Fiere e mercati
La documentazione di età normanna e sveva è scarsissima in proposito. L'evidenza più chiara è di carattere istituzionale e riguarda l'importanza del plateaticum. Questa tassa, già riscossa nei principati longobardi e che corrisponde più o meno al teloneo del mondo carolingio, riguardava il commercio al minuto, quello che si praticava lungo le vie (platee). Documentata anche nella Capitanata bizantina, in età normanna diventò il principale diritto pubblico corrisposto ai signori; infatti Ruggero II cedette il diritto di riscuoterla ai titolari di feuda quaternata (v. Feudo quaternato), baroni e conti. Era riscossa nell'ambito della baiulatio e lo restò in età sveva. Sono anche documentate esenzioni dal plateaticum: ad esempio nel 1115 la contessa Emma permise che si tenesse a Montescaglioso una fiera in occasione della festa di s. Michele, dal 1o al 10 maggio, senza pretendere la riscossione del plateaticum. Sembra che questa tassa concernesse, fra l'altro, anche i pedaggi; tuttavia nel 1187 re Guglielmo II prescrisse che nessuno ius passagii fosse più esatto sui ponti e sui fiumi nelle terre demaniali. In età normanna il potere pubblico (re o signori) controllava i mercati, permettendo, ad esempio, di tenere, dietro pagamento di una tassa, plance (o stalle) in macello. La baiulatio riscuoteva un diritto sulla macellazione (bucheria), nonché un diritto specifico per la pesatura su bilance pubbliche (pensum statere).
In Puglia e Campania durante il sec. XII le botteghe urbane si moltiplicarono e comparvero le prime fiere. I documenti accennano a magazzini e botteghe (stationes) siti al pianterreno di case urbane, talvolta raggruppati in un quartiere del mercato o vicino al porto. Il commercio locale, che interessava anche amalfitani e italiani del Nord, chiaramente si innestava sul grande commercio e alcuni insediamenti importanti si svilupparono grazie a questa attività. Già all'inizio del sec. XII una parte della produzione dei contadini era comprata e rivenduta dai mercanti, un'altra veniva venduta direttamente dai produttori sui mercati locali. Durante il sec. XIII, secondo i dati archeologici, le ceramiche importate potevano arrivare lontano dal punto di sbarco. Un documento barese del 1223 riguardante il plateaticum cita tanto prodotti locali quanto merci orientali.
Federico II non poteva avvalersi di dottrine economiche, in quanto la scienza economica non era ancora nata. Invece aveva esigenze fiscali. Il denaro gli serviva per mantenere uno stato sempre più potente e, alla fine del regno, per sostenere le spese militari. Secondo l'espressione di Erich Maschke, "ricchezza del principe e ricchezza dei sudditi erano considerate interdipendenti" (1966, p. 326), il che però era vero solo in parte. Sotto il regno dell'imperatore, assistiamo a un doppio movimento. Da una parte, si voleva tornare allo stato che prevaleva sotto il regno di Guglielmo II, prima del periodo di anarchia. A Capua, nel 1220, Federico II revocò i nuovi plateatica istituiti sin dalla morte dei suoi genitori, che comunque non alimentavano le finanze dello stato, ma quelle dei signori. Nel 1232 riportò al livello antico i diritti riscossi sul commercio interno. Nel 1231 permise agli amalfitani di comprare grano in Sicilia per i propri bisogni. Sembra infatti che tale commercio, pure interno, non fosse normalmente lecito.
Comunque l'imperatore era convinto dell'utilità del commercio, che permetteva di abbassare i prezzi. Per questa ragione, volle sviluppare le fiere nel Regno di Sicilia. Nel 1223 concesse a Termini Imerese una fiera annuale di tre giorni, esonerata da tasse, in occasione della festa di s. Calogero (il 18 giugno, al tempo della mietitura). Nel 1234 decise la creazione di un ciclo annuale di sette generales nundine nelle province continentali del Regno; probabilmente esemplate sulle fiere di Champagne del sec. XII (non si dimentichi che i denari di Provins circolavano in Puglia nella seconda metà del sec. XII). Il ciclo era così ideato: si apriva in primavera nel nord del Regno e si chiudeva in autunno nel sud. Le fiere previste erano: Sulmona, dal 23 aprile al 3 maggio; Capua, dal 22 maggio all'8 giugno; Lucera, dal 24 giugno al 1o luglio; Bari, dal 22 luglio al 10 agosto; Taranto, dal 24 agosto all'8 settembre; Cosenza, dal 21 settembre al 9 ottobre; Reggio, dal 18 ottobre al 1o novembre. Però, a quanto pare, nessun documento di carattere non normativo allude a queste fiere, a dispetto dell'importanza prevista. D'altra parte, dal punto di vista economico, si fa fatica a capire la logica del ciclo, che comprendeva una sola fiera in Campania così come in Abruzzo, due fiere in Calabria e tre in Puglia. Inoltre il ciclo sembra totalmente indipendente dai ritmi della produzione agricola: anche se si fosse trattato di vendere manufatti, le risorse degli acquirenti sarebbero dipese dalla produzione. Se la fiera di Sulmona può, eventualmente, essere ricollegata all'allevamento delle pecore, quella di Lucera con la mietitura e quelle autunnali con la vendemmia, invece la data prevista per quella di Bari non ha il minimo rapporto cronologico con la raccolta dell'olio, principale ricchezza locale.
Si noti infine come tutte le prescrizioni in proposito risalgano ai periodi di pace del Regno, e in particolare agli anni 1230-1235.
D'altra parte, anche se destinato a favorire il commercio, questo tipo di prescrizioni si inseriva nell'ambito di una regolamentazione piuttosto autoritaria, che mirava innanzitutto ad aumentare le risorse della Curia regia, per quanto l'imperatore non trascurasse la protezione del consumatore.
I diritti sul commercio del sec. XII (plateaticum, pensum statere) vennero mantenuti e i nova statuta ne istituirono altri. Ad esempio, a fianco dell'antica bucheria fu riscossa una nuova tassa, ma non a spese della baiulatio. Alcune merci dovevano essere depositate dai mercanti nei nuovi magazzini pubblici chiamati fundica: la costituzione 89 del libro I decreta che i mercatores che arrivano in una città dove c'è un fundicum devono depositarvi le merci prestabilite, e solo queste. Infine i nova statuta crearono monopoli statali per la vendita, fra l'altro, del sale e del ferro (v. Monopolii). In che misura i prodotti sottoposti a tali monopoli potevano essere venduti nei mercati? Nel 1235 il giustiziere d'Abruzzo aveva vietato che si tenesse un mercato perché vi si vendevano sale e ferro; l'imperatore invece revocò il divieto, ma a condizione che i nova statuta fossero rispettati.
Federico II si preoccupò anche della qualità dei prodotti venduti. La costituzione 49 del III libro (De fide mercatorum) mira a disciplinare l'attività dei magistri mechanicarum artium, necessaria alla vita dei sudditi. Comincia con gli orefici, i lavoratori del ferro, quelli che fabbricano scudi e selle; continua con i macellai e i venditori di pesce: non devono vendere prodotti non freschi, né ingannare il cliente e, se vendono prodotti che non sono del giorno, lo devono dichiarare. Passa poi a quelli che vendono candele e vino, che deve essere puro. Prescrive che, in ogni località, siano elette due persone che saranno incaricate dal baiulus della sorveglianza di mercanti e artigiani. La pena per i delinquenti sarà, la prima volta, una multa di una libbra d'oro (360 tarì) o la fustigazione, la seconda volta il taglio della mano, la terza volta l'impiccagione. La costituzione successiva obbliga i mercanti a utilizzare i pesi e le misure standard, definiti dalla Curia.
Infine, una costituzione 'nuova' (Const. I, 60.2), chiaramente promulgata verso la fine degli anni Quaranta, prescrive ai magistri camerarii regionum (il livello più alto della vecchia amministrazione finanziaria, allora da poco ripristinata), con il consiglio dei baiuli locali e degli altri fedeli dell'imperatore, di organizzare delle assisie rerum venalium nelle diverse città e località: prova questa, fra l'altro, che il grande ciclo delle fiere, descritto sopra, esisteva solo sulla carta, e segno forse delle difficoltà incontrate durante il periodo bellico.
Tutto sommato, come si vede, la documentazione è più ricca di prescrizioni normative che non di descrizioni realistiche, il che indica il peso predominante dello stato. Il movimento naturale tende chiaramente all'aumento del commercio locale; ma non si può dire in che misura le diverse normative del sovrano siano state efficaci; inoltre, se mirano tutte al controllo da parte dello stato, dal punto di visto economico non vanno tutte nello stesso senso. È molto probabile che i mercati e le fiere si siano moltiplicati, ma anche che lo stesso valga per i numerosi agenti e appaltatori che ne controllavano l'attività.
fonti e bibliografia
J.M. Powell, Medieval Monarchy and Trade: the Economic Policy of Frederick II in the Kingdom of Sicily, "Studi Medievali", ser. III, 3, 1962, pp. 420-454 (con conclusioni esagerate).
E. Maschke, Die Wirtschaftspolitik Kaiser Friedrichs II. im Königreich Sizilien, "Vierteljahrsschrift für Sozial- und Wirtschaftsgeschichte", 53, 1966, pp. 289-328.
N. Kamp, Vom Kämmerer zum Sekreten. Wirtschaftsreformen und Finanzverwaltung im staufischen Königreich Sizilien, in Probleme um Friedrich II., a cura di J. Fleckenstein, Sigmaringen 1974, pp. 43-92.
M. Del Treppo, Prospettive mediterranee della politica economica di Federico II, in Friedrich II.Tagung des Deutscen Historischen Instituts in Rom im Gedenkjahr 1994, a cura di A. Esch-N. Kamp, Tübingen 1996, pp. 316-338.
J.-M. Martin, L'économie du royaume normanno-souabe, in corso di stampa negli atti del convegno Mezzogiorno-Federico II-Mezzogiorno.