due similitudini del naufrago (uscito fuor del pelago a la riva) e dell'avaro ('n tutti suoi pensier piange e s'attrista). Il rovinare in basso ne segna la conclusione, e apre (Mentre ch'i' rovinava... ) la terza scena del canto, la comparsa cioè di Virgilio, con l'annuncio del veltro che farà morire la lupa con doglia e con l'invito al viaggio oltremondano. Figura, proiezione della selva, il luogo dove 'l sol tace (l'ultima grande immagine di questo drammatico preludio), sono evidentemente le tre f., tanto più se si riassumono e si concludono nell'ultima, che toglie a D. del bel monte il corto andare, la bestia d'esto loco selvaggio, la lupa (sanza pace), su cui si polarizza la paura di D., il motivo ricorrente in tutto il canto.
Paura che potremmo (con altri) dichiarare quasi esclusivamente fisiologica, istintiva, dal pien di sonno al mi fa tremar le vene e i polsi, ma che evidentemente ha una sua carica morale-religiosa, una sua risonanza spirituale, metafisica. A intenderla, a precisarla occorre unire il senso letterale a quello parabolico o se vogliamo metaforico, penetrare più intimamente nella lettera del testo che assorbe in sé il suo significato simbolico. L'interpretazione letterale delle tre f, a cui ci siamo finora sostanzialmente attenuti non può disgiungersi da quella che diciamo in senso lato allegorica o meglio figurale, risalendo in tal modo a quel clima di pensiero, a quell'orizzonte culturale entro cui si organizza, si determina la poesia di D., concreta come nessun'altra mai e tutta piena di valori spirituali e simbolici.
Qui, all'inizio del poema, " le cose allo stesso tempo sono e non sono ciò che sembrano ", osserva il Singleton, riprendendo, pur nel confutarlo, il noto giudizio del Croce (" una selva che non è selva... fiere che sono e non sono fiere "). Più di recente un altro illustre interprete della Commedia, il Battaglia, rileva che i termini di " cammino, selva, vita, sonno ", e aggiungiamo a chiarezza del nostro discorso, colle, f., Virgilio stesso, il veltro, " appartengono a una nomenclatura reale, mentre si assumono in senso figurato ". La verità del poema dantesco, pure intimamente articolata, è - si avverte oggi - polisensa. Lo dichiarava lo stesso poeta nell'epistola a Cangrande (se tutta autentica) e ribadiva il Boccaccio: " Per la qualcosa si può meritatamente dire questo libro essere poliseno, cioè di più sensi " (Esposizioni p. 57) I II 18. E nell'epistola su riferita D. dichiarava ancora: primus sensus est qui habetur per litteram, alius est qui habetur per significata per litteram. Et primus dicitur litteralis, secundus vero allegoricus sive moralis sive anagogicus (Ep XIII 7).
Nulla o quasi nulla di oscuro ha l'apparizione delle f. quanto al senso letterale; le più svariate ipotesi presenta questa apparizione riguardo all'invenzione e al significato allegorico, precisa il Casini. Gli antichi commentatori riconobbero in esse rispettivamente la lussuria, la superbia, l'avarizia. Riassume quasi il loro pensiero il Boccaccio: " Le quali, quantunque a molti e diversi vizi adattare si potessono, nondimeno qui, secondo la sentenzia di tutti, par che si debbano intendere per questi, cioè per la lonza il vizio della lussuria e per lo leone il vizio della superbia e per la lupa il vizio dell'avarizia " (Esposizioni p. 73). " Figura " cioè " di quelli tre vizii che comunemente più occupano l'umana generazione ", dichiara perspicuamente l'Ottimo la ragione di questa interpretazione. Unica forse eccezione fra gli antichi chiosatori, il Lana vede nella lonza " piuttosto o insieme la vanagloria "
Discordi sono invece i commentatori moderni. Accanto a molti che seguono l'interpretazione tradizionale (Casini, Torraca, G. Mazzoni, Porena, Sapegno, ecc.), vi sono quelli che identificano le f. con le tre faville ch'hanno i cuori accesi (If VI 75), " superbia, invidia e avarizia ". E si riferiscono alle parole di Brunetto Latini che taccia i Fiorentini di gente avara, invidiosa e superba (If XV 68). E lo stesso Ciacco aveva definito Firenze come città piena / d'invidia si che già trabocca il sacco (If VI 49-50). Tutti i tre peccati sarebbero, poi, le colpe più fatali all'umanità (l'invidia del serpente, la superbia di Adamo e l'ingordigia di Eva). Ma che D. pensasse soprattutto a Firenze è, secondo il Ferretti, suffragato dalla sua tesi che dichiara trovarsi il poeta ancora a Firenze, quando iniziava la Commedia: Firenze era ancora il suo mondo. L'accenno alla lonza e alla corda nel canto XVI dell'Inferno (vv. 106-108) sarebbe un altro argomento a sostegno di questa tesi: Io avea una corda intorno cinta, / e con essa pensai alcuna volta / prender la lonza a la pelle dipinta. Altri commentatori però pensano ben diversamente sul significato della corda, sì da trovarne una conferma alle loro ipotesi. Invero nessun rapporto preciso si può stabilire tra il prendere la lonza e il richiamo di Gerione (simboleggiante, sappiamo, la frode), sempre a opera della stessa corda. Molti dubbi e perplessità avèva avanzato sul significato della corda il D'Ovidio, che è il più autorevole rappresentante dell'interpretazione che vede allegoricamente nella lonza l'invidia. Il D'Ovidio segnala diversi studiosi che hanno surrogato alla lussuria l'invidia, e fra essi specialmente Francesco Cipolla che vi dedicò uno studio, uscito nel 1895, intorno a cui vi fu una vivace polemica.
Il D'Ovidio dichiarava di non sapere chi per primo avesse proposto la tesi da lui sostenuta. Già però il Castelvetro aveva riconosciuto nella lonza il significato dell'invidia, fondandolo su una concezione, diciamo, rinascimentale: " Nondimeno non gli dispiacque tanto la 'invidia... quanto la superbia e l'avarizia, per ciò che l'invidia ha coperta di bontà, avendo altri invidia spezialmente a color che sono eccellenti per virtù e per bontà... similmente la superbia non lo contrasta tanto quanto l'avarizia, parendogli che la superbia sia compagna della magnanimità ". E il Landino, che pur non disconosce nella Commedia i valori medievali spirituali, adduce umanisticamente Virgilio a sostegno della tesi tradizionale: " Vuol Virgilio per Enea dimostrar che l'uomo possa arrivare al sommo bene, e pone tre essere i principali incommodi i quali impediscono che non possiamo conseguire il nostro fine; dei quali il primo è la lussuria... il secondo è l'avarizia... il terzo è l'ambizione degl'onori. Questo medesimo adunque significa al presente Dante per tre fiere, leonza è il piacere, lupa è l'utile, leone è l'onore ".
L'indagine positivista del D'Ovidio sempre cauta e circospetta vuole, circa al leone e alla lupa, attenersi alla " bonaria percezione degli antichi " (" assicurata ", egli dice, " con ogni riflessione ragionevole "). Altri studiosi moderni si allontanano decisamente dagli " antichi " nelle loro dimostrazioni ingegnose e sottili ma non certo più persuasive, identificando la lonza, il leone e la lupa con le tre disposizion che 'l ciel non vole (If XI 81), con le tre categorie aristoteliche di peccato, la malizia, la matta bestialitate e l'incontinenza (oppure frode, violenza e incontinenza). È la tesi del Flamini (e somigliantemente di Giacinto Casella), seguita da non pochi altri. Altri ancora (e fra questi il Pascoli e il Pietrobono) hanno invertito le parti fra la lonza e la lupa, facendo corrispondere la prima all'incontinenza e la seconda alla frode, volendo così superare l'ostacolo che la peggiore delle f. rappresenterebbe la categoria di peccato meno grave. Il Del Lungo (ma già il Casella nel secondo volume delle sue Opere pubblicate nel 1884) invece trova nelle tre f., la lonza, il leone, la lupa, l'allegoria rispettivamente della frode, della violenza e dell'incontinenza, con ordine decrescente, egli dice, di gravità e crescente di pericolo (e più di recente il Grabher). Più sottile è l'interpretazione del Pietrobono, che si muove dall'allegorismo simbolico del Pascoli in modo però autonomo, fondato su una vasta conoscenza di tutta l'opera di Dante. Secondo il Pietrobono le f. sono " tutte e tre insieme la trina ispirazione del male che è uno, e rispondono nello stesso tempo sì alla triplice distinzione dell'Inferno della Incontinenza, della Violenza e della Frode e sì alle tre facce di Lucifero ". E l'allegoria si complica, se la lupa dev'essere di necessità simbolo di un male che ha prodotto i medesimi mali del peccato di Adamo e non può quindi non rappresentare una nuova colpa originale (e la selva è sempre nel giudizio del Pietrobono il peccato originale). Tutti questi interpreti vogliono accordare il canto proemiale con il canto XI dell'Inferno, cercando una ben determinata simmetria, se non una perfetta concordanza tra il regno dell'Inferno e la scena delle tre fiere. Ma è stato osservato che la selva selvaggia, il colle luminoso, le tre f., l'incontro con Virgilio sono fuori dell'oltretomba, hanno come " teatro la terra, la vita terrena ". Né si può, con il Singleton, ricavare dal fatto che le tre f. rappresentino le " tre più ampie zone di peccato dell'Inferno " un vero e proprio rapporto di corrispondenza fra il viaggio attraverso l'Inferno e il viaggio com'è presentato nella scena iniziale del poema (il Singleton adducendo l'oscuro passo su riferito sulla corda e sulla lonza fonda tale rapporto sulla sua concezione della Commedia).
Proprio queste sottili simmetrie, ingegnose corrispondenze lasciano perplessi; ed è un preconcetto a cui obbediscono non pochi commentatori moderni che tutto nella Commedia debba essere sottoposto alle norme di una rigida, matematica simmetria. Né possono, d'altra parte, non apparire fascinose ma labili le recondite, maliose analogie, le segrete, musicali corrispondenze che il Pascoli si compiacque ritrovare nelle tre f., come in tutto il poema sacro. L'allegorismo del Pascoli (e dei suoi seguaci), che ha incontrato in questi tempi maggiori consensi che nel periodo positivista e nel periodo - diciamo - crociano, rifiuta di intendere l'interna coerenza logica della poesia di D., ama proiettarla su un piano di ambiguo irrazionalismo, di equivoco mistero da scoprire per la prima volta, e ha i suoi precedenti (come particolarmente quella di Luigi Valli, il suo più fervido discepolo) in certa critica iniziatica, esoterica dell'Ottocento romantico (ad es. di Gabriele Rossetti). In verità ogni lettura esclusivamente o quasi allusiva e analogica della Commedia, verso cui propendono anche oggi certe misticheggianti interpretazioni, è lontana da quanto è detto proprio da Eliot " lucidità poetica " (le " chiare immagini visive "), da quanto viene chiamato realismo di D. (ne è un'esemplare dimostrazione la geniale interpretazione figurale di Auerbach).
Con queste disposizioni che il cielo non vuole, asserite nei vari modi da noi accennate, avremmo dunque delle astrazioni e non qualche cosa di veramente vissuto, d'inerente all'esperienza di D. (pur nella sua dimensione esemplare). Giustamente il Nardi vuole vedere in D. che è, fin dall'esordio, il protagonista della Commedia, un D. vivo, ricco di un'umana dolorosa esperienza, e non l'astratto simbolo dell'uomo peccatore: e volse i passi suoi per via non vera, / imagini di ben seguendo false, / che nulla promession rendono intera (Pg XXX 130-132). Ponendo le tre f. nell'esperienza concreta di D., il Nardi ritiene che né il leone, né - e ancora di meno - la lupa, rappresentino un vizio o una passione propria dell'animo del poeta: l'uno sarebbe " superbia ed orgoglio in atto nella lotta tra le fazioni fiorentine avventatesi contro di lui ", l'altra, la lupa, nella sua storica realtà, s'incarna in Bonifacio VIII. Anche altri commentatori moderni (G. Casella, Del Lungo, G. Mazzoni, lo stesso Pietrobono, ecc.) hanno chiaramente indicato un significato politico accanto a quello morale: nella lonza che investe D. più presto e più da vicino è da vedere, secondo il Del Lungo, la " sua guelfa, astuta, ingegnosa Firenze "; nel leone " la gran potenza della real Casa di Francia, la violenta patrona del comune guelfo ", e nella lupa la curia romana. Siffatta tesi era stata illustrata, ai primi dell'Ottocento, da G. Marchetti, d'accordo con la sua età patriottica risorgimentale, particolarmente con l'interpretazione laicistica-ghibellina della Commedia, di tutta l'opera di D. (Mazzini, Guerrazzi, G. Rossetti, ecc.), a cui contribuì il pensiero del Foscolo (e dal Foscolo si muove la critica del De Sanctis): si costruiva il mito politico di D. che ebbe tanta parte nella fortuna del poeta.
Non è affatto però neppure oggi da escludere che un significato politico sia incluso (non sovrapposto) in quello morale, soprattutto nella correlazione tra la selva e le f. e tra la lupa e il veltro (che la farà morir con doglia), a cui di certo è attribuita da D. un'azione politica religiosa comunque venga intesa. Etica, politica e religione facevano nella coscienza di D. un tutto inscindibile. È evidente che l'azione della lupa intesa come avarizia si esplichi particolarmente nell'ambito della curia romana, il luogo dove Cristo tutto dì si merca (la vostra avarizia il mondo attrista), e le persone soprattutto in cui usa avarizia il suo soperchio appaiono nel poema proprio gli ecclesiastici. D'altra parte, osserva egregiamente il Petrocchi, l'invettiva ricorrente in tutta la Commedia contro la lupa e l'avarizia si alimenta del motivo ascetico del pauperismo francescano, assunto proprio come centrale sin dai primi versi del poema: e molte genti fé già viver grame. E che la lupa sia da identificarsi con l'avarizia, lo dichiara lo stesso poeta, quando questa bestia selvaggia ricompare nel canto ventesimo del Purgatorio con espressioni somiglianti a quelle adoperate nel proemio: Maladetta sie tu, antica lupa, / che più che tutte l'altre bestie hai preda / per la tua fame sanza fine cupa!. E subito dopo, con evidente richiamo alla profezia del veltro: O ciel, nel cui girar par che si creda / le condition di qua giù trasmutarsi, / quando verrà per cui questa disceda? (Pg XX 10-15).
L'avarizia (nella sua fame sanza fine cupa) è da intendersi quale cupiditas, detta da s. Paolo " radix omnium malorum " e definita da s. Tommaso " inordinatum appetitum cuiuscumque boni temporalis " (Sum. theol. I II 84 1c). Concetto etico-politico, politico-religioso, sappiamo di fondamentale rilievo in tutta la Commedia, è la cupidigia, ma che D. aveva già illustrato nel quarto trattato del Convivio e svolgerà più largamente nella Monarchia: Però che in nullo tempo si compie né si sazia la sete de la cupiditate (Cv IV XII 6; il passo che noi qui abbiamo enucleato, pur rifacendosi a Cicerone, è un chiaro preannuncio della lupa: dopo 'l pasto ha più fame che pria). " C'est une sorte d'apostasie, de reniement de Dieu, dont la racine est un orgueil qui se transforme aussitȏt en avarice ", commenta molto perspicuamente il Gilson (in Introduction à l'étude de Saint Augustin, Parigi 1949, 155).
La conclusione è che le tre f. (facenti capo in fondo alla lupa) rappresentano le tre disposizioni peccaminose insite nell'animo umano e tali da impedire il raggiungimento dell'ordine morale e religioso della società umana, siano o non siano le tre disposizioni che il cielo non vuole, osserva il Petrocchi. Ma il leone era simbolo tradizionale della superbia, né si possono addurre ragioni tali da non ritenere che la lonza non simboleggi la lussuria, nei suoi attributi di vaghezza, di mobilità, di piacere. Ben evidente e concreto è il rapporto tra la figurazione della lupa e l'avarizia, tra la famelicità della bestia senza pace (di tutte brame sembiava carca; mai non empie la bramosa voglia) e il simbolo di cupidigia con i suoi riflessi politici-religiosi a cui noi sopra abbiamo accennato e che sono stati dottamente illustrati da F. Mazzoni nel suo commento ai primi tre canti dell'Inferno, sì da concludere che la lupa, cioè la cupidità, impedisce a D. - e all'intera umanità di salire il colle luminoso della felicità naturale (per altri invece è la felicità contemplativa), di raggiungere insomma il primo dei fini per i quali la Provvidenza ha creato l'umanità (e nel pensiero del Mazzoni, come già del Nardi, o anche dello stesso Pietrobono, il veltro non può non essere che un'autorità imperiale, se non proprio, si afferma, non però troppo persuasivamente, Enrico VII; nelle parole di Virgilio vi sarebbe il preannuncio dell'elezione dello stesso imperatore).
A favore dunque di questa tesi, a dimostrazione dell'interpretazione (si rinnova quella antica su nuovi dati e su nuovi principi metodologici) che vede nelle tre f. il simbolo concreto di tre impedimenti radicali propri della natura umana vulnerata dal peccato d'origine, si adduce il passo di s. Giovanni (I Epist. 2, 16-17): " omne quod est in mundo concupiscentia carnis est et concupiscentia oculorum et superbia vitae; quae non est ex Patre, sed ex mundo est... ". E sul fondamento di quanto esemplifica il luogo giovanneo numerosi sono i riferimenti patristici e scolastici a questi tre impedimenta (il termine è teologale) illustrati dal Busnelli e poi dal Mazzoni con sicure argomentazioni. Ci limitiamo qui a ricordare il passo di s. Bernardo (apocr.), Sermo in illud: ecce nos reliquimus: " His qui volunt Christum expedita sequi mente, tria impedimenta sunt deserenda, videlicet avaritia, superbia, luxuria: avaritia mundi, superbia cordis, luxuria carnis ". E il commento di s. Tommaso: " Et sic patet quod ad ista tria reduci possunt omnes passiones " (Sum. theol. II II 77 5c).
Riconosciuto il valore concettuale delle tre f., dobbiamo ora ricordare la tradizione medievale dei Bestiarii moralizzati, ove compaiono le tre belve con degli attributi che hanno di certo richiamato l'attenzione di Dante. Nel Bestiario toscano (a c. di M.S. Garver - K. McKenzie, in " Studi romanzi " VIII [1912] 86) la " loncia " è detta " animale crudele e fiera e nasce de coniungimento carnale del leone con lonça o vero de leopardo con leonissa... sempre sta in calura d'amore et in desiderio carnale, launde sua fereçça è molto grandissima ". E nel volgarizzamento del Tesoro di Brunetto Latini, nella parte dedicata agli animali, ove è nominata anche la leonza e sono descritte le " più maniere di lupi ", il leone è definito un animale " forte e orgoglioso sopra tutte le cose ", che " per la sua fierezza uccide la preda ciascun dì " (v. 41). Ancora poi nel Detto del Gatto lupesco troviamo un elenco di bestie reali e immaginarie, e fra esse incontriamo quattro leopardi, un leone e una lonça (Contini, Poeti II 292). Un agile verso di Folgore da San Gimignano, " leggero più che lonza o liopardo " (I' ho pensato di far un gioiello 12), richiama, nell'attributo essenziale, quello della lonza dantesca. Il pel macolato ancora della lonza parve agli antichi commentatori, come Pietro e Benvenuto, una reminiscenza del virgiliano " maculosae tegmine lyncis " (Aen. I 323). Che sia effettivamente questa lonza non si può dire con sicurezza: si può ritenere un felino molto somigliante a un leopardo o a una pantera, ma non da identificarsi con essi. Parve al D'Ovidio e al Cipolla che fosse la lince (su una supposta, immaginaria pietra preziosa, detta lyncurium, costituita dalla secrezione renale della lince e che l'animale poi copriva di sabbia, fondarono la tesi che la lonza significasse l'invidia), ma il Parodi ha fatto osservare che la lince, benché " sia etimologicamente la progenitrice della lonza, non aveva però con questa nulla più che fare " (" Bull. " XVIII [1911] 148). Etimologicamente la lonza deriva da lynx o meglio dal femminile lyncea, e ha il suo corrispondente nel francese antico lonce (nel francese antico si ritenne però articolo la l- iniziale, e tale forma, l'once, è conservata nel nostro Proverbia super... natura feminarum). Infine un documento fiorentino del 1285 menziona una leonza o lonza tenuta in gabbia a Firenze presso il palazzo del comune, nell'attuale loggia del Bigallo, ov'era, fin dalla metà del Duecento, una gabbia di leoni dello stesso comune. Nella genesi dell'invenzione di questi animali concorsero dunque insieme alla tradizione dei bestiari moralizzati le costumanze fiorentine di nutrire a spese pubbliche e di tenere esposti animali feroci, e anche il simbolismo araldico del Medioevo comunale, dichiara il Casini.
Tale invenzione appare perciò fondata sulla stessa esperienza di Dante. Ma come la fonte concettuale è il su riferito luogo giovanneo, l'origine fantastica di questi animali è pure nella Bibbia: " Idcirco, percussit eos leo de silva, lupus ad vesperam vastavit eos, pardus vigilans super civitates eorum " (Ierem. Proph. 5, 6). Questi animali nominati da Geremia dovettero dare a D. l'idea prima dell'invenzione poetica delle tre f., tanto più se l'esegesi biblica aveva già accostato le tre f. agli impedimenta, osserva il Busnelli, citando il commento di Ugo da San Caro alla Bibbia, secondo il quadruplice senso letterale, allegorico, morale e anagogico, ove i tre animali misticamente vengono interpretati: " Leo est diabolus in quantum est superbus... lupus ipse idem, in quantum de luxuria... pardus, in quantum de avaritia " (G. Busnelli, Il simbolo delle tre fiere dantesche, Roma 1909, 35).
Alla Gerusalemme della Bibbia D. ha sostituito i tempi di Firenze, il mondo corrotto, ha sostituito pure al pardus la lonza (obbedendo forse a norme della retorica medievale a lui care, le tre f. hanno in tal modo la stessa lettera iniziale), e ha scambiato i simboli del pardus e del lupo o lupa. Il sottofondo di questa scena delle f., come della selva, è biblico, anche se non mancano echi romanzi (ad es. la gaetta pelle, il parea che l'aere ne tremesse). Le riprese virgiliane si faranno più evidenti nella seconda parte del canto (sulle derivazioni virgiliane e bibliche prezioso è ancora il commento del Tommaseo, e in seguito si è soffermata la ‛ lectura ' del Getto). Il gusto figurativo di " motivi da miniatura medievale e da bestiario " indicato da alcuni studiosi è oltrepassato in una sfera arcana e solenne.
Indicato il tessuto concettuale, accertata (sia pure sommariamente) la fitta trama culturale, le f. si debbono considerare simboli concreti molto più che astratte allegorie quali erano state considerate dal De Sanctis e dal Croce o anche dalla stessa minuziosa consenziente o no indagine positivistica (un po' ironicamente il D'Ovidio le definiva " bestie illustri "). Resta però una certa indeterminatezza che non sappiamo fin dove si possa attribuire al linguaggio biblico profetico, agli schemi, ai modi se vogliamo di visione di questo canto, di questa stessa parte delle fiere. Indeterminatezza che è più evidente nella profezia del veltro, ove il linguaggio del poeta diviene volutamente oscuro, ambiguo, osserva il Sapegno (né possiamo sottacere certe perplessità del Momigliano e le riserve dello stesso Sapegno). Si direbbe che h anche nei riferimenti alla lupa, l'intenzione dell'autore si sovrapponga alla figurazione artistica, alla realtà delle fiere. L'enigmaticità reale o presunta del veltro sembra riflettersi sulle immagini, sugli attributi di questi animali reali e a un tempo simbolici.
La verità è che ciò che nel proemio è rappresentato o indicato o appena accennato avrà il suo svolgimento, la sua storia in tutto l'itinerario conoscitivo, poetico della Commedia. Il dato preminente del canto proemiale deve giustamente considerarsi, con il Pagliaro, l'invito al viaggio oltremondano (e il punto più alto resta in fondo per noi l'incontro con Virgilio), senza però che si possa distaccare recisamente il proemio dal resto del poema (il proemio, nelle sue successive scene, si svolge, a giudizio dello stesso studioso, come in un sogno, secondo il modulo poetico della visione, ben altrimenti che nella ‛ fabula ', il viaggio nell'oltretomba). Le f. non hanno perciò - né possono avere - la complessità, la stessa vitalità che emana dagli animali mostruosi dell'Inferno dantesco. Il loro stesso senso parabolico e simbolico si determina si direbbe artisticamente con l'arricchirsi del concepimento della Commedia, con lo svolgersi del viaggio oltremondano, col maturarsi dei suoi strumenti espressivi.
Non si può quindi caricare il veltro, le f., lo stesso Virgilio di tutti quei significati, di tutti quei contenuti dottrinali, etico-politici e religiosi che verranno dopo. Ma è anche vero che a quei significati, a quei contenuti sono legate le f. nella loro autonomia, nella loro realtà concettuale e artistica, nel loro linguaggio reale e figurale.
Bibl. - Sulla struttura e sull'ordinamento morale, sull'allegoria e sui simboli in genere molto vasta è la bibliografia che qui necessariamente omettiamo, rimandando alle voci che vi si riferiscono. Vogliamo soltanto ricordare che il giudizio del Croce (cfr. La poesia di D., Bari 1921) sulla natura intellettualistica della struttura, dell'allegoria del poema, dette subito luogo a vivaci discussioni da parte di chi pur si muoveva nell'ambito del pensiero idealistico, particolarmente di L. Russo (ricchissima di dati culturali è poi l'opera di K. Vossler). In riferimento a questi problemi molto cauta ed equilibrata è la posizione di M. Barbi; e precise sono le osservazioni di U. Bosco sulla Tendenza al concreto e allegorismo nell'espressione poetica medievale (in un saggio del 1951 ristampato in D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966). A un'interpretazione che vuol essere diversamente e più effettivamente unitaria si volgono le indagini di N. Sapegno (con richiamo al De Sanctis e al Foscolo), la critica semantica di A. Pagliaro, e le interpretazioni misticheggianti teologizzanti e simbolistiche di M. Apollonio, di M. Casella e (misuratamente) di G. Getto (sui quali è evidente l'influsso del Dante di T.S. Eliot). Al simbolismo medievale di D. guarda in modo autonomo S. Battaglia. Una nuova fondamentale interpretazione (l'interpretazione figurale) è quella di E. Auerbach, e sul " duplice viaggio " nella Commedia fonda le sue ricerche C. Singleton.
Tutte queste interpretazioni, queste ricerche cui abbiamo sommariamente accennato, interessano non solo nei loro riferimenti diretti e indiretti lo studio delle f.; tuttavia per la conoscenza obiettiva di questo problema sono da consultare gli antichi commenti, dei quali si attendono edizioni più sicure criticamente condotte. Citiamo, poi, gli studi di maggior rilievo riguardo alle f., rimandando per i lavori più antichi ai repertori bibliografici del Batines e del Ferrazzi: G. Marchetti, Della prima e principale allegoria del poema di D., Bologna 1819; U. Foscolo, Discorso sul testo della Commedia di D., Londra 1825 (e quindi in Opere, a c. di F.S. Orlandini e E. Mayer, III, Firenze 1850, 430-440: riconosce la tesi politica del Marchetti, ma si richiama ai " fonti sacri "); G. Casella, Della forma allegorica e della principale allegoria della D.C., in Opere edite e postume, II, Firenze 1884, 369-395; F. Cipolla, La lonza di D., in " Rass. Bibl. Lett. It. " III (1895) 103 ss.; G. Pascoli, Intorno alla Minerva oscura. Le tre fiere, in " Flegrea " febbraio 1900; ID, Sotto il velame. Saggio di un'interpretazione generale del poema sacro, Messina 1900; ID, La mirabile visione. Abbozzo di una storia della D.C., ibid 1902 (gli Scritti danteschi del Pascoli sono ora ristampati in Prose, II, Milano 1952: sulle f. cfr. pp. 250-266, 390-444, 1153-1173); F. D'Ovidio, Le tre fiere, in " Flegrea " luglio 1900 (poi in Studi sulla D.C., Caserta 1931, 5-40); I. Del Lungo, il canto I dell'Inferno, Firenze 1901; F. Flamini, I significati reconditi della Commedia di D. e il suo fine supremo, II, Livorno 1904, 114 ss. (2a ediz., con il titolo Il significato e il fine della D. C., ibid 1916); G. Busnelli, Il simbolo delle tre fiere dantesche, ediz. con aggiunte, Roma 1909; L. Filomusi Guelfi, L'allegoria fondamentale del poema, in " Giorn. d. " XVII (1909) 229 ss. (poi in Nuovi studi sulla D.C., città di Castello 1911); T. Casini, Sulla soglia del tempo, in Scritti danteschi, città di Castello 1913; G. Mazzoni, Il canto I dell'Inferno, Firenze 1918; T. Casini, Il c. I dell'Inferno, ibid 1921; F. Ercole, Il prologo del poema sacro, Palermo 1921; L. Pietrobono, Il prologo della D.C., in " Giorn. d. " XXVI (1923) 323-328; XXVII (1924) 141-148 (poi in Saggi danteschi, Torino 1954); M. Rossi, Il canto proemiale del poema, in Gusto filologico e gusto poetico, Bari 1942, 61-72; F. Ferretti, Le tre fiere, in Saggi danteschi,. Firenze 1950, 27-41; C. Singleton, D. Studies. I. Commedia. Elements of Structure, Cambridge 1954 (trad. ital. Studi su Dante. I. Introduzione alla D.C., Napoli 1961); A. Pézard, Les loups, Virgile et D., in " Revue Etudes Ital. " n.s., IV (1957) 5-30; G. Ungaretti, Commento al I canto dell'Inferno, in " Paragone " III (1952) 5-21 (poi in Lett. dant. 5 ss.); F. Montanari, L'esperienza poetica di D., Firenze 1959 (il cap. VIII); L. Pietrobono, Il canto I dell'Inferno, Torino 1959; R. Roedel, Il prologo della D.C., in " Svizzera italiana " CXXXIX (1959) 1-12 (e in Lectura Dantis, Bellinzona 1965, 26-40); E.H. Wilkins, The Prologue of the Divine Comedy, in The Invention of the Sonnet, Roma 1959 (già in " Annual Report of the Dante Society " XLIII [1926] 1-7); G. Getto, Il canto I dell'Inferno (1960), in Lect. Scaligera I 3-20 (poi in Aspetti della poesia di D., Firenze 19662, 1-16); A. Chiari, Il preludio dell'Inferno dantesco, in " Convivium " n.s., XXIX (1961) 1-11; E. Sanguineti, Dante Inf. I-III, in Tre studi danteschi, Firenze 1961, 1-23; S. Battaglia, Linguaggio reale e linguaggio figurato nella D.C., in Atti del I Congresso Naz. Studi danteschi, ibid 1962, 21-44 (poi in Esemplarità e antagonismo nel pensiero di D., Napoli 1967, 51-82); V. Vettori, Il prologo della Commedia, in Lect. Internazionale. Inferno, Milano 1963, 7-27; B. Nardi, Il preludio alla D.C., in " L'Alighieri " IV (1963) 3-17; Pagliaro, Ulisse 1-69; G. Petrocchi, II canto I dell'Inferno, in Nuove lett. I 1-16 (e, con il titolo Il proemio del poema, in Itinerari danteschi, Bari 1969, 257-275); F. Mazzoni, Saggio di un nuovo commento alla D.C., Firenze 1967, 1-68 (con bibliografia cui rinviamo per altri studi).