MARERI, Filippa
– Figlia primogenita di Filippo dei signori di Mareri, una piccola località nei pressi di Petrella Salto (Rieti), e di sua moglie Imperatrice, nacque a Mareri tra il 1190 e il 1200. La M. ebbe due fratelli – Tommaso e Gentile – e tre sorelle.
Gran parte delle informazioni sulla vita della M. è tratta da un ufficio liturgico in nove lezioni (Officium b. Philippe virginis de Ciculo Ordinis Sancti Francisci, Romae, V. Dorico e L. Dorico, 1545). Il nucleo del testo, secondo la critica più recente, è costituito da una biografia compilata a pochi anni dalla morte della M., probabilmente quale base per la richiesta di apertura di un processo informativo da parte della S. Sede in vista della canonizzazione. La biografia fu forse completata successivamente – sino ai primi decenni del XIV secolo – soprattutto al fine di raccogliere testimonianze sull’attività taumaturgica della Mareri.
Il padre poteva contare su alcuni castelli in posizione strategica tale, tra il Regno di Sicilia e il Patrimonio di S. Pietro, da controllare le vie di comunicazione della zona. La M. ricevette un principio di educazione da parte, probabilmente, dei monaci presso la chiesa di S. Pietro de Molito, a lungo in precedenza dipendente dall’abbazia di S. Pietro in Ferentillo. L’istituzione religiosa era comunque sotto il patronato del padre della M., che l’aveva riportata sotto la giurisdizione del vescovo di Rieti.
La M. imparò a leggere il latino sul Salterio, come era usuale all’epoca, e ricevette anche un’iniziale formazione religiosa sui testi sacri e su alcuni commenti biblici. Venne anche a conoscenza del messaggio di Francesco d’Assisi, non è noto se per averlo incontrato personalmente o attraverso i frati che percorrevano la regione nelle loro campagne di predicazione. Iniziò così un cammino di conversione e, quando giunse il momento del matrimonio, vantaggioso per gli interessi familiari, con uno dei nobili del luogo, la M. rifiutò recisamente e dichiarò di volersi consacrare a Dio. Ottenne in un primo momento il permesso di rinchiudersi in un sito nella torre del castrum di famiglia, dove tentò di condurre una vita di preghiera e meditazione. Poiché non era possibile realizzare il suo desiderio a contatto con la vita rumorosa e affaccendata della dimora familiare, si ritirò con alcune compagne (inizialmente le donne al suo servizio) in una grotta sul monte Mareri, a poca distanza dalla sua casa.
Morto il padre, il fratello Tommaso capì che la vita della M. in una grotta, per quanto resa abitabile e quotidianamente rifornita, non giovava alla reputazione della famiglia. La M. fu dunque convinta a insediarsi presso la chiesetta di S. Pietro e, nel 1228, i fratelli gliela concessero in piena proprietà, rinunciando a ogni diritto anche sulla villa di Casardita, compresi alcuni fertili terreni che avrebbero potuto assicurarle una tranquilla sopravvivenza.
Alcune pergamene riguardanti la storia patrimoniale della fondazione, compresa la più antica, con cui i fratelli della M. le donavano la chiesa di S. Pietro e la villa di Casardita, sono conservate nell’archivio del monastero.
La M. nel frattempo aveva adottato, per la sua piccola comunità, la regola benedettina e le costituzioni ugoliniane, le stesse che, in quegli anni, informavano la vita di Chiara di Assisi e le sue compagne a S. Damiano.
Si tratta delle norme di vita che il cardinale Ugolino di Ostia, il futuro Gregorio IX, aveva emanato per le donne che intendevano condurre una vita di ascesi e povertà allontanandosi dal modello del monachesimo benedettino tradizionale.
Iniziò allora per la M. un periodo fecondo, in cui ebbe modo di mostrare le sue molte e diverse qualità.
Ineguagliabile, secondo il suo biografo, nell’ascesi, la M. si nutriva molto parcamente, affrontava la fatica, il freddo, il dolore con gioioso fervore. Ma non dimenticava per questo di essere una vera madre, secondo il modello della badessa benedettina, per le donne che, sempre più numerose, le si affidavano; anche una delle sorelle e la nipote Imperatrice, la quale dovette affrontare le ire del padre, che cercò di rapirla per distoglierla dal suo proposito, si convertirono alla vita monastica. Alle donne nobili si univa inoltre una parte delle serventi. Come superiora, la M. si mostrò responsabile e umile, sempre pronta a servire e a consigliare, attenta, inoltre, al benessere materiale della comunità e riuscendo, a quel che sembra, a esercitare una certa influenza anche sui signori laici della zona. Non è noto se già sotto il suo abbaziato S. Pietro fosse divenuto un vero monastero, con edifici adibiti alle diverse necessità, o se le costruzioni furono completate negli anni successivi alla sua morte. Nella sua esperienza religiosa poteva godere della guida spirituale dei frati minori, e in primo luogo del suo confessore, fra Ruggero da Todi.
All’inizio degli anni Trenta del Duecento Gregorio IX trascorse più volte periodi nella zona ed evidentemente cercò di rafforzare i suoi legami con la nobiltà locale. Anche in questa luce vanno interpretate le diverse concessioni fatte alla M.: nel 1231 il monastero fu preso sotto la protezione dalla Sede apostolica; nel 1234 fu limitato a 12 il numero delle sorelle che si sarebbe potuto accogliere (per ridurre il pericolo di eccessivo impoverimento della comunità); nel 1236, infine, furono concessi 20 giorni di indulgenza a chi avesse aiutato le compagne della M. nelle loro necessità quotidiane. La M., consumata dall’eccessiva ascesi, morì a Borgo San Pietro di Petrella Salto il 16 febbr. 1236.
Secondo il suo biografo, la M. aveva avuto la certezza della morte imminente tre giorni prima del trapasso, che si descrive accompagnato da una serie di eventi miracolosi (in luoghi diversi, personaggi che le erano stati più o meno legati ricevettero dei signa da cui dedussero che la M. aveva concluso il suo cammino terreno).
Se in vita la M. aveva goduto di fama di taumaturga, molto più numerosi furono i miracoli che le furono attribuiti dopo la morte e che le assicurarono, insieme con il sostegno della famiglia, un culto durato fino a oggi. Per quanto non si abbia traccia di un procedimento avviato da Roma per formalizzarne la santità, è conservata una bolla di Innocenzo IV, datata 27 nov. 1247, con cui il pontefice concedeva 40 giorni di indulgenza a chi avesse visitato la chiesa di S. Pietro in occasione delle festività dei Ss. Pietro e Paolo, dei Ss. Filippo e Giacomo e di «sancta Philippa». Il culto fu riconosciuto da Pio VII nel 1806, per l’Ordine francescano e le diocesi di Rieti e Sulmona.
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