Abstract
Viene esaminata la disciplina relativa alla filiazione ossia alla relazione intercorrente tra il nato e il genitore e nella quale si compone il complesso di diritti, doveri, potestà, soggezione ed ogni altra relazione che li riguarda.
Si tratta di una relazione del tutto peculiare, atteso che non sarebbe corretto parlare di una mera soggezione alla potestà genitoriale del minore, che è, invece, considerato da numerose disposizioni normative come soggetto capace di autodeterminarsi e di assumere, quindi, scelte consapevoli e responsabili. La relativa disciplina è stata profondamente modificata, prima con la riforma del diritto di famiglia intervenuta con l. 19.5.1975, n. 151, e, poi, con la l. 17.12.2012, n. 219, che è recentemente intervenuta, al fine di completare il processo di unificazione dello status di figlio, abolendo le tradizionali differenze ancora esistenti tra figli legittimi e figli naturali. L’intervento del legislatore ha riguardato anche la posizione dei cd. figli incestuosi, abrogando l’originario divieto di riconoscimento di figli nati da genitori legati da un vincolo di parentela o affinità.
La filiazione è la relazione giuridica intercorrente tra il nato e il genitore in base alla quale il primo si considera figlio del secondo e nella quale si compone il complesso di diritti, doveri, potestà, soggezione ed ogni altra relazione che li riguarda. Si tratta di un rapporto giuridico del tutto peculiare, che si caratterizza in forza della reciprocità di diritti e doveri di cui sono investiti i due soggetti protagonisti del rapporto. Non è, di fatti, corretto parlare di una mera soggezione del minore che viene, invece, considerato come soggetto in grado di compiere scelte in perfetta autonomia ed è, in tal senso, oggetto di numerose disposizioni legislative che lo considerano come individuo capace di tutelare i propri interessi, attraverso scelte responsabili ed autonome. È sufficiente, in tal senso, richiamare a mero titolo esemplificativo, l’art. 147 c.c. che impone ai genitori di curare l’educazione del minore garantendo, comunque, il rispetto delle capacità, inclinazioni ed aspirazioni del minore stesso o, ancora, l’art. 145 c.c. che impone al giudice di sentire il minore in caso di contrasto inerente la vita familiare e, in tal modo, sembra confermare che all’interno del nucleo familiare la posizione del figlio non viene considerata dall’ordinamento come di mera soggezione.
La disciplina della filiazione è, peraltro, da sempre stata segnata, forse più degli altri istituti di diritto di famiglia, da forti connotazioni ideologiche, al punto da caratterizzare il regime di famiglia vigente nel periodo e, per tale ragione, ha subito nel tempo profonde mutazioni, che ne hanno per certi versi anche stravolto l’impianto originario. In particolare, la posizione dei figli nati da genitori non coniugati tra loro è stata storicamente considerata con discredito, non solo in quegli ordinamenti che subivano l’influenza delle idee e della morale cristiana, ma anche in un contesto laico nel quale lo Stato rivendicava il ruolo di tutore dell’ordinamento e delle relazioni umane, e anche il legislatore del 1942, nel solco della tradizione napoleonica, ha operato una netta distinzione tra figli legittimi e figli naturali, riservando a questi ultimi un trattamento differenziato in ordine tanto alle prove della filiazione quanto agli effetti giuridici del suo riconoscimento.
La pienezza dello status di figlio e l’inserimento nella famiglia era, difatti, attribuita alla sola filiazione legittima, che riceveva una completa tutela oltre che nei riguardi dei genitori, anche nei confronti degli ascendenti e dei parenti.
Ancora peggiore era poi la sorte dei figli non riconosciuti o non riconoscibili, che non ricevevano una tutela neanche nei riguardi del genitore, atteso che per essi era previsto solo un obbligo alimentare durante la vita del genitore e, in sede successoria, un assegno vitalizio.
Anche il costituente repubblicano ha mantenuto la tradizionale distinzione e, tuttavia, ha invertito l’originaria tendenza: pur riconoscendo come operante un generale principio di prevalenza dei diritti del figlio legittimo, la normativa costituzionale (art. 30 Cost.) ha limitato il favor legittimatis solo alle ipotesi nelle quali il diritto del figlio naturale potesse compromettere la coesione sostanziale dei membri della famiglia. Tale disposizione ha, in altri termini, conferito una dignità ideale alla filiazione naturale, senza, però, superare la tradizionale distinzione tra lo status di figlio legittimo e quello di figlio naturale. Di qui la necessità di interventi successivi del legislatore volti ad adattare la disciplina legislative al mutato contesto socio-culturale nel quale la famiglia legittima non rappresenta più il solo modello di convivenza familiare approvato dal legislatore.
Con la riforma del diritto di famiglia, attuata nel nostro ordinamento con l. 19.5.1975, n. 151, il legislatore ha operato una profonda mutazione di tale prospettiva, assegnando ai figli nati fuori dal matrimonio (denominati figli naturali anziché illegittimi) la stessa dignità riconosciuta a quelli legittimi, con una sostanziale parificazione delle due discipline; tuttavia, proprio in virtù del dettato letterale, secondo cui la novella mirava alla «equiparazione tra figli legittimi e figli naturali», essa non è sembrata rivoluzionaria del modello tradizionale e, secondo l’interpretazione maggioritaria, non ha cancellato le diversità delle categorie giuridiche concernenti la filiazione. Indicativa del permanere del modo di sentire la legittimità del figlio quale condizione a lui più favorevole sul piano sociale e formale era, senz’altro, la conservazione dell’istituto della legittimazione, che documentava la perdurante diversità esistente tra i due modi di percepire la filiazione, posto che, attraverso tale istituto, si consentiva al figlio naturale di uscire dal suo status per giungere al superiore status di figlio legittimo.
La distinzione era conservata non solo sul piano lessicale e sostanziale, ma anche da un punto di vista formale. Anche la collocazione sistematica della normativa riguardante la filiazione, infatti, avvalorava, evidentemente, il permanere di una profonda differenza tra i due status, posto che la disciplina del rapporto genitore-figlio era rimasta collocata nel titolo sesto del libro primo del codice civile – Del matrimonio – applicandosi ai figli naturali solo in forza del richiamo operato dall’art. 261 c.c. riferito al solo genitore che avesse effettuato il riconoscimento. In altri termini sembravano coesistere, nel legislatore della riforma, le due anime volte l’una a mantenere quei legami da cui risulta garantita la stabilità familiare e l’altra, invece, a tutelare maggiormente i diritti dei figli nati fuori dal rapporto coniugale dei genitori.
Nonostante ciò, pur lasciando insoddisfatti quanti speravano che la riforma avrebbe attuato un definitivo superamento delle distinzioni in materia di filiazione e un definitivo approdo ad un unico status di figlio, è tuttavia innegabile che, a seguito dell’entrata in vigore della novella stessa, il figlio naturale avesse ricevuto una tutela giuridica sostanzialmente equiparabile, almeno con riguardo alla posizione dei genitori, a quella già disposta per i figli legittimi. Il processo di parificazione è proseguito sino a culminare, recentemente, nella l. 17.12.2012, n. 219, che sembra aver realizzato quella unicità dello status di figlio che orami da tempo era avvertita come indispensabile ed auspicata dai più autorevoli studiosi. Già da tempo, infatti, la dottrina prevalente aveva auspicato un intervento legislativo che attuasse il principio di eguaglianza in tema di filiazione.
Al fine di eliminare la discriminazioni ancora esistenti ai danni dei figli nati fuori dal matrimonio la legge, che si compone di sei articoli, prevede tra l’altro che «nel codice civile, le parole figli legittimi e figli naturali, ovunque ricorrano, sono sostituite dalla parola figli»: laddove si rendesse comunque necessario indicarne l’origine, si prevede l’impiego delle locuzioni ‘figlinatinelmatrimonio’ e ‘figlinatifuoridalmatrimonio’. L’art. 1 la legge contiene le principali modifiche al codice civile, atteso che esso, tra l’altro: interviene sull’art. 74 c.c., che oggi, in tema di parentela, parifica la filiazione naturale a quella legittima, superando definitivamente la pregressa disciplina a mente della quale gli effetti del riconoscimento non si estendevano anche ai parenti del genitore che lo avesse effettuato e che, in tal modo, negava l’invocata qualità di parente al figlio naturale nei confronti della famiglia del genitore stesso; riscrive l’art. 315 c.c., affermando che «tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico»; introduce l’art. 315 bis, rubricato «Diritti e doveri dei figli»: il legislatore ha così perseguito l’obiettivo di adeguare la regolamentazione dei rapporti di filiazione alle mutate sensibilità sociali atteso che, con questa disposizione, l’architettura dei diritti e dei doveri dei figli assurge a categoria ordinante del ruolo genitoriale; abroga le disposizioni di cui agli artt. 280-290 c.c., inerenti al legittimazione dei figli naturali.
L’art. 2 della legge suddetta ha poi conferito apposita delega al Governo per la modifica delle disposizioni vigenti al fine di eliminare ogni residua discriminazione tra figli nati nel matrimonio e figli nati fuori del matrimonio, mantenendo come punto di riferimento, naturalmente, i diritti da sempre garantiti alla filiazione nel matrimonio.
Tale delega ha trovato quindi attuazione nel decreto legislativo che il Governo ha approvato, in via definitiva, il 13.12.2013. Queste in sintesi le principali novità recate dallo schema di decreto legislativo: i) introduzione del principio dell’unicità dello status di figlio, anche adottivo, con conseguentemente eliminazione dei riferimenti ancora presenti all’interno della normativa ai figli «legittimi» e ai figli «naturali» e sostituzione degli stessi con quello di «figlio»; ii) trasposizione degli articoli da 155bis a 155sexies c.c. in un nuovo Capo II del Titolo IX del Libro I del codice, contenente tutte le disposizioni relative all’esercizio della responsabilità genitoriale in ogni ipotesi di «crisi» del legame tra i genitori tanto nel caso si tratti di rapporto coniugale quanto che sia un legame di mero fatto. Le nuove norme di cui agli artt. 337bis-337octies c.c., divengono, quindi, il punto di riferimento in caso di controversie genitoriali senza che vi sia distinzione a seconda che i genitori siano uniti in matrimonio o meno; iii) possibilità per il giudice di disporre indagini fiscali da parte della polizia tributaria su redditi e patrimoni dei genitori ai fini della quantificazione del contributo di mantenimento dei figli; iv) riconoscimento della possibilità per gli ascendenti dei minori, in ipotesi di rottura della coppia, di ricorrere al giudice per vedere riconosciuto il loro diritto a mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni; v) previsione e disciplina dell’obbligo di ascolto del minore in tutti i procedimenti che lo riguardano, salvo che il giudice ritenga l’ascolto in contrasto con l’interesse del minore o manifestamente superfluo; vi) sostituzione del concetto di «potestà genitoriale» con quello di «responsabilità genitoriale»; vii) modifiche alla disciplina delle successioni al fine di attuare in tale ambito dell’estensione dei vincoli di parentela alla filiazione fuori dal matrimonio, a seguito della novella dell’art. 74 c.c.; viii) modifiche alla disciplina relativa alle azioni di stato volte ad eliminare ogni residua discriminazione tra figli nati nel matrimonio o fuori da esso; ix) previsione di un flusso costante di informazioni tra magistrati ed enti locali al fine di garantire una maggiore assistenza ai nuclei familiari indigenti; x) modifica delle disposizioni di diritto internazionale privato con previsione di norme di applicazione necessaria in attuazione del principio dell’unificazione dello stato di figlio.
L’equiparazione, anche terminologica, è destinata a mantenere in vita solo la distinzione tra figli nati nel matrimonio o fuori da esso in relazione alle disposizioni ad essi specificatamente riservate. Fermo restando che lo status di figlio presuppone, comunque, la capacità giuridica che si acquista con la nascita e, dunque, implica, per il suo configurarsi, che il nato sia vivo, elemento caratterizzante di tali due categorie è, evidentemente, il matrimonio dei genitori.
Secondo l’insegnamento tradizionale, in particolare, sono quattro gli elementi che devono sussistere perché il figlio possa essere considerato nato all’interno del matrimonio: i) l’esistenza di un vincolo di coniugio tra i genitori; ii) il fatto che il figlio sia partorito dalla moglie; iii) che il suo concepimento sia avvenuto in costanza di matrimonio; iv) che sia stato generato dal marito.
L’art. 231 c.c., espressione del principio romano “pater is est quem numptiae demostrant” stabilisce, di fatti, una presunzione di paternità in capo al marito tutte le volte in cui il figlio è nato in costanza di matrimonio.
i) Il matrimonio. L’unione matrimoniale dei genitori deve essere produttiva di effetti civili, si può trattare di un matrimonio civile, regolato dagli artt. 84 e ss., c.c., ovvero di un matrimonio canonico il cui atto di celebrazione sia stato trascritto ai sensi della l. 27.5.1929, n. 847, oppure di un matrimonio celebrato innanzi un ministro di culto ammesso dallo Stato, purché esso venga regolarmente trascritto. Non occorre, invece, che il matrimonio sia valido, essendo sufficiente che il figlio sia nato o concepito durante il matrimonio poi dichiarato nullo (art. 128, co. 2, c.c.): anche il matrimonio invalido può attribuire lo status filiationis.
ii) La maternità. La maternità è un fatto storico e spetta alla partoriente. L’affermazione, che potrebbe apparire superflua, non lo è, in ragione dei progressi scientifici fatti in materia di ingegneria genetica. È questo un principio, infatti, che consente di stabilire chi tra due donne, l’una che ha donato il proprio ovulo e l’altra che ha portato a termine la gravidanza, sia la madre del figlio, una volta che questo sia nato.
iii) Il concepimento in costanza di matrimonio. In tema, l’art. 232 c.c. specifica il significato dell’espressione concepimento durante il matrimonio individuando i termini entro cui la nascita deve avvenire. L’articolo in commento, invero, specifica che lo status di figlio spetti a chi si presume concepito durante il matrimonio, perché nato non oltre trecento giorni dalla data dell’annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio stesso.
Con l’entrata in vigore della l. n. 151/1975 tale articolo è stato modificato con l’aggiunta di un secondo comma, in forza del quale la presunzione di concepimento non opera quando siano trascorsi trecento giorni dalla pronuncia di separazione giudiziale, dall’omologazione della separazione consensuale o dalla udienza di comparizione dei coniugi dinanzi al giudice, quando questi siano stati autorizzati a vivere separatamente. Si tratta di una presunzione, quella di concepimento, che ha carattere di praesumptio iuris et de iure, posto che non è ammessa la prova del concepimento prima del matrimonio o dopo la fine di esso di modo che, ove si ponga in contrasto con la realtà concreta, si configura come una vera e propria fictio iuris. In ogni caso il figlio può provare di essere stato concepito durante il matrimonio (art. 234, co. 3, c.c.). Il legislatore, in definitiva, basandosi sui dati di esperienza acquisiti dalle scienze biologiche circa la durata massima della gestazione ha imposto all’interprete una regola fissa nel chiaro intento da un lato, di perseguire la certezza sul fatto che il concepimento sia effettivamente avvenuto durante il matrimonio, dall’altro di presidiare, attraverso l’esplicito favor legittimatis, la stabilità del nucleo familiare. È chiaro, infatti, che il termine di trecento giorni individuato dalla disciplina codicistica è manifestazione del chiaro favore per lo status di figlio legittimo che ha per lungo tempo permeato l’intera disciplina della filiazione, in modo che verrà trattato come tale chiunque abbia anche solo una remota possibilità di essere stato concepito durante il matrimonio. Favore confermato dalla disposizione di cui all’art. 233 c.c. che consente l’acquisto dello status di figlio nato durante il matrimonio anche a chi, concepito prima di esso sia venuto alla luce dopo la celebrazione delle nozze se uno dei coniugi o il figlio stesso non ne disconoscano la paternità. Il legislatore, in questa ipotesi, tra il concepimento durante il matrimonio e la venuta al mondo dopo le nozze, ha ritenuto la prevalenza di quest’ultimo elemento e, di fatti, chi sia nato prima dei centottanta giorni dalla celebrazione delle nozze certamente è stato concepito prima di esso eppure viene ritenuto comunque figlio del marito della madre con una vera e propria attribuzione di legittimità.
iv) La paternità del marito. L’ultimo elemento che viene in rilievo per la qualificazione del figlio nato in costanza di matrimonio è la paternità del marito, elemento quest’ultimo che forse più di ogni altro ha richiamato l’attenzione della dottrina. Il legislatore, infatti, considerata la difficoltà di una prova diretta della paternità, è ricorso, ancora una volta, all’aiuto di una presunzione che è dettata dall’art. 231 c.c., secondo cui «Il marito è padre del figlio concepito o nato durante il matrimonio». Il legislatore, in questa ipotesi, tra il concepimento durante il matrimonio e la venuta al mondo dopo le nozze, ha ritenuto la prevalenza di quest’ultimo elemento e, di fatti, chi sia nato prima dei centottanta giorni dalla celebrazione delle nozze certamente è stato concepito prima di esso, eppure viene ritenuto comunque figlio del marito e della madre.
Il rapporto di filiazione naturale si acquista con il riconoscimento attraverso il quale la relazione naturale acquista una rilevanza anche sul piano giuridico.
L’istituto in esame è stato profondamente modificato dalla novella intervenuta con l. n. 219/2012 che, muovendosi nella direzione del completamento della riforma del diritto di famiglia, ha innovato ampiamente il valore e il contenuto delle norme.
Il riconoscimento non rappresenta un rapporto giuridico, ma una dichiarazione mediante la quale il soggetto afferma di aver generato un figlio al di fuori del matrimonio. Questo atto – non recettizio, irrevocabile e personalissimo – presenta il carattere della spontaneità e della volontarietà e produce effetti sottratti alla disponibilità dei privati. La manifestazione può compiersi contestualmente all’atto di nascita o in un momento successivo e deve essere resa all’ufficiale dello stato civile o al giudice tutelare o ad altro pubblico ufficiale.
Il riconoscimento può essere compiuto dai genitori congiuntamente o separatamente, anche se già uniti in matrimonio con altre persone al momento del concepimento. La decisione del genitore naturale di compiere il riconoscimento è una scelta libera, in alternativa alla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, ma non è scevra da alcune limitazioni. In relazione alla fattispecie effettuale, infatti, la norma richiede una integrazione dell’atto di riconoscimento che, a seconda dei casi, consiste in un atto di assenso del figlio ultraquattordicenne o il consenso dell’altro genitore. Ricorre, nella fattispecie, la figura dell’atto complesso, inteso come atto la cui efficacia è subordinata ad un controllo privato di convenienza. Se il figlio ha più di quattordici anni, egli deve prestare il suo consenso e in caso di suo rifiuto il genitore non potrà agire in alcun modo, non essendo prevista alcuna forma di opposizione. Nel caso, invece, di figlio minore di quattordici anni, il riconoscimento da parte di un genitore avrà bisogno, per la sua efficacia, del consenso da parte del genitore che ha, per primo, effettuato il riconoscimento o, in mancanza di questo, per rifiuto o impedimento, di una pronuncia del giudice competente.
Assenso del figlio e consenso dell’altro genitore sono negozi giuridici unilaterali e integrativi, che costituiscono la condizione di legalità ed efficacia del riconoscimento. A differenza dell’assenso – atto discrezionale che il minore non è tenuto a motivare e insuscettibile di rimozione mediante l’intervento dell’autorità giudiziaria – il consenso dell’altro genitore non può però essere rifiutato se il riconoscimento corrisponde ad un interesse, economico o psicologico, del figlio. Per evitare atteggiamenti ricattatori o posizioni capricciose del genitore che abbia effettuato il riconoscimento per primo, la legge prevede, in caso di rifiuto del consenso, un procedimento di opposizione, al fine di ottenere una sentenza costitutiva del giudice competente.
Il nuovo art. 250 c.c., che oggi consente al minore che abbia compiuto quattordici anni, anziché sedici come nella disciplina previgente, di prestare il proprio consenso evidentemente valorizza l’assenso del minore in conformità alla più anticipata maturità e capacità di discernimento da esso conseguita.
Particolare attenzione è stata rivolta al caso in cui insorgano dispute tra i due genitori, uno dei quali abbia già effettuato il riconoscimento e rifiuti il consenso dell’altro, posto che, conformemente alla volontà di affermare l’unicità dello status di figlio, il legislatore ha ritenuto opportuno unificare anche la competenza giurisdizionale per le relative materie, affiancando alla unificazione sostanziale l’unificazione anche sotto il profilo processuale. Gli effetti del riconoscimento sono disciplinati dall’art. 258 c.c., che, a fronte della novella del 2012, oggi espressamente dispone che «il riconoscimento produce effetti riguardo al genitore di cui fu fatto e riguardo ai parenti di esso».
Il nuovo dettato normativo si inerisce nel solco dei principi posti a fondamento della novella, che, al fine di affermare l’eguaglianza dei figli, indipendentemente dalla loro nascita all’interno o all’esterno del matrimonio, non poteva non contemplare i rapporti del figlio nell’insieme della famiglia. La l. n. 219/2012 ha finalmente operato la parificazione tra filiazione legittima e naturale, riscrivendo l’art. 74 c.c., così da specificare che la parentela è il vincolo che sussiste tra le persone che discendono da un medesimo stipite, sia nel caso in cui la filiazione sia avvenuta all’interno del matrimonio, sia nel caso in cui sia avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio sia adottivo.
Una manifestazione del profondo disfavore dell’ordinamento verso le relazioni incestuose era rappresentato dall’art. 251 c.c., che, prima della novella intervenuta con l. n. 219/2012, prevedeva il divieto di riconoscimento dei figli nati da persone tra le quali esiste un vincolo di parentela anche soltanto naturale, in linea retta all'infinito o in linea collaterale nel secondo grado, ovvero un vincolo di affinità in linea retta. Facevano eccezione casi tassativi: a) in caso di buona fede del genitore che, al momento del concepimento, non conosceva il vincolo di parentela o di affinità; b) a seguito di dichiarazione di nullità del matrimonio da cui derivava l’affinità dei genitori. Il divieto veniva, infatti, eluso ogni qualvolta il riconoscimento fosse fatto solo da un genitore, atteso che per l’operatività del divieto stesso era evidentemente necessario che fosse nota l’identità di entrambi i genitori.
La novella ha riscritto l’articolo in commento, rimuovendo una preclusione che trovava la sola giustificazione nella riprovazione sociale che colpisce il rapporto esistente tra i genitori e che, indubbiamente, contrastava con lo spirito della riforma, che, attraverso l’unificazione dello status di figlio, è volta ad evitare che le colpa dell’unione socialmente riprovevole dei genitori ricada sulla prole. Il riconoscimento è oggi subordinato all’autorizzazione del tribunale, che potrà impedirne l’efficacia ove rilevi la mancanza di un interesse per il figlio. La rimozione del divieto rappresenta sicuramente la disposizione che più delle altre ha dato adito a vivaci polemiche e critiche, avendo totalmente stravolto al disciplina previgente. Il riconoscimento, oggi, può essere precluso non in ragione di una condizione giuridica di irriconoscibilità del figlio, ma solo in ragione del pregiudizio che il figlio stesso possa subire.
Ove il figlio nato fuori dal matrimonio non sia stato riconosciuto spontaneamente dai genitori, lo status filiationis può essere accertato a seguito del vittorioso esperimento di un’azione di stato con la quale venga chiesto al giudice la dichiarazione, con sentenza, della paternità o della maternità, cd. azione di reclamo di stato. La dichiarazione giudiziale costituisce elemento integrativo della filiazione, consentendo al figlio di conseguire gli stessi effetti del riconoscimento e trova una specifica disciplina negli artt. 269 e ss. del codice civile. In particolare la disposizione contenuta nell’art. 269 c.c. non pone alcun limite in ordine ai mezzi attraverso i quali può essere dimostrata la paternità e la maternità che, quindi, può essere raggiunta anche con elementi presuntivi.
La norma è stata profondamente modificata dalla riforma del diritto di famiglia del 1975: mentre, infatti, nel sistema previgente l’indagine del giudice doveva essere diretta necessariamente ad accertare le singole ipotesi tassativamente indicate dalle disposizioni codicistiche, oggi, il nuovo testo dell’art. 269 c.c. non pone restrizioni alla ricerca della paternità e neanche limitazioni ai mezzi di prova, salvo la previsione contenuta al co. 4 dello stesso articolo, il quale precisa che la sola dichiarazione della madre e l’esistenza di rapporti tra la stessa e il preteso padre all’epoca del concepimento, non possono costituire prova della paternità. Attualmente non sussiste alcuna differenza nella procedura relativa al riconoscimento giudiziale di paternità rispetto a quello di maternità, salvo la previsione contenuta nel terzo comma dell’art. 269 c.c., la quale si riferisce esclusivamente alla maternità e prevede che essa sia dimostrata provando l’«identità di colui che si pretende essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna la quale si assume essere madre».
Legittimato a chiedere l’accertamento giudiziale della paternità e della maternità è, innanzitutto, il figlio e, per lui, l’azione è imprescrittibile. Si tratta di un’azione personale che, come tale, non si trasferisce, dopo la morte del figlio, ai suoi eredi iure successionis; questi ultimi, difatti, in caso di premorienza del soggetto legittimato a proporre l’azione possono chiedere che venga accertato lo status agendo, però, iure proprio e in forza di una legittimazione autonoma, loro specificamente riconosciuta dal legislatore. In questo caso, tuttavia, l’azione viene sottoposta a un termine prescrizionale di due anni dalla morte del figlio. La sentenza che dichiara la filiazione produce gli stessi effetti del riconoscimento, come l’acquisto del cognome del genitore, l’acquisto dei diritti successori e l’esercizio della potestà.
Art. 74 c.c.; artt. 145-147 c.c.; artt. 231-290 c.c.; artt. 315-315 bis c.c.; l. 27.5.1929, n. 847; l. 19.5.1975, n. 151; l. 17.12.2012 n. 219.
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