CRISPOLTI, Filippo
Nacque a Rieti il 25 apr. 1857 dal marchese Tommaso (1830-1911) - influente personalità del movimento cattolico bolognese e romagnolo dal 1888, tra l'altro presidente del consiglio d'amministrazione de L'Avvenire d'Italia dal 1902 alla morte, dopo avere tenuto la direzione del quotidiano cattolico per alcuni mesi, nel 1901 - e dalla contessa bolognese Giovanna Bentivoglio. Conseguita la licenza ginnasiale a Spoleto e quella liceale a Perugia (1874), studiò giurisprudenza nelle università di Modena e di Roma - ove ebbe tra gli altri come professore Ruggero Bonghi - laureandosi nel 1878. Esercitò per alcuni anni la professione forense, che abbandonò, per dedicarsi al giornalismo con l'aiuto dello zio Cesare, direttore de L'Osservatore romano, nel 1883. Iniziò la carriera a Torino, nella redazione dell'Emporio popolare - poi, col cambio di testata, Corriere nazionale - fondato dal gesuita p. Enrico Vasco dopo aver collaborato alla Rivista romana di scienze e lettere e al Journal de Rome. Durante i tre anni di permanenza a Torino divenne redattore capo del periodico.
Nel 1887 rientrò a Roma, chiamato alla redazione de L'Osservatore romano, ove rimase fino al 1895. Per cinque anni, dal 1890, ne fu redattore capo. In seguito, continuò a collaborarvi. Il ritorno nella capitale diede al C. l'opportunità di riprendere, con maggiore intensità, il proprio impegno nell'azione cattolica: socio del Circolo di S. Pietro, presiedette nel 1892, per alcuni mesi, l'Unione romana per le elezioni amministrative e, nel 1894, il Circolo romano di studi sociali S. Sebastiano, del quale era stato fin dal 1880 uno dei promotori.
Profondamente inserito nel mondo cattolico romano ed estremamente attento alle linee di sviluppo della politica di Leone XII, collaborò al mensile La Rassegna italiana (1881-1887), espressione dei conservatori nazionali, che sostenne "l'intervento attivo dei cattolici nella società civile e politica nazionale" (Malgeri), mostrando tuttavia la propria autonomia di giudizio, con quella affabilità verbale, che caratterizzò lo stile e determinò il successo delle sue proposte e delle sue prese di posizione. Tale autonomia fu soprattutto abilità di riuscire a contemperare, mediandole, le varie spinte presenti nel mondo cattolico, per tendere senza dubbio ad affermare una sempre più accentuata presenza cattolica in Italia, ma nei modi consentiti e secondo le opportunità e le cautele stabilite di tempo in tempo dagli indirizzi pontifici.
La professione giornalistica - insieme con l'estrazione sociale - consentì, inoltre, al C. di inserirsi negli ambienti nobiliari e liberal-conservatori della capitale, dove ebbe la possibilità di allacciare più ampi rapporti e di ricevere crescenti attestazioni di stima, specie per la sua cultura, ma anche per l'attenzione da lui posta ai problemi politici concreti. Questi atteggiamenti vennero, tuttavia, aspramente criticati dagli intransigenti "prima maniera" de Il Diritto di Roma, i quali, nel 1892, ritennero che il C., anziché essere "sincero e schietto cattolico", quale "membro di una Associazione avversaria [l'associazione della stampa] ove regna l'ateismo e la massoneria, non può lealmente dichiararsi difensore della nostra causa" (Malgeri).
Ma, nonostante queste censure, il C. stava assumendo nel movimento cattolico intransigente una posizione di rilievo, imponendosi all'attenzione soprattutto con la pubblicazione de Il laicato cattolico italiano (Roma 1890).
Nel volume aveva sostenuto che dalla condizione fatta alla Chiesa dopo la "rivoluzione" erano derivate nuove e impegnative responsabilità ai laici cattolici, sul terreno civile. E aveva distinto i cattolici in tre categorie: i "conservatori", che erano "disposti a venire a patti col liberalismo" (facendo rientrare qui anche i cattolici liberali) i "codini", che aspiravano ad una restaurazione legittimista infine, i "clericali", cioè i "cattolici completi", che, avendo di mira la difesa degli interessi del Papato, avevano dato vita all'Opera dei congressi e, con essa, dato sostanza e prospettiva all'iniziativa cattolica in ogni espressione della vita sociale.
Il C., naturalmente, si collocava tra questi ultimi da un lato, emarginando come superati, gli altri dall'altro, ponendosi in una posizione anticipatrice di ulteriori sviluppi dal punto di vista sociale e politico, senza escluderne alcuno, che non fosse esplicitamente proibito. In questo modo, il C. lavorava per costruire, ad un livello più avanzato e composito, una nuova sintesi del movimento cattolico, recependo tutte le esperienze utili allo scopo.
Dopo la sua elezione a consigliere comunale di Roma, nel 1893 - rieletto nel 1895, rimase in Consiglio fino al 1899 - a conferma della piena maturità professionale raggiunta e dell'udienza delle sue opinioni nel mondo cattolico e, più ampiamente, nell'opinione pubblica liberale, nonostante che i suoi principi in quel momento fossero ritenuti "poco sicuramente ortodossi", il C., grazie soprattutto all'appoggio del card. Svampa, che lo conosceva bene, e, ovviamente, del padre, venne chiamato, nel 1896, a dirigere il nuovo quotidiano cattolico delle Romagne, L'Avvenire.
La sua fu una direzione di prestigio, più nominale che concreta, ma valse - forse proprio per questo - a dare respiro e consistenza alla linea del giornale, che corrispose pienamente alle esigenze di rinnovamento della direzione dell'Opera dei congressi espresse da G. Grosoli e da G. Acquaderni, e alle necessità di progressivo allargamento della sua base, al fine di dare concreti e solidi contenuti programmatici e di rilievo nazionale alle prospettive dell'intransigentismo. Insomma, negli anni della sua direzione, durata fino al 1901, il C. interpretò, conferendo loro dignità culturale e vasta risonanza, le direttive del Grosoli, riconoscendogli la leadership e appoggiandolo su un piano di reciproca parità e amicizia.
In particolare, la posizione assunta dal C. il 14 marzo 1897, con una conferenza su Gli effetti dell'astensione politica dei cattolici, ebbe vasta risonanza e contribuì a definire la nuova linea dell'intransigentismo. Con notevole abilità, si preoccupò di eliminare i dubbi sulla sua persona, mutando collocazione. Tuttavia, non abbandonò le motivazioni di principio e non mancò di prospettare quelle aperture, che avrebbero consentito, in circostanze opportune, di affermare pienamente l'impegno politico dei cattolici. La parola d'ordine del C. fu: "astenetevi perché è provvido, non perché è comandato". Introducendo i contenuti del patriottismo cattolico - in opposizione al patriottismo liberale "di superficie", questo, "di profondità", quello - "che va a rintracciare con amore in ogni più antico passato i segni del genio e della vocazione italica, come apparve nell'unione provvidenziale tra il Papato e l'Italia e fiorì nella pietà, nelle armi, nell'economia, nelle arti", il C. indicò anche il senso e la direzione dell'unità dei cattolici, che avevano potuto avanzare proprio in forza dell'astensione, dell'essere rimasti "regionalisti nello spirito", e, in questo modo, avevano potuto "farsi vivamente sentire". Perciò, la astensione - osservò - non avrebbe avuto più ragion d'essere solo quando avesse portato i suoi frutti, cioè avesse portato alla formazione di un forte partito cattolico. Dall'analisi sul passato, il C. dedusse poi le ragioni dell'astensione presente: da un lato, la debolezza del movimento cattolico nel Meridione dall'altro, la precoce decadenza del Parlamento. Se i cattolici fossero andati alle urne - aggiunse - avrebbero loro malgrado, non amando il Parlamento, dovuto dargli forza, rivivificarlo e cedere alle richieste di rafforzare il governo dopo tanti anni di mani nette. Quindi - concluse - in questa fase né eletti né elettori, per essere domani eletti ed elettori. Le osservazioni del C., strettamente connesse alla particolare congiuntura elettorale, ma ribadite anche in altre occasioni, e meramente tattiche in relazione allo sviluppo del movimento cattolico, mettono in luce, tuttavia, alcune delle linee portanti della sua analisi, che saranno mantenute ferme nella sostanza col mutare delle stagioni, soltanto adeguandosi, per meglio aderirvi, alle nuove e diverse situazioni politico-sociali. La natura del patriottismo cattolico - proposta con efficace sintesi - fondava l'unità sociale e, in prospettiva, politica dei cattolici italiani e dipendeva non dall'autonomia delle proposte e dei programmi, ma dalla tradizione, che indicava nel Papato il centro di aggregazione delle peculiarità regionali, da assumersi in positivo. Di qui, la constatazione che il centro del potere non risiedeva essenzialmente nel Parlamento, incapace di essere sintesi degli ideali e degli interessi della nazione, ma nel governo, più consono a garantire al paese uno sviluppo ordinato, implicante il mantenimento dei ruoli propri di ogni ceto sociale. Poiché le idealità liberali avevano fallito la prova, le classi dirigenti responsabili e gli istituti da queste promossi dovevano essere sostituiti. E la sostituzione, sul terreno delle scelte politico-sociali cattoliche, non escludeva, anzi includeva, la sintesi delle alternative possibili: da quelle più avanzate, tendenti a spingere fino alle ultime conseguenze la divaricazione tra Parlamento e paese a quelle, sostanzialmente conservatrici, fondate sul recupero di una quota consistente della classe dirigente nell'alveo della tradizione. Infine, per interpretare e realizzare le aspirazioni di tutte le componenti cattoliche, si rendeva necessaria, nei tempi e nei modi opportuni, la trasformazione dell'Opera dei congressi in un partito, capace di essere espressione e strumento della vera tradizione del paese.
Non è senza significato, in questo contesto, che finiva per collimare con gli auspici della S. Sede, né il fatto che le opinioni del C. fossero recepite, proprio nel 1897, da La Nuova Antologia, né la polemica con don Murri sull'americanismo", del 1899.
In tale anno la personalità del C. ebbe la consacrazione definitiva con la presidenza del congresso cattolico di Ferrara. In quella circostanza, sintetizzandone i contenuti nello slogan "la seduta continua", riuscì a portare in porto un congresso difficile, che costituì, dopo la crisi del '98, segno probante della ripresa cattolica coll'indicare, in qualche modo, la direzione del movimento in una situazione profondamente mutata, senza dar luogo a sospetti e, specialmente mediando tra gli "antichi" e i "moderni". Partecipò, infatti, in una posizione di primo piano all'ultima fase dell'Opera dei congressi, quella grosoliana, mentre continuò a lavorare nel giornalismo cattolico, collaborando dal 1901 a vari quotidiani e periodici, quali IlCittadino di Genova, più tardi Il Momento di Torino e Il Corriere d'Italia di Roma, Pro Familia, L'Ateneo, La Nuova Antologia, anche con vari pseudonimi (Romanus, Fran, Fuscolino, Sabinus per ricordare i più noti). Durante la presidenza Grosoli guidò il quinto gruppo (arte cristiana) dell'Opera dei congressi.
Da un decennio l'attività del C. stava esplicandosi in vari campi ed era conosciuta anche all'estero. Aveva, infatti, preso parte, nel 1891, quale delegato italiano, alle conferenze internazionali di Bruxelles sull'antischiavismo era vicepresidente della lega internazionale contro il duello aveva tenuto conferenze a Parigi. Dopo il congresso di Bologna (1903), durante il quale, con la consueta abilità, cercò di smorzare e di mediare i contrasti dopo le polemiche seguite all'ordine del giorno Cerutti e il conseguente scioglimento dell'Opera dei congressi, prendendone atto, tentò di avviare, nell'estate del 1904, insieme con F. Meda, G. Micheli e altri, un'iniziativa a carattere nazionale - "nata male e morta peggio" -, l'Unione nazionale fra gli elettori cattolici amministrativi italiani, riprendendo gran parte delle proposte avanzate da L. Sturzo. Ben presto, però, riservando a tempi migliori iniziative che avrebbero potuto sembrare polemiche e, comunque, non erano gradite, si adeguò alle direttive della S. Sede, favorendo la costituzione dell'Unione popolare.
Trasferito in quegli anni il centro prevalente della propria presenza a Torino - il C. aveva la residenza a Demonte (Cuneo) - fu dal 1906 il leader del gruppo clericale in Consiglio comunale. Nel 1909 rinunciò a candidarsi "avendo i suoi stessi amici compreso che sarebbe stato inopportuno di ripresentare la sua candidatura" "per una frase antipatriottica pronunciata in consiglio a proposito dei festeggiamenti del cinquantenario della proclamazione del Regno" (Spadolini, 1974). Continuò, comunque, ad avere notevole peso, come assiduo collaboratore de Il Momento, di cui fu dal 1912 consigliere delegato come membro del comitato generale dell'università popolare come conferenziere, specie sui temi della moralità pubblica e della scuola come esponente e, dal 1912, presidente dell'Unione elettorale cattolica come membro del circolo del "Tüpinet", luogo di ritrovo della "cosiddetta aristocrazia nera", che aveva "nelle mani gli strumenti finanziari del movimento" cattolico (Salvadori).
Non cessò, naturalmente, la sua presenza in campo nazionale. Anzi, fu via via più cospicua e rappresentativa. Come aveva fatto per i congressi dell'Opera, diede il suo contributo alle Settimane sociali, di preferenza con conferenze su temi culturali e artistici, congeniali, tra l'altro, alla sua carica di presidente della Società amici dell'arte cristiana. Fu, soprattutto, presidente dei due congressi nazionali che riunirono, in quel periodo successivo alla crisi dell'Opera fino alla guerra mondiale, i cattolici organizzati: quello di Genova, nel 1908, sulla scuola, che ebbe un accentuato carattere politico e quello di Modena, nel 1910. A Modena ebbe un ruolo decisivo venne addirittura indicato come "il messo pontificio ed egli stesso affermò di essere "il cancelliere del congresso". L'opera del C. ebbe, del resto, "la incondizionata approvazione della Santa Sede", per le osservazioni fatte nel discorso conclusivo, in cui ricordò che "il vero carattere distintivo dei cattolici italiani sarà il riconoscimento delle altissime ragioni della Santa Sede alla propria indipendenza".
Dopo essere stato eletto, nel 1912, membro del consiglio direttivo della Unione elettorale, con l'avvento al pontificato di Benedetto XV, che gli conferì la commenda di S. Gregorio Magno, entrò anche nel consiglio direttivo dell'Unione popolare e in quello della Società per la diffusione della buona stampa. Non mancò di rimanere solidamente legato alle iniziative del Grosoli. Tra i fondatori e consigliere della Società editrice romana, il C. operò per affermare la linea dei giornali del trust, che nel 1912 vennero riconosciuti non "conformi alle direttive pontificie", e per superare i difficili rapporti con i periodici cattolici strettamente ossequienti alle disposizioni della Santa Sede. Alla vicenda del trust della stampa cattolica il C. prese parte fino alla sua conclusione. Dopo la liquidazione della Società editrice romana, nel 1916 venne eletto presidente dell'Unione editoriale italiana, la società anonima che la sostituì, mantenendo la carica sino alla fine del 1917, quando anche questa venne messa in liquidazione.
Ripresa la parte di modesto scrittore, che dovette trascurare alquanto negli ultimi tempi", assunse dopo la guerra, nell'ottobre 1919, la direzione de Il Cittadino, mantenendola sino al 1924, ma dal giugno 1923, per la sua posizione politica, affiancato da Alfredo Rota. Dal 1927 al 1930 diresse Il Momento.
Il C. contribuì alla fondazione e al consolidamento del Partito popolare italiano, sostenendo inizialmente la direzione del partito. Durante il congresso di Bologna (1919), in due interventi, ebbe modo, tuttavia, di chiarire come intendesse la linea e la centralità del partito e la sua collocazione rispetto al mondo cattolico.
Nel primo caso, parò "con grande abilità", per incarico della direzione del partito, la "mossa" da destra di Reggio d'Aci, il quale, riecheggiando "preoccupazioni vicine alla Civiltà Cattolica", aveva proposto, "con apposito ordine del giorno", che il Partito popolare "impostasse nel Paese il dibattito intorno alla posizione intollerabile fatta alla Santa Sede". Il C., scelto perché "non poteva essere sospettato di minore devozione verso la S. Sede", dichiarò "la precisa volontà del partito a non voler coinvolgere nella propria azione la responsabilità nettamente distinta dell'autorità ecclesiastica".
Nel secondo caso, prese la parola nella discussione sulla tattica elettorale (relazione Cavazzoni), non a caso immediatamente dopo l'intervento di Guido Miglioli, sostenendo la tendenza media. Ribadita la posizione di principio del partito "contro qualunque forma di liberalismo" cioè la sua tradizione intransigente, si preoccupò di chiarire che si doveva "evitare il linguaggio dei socialisti", con i quali "non abbiamo comuni ... le finalità". Contrapponendosi all'errata "illusione dell'on. Miglioli, che il liberalismo sia finito", sottolineò, con ciò recuperando l'esperienza clerico-moderata, il "glorioso patrimonio da mantenere", che escludeva l'opportunità "di prendere atteggiamenti per i quali non sia possibile differenziarsi dal socialismo". Concluse con una significativa osservazione sulla natura e sulla funzione del partito popolare: "la coscienza che noi abbiamo della nostra dignità cristiana dia alla direzione un senso distinto di condotta e di sistemi. Partito popolare italiano e non partito popolare cristiano: se il nostro partito deve restringersi al proletariato cristiano nessuno di noi qui, oggi, avrebbe il diritto di parlare. Il partito popolare italiano è il partito di tutte le classi cristiane, le quali vogliono arrivare alla loro meta senza cadere negli errori del liberalismo da una parte e del socialismo dall'altra".
In questo modo, il C. non scelse il terreno dell'autonomia rispetto agli obiettivi di riforma e di modernizzazione della società italiana. Solo interessato a tutelare, comunque, gli interessi immediati della Chiesa, secondo le possibilità e le convenienze del momento. Finì per attribuire alla nuova struttura politica una funzione meramente transitoria e strumentale, anticipando, tra l'altro, posizioni e atteggiamenti che avrebbe assunto in seguito. Il prestigio e la notorietà da lui raggiunti, non solo in campo cattolico, ricevettero una conferma nelle elezioni del 19 nov. 1919. Candidato in due dei quattro collegi piemontesi, riuscì primo degli eletti a Torino con una notevole affermazione personale e primo dei non eletti a Cuneo. Alla Camera, il C. sedette per una sola legislatura: non ripresentatosi candidato nelle elezioni politiche del maggio 1921, il 16 ott. 1922 venne nominato senatore.
Nel 1923, dopo il congresso di Torino, l'uscita dei popolari dal governo Mussolini, l'attacco del Corriere d'Italia a don Sturzo e le successive dimissioni del sacerdote siciliano da segretario del partito, l'approvazione della legge Acerbo, grazie alla divisione del gruppo parlamentare popolare, e l'espulsione, tra gli altri, di Paolo Mattei Gentili, insieme con la "radiazione" del Corriere d'Italia dagli organi di stampa aderenti al partito popolare, seguì gli amici della tendenza cattolico-nazionale, dimettendosi, alla fine di luglio, dal partito con Grosoli, Santucci e altri senatori. L'uscita del C. e degli altri contribuì a chiarire che il partito popolare era dalla S. Sede "considerato come un ostacolo alla tutela degl'interessi cattolici". Senza dubbio il C. aveva fiutato, intuito, precorso i desideri, anticipato la loro realizzazione (Jemolo), ma rappresentava anche interessi diversi da quelli della Chiesa, garantiti invece dal fascismo. E al fascismo da quel momento rese segnalati servizi: a cominciare dalla redazione del manifesto che centocinquanta "personalità cattoliche" sottoscrissero in vista delle elezioni del 6 apr. 1924 per appoggiare la lista nazionale. Tuttavia, anche negli anni successivi, rispondendo alle polemiche e, più, redigendo numerosi articoli per sostenere la necessità e la possibilità della conciliazione, il C. riconfermò sostanzialmente la scelta fatta. Membro del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione nel 1923-1924, prese parte attiva ai lavori del Senato. Nella XXVI legislatura (11 giugno 1921-10 dic. 1923) fece parte, dall'8 febbr. 1923, dell'ufficio quinto e, dal 23 maggio 1923, dell'ufficio settimo venne, inoltre, nominato membro della commissione per l'esame della legge sull'istituzione di una Cassa di maternità. Nella XXVIII legislatura (29 apr. 1929-19 genn. 1934) fece parte della commissione speciale per l'esame dei patti lateranensi, presentando l'ordine del giorno di approvazione, e, dal 7 dic. 1932, della commissione consultiva "per la determinazione degli enti che possono proporre candidati alle elezioni politiche". Nella XXX legislatura (23 marzo 1939-5 ag. 1943) fu, fino al 20 genn. 1940, membro supplente della commissione d'accusa e, dal 17 apr. 1939, membro della commissione dell'educazione nazionale e della cultura popolare come tale, relatore del disegno di legge su "Modificazioni alla costituzione delle commissioni di revisione cinematografica" (5 maggio 1939) e oratore del disegno di legge su ("Modifiche alla disciplina dei premi letterari" (16 maggio 1940).
Numerosi e spesso incentrati su rilevanti temi politici i suoi interventi. Essi documentano le contraddizioni e le ambiguità del C., critico talora del fascismo, ma costantemente in linea nel sostenere le ragioni del regime. Si possono ricordare l'intervento dell'8 giugno 1923, sul disegno di legge per l'esercizio provvisorio, in cui colse l'occasione per dire che la sua collaborazione col governo doveva intendersi come "un dovere della propria coscienza", poiché il governo garantiva il ritorno "al sentimento della tradizione, anche spirituale, italiana, dopo molti e molti anni in cui il concetto di patria, anche da coloro che più ardentemente lo professavano era stato molto ristretto" quello del 13 novembre successivo, per sostenere la legge Acerbo, al fine "di aiutare il Governo nella sua grande opera di assestamento e di pacificazione nazionale", con un provvedimento che, "per la prima volta", portava all'affermazione dei "diritti di un Governo di fronte ai corpi elettivi", con un duro colpo alla "storia parlamentare d'Europa" non senza soddisfazione del C., che concepiva il governo come "uno dei primi organi legislativi" quello del 25 giugno 1924, critico con il governo dopo il delitto Matteotti. In questa occasione, come in seguito negli interventi fatti nel corso della XXVII legislatura - ben dieci: due nel '25 cinque nel '26 tre nel '28 - insisterà sullo stesso concetto: il governo e il suo capo godevano la fiducia sua, del Senato e del paese e non dovevano avere alcun timore nell'affrontare libere elezioni, né delle future opposizioni, purché assicurassero "in pieno l'ordine pubblico", cioè tenessero imbrigliato "il partito fascista che, perdendo il Governo, perderebbe la maggior disciplina e potrebbe quindi diventare un elemento pericoloso per il paese". L'appoggio del C., naturalmente, non mancò mai ai provvedimenti che garantivano, a suo parere, "il restauro della sincerità del carattere nazionale". È il caso delle misure repressive contro le società segrete, specie la massoneria è il caso dei provvedimenti sulla cittadinanza e di quelli per l'istituzione del podestà e delle consulte municipali.
Nel 1926 il C. definiva Mussolini "il protetto della Divina Provvidenza", per affermare, in modo veramente infelice, specie se si considera il contesto, che "Essa [la Divina Provvidenza] vi ha dimostrato palpabilmente l'amor suo, ed ha così raccolto e avvalorato l'amor nostro il mezzo di propiziarvela ancora: quello di seguire le vie sue, le vie della giustizia" a nome delle "cinquanta e più banche cattoliche d'Italia" esprimeva il compiacimento per il "sospirato riassetto della moneta" rifacendosi a Giuseppe Toniolo e alla dottrina cristiano-sociale, il C. motivava l'approvazione della riforma della Camera, confermando in polemica con i "parlamenti discendenti dalla rivoluzione francese", la bontà di una rappresentanza organica della nazione.
In linea con gli sviluppi del regime e con le facoltà concesse al Senato, nella legislatura successiva, il C. aveva modo di intervenire su un tema di rilievo quale quello relativo ai patti lateranensi, mettendo in luce soprattutto gli aspetti restauratori che caratterizzavano gli accordi con la S. Sede.
Dopo un intervallo di tre anni, dal 24 maggio 1929, il C. riprendeva la parola al Senato, ma su temi particolari anche se non secondari: il 17 maggio 1932, per raccomandare allo Stato educatore la necessaria armonia del "libro" e del "moschetto" e dello Stato e della famiglia il 29 marzo 1933, sulla riforma del regolamento del Senato il 6 giugno 1933, in favore delle popolazioni dell'alta montagna nella successiva legislatura (la XXIX), il 4 dic. 1934, sulla costituzione della Giunta centrale degli studi storici il 17 dic. 1936, sui lavori di conservazione e restauro della basilica di S. Marco il 23 dic. 1936, per dichiarare il proprio voto contrario all'apertura del casinò di Venezia il 10 dic. 1937, per illustrare, in polemica con analoghi provvedimenti di altri paesi, i caratteri eminentemente religiosi del contributo del governo all'Associazione per il soccorso dei missionari italiani istituita dallo Schiaparelli il 15 dic. 1937, sull'istituzione del Centro nazionale di studi manzoniani di Milano infine, il 20 dic. 1938, per dichiarare il proprio voto "serenamente" favorevole ai provvedimenti per la difesa della razza italiana, pur raccomandando molta ponderazione nell'esecuzione, di scoraggiare gli "zelanti", di evitare "ogni scalfittura", dei patti lateranensi.
Continuò a scrivere molto: agli articoli su vari quotidiani (Il Corriere della sera, Il Resto del Carlino, La Stampa, L'Italia) e riviste, aggiunse, nel corso degli anni Trenta, la pubblicazione di vari libri di memorie e di saggi.
Tra le sue opere, oltre a quelle direttamente attinenti al movimento cattolico, si vedano: Poesie, Bologna 1900 Il Duello, Milano 1900 I cattolici nelle elezioni politiche, Roma 1900 Giosuè Carducci, Pavia 1907 Quistioni vitali. Discorsi, Roma 1908 Don Bosco, Torino 1911 Antonio Fogazzaro. Discorso, Vicenza 1911 Il rinnovamento dell'educazione, Roma 1919 Minuzie manzoniane, Napoli 1919 Rimpianti, Milano 1922 S. Luigi Gonzaga, Mantova 1924 Grandi anime. Discorsi commemorativi, Roma 1925 Le più belle pagine di Antonio Fogazzaro, Milano 1928 Pio IX, Leone XIII, Pio X, Benedetto XV. Ricordi personali, Milano-Roma 1932 Corone e porpore. Ricordi personali, Milano 1936 Politici, guerrieri, poeti. Ricordi personali, ibid. 1938 Indagini sopra il Manzoni, ibid. 1940 Alla scuola di Dante, Firenze 1947 (postumo).
Fu legato da lunga e affettuosa amicizia con Antonio Fogazzaro, di cui "rivendicò ... la purezza degli intenti", pur dissentendo "dal vicentino a proposito di talune situazioni sentimentali rappresentate nei romanzi, capaci di turbare le coscienze e più, a cagione degli atteggiamenti ultimi a favore del Modernismo" (Novelli).
Morì a Roma il 2 marzo 1942.
Fonti e Bibl.: Sulle carte del C. conservate nell'Archivio conventuale dei padri domenicani della Minerva a Roma, cfr. C. Gasbarri. F. C. e il suo archivio, in L'Urbe, XXXV (1972), 5, pp. 20-29 XXXVI (1973), 1, pp. 12-22, 2, pp. 2940 3, pp. 30-38 Statistica delle elez. gener. politiche per la XXV legislatura, Roma 1920, ad IndicemAtti Parlam., Camera, Discussioni, legisl. XXV, ad IndicemAtti Parlam., Senato, Discussioni, legislature XXVI, XXVII, XXVIII, XXIX, XXX, ad IndicesGli atti dei congressi del Partito popolare ital., a cura di F. Malgeri. Brescia 1969, ad Indicem R. Della Casa, I nostri. Quelli d'ieri e quelli d'oggi, Treviso 1903, ad nomen A.Giannini, Tre cattolici, Milano 1942 Memor [E. Martire], F. C., Milano 1945 A. Novelli, Maestri, Milano 1945, pp. 167-186, ora in Pio IX, XI (1982), 2, pp. 190-203 F. Magri, L'Azione cattol. in Italia, Milano 1953, ad Indicem Id., La Democrazia Cristiana in Italia, Milano 1954, ad Indicem A.Gambasin, Il movimento sociale nell'Opera dei congressi (1874-1904), Roma 1958, ad Indicem R. Sgarbanti, Ritratto polit. di G. Grosoli, Roma 1959, ad IndicemA. C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino 1963, ad Indicem R. Webster, La Croce e i fasci. Cattolici e fascismo in Italia, Milano 1964, ad Indicem L. Bedeschi, Significato e fine del trust grosoliano, in Rass. dipolitica e di storia, 1964, n. 116, pp. 7-24 F. Malgeri, La stampa cattolica a Roma dal 1870 al 1915, Brescia 1965, ad Indicem G. De Rosa, Storia del movim. cattolico in Italia, I, Dalla Restaurazione all'età giolittiana II, Il Partito popolare italiano, Bari 1966, ad Indices R. De Felice, Mussolini. Il fascista, I, La conquista del potere, Torino 1966, ad Ind. II, L'organizzazione dello Stato fascista, ibid. 1968, ad Ind. Il duce, I, Gli anni del consenso, ibid. 1974, ad Ind. M. L. Salvatori, Il movimento cattolico a Torino. 1911-1915, Torino 1969, ad Indicem L. Pierantozzi, I cattolici nella storia d'Italia, Milano 1970, ad Indicem A.Albertazzi, Il cardinale Svampa e i cattolici bolognesi, Brescia 1971, ad Indicem S.Jacini, Storia del Partito popolare ital., Napoli 1971, ad Indicem G.Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Roma 1972, ad Indicem G. Spadolini, L'opposizione cattolica da Porta Pia al '98, Milano 1972, ad Indicem Id., Giolitti e i cattolici (1901-1914), Milano 1974, ad Indicem G. De Rosa, L. Sturzo, Torino 1977, ad Indicem M. G.Rossi, Le origini del partito cattolico, Roma 1977, ad Indicem A. Albertazzi, F. C., in Diz. stor. del movimento catt. in Italia. II, I protagonisti, Casale Monferrato 1982, pp. 137-142. Per le notizie biografiche, cfr. Argo [A. Pozzi], I deputati popolari della XXV legisl., Bologna 1920, s. v. A. Malatesta, Ministri, deputati…, Milano 1940, ad vocemChi è? Roma 1961, ad vocemAnnuario della stampa italiana 1939-1940, Roma, ad vocem.