CAVRIANI, Filippo
Nacque a Mantova, da Antonio, nel 1536.
Nobile e ricca famiglia, quella del C., eminente già nel sec. XIII e destinata ad imporsi, nel sec. XVIII, come la più ricca proprietaria fondiaria della città; e, se già nel XII sec. dei Cavriani figurano quali testi di atti notarili, col tempo la loro presenza si diversifica e cresce d'importanza (si va dal "Cabriana piaefectus" valoroso ricordato dal Giovio a Galeazzo vescovo di Mantova dal 1444 e governatore di Roma (1459-60) e ad un altro Galeazzo, al servizio di Gian Francesco Gonzaga), sino ad attestarsi saldamente, nei secc. XVI e XVII, nella burocrazia e diplomazia gonzaghesche, essendo, talvolta, investiti anche di cariche ecclesiastiche (è il caso di Alberto, decano nella cattedrale mantovana e quindi, nel 1590-95, vescovo d'Alba). Di un qualche spicco ancheil "fisico" Antonio (1497-1574), padre del C., e dei suoi fratelli Francesco ed Alessandro, che fu medico del futuro Carlo V nonché del cardinale Ercole Gonzaga, che, nel testamento del 1561, gli lasciò 1.000 scudi; autore d'un trattato, rimasto inedito, De morbis incognitis, godette dell'amicizia e della stima dei celebri colleghi P. Mattioli e M. Donati (d'altronde tra i ritratti di medici illustri raccolti nel Museo Calzolari di Verona figura anche il suo); il Donati ricorda, a proposito dell'atoplessia derivante sa vapore", come, nel novembre del 1556, due uomini, prossimi a morire soffocati pel "fumus" del carbone acceso, grazie alle cure di Antonio, "convaluerunt" (Dehistoria medica mirabili libri sex..., Francofurti ad Moenum 1613, p. 171).
Quanto al C., dimostrò sin da giovinetto una spiccata attitudine per gli studi conclusi colla laurea in medicina; e si sa che, assieme al padre, fece parte del seguito del cardinal Gonzaga al concilio tridentino. Aggregato nel 1562 al Collegio dei medici mantovani, dopo un periodo trascorso a Praga alle dipendenze dell'arcivescovo - lo si deduce da una sua tarda lettera a Giacomo Dani, "supplicum... libellorum magister" alla corte medicea, ove ricorda il loro incontro, occasione d'una prolungata amicizia, avvenuto, appunto, "Pragae, in archiepiscopi aedibus" -, nel 1565 si reca in Francia, da Ludovico Gonzaga duca di Nevers, "padrone" presso il quale in un primo tempo dimora in qualità di medico privato, come appare soprattutto da una sua lettera, del 3 luglio 1568, al duca di Mantova Guglielmo, laddove si dilunga sulle conseguenze d'una ferita al ginocchio non senza un certo sfoggio di competenza professionale ("edema compagnato da materia colerica", il "sangue" dell'infermo è "per natura così sottile che ogni picciolissimo cenno lo tira ad ogni parte del corpo"). Servizio questo prestato al Nevers prolungato - lo accompagna alle acque di Spa, va spesso da lui ("per due volte", ad esempio, nel febbraio del 1586) -, ma, quanto meno dalla fine del 1570, non esclusivo che il C. risulta medico alla corte parigina, divenendovi archiatra più che di Enrico III, come asseriscono in genere i cenni biografici, di sua madre Caterina, da lui ammiratissima (era, infatti, pel C. "gran dama" capace di "governare" e "menare la barca" tra le più furibonde tempeste).
Tant'è vero che il C., in una lettera del 3 marzo 1586, la definisce "mia padrona"; ed è al C. che il sovrano, il 23 dic. 1588 recatosi a trovare la madre, per annunziarle l'eliminazione del Guisa, chiede "come stava". Al che "risposi così il C. in una lettera del 24 dicembre - 'bene' e che aveva preso un poco di medicina". Medico curante di Caterina de' Medici, dunque, quando, il 5 genn. 1589, muore, può darne il giorno dopo la notizia, colla precisione d'un asciutto referto: "passò a miglior vita di un male di costato, il quale era passato a un altro, detto peripneumonia, che tanto importa quanto infiammazione dei polmoni; e amendue le recarono l'apoplessia".
Privilegiato spettatore, grazie alla sua particolare posizione, degli sconvolgimenti provocati dall'"odio fatale tra queste due famiglie di Bourbon e di Lorena", la Francia appare al C., medico e, per di più, convinto dell'applicabilità degli aforismi ippocratei alla patologia della vita politica (diffusi, nella letteratura politica cinquecentesca, l'uso analogico della terminologia medica e il complementare raffronto tra corpo umano e assetto politico), come un organismo afflitto da un'"infermità continua" che raggiunge - sentenzia in una lettera del 14 febbr. 1588 - "il terzo grado dell'etica" e, perciò, "incurabile".
Constatazione diagnostica preceduta da due commentari in latino, uno, rimasto inedito, De bello Gallico nel biennio 1567-68, l'altro De obsidione Rupellae del 1571 pubblicato nella versione francese di L. Devant a La Rochelle nel 1856, ove è evidente, specie nel primo, un tentativo di spiegazione naturalistica del conflitto di cui accantona le motivazioni religiose. Il C. vi scorge soltanto "praedae spes, ... dignitatum et opum", "iniuriarum ulciscendarum cupiditas", "temeritas"; sul terreno propizio dell'"avaritia", che "omnes impellebat" germoglia e mette radici la divisione della Francia in due "factiones". E continua: "harqm alterius Condeus princeps est, alterius cardinalis Lotharingius... Utrique magnarum rerum cupidi, ille religionis velo, hic in regem studio atque officio patriacque pietate, ... astutissime occultant". Esordio storiografico caratterizzato da una certa nettezza di giudizio, ma anche impacciato, nella narrazione, da un latino con pretese di eleganza; lo stesso C. è, d'altronde, consapevole della discrepanza tra "antiquarum militarium vocum usus" e "nova tormentoruni genera".
Ben più interessanti le lettere inviate dal C. da Parigi a Firenze tra il gennaio del 1571 e il novembre del 1572, alla fine d'agosto del 1577, tra il novembre del 1584 e il marzo del 1589 come informatore del granduca di Toscana. Sorta d'agente segreto di questo, deve agire accorto, con cautela: "io non posso scuoprirmi tutto per voi - scrive al segretario Bartolomeo Concini il 19 ott. 1572 - se voglio servirvi bene e lungamente". Ma tale "servitio" - svolto, se non per volontà di Caterina, quanto meno non a sua insaputa (ipotesi legittimata da un altro passo della lettera del 19 ott. 1572 al Concini ove il C., per ovviare alla "poca parte" del granduca "in questa corte s, insiste sulla convenienza di "tener stretta con ogni ufficio" la regina) - suscitò contro il C. le ire d'Enrico III e costituisce il vero motivo del suo breve imprigionamento (cui seguì la consegna, un po' meno breve, "nel suo alloggiamento con guardia di arciere") del settembre 1577 (di per sé giustificato colla pretestuosa accusa di complicità nell'avvelenamento di madame Villequier, moglie del primo gentiluomo di camera del re) e della sua temporanea disgrazia.
"Non è stata provata cosa alcuna di quel che era imputato", scrive il 29 settembre il rappresentante florentino Sinolfo Saracini; "ma il re sè lasciato intendere che non si vuole più servire di lui, né lo vuole più in corte", malgrado la sua manifesta "innocenza". Ciò pel sospetto "portasse alle volte avvisi ad alcuni ambasciatori", avvalorato in seguito dalla precisa accusa di Troilo Orsini - puntualmente trasmessa, l'8 apr. 1579, dal Saracini al granduca Francesco I - "che abbia riferito ai ministri di Vostra Altezza e scritto a lei medesima le cose più reposte che passano di qua".
Di qui "l'impedimento di non essere redintegrato nella prima grazia della corte"; "tempesta della sua fortuna" (così enfatico il Saracini), tutto sommato relativa ché il C., sia pure colla credibilità appannata, continua a frequentare gli ambienti di corte e ad incontrarsi, quanto meno, col Saracini ed Andrea Albertani (già segretario dell'ambasciatore mediceo Giovan Maria Petrucci), passando loro informazioni da essi, poi, regolarmente riferite a Firenze. Sinché, riacquistata, evidentemente, una posizione sicura, a partire dal 13 nov. 1584, il C. riprende a scrivere direttamente dapprima al segretario Belisario Vinta, quindi, dal 31 genn. 1588, al segretario Antonio Serguidi. Né, nella forzata pausa, rimase inattivo, ché s'impegnò nella stesura latina d'una Cosmi Medici, magni Hetruriae ducis vita et res gestae, integrandola, in seguito, con delle Adnotationes di poco conto: "campo larghissimo, pieno di molte cose e molto considerabili", che andavano "ben conosciute e ben dette... con gravità et autorità", scriveva, il 2 sett. 1578, al Vinta Vincenzo Borghini (E. Saltini, Intorno alcune vite di Cosimo I..., in Giorn. storico degli Arch. toscani, VI[1862], p. 55), nel quale, in quel torno di tempo, più d'uno s'era cimentato senza, tuttavia, soddisfare le esigenze medicee.
Letta in parte, antecedentemente, al Saracini e ultimata il 1° marzo 1580 (tale, almeno, la data della premessa in cui il C. ricorda che l'operetta gli venne quasi commissionata da Cepinio Vitelli), la Vita fu inviata a Firenze, senza, peraltro, esservi pubblicata, di contro all'esplicita aspettativa del C., convinto d'aver ultimato "laborem... typis excudendum ne et mea lucubratio et Cosmi virtus in occulto manerent". Sorte, questa della mancata stampa, in fin dei conti meritata non oltrepassando lo scritto i limiti della compilazione scolastica, il tono freddamente compunto d'un panegirico non sentito e viziato, nell'impostazione, dal dichiarato proposito di imitare, stilisticamente, Sallustio nella prima parte, ove narra c vitam et mores" del protagonista, e Cesare nella seconda dedicata alle sue imprese, dal "bellum Parmense" alla vittoria "in Senenses qui tumultum. coeperant". Troppo episodici i passi denotanti un minimo d'indipendenza di giudizio quali quello ove il C. non esita a giudicare Cosimo I "litteris mediocriter imbutus"; troppo rari i momenti in cui la prosa artificiosa si innalza al vigore d'una sentenziosa concisione come nell'osservazione che "impunitatis cupido magnis semper conatibus est adversa".
Il frutto più cospicuo e meritevole d'attenzione del prolungato soggiorno francese del C. resta il nutrito manipolo di lettere informative inviate ai segretari granducali.
Scritte di getto, in fretta, sono vivaci, icastiche: hanno, nell'esporre, una spigliatezza e disinvoltura ignote alle modeste fatiche storiografiche del C. imbrigliate nella raggelante camicia di forza del latino.
Ragguagliano su l'"estrema inopia" di "tutto il regno", i debiti senza "numero" della corona e le contribuzioni straordinarie volte a tamponarli, la situazione a Parigi e le ripercussioni a Orléans, Lione, Rouen e altri centri, la divorante ambizione del duca di Guisa oberato di figli (ha "una moglie che ogni anno gliene fa qualcheduno") e da oltre 400.000 scudi di debito nonché "imbarazzato di parola col re di Spagna "e condizionato dai e predicatori "virulenti che l'appoggiano istiganti il popolo alla "sedizione",le esibizioni stravaganti, accostabili a quelle del "più ardente capuzzino", della lunatica devozione d'Enrico III, i vani sforzi di sua moglie che si sottopone a sfibranti "bagni di stufe et altri rimedii... per ingravidare". Impressionante la testimonianza del C. sulla strage di S. Bartolomeo e i suoi prolungati sussulti a Parigi e altrove (persiste il "populare furore", malgrado "l'editto" regio e "se ne sono ammazzati molti e tuttavia s'ammazzano" non per "zelo... di religione cattolica" e "desiderio di sostentare il regno, ma più tosto" per brama di "vendetta" e "oro") e sulla "maniera della morte" dell'incauto Guisa - "non potevo più tollerare l'insolenza sua" dice Enrico III alla madre - trafitto "a colpi di pugnale nella camera del re". Cupa, soffocata l'atmosfera di corte, tutta avviluppata in sospetti, odi, simulazioni, "insidie", "fraudi" e "l'odio che ha il re contro il Guise e il suo cardinale è immortale... ma dissimula"; "la regina madre vive... dissimulando e tacendo"; "l'odio segreto e il sospetto cresce nell'una e nell'altra parte"; al di là dei mistici fervori e dell'ostentato disinteresse pei "negozi" Enrico III "è segreto, paziente, memore e dissimulato... ed ha certi sotterfugi che sono ammirandi". Acute nelle previsioni - sin dal 9 luglio del 1585 asserisce "che il re di Navarra, vedendosi astretto, come egli sarà, si farà cattolico", le lettere del C. ne evidenziano la visione dura e disincantata ("per legge degli Stati ciascuno ha da fare il fatto suo"), caparbiamente sorda alle genuine prove di fede di parte ugonotta (al più, stupito e indispettito, rileva "la pertinacia di alcuni uomini e donne che, con tutto che si vedessero il coltello alla gola, dal quale, con mutar opinione, si potevano liberare, nondimeno vollero essere martiri del diavolo per perdere l'anima e il corpo, con la loro ostinata ignoranza") e persino compiaciuta quando può assicurare ch'egli non è "troppo stravagante astrologo". "Non c'è alcun ugonotto - dichiara al Vinta nella lettera del 30 ott. 1586 - che non si facesse cattolico per essere re; pensi mo' Vostra Signoria se il re di Navarra vorrà perdere così bella gioia per una sola opinione". Tutto suona per lui verifica della convinzione che, "se cosa alcuna muove gli animi in questo mondo, è il desiderio di avere e di comandare s. Animato da una sincera riverenza per la regalità e di chi legittimamente l'incarna (non per niente "l'ira dei re è sempre da temere in ogni tempo" e la semplice "presenza di un re" terrorizza il "più ardito uomo del mondo") e da un autentico ribrezzo per ogni "licenza di parlare" e tumulto popolare (che, anche se volti contro gli ugonotti, finiranno col colpire anche "i più ricchi" costituenti pel C., assieme ai "nobili" e ai "togati", i "buoni e savii cittadini"; perciò è stato imperdonabile errore del Guisa l'aver ascoltato "gente bassa e uscita dal fango", l'essersi lasciato condizionare al punto da apparire "subornato da certi parigini mecanici e sordidi"), persuaso che, "trattando il popolo a guisa di democrazia e non di monarchia", il "nome" stesso del re si riduce a "vano e immaginario", è logico condanni la lega quale "infame" per la sua azione disgregante. Doppiamente colpevole agli occhi del C.: mina l'autorità regia e, inoltre, pur di conseguire i suoi scopi (i suoi aderenti, "sotto il pretesto della propagazione della fede cattolica", vogliono solo soddisfare i loro "ingordi desideri deprecabili pure i gesuiti, che, "ministri" dell'"impresa", non esitano a fare "l'ufficio del soldato"), ricorre alla "plebe e... popolo minuto" di Parigi che "brava, grida, minaccia" sino al sacrilegio del "vilipendio regio". Donde la tragedia della Francia, lo scollamento, cioè, del tessuto connettivo d'un grande regno ("si divide in pezzi qua e là; la rovina universale cresce, né vi è chi li ponga ordine"), di cui approfitta la Spagna, la quale c fomenta il male ed ha caro di vedere questa guerra intestina... perché, con la discordia civile di Francia, stabilisce la potenza sua di Fiandra". E, se la Francia crolla, "il re di Spagna diverrà così altiero che vorrà inghiottire quanti sono, principi d'Italia e d'altrove". Certo dell'esattezza della sua interpretazione ("il vero è quello che è, perché non ci ho passione"; "non m'inganno, conoscendo io molto bene l'umore delle genti e sapendo di molti particolari che agli altri sono nascosti"), la contrappone, dimentico della sua posizione subordinata, fieramente agli inadeguati giudizi "di voi altri signori d'Italia", come scrive brusco al Vinta il 20 genn. 1587: "iconsigli... che ci avete dato e date tuttavia non sono al proposito per le cose di Francia... Signor mio, la guerra civile e la guerra straniera non si governano d'un modo istesso e però voi altri signori, esenti da questa peste, non potete consigliare secondo il bisogno". Errata anzitutto la politica pontificia accreditante quale "amor di Dio" la e mera ambizione dei "cattolici sediziosi" della lega, "della quale, come ho sempre detto", non v'è "nihil perniciosius"; e, ciò malgrado, "questi signori romani" - che, "poco pratichi dei regni stranieri", velleitariamente, "consigliano e giudicano... le cose altrimenti che e' siano" - "hanno sempre persuaso l'armi e aiutato i loro disegni imprudentemente". Sfasata, ad avviso del C., la stessa politica medicea, troppo subordinata alle pressioni spagnole: "a qualunque dimostrazione d'amicizia che vi faccia Spagna o suoi ministri, non ci credete in modo alcuno, perché tiene ascoso dentro di sé il veleno" consiglia sin da una lettera del 27 nov. 1572. Punto di vista il suo analogo a quello dei "Veniziani" che, scrive il 4 ag. 1585, "non approvano la guerra, prevedendo che le guerre civili di Francia sono la grandezza di Spagna e conseguentemente la diminuzione del loro imperio". Né l'odio viscerale del C. per, "la zizania dell'eresia" e dell'"ugonotteria" scalfisce la virulenza di questa sua avversione per la Spagna e i Guisa: egli sa, e lo ribadisce quasi in ogni lettera, che "non si combatte per la fede né per Cristo, ma solamente per l'imperio". Consapevolezza, lucida e riduttiva ad un tempo, che, assieme alla considerazione sub specie regni dell'"odio fatale tra queste due famiglie di Bourbon e di Lorena" e al favore, sempre più definito, per la soluzione borbonica della crisi, fa della corrispondenza francese del C. una sorta d'incunabolo dell'impostazione colla quale, a conflitto concluso, un Campiglia e un Davila, guarderanno alle "turbolenze" o "guerre civili" di Francia. Terribile dramma, nello sperimentare il quale, scrive il C. il 31 marzo 1587, "siamo stati in termini di provare quanto sia vero quel detto di... Tacito imperium cupientibus nihil medium inter praecipitia et summa". "Se... Tacito tornasse in vita - così il C. in una precedente lettera del 16 febbr. 1586 - e fosse qui, avrebbe materia di scriver una storia non meno ammiranda di quella che egli ha scritto". Se ne può dedurre che la fortuna dello storico latino non è addebitabile solo alla scelta ideologica di chi, idolatrando il potere monarchico anche nelle sue più sinistre espressioni, l'antepone al Livio dei filorepubblicani, ma anche al convincimento che la realtà è descrivibile solo adottando la cupa tinteggiatura e la penetrazione psicologica di Tacito, mentre l'epico fluire del periodo liviano non è certo in grado di riprodurla; sì che da un lato gli eventi sono letti coll'ausifio di Tacito, dall'altro si presentano già in panni tacitiani.
Aggregato al seguito di Matia Cristina di Lorena destinata sposa a Ferdinando I, il C. parte nel marzo del 1589 giungendo con lei a Firenze il 30 aprile. Definitivo il suo abbandono della Francia, poiché in seguito - certo prima della scomparsa, il 21 ott. 1595, del duca di Nevers - sfuma il progetto di tornare presso di lui, "nel cuore del regno", al fine di ricominciare, riallacciati i rapporti colla corte, a "fare capitare le mie lettere" a Firenze. D'altra parte il C., gratificato colla cattedra di medicina teorica a Pisa e colla prestigiosa nomina a membro del Consiglio dei dodici dei cavalieri di S. Stefano cui era stato ascritto ancora il 1° nov. 1570, si mostrò - pur nell'esibita disposizione a "servire", ancora una volta, come agente segreto, pretendendo, a tal fine, non volendo "morire di fame et vivere con dolore", la non lieve somma di 800scudi - tutt'altro che entusiasta di fronte all'ipotesi "di ricever la corona del martirio, che sarà la gloria d'haversi voluto avventurar..., non possendo io fuggire, d'esser preso e morto". Molto meglio, infatti, "il certo" degli "studii dell'incerto et volubile della corte". E venne accontentato ché poté dedicarsi all'insegnamento nello stimolante ateneo pisano ove, come scrive nel luglio del 1594 al Vinta, "trovansi hiiomini... i quali ravvivano gli antiqui greci e leggono i più oscuri e i più giovevoli libri... alla barba degli altri studii, ne' quali si leggono cose così triviali et volgari ch'ogni giovane di mediocre dottrina le può insegnare, onde non mi maraviglio se l'Italia ha così pochi medici eccellenti".
Ambizioso il programma didattico che. con consapevole orgoglio - "sebben nuovo nel leggere, son però veterano nell'arte e da veterapo leggo" -, aveva esposto al Vinta in una precedente lettera del 14 giugno 1593: "ho eletto il più necessario et difficiIe libro che sia in Hippocrate et non mai più letto in publico in Italia che è Coacae praenotiones". Fiducioso nel consenso dei colleghi, certo di quello di Girolamo Mercuriale, ritiene il testo proposto "il sommario di tutta la medicina prattica", zeppo com'è di "cose giovevoli et non usitate negli altri studii". "Omne ignotum pro magnifico habetur" gli insegna, infatti, Tacito che, con Ippocrate, resta il suo autore preferito, l'unico, per lui, in grado di permettere una rigorosa lettura del presente (e, nel contempo, solo conoscendo il presente è possibile comprenderlo: "come Tacito scopre quel che facevano i principi del suo tempo, così le virtù e i vizi dei nostri principi danno la chiave di capire ciò che Tacito dice"). Lo studio della medicina s'affianca e s'intreccia all'attenta meditazione delle sue pagine al punto che, ancora il - 20 marzo 1592, aveva annunciato al cugino Ottaviano la composizione d'un trattato d'anatomia illustrato, d'un commento a Ippocrate e d'un altro commento a Tacito, da dedicare, quest'ultimo, al duca di Mantova. Intenzione mutata in seguito ché il dedicatario dell'opera - per la cui stesura insistettero, oltre all'amico Dani, Iacopo Mazzoni, Francesco Buonamici, Massimo Aquilani e Domenico Mancini - divenne il granduca Ferdinando.
Si tratta dei Discorsi... sopra i primi cinque libri di Cornelio Tacito, nelli quali si trattano molte cose al governo del publico et delle corte appartinenti et, insieme, varii casi seguiti nelle presenti guerre civili di Francia per instruttione della vita humana (Fiorenza 1597 e, di nuovo, 1600; erronea l'indicazione dell'Argelati d'un'edizione del 1595, se non altro perché la dedica è del 16 genn. 1597), ove il C. ha modo di perfezionare e sfogare pienamente quella tendenza a teorizzare e quel gusto per le massime già trapelati nelle sue lettere da Parigi.
Opera addirittura rivoltante pel Ferrari: "la corruzione" controriformistica avrebbe indotto il C. "ad una specie di demenza" quella di poggiare sul fondamento d'un machiavellismo deteriore cinicamente negante "ogni morale... religione... monarchia" proprio il suo messaggio più retrivo espresso nell'esigere "con furore il rispetto della religione, della morale, della monarchia". Ben diverso, e comprensibilmente, il giudizio di due lettori seicenteschi del C., Gabriel Naudé e Nicolas Amelot de La Houssaye: il primo lo colloca, coll'Ammirato e il Malvezzi, tra gli autori che, nella profluvie di commenti allo storico latino, "palmam sibi merito concedi postulant"; più critica, anzi fortemente limitativa l'opinione del secondo che, rilevata la struttura dei Discorsi - suddivisi in cinque parti, quanti i libri degli Annali analizzati, constano d'un'antologia di brani, riportati nell'originale e in versione italiana tratti da quelli, sui quali si accanisce ora parafrasante ora divagante e sempre attualizzante il puntiglioso e diffuso commento del C. -, reputa "la traduction" superiore al "commentaire, qui n'aprofondait presque jamais le sens politique du texte. Il se contente d'aléguer un exemple ou deux, en guize de comparaison et puis c'est fait". Non per questo, tuttavia, le considerazioni del C. sono trascurabili, ricche come sono di notizie di prima mano su Caterina de' Medici, Carlo IX, Enrico III; inoltre "le jugement qu' il fait des ecrits de Tacite est un des meilleurs fragments de son livre". "Te", vale a dire Tacito, "imitando va sciegliendo essempi / ond'alto impero a conservar s'impare "dicono un paio d'anonimi versi seicenteschi apposti a penna, in contropagina, nell'esemplare posseduto dalla Biblioteca del seminario di Padova, riassumendo così l'ambizione precipua dell'opera, monotonamente simile, in questo, a tante altre del tempo. Ravvivata, comunque, da paragoni medici - voluti e motivati da parte del C., a veder del quale è giusto "citare Hippocrate per testimonio di quello che si tratta in materia di governi", dal momento che i suoi aforismi applicati "al reggimento del publico, sarebbono veramente conosciuti ... un fedelissimo itinerario della vita humana" - riscattanti talune espressioni logorate dall'uso (del tipo e come i nervi del corpo sono gli strumenti con i quali si muovon le membra, così i danari sono i nervi della guerra"), è possibile individuarvi sottili osservazioni sui dazi e le gabelle, i monopoli (sconsigliati dal C., a meno non proteggano l'avvio d'una nuova "arte"), la liceità della "fraude" se destinata alla conservazione e al rafforzamento dello Stato da parte del principe e la superiorità di questo rispetto alle "leggi" che "può rompere a voglia sua" o interpretare nella forma più conveniente.
D'un qualche interesse anche l'Orazione ... recitata ... al capitolo generale de l'anno 1599 in Pisa alla presenza di loro Altezze Serenissime (Firenze 1599), non tanto per l'assunto - necessità dell'accoppiata "virtù" e "religione" e nobili e vasti orizzonti aperti ai cavalieri di S. Stefano accorsi da tutta la Toscana per l'"illustre adunanza triennale" dell'Ordine - quanto per la celebrazione del potere monarchico cui il C. s'abbandona: "niuna cosa rende l'huomo più somigliante a Dio del comandare"; "qual terrestre dio" è "il Principe che assolutamente comanda", poiché "la degnità di comandare ha di divinità sembianze". Banale, invece, l'Oratione ... nella partita di Toscana per Francia della christianissima regina Maria de' Medici (uscita nel 1600 a Firenze e a Parigi, nella traduzione francese di G. Chappuys), artefatto cincischiamento avviato da una cascata di domande retoriche via, via placato in una serie di lodi distribuite accortamente su tutti i promotori del matrimonio e piattamente concluso colla richiesta alla sposa partente di favorire i cavalieri di S. Stefano.
Sollecitato, sin dal 1605, dal duca Vincenzo I Gonzaga a dedicarsi completamente alla stesura d'una storia, in latino, della sua casa, il C., afflitto da "una crudele sciatica", dapprima tergiversa, quindi accetta ponendo precise condizioni, in una lettera del 1°sett. 1606, al ministro mantovano Annibale Chieppio, cui già, il 13 agosto, aveva manifestato l'esigenza di non trasferirsi a Mantova, "terra di corte, di spese et di varietà", assieme alla richiesta d'un compenso mensile di 50 ducati.
Voleva altresì l'aiuto costante di "due homini letterati" uno per le ricerche l'altro per scrivere sotto dettatura e la garanzia d'una qualifica precisa che eliminasse il rischio di essere "strapazzato dalli favori". "Amando io - afferma con una certa fermezza e dignità - la mia libertà et la mia quiete più di tutte le cose del mondo" e dovendo abbandonare un'attività grata come l'insegnamento e gli studi ippocratei, è lecito non accontentarsi di assicurazioni generiche: occorrono concreti impegni e bene specificati poiché "mi spoglio delle cose certe che io godo per abbracciar quest'altra che dipende dal volere d'un prencipe che può mutar volontà affetto verso di me, essere informato sinistramente delle mie attioni et parole et, in somma, morire come ogni altro". Vincenzo I pare disposto ad accordarglieli e nel contempo, l'8 settembre, scrive al granduca Ferdinando per ottenere, pel C., l'esonero dalle incombenze didattiche: "per debito di gratitudine verso li progenitori miei io tengo volontà di far raccogliere ... le historie di questa casa Gonzaga et, fra molti che mi sono passati per il pensiero reputati atti a que, sta fatica, ho fatta electione del ... Cavriani".
Ma questi non poté nemmeno iniziare "l'impresa" che cadde ammalato e morì nel novembre del 1606, a Pisa, ove ebbe sepoltura nella chiesa di S. Martino, nella cappella di S. Maddalena da lui dotata; e sarà un altro medico, Antonio Possevino, ad assumersi il compito di rievocare i fasti gonzagheschi.
Fonti e Bibl.: Notizie sul C. e sulla famiglia in Arch. di Stato di Mantova, Docum. patrii d'Arco, 216: C. d'Arco, Delle famiglie mantovane, III, pp. 153-184; Ibid., ibid., 225: C. d'Arco, Notizie delle accademie ... giornali ... tipografie ... in Mantova e di ... mille scrittori mantovani..., III, pp. 47-51; Ibid., Schede Davari, busta 7, nn. 843, 844, 845 (trascrizione di tre lettere del C. al duca di Mantova del 3 luglio e 24 luglio 1568 e del 15 luglio 1571); Ibid., ibid., nn. 361, 362 (annotazioni riguardanti il C.); Ibid., Serie autografi, busta 10 (una lettera al C., del 1° dic. 1589, del medico Marcello Donati); Venezia, Biblioteca nazionale Muciana, Mss. Lat., cl.X,165 (= 3249): F. Cavriani, Comment. de Bello Gallico; una lettera al C. e tre a suo padre in G. Pallavicino da Varrano, Delle lettere... libri tre..., Venetia 1566, ff. 76v-77r, 83r-85v; le lettere del C. alla corte medicea dalla Francia e cenni su di lui in Négociations diplom. de la France avec la Toscane, a cura di G. Canestrini - A. Desiardins, III, Paris 1865, pp. 641-646, 662, 795-798, 812-822, 846-852, 862-863, 928; IV, ibid. 1872, pp. 101, 123 n. 1, 130-132, 136, 159, 241, 443,602-807; una lettera del C. del 6 apr. 1568 al duca di Mantova in Due lettere... che riguardano Lodovico Gonzaga Nevers, a cura di W. B[raghirolli], Mantova 1864, pp. 15 s.; G. Valentinelli, Bibliotheca manuscripta ad S. Marci Venetiarum..., VI, Venetiis 1873, pp. 290 s.; Bibl. Nationale (Paris), Catalogue des manuscrits français..., II,Paris 1874, nn. 3364/103, 3374/1-42; III, ibid. 1881, nn. 3974/38, 40, 45-47, 49 s., 59, 76, 80; Id., Catalogue de la collection Dupuy, a cura di L. Dorez, II, Paris 1899, n. 675; Les sources de l'hist. de France..., s. 2, a cura di H. Hauser, III, Les guerres de religion..., Paris 1912, p. 257; L'Archivio di Stato di Mantova, II, a cura di A. Luzio, Verona 1922, pp. 13 s.; Catalogue genéral… de la Bibliothèque Nationale, XXV, Paris 1925, coll. 311 s.; British Museum, General catalogue…, IV, London-Beccles 1941, coll. 402 s.; A Catalog of books... by Library of Congress..., XXVI, Paterson 1963, p. 372; The National Union Catalogue Pre-1956..., C,London-Chicago 1970, p. 475; N. Amelot de La Houssaye, Discours critique, in La morale de Tacite, Paris 1686, pp. non numerate; G. Naudo, Bibliographia politica..., Halae-Magd. 1712, pp. 111, 273; S. Salvini, Fasti consolari dell'Accademia fiorentina…,Firenze 1717, pp. 337 s.; L. Araldi, L'Italia nobile…, Venezia 1722, p. 74; G. Cinelli Calvoli, Biblioteca volante..., II,Venezia 1735, p. 120; G.V. Marchesi, Lagaleria dell'onore ove sono descritte le... memorie del... Ordine... di S. Stefano..., II,Forlì 1735, pp. 8 s.; G.Fontanini, Biblioteca dell'eloquenza italiana... con le annotazioni di A. Zeno, II,Venezia 1753, p. 297; G. M. Paitoni, Biblioteca degli autori antichi... volgarizzati..., IV,Venezia 1767, p. 95; F. Argelati, Biblioteca di volgarizzatori…, IV, Milano 1767, pp. 16-18; N. F. Haym, Biblioteca italiana..., Milano 1771-1773, pp. 32 n. 9, 426 nn. 13, 14; A. Fabroni, Academiae Pisanae historia, II, Pisis1792, pp. 310-315; D.Moreni, Bibl. ... della Toscana..., I. Firenze 1805, p. 238; B. Gamba, Serie dei testi di lingua…, Venezia 1839, n. 1309; G. Zucchetti, Geneal. Cavriani..., Milano1856, pp. 8 s.; F. Cavalli, La scienza polit. in Italia, II, Venezia 1865, pp. 74-76; A. Baschet, Les comédiens italiens à la Cour de France…, Paris 1882, pp. 67 s.; U. Gobbi, La concorrenza estera e gli antichi economisti italiani, Milano 1884, p. 39; Id., L'economia politica negli scrittori italiani del secolo XVI-XVII, Milano1899, pp. 128 s., 140; H. Hauser, François de la Noue…, Paris1892, p. 38; G.Salvioli, I politici ital. della Controriforma, in Arch. di diritto pubblico, II(1892), p. 94; I. Raulich, Storia di Carlo Emanuele I…, I, Milano 1896, pp. 298, 315 s., 321, 385 s.; F. Ramorino, Cornelio Tacito nella storia della coltura, Milano1898, pp. 48 s.; S. Fusai, Belisario Vinta…, Firenze 1905, p. 55 n.2; G. Toffanin, Machiavelli e il "tacitismo"..., Padova1921, pp. 145 s., 154 s., 160, 214, 236 (errato il nome Francesco attribuito al C. nell'Indice e a p. 146); G. Ferrari, Corso su gli scrittori politici ital., Milano 1929, p. 343; B. Croce, Storia dell'età barocca in Italia, Bari 1929, p. 83; G. Spini, Cosimo I de' Medici..., Firenze 1945, p. 36; F. Cazzamini Mussi, Milano durante la dominaz. spagnola.., Milano 1947, p. 738; T. Bozza, Scrittori polit. italiani..., Roma 1949, pp. 86-88; R. De Mattei, Il problema della "Ragion di Stato" nel Seicento, in Riv. int. di filos. del diritto, XXXV(1958), p. 686; XXXVII (1960), pp. 557-558; Id., Il pensiero polit. di Scipione Ammirato, Milano1963, pp. 23 n. 1,157 n., 173 n. 51, 230, 241 n.; J. v.Stackelberg, Zur Bedeutungsgesch. des Wortes "Aphorismus" in Zeitschrift für roman. Philologie, LXXV (1959), pp. 325-327; Id., Tacitus in der Romania..., Tübingen 1960, pp. 83 s., 90, 146, 191, 201, 259; Mantova. Le lettere, I, Mantova1959, p. 220; II, ibid. 1962, p. 463; Mantova. La storia, II, ibid. 1961, p. 482 (pel padre del C.); III, ibid.1963, p. 66; G. Ricca Salerno, Storia delle dottrine finanz. in Italia, a cura di S. Guccione, Padova1960, p. 109; F. Winspeare, Isabella Orsini e la corte medicea..., Firenze 1961, pp. 173, 175; N. Sutherland, The french segretaries of state in the age of Catherine..., London 1962, p. 316; E. L. Etter, Tacitus in der Geistesgesch. des 16. und 17. Jahrhunderts, Basel-Stuttgart1966, pp. 19 n. 49, 24 n., 80 s., 90 s.; L. Malajoli, Seicento ital. e modernità, Firenze 1970, p. 165; M. Vaini, La distrib. della proprietà terriera e la società mantovana dal 1785 al 1845, I, Milano 1973, p. 181; Diz. critico della lett. ital., a cura di V. Branca, I, Torino1973, p. 365; G. Benzoni, Gli affanni della cultura..., Milano 1978, pp. 34, 112 s., 115 s., 117; R. J. Seoly, The Palace Acad. of Henry III, in Bibl. d'human. et renaiss., XL(1978), pp. 71 s., 82; P. O. Kristeller, IterItalicum, I-II, ad Indices. Sulla famiglia del C. e alcuni suoi membri: P. Giovio, Vitae illustrium virorum..., Basilea 1578, pp. 185 s.; Docc. che si riferiscono alle cose successe in Italia dall'anno 1500 al 1529, in Arch. stor. ital., II(1845), pp. 238-240; Le relaz. degli amb. ven. al Senato, a cura di E. Alberi, s. 1, III, Firenze 1853, p. 317; Lettere... di Alberto... ed Emilio Cavriani 1568-1579, a cura di W. B[raghirolli], Mantova 1866; Relazioni degli amb. ven. ..., a cura di A. Segarizzi, I, Bari 1912, p. 215; L'Arch. Gonzaga di Mantova, I, a cura di P. Torelli, Ostiglia 1920, p. 31 n. 78; F. Amadei, Cronaca... di Mantova, a cura di G.Amedei-E. Mariani-G. Pratico, II, Mantova 1955, p. 788; III, ibid.1956 pp. 13, 237, 484 s., 516; Relations des ambassadeurs vénitiens, a cura di F. Gaeta, Paris1969, p. 184; J. Donesmondi, Cronologia... di Mantova, Mantova 1615, p. 11; A. Possevino iunior, Gonzaga, Mantuae 1628, pp. 312-313, 357, 383, 452, 475, 506, 626; A. Bertolotti, Artisti in relazione coi Gonzaga…, Modena 1885, pp. 174-178, 185 s.; L. v. Pastor, Storia dei papi..., II, Roma 1911, pp. 22, 37 n.; R. Quazza, Emanuele Filiberto... e Guglielmo, Gonzaga…, in Atti e mem. della R. Acc. Virg. di Mantova, n.s., XXI (1929), pp. 14-223 passim; P. Torelli, Un comune cittadino..., Mantova 1952, pp. 93, 179; C. Eubel, Hierarchia catholica…, II, Monasterii 1901, p. 204; III, ibid. 1910, p. 113; V. Spreti, Enciclopedia stor. nob. …, II, p. 405; App., I. pp. 571 s.