etimologica, figura
La figura etimologica è una figura retorica grammaticale e insieme semantica che consiste nell’accostamento di due parole aventi la stessa radice (da cui il lat. figūra etymologĭca per indicare una medesima origine).
La figura etimologica rientra nella famiglia delle paronomasie, vale a dire di quelle espressioni che, poste nello stesso segmento discorsivo, si richiamano per affinità di forma, ma se ne differenziano per lievi mutamenti dell’espressione in grado così di creare inediti e inattesi circuiti di senso. Nel caso della figura etimologica, l’affinità di forma viene però determinata dalla presenza di una stessa radice per origine di etimo o per derivazione (come nelle espressioni vivere la vita, morire di una morte, amare di un amore, sognare un sogno, ecc.). La figura si presta così a meccanismi di intensificazione semantica del concetto di base (evocata dalla radice), garantendone una maggiore forza espressiva.
La pseudociceroniana Retorica a Gaio Erennio (I sec. a.C.) intende la figura non come una forma di adnominatio (la paronomasia quando ‘cose simili’ producono significati dissimili) ma una variante della replicazione (➔ epanalessi), per cui si serve del termine traductio (letteralmente «trapasso»), una figura che consentirebbe di rendere il discorso più ‘elegante’ (con l’esempio, tra gli altri, di Divitias sine esse divitis «lascia che le ricchezze siano dei ricchi»; Retorica a Gaio Erennio IV, 14, 20). Quintiliano, riferendosi esplicitamente a questo passo, ne assume il termine traductio, ma suggerisce di farne lievitare il senso legando parole con senso contrario come nell’esempio emit mortem immortalitem («ha comprato con la morte l’immortalità»; Institutio oratoria IX, 3, 71).
Meno sensibili alle differenze tra le paronomasie e le figure etimologiche (che sono comprese nelle prime), le arti poetiche medievali ne suggeriscono vivamente l’uso, spesso collegandole a complessi intrecci fonici e consigliando, negli esempi, l’impiego suggerito da Quintiliano di legare la figura etimologica all’inversione del significato (ossimoro). Così, Goffredo di Vinosalvo (XII secolo) accanto all’esempio che indicherebbe l’assimilazione delle lettere («Correre al corrente vietò la violenza del vento») colloca l’assimilazione delle sillabe («forme deforme») (Faral 19622: 323).
Dante fa costante ricorso alla paronomasia fino a renderla un elemento cardine delle sue tecniche retoriche e delle sue esigenze espressive. In particolare, la figura etimologica si presenta in moltissimi versi della Commedia sempre nel senso di un’intensificazione semantica (a partire dalla selva selvaggia di Inf. I, 5). Per es., quando incontra i grandi poeti antichi, la figura etimologica si modula anche ‘a distanza’, ricorrendo a più elementi e creando un tessuto di rinvii consono alla solennità dell’incontro: «O tu che onori scienza ed arte, / questi chi son ch’hanno cotanta onoranza / che dal modo de li altri li diparte?» (Inf. IV, 73-75), e prosegue con «onorata» (76) e «onorate» (80). In altri casi la figura si presta a fornire compattezza al verso, a intensificarlo emotivamente e a sintetizzarlo nell’➔epifonema, che è posto insolitamente all’inizio, come accade nel celeberrimo verso «Amor, ch’a nullo amato amar perdona» (Inf. V, 103).
A partire da Dante, la figura etimologica entra saldamente tra gli artifici retorici del linguaggio poetico, ma è il Seicento – sulla traccia del manierismo spagnolo – a farne impiego ricorrente. Nel Novecento, la figura etimologica sembra profilarsi come un espediente di cantabilità espressiva, sia in varianti pre-futuriste (Aldo Palazzeschi: «la vecchia s’addorme / e resta dormendo nel dolce romore», “La vecchia nel sonno”, in Poesie, vv. 7-8), sia in poeti come Marino Moretti («fior che fiorisce come frutto raro», “Cosa e parola”, in Il giardino dei frutti, v. 3) e, soprattutto, Guido Gozzano, che la inserisce nei suoi testi con moduli che sembrano ancora richiamarsi alla lezione dantesca:
Belli i belli occhi strani della bellezza ancora
d’un fiore che disfiora e non avrà domani
(“Le due strade”, in I colloqui, II, vv. 20-21)
Il farmacista nella farmacia
m’elogiava un farmaco sagace
(“La signorina Felicita, ovvero La felicità”,
in I colloqui, VII, vv. 1-2)
simile a chi sognando
desidera sognare …
(“Una risorta”, in I colloqui, II, vv. 95-96)
In altri poeti la figura risponde alle più diverse esigenze stilistiche variando lo schematismo di richiamo morfologico e quindi la forza complessiva nelle diverse tessiture discorsive, come mostrano gli esempi seguenti:
Sazia d’erba, bagnata
dalla pioggia, belava.
Quell’uguale belato era fraterno
al mio dolore …
(Umberto Saba, “La capra”,
in Casa e campagna, vv. 3-6)
Di me stesso, di vivere la vita
di tutti (Saba, “Il borgo”,
in Cuor morituro, vv. 7-8)
Perché a me par, vivendo questa mia
povera vita, un’altra rasentarne
(Camillo Sbarbaro, “Talor mentre cammino
solo al sole”, in Pianissimo, vv. 13-14)
catena, immoto andare, oh troppo noto
delirio, Arsenio, d’immobilità
(Eugenio Montale, “Arsenio”,
in Ossi di seppia, vv. 21-22)
nelle sere tempestose:
è una tempesta anche la tua dolcezza
(Montale, “Dora Markus”,
in Le occasioni, vv. 18-19)
Sognavamo nelle notte feroci
sogni densi e violenti
sognati con anima e corpo
(Primo Levi, “Alzarsi”, in Ad ora incerta, vv. 1-3)
Nei testi in prosa, invece, la figura etimologica (ma non la paronomasia) sembra riportarsi ai moduli di lessicalizzazione dell’italiano contemporaneo e per questo ricorre con minima intensità, anche a causa della tendenza a premiare la variazione formale in senso stretto, come è tipico dei testi a larga diffusione di massa.
Cicerone, Marco Tullio (1992), La retorica a Gaio Erennio, a cura di F. Cancelli, in Id., Tutte le opere, Milano, Arnoldo Mondadori, 33 voll., vol. 32°.
Quintiliano, Marco Fabio (2001), Institutio oratoria, a cura di A. Pennacini, Torino, Einaudi, 2 voll.
Faral, Edmond (19622), Les arts poétiques du XIIe et du XIIIe siècle. Recherches et documents sur la technique littéraire du Moyen âge, Paris, Champion.