MEDICI, Filippo de’
MEDICI, Filippo de’. – Nacque nel 1426 a Firenze, o ad Avignone, da Vieri di Nicola e da Auretta Nerli.
Il luogo di nascita è incerto, poiché in quegli anni il padre alternava la propria residenza tra le due città dove si trovavano le sedi della compagnia bancaria, che gestiva insieme con Bernardo Carnesecchi e Marco Bellacci.
Le sorti del M. e della sua numerosa famiglia – ebbe almeno otto tra fratelli e sorelle – risentirono delle alterne fortune del banco che il nonno Nicola e il fratello di questo, Cambio, avevano aperto intorno all’inizio del secondo decennio del Quattrocento. Fino a quel momento i due avevano lavorato presso una delle tre unità in cui si era divisa l’azienda che il loro padre aveva fondato nella seconda metà del Trecento. Divenuto in breve uno degli uomini più ricchi di Firenze, Vieri aveva poi sciolto la compagnia già all’inizio degli anni Novanta del secolo. Nella seconda metà degli anni Venti del Quattrocento l’azienda di Nicola e Cambio era fallita, coinvolgendo anche le attività del padre del Medici. Le spese necessarie per soddisfare i creditori avevano notevolmente intaccato il patrimonio familiare, una parte del quale era stato incamerato da Cosimo de’ Medici (Cosimo il Vecchio), che già negli anni Venti vantava crediti nei confronti della compagnia per diverse migliaia di fiorini.
Quel fallimento fu alla base dell’interesse che, da quel momento, Cosimo nutrì per il M. e che lo spinse a prendersi cura di quel suo consanguineo il cui bisnonno, Vieri, aveva direttamente contribuito a favorire l’ascesa economica di suo padre, Giovanni di Bicci. Uno dei tre rami in cui si era divisa la compagnia di Vieri era infatti stato gestito da Giovanni, che proprio in quell’azienda aveva mosso i primi passi. Il ricordo di questo legame di natura commerciale contribuì a mantenere viva la consapevolezza di una comune origine – e quindi della necessità di una naturale solidarietà – tra questi due lontani rami della casa Medici.
Non si hanno testimonianze sulla formazione del Medici. Nella scelta della carriera ecclesiastica è possibile che abbia influito lo zio paterno, Donato (1402-74), vescovo di Pistoia dal 1436. Allo stesso tempo è probabile che il M. abbia ricevuto parte della sua educazione negli stessi ambienti in cui si formò il suo quasi coetaneo Giovanni di Cosimo con il quale condivise per tutta la vita la passione per i libri e i manoscritti antichi e del quale fu uno dei più assidui corrispondenti.
Proprio le oltre 160 lettere che nel corso degli anni il M. indirizzò a diversi destinatari offrono la parte maggiore delle notizie sul suo conto. Secondo il primo nucleo di missive, senza data, il M. era nella funzione di protonotario apostolico presso la Curia pontificia, carica alla quale era stato probabilmente eletto all’inizio degli anni Cinquanta. Parole di ringraziamento nei confronti di Cosimo – che si rivolgeva al M. chiamandolo nipote e dal quale era ricambiato con l’appellativo di pater – si trovano già in quel primo gruppo di lettere (Luzzati, 1964). Negli anni seguenti il M., ogni qual volta ebbe occasione di scrivere a Cosimo, dimostrò di essere pienamente consapevole che ogni suo successo e promozione dovevano molto all’impegno profuso in suo favore da Cosimo e dai suoi figli presso i pontefici.
Nel 1457 il M. fu nominato vescovo di Arezzo. Nei mesi immediatamente successivi all’elezione alla cattedra episcopale egli continuò a risiedere a Roma, dove seguì l’andamento della locale filiale del banco Medici e dove iniziò a lavorare – come testimoniano molte lettere di quel periodo – per ottenere la promozione a cardinale. Nella seconda metà dell’anno il M. soggiornò per periodi sempre più lunghi ad Arezzo.
Arezzo non era ancora quella roccaforte del potere mediceo che sarebbe diventata qualche anno dopo. Se a Firenze le gerarchie interne al gruppo dei cittadini eminenti erano in apparenza consolidate e Cosimo emergeva rispetto ai suoi sostenitori, in alcune zone del dominio, tra cui Arezzo, la situazione era più fluida: i principali interlocutori degli Aretini a Firenze erano i membri della famiglia Pitti, Luca di Bonaccorso in particolare. I Pitti mantennero quella preminenza su Arezzo fino al 1466, quando l’opposizione a Piero di Cosimo causò il loro temporaneo allontanamento dalla cerchia più ristretta del potere.
L’arrivo del M. in città permise comunque alla famiglia di diversificare – anche qualitativamente, visti i diritti spettanti a un vescovo – le figure di patroni che fino a quel momento erano stati vicini agli Aretini: il M. si aggiungeva allo stesso Cosimo e ai figli di quest’ultimo, Piero e, soprattutto, Giovanni. L’analisi delle petizioni presentate dalle autorità e da singoli cittadini di Arezzo dimostra che quasi mai i Medici portarono avanti una linea di azione unitaria e coerente ma, al contrario, in diverse occasioni i vari esponenti della casa perseguirono strategie differenti quando non in aperto contrasto tra di loro. A volte la dialettica interna a casa Medici riguardò singoli personaggi, come accadde nel marzo del 1460 nel caso di tal Nepo da Petriolo, processato per stregoneria, ma che in quel frangente poté contare sul sostegno di Giovanni di Cosimo – di cui era stato medico curante – il quale perorò la sua causa presso il M. suscitando l’aperto disappunto di questo, che nell’ingerenza di Giovanni vide una indebita intrusione nelle questioni di sua stretta pertinenza. In altri casi le divergenze tra i membri della famiglia investirono questioni che coinvolgevano l’intera città, come nel caso dell’istituzione di una fiera tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta. In quell’occasione proprio il M., a detta degli Aretini, perorò presso Cosimo la richiesta avanzata dalla città per la creazione di una fiera annuale. In una lettera di ringraziamento inviata a Cosimo nel 1461, gli abitanti di Arezzo non mancarono di ricordare il ruolo svolto in quella vicenda dal M., assurto nel gennaio di quell’anno alla dignità arcivescovile di Pisa. Già l’anno seguente, tuttavia, gli Aretini ebbero modo di sperimentare quanto potessero differire le valutazioni all’interno della famiglia Medici sul contegno da adottare nei confronti della loro città: Piero di Cosimo accolse le istanze degli abitanti di Cortona i quali avevano chiesto di spostare la data della fiera aretina perché danneggiava la loro e dopo un breve scambio epistolare gli abitanti di Arezzo furono costretti a cedere.
Gli esponenti della famiglia del M. furono però uniti nel servirsi delle prerogative in materia di benefici che, come vescovo, spettavano al Medici. Questi non mancò, quando possibile, di soddisfare le richieste dei suoi consanguinei, come dimostrano le numerose lettere inviate a Giovanni di Cosimo nel 1460 per rassicurarlo sull’impegno profuso nel favorire i suoi raccomandati per alcuni benefici locali. Dal canto suo il M. si rivolse in diverse occasioni a Giovanni e Piero per chiedere il loro appoggio presso le autorità locali, ora per un proprio affittuario di Poppi, come accadde nel dicembre del 1460, ora per un uomo di Montevarchi nell’ottobre del 1465.
Quest’ultimo documento risale già al periodo pisano, ma è solo uno dei tanti di quegli anni che testimonia come il legame tra il M. e gli abitanti di Arezzo continuò anche quando egli aveva ormai abbandonato la cattedra aretina. I rapporti che il M. aveva saputo allacciare con la sua civitas dovevano essere stati molto intensi, perché parte della tradizione cronachistica locale collocò durante l’episcopato del M. alcuni interventi nel campo dell’edilizia sacra e in favore del locale Studium che, se veri, testimonierebbero il particolare favore che egli accordò alla città, ma di essi non vi sono riscontri documentari. In un caso il cronista J. Catani ascrisse alla volontà del M. i lavori di ampliamento del tempio di S. Maria delle Grazie; nell’altro invece l’annalista settecentesco P. Farulli sostenne che il M. riuscì a ottenere per lo Studium la facoltà di licenziare dottori. In una città come Arezzo, nella quale la mancata promozione della locale scuola di istruzione superiore a università dello «stato» mediceo fu sempre vissuta come un grave vulnus, quella ultima notizia, soprattutto se travisata o inventata, suggerisce che il M. forse operò davvero in forte sintonia con gli Aretini, se a distanza di secoli si volle attribuire a lui un merito in un ambito così fortemente identificativo della coscienza civica locale.
La promozione del M., nel gennaio del 1461, alla sede arcivescovile di Pisa, veniva dopo la nomina a referendario della Curia nel 1458. Negli ultimi tre anni, fin da quando era salito al soglio pontificio Pio II, il M. aveva inoltre continuato a impegnarsi soprattutto per strappare la nomina a cardinale. Nonostante l’appoggio di Cosimo, la riluttanza di Firenze a impegnarsi nella crociata bandita dal papa a Mantova nel 1459 nocque probabilmente alle sue aspirazioni.
Nel febbraio del 1461 egli arrivò a Pisa, da dove però ripartì già nel settembre seguente per recarsi, insieme con Piero de’ Pazzi e Bonaccorso di Luca Pitti, in Francia per rendere omaggio al nuovo re Luigi XI. Nell’aprile del 1462 il M. tornò nella sua sede, dove aveva lasciato un vicario, Antonio Moroni da Borgo San Sepolcro.
Nel giugno di quello stesso anno il M. inaugurò la visita pastorale dell’arcidiocesi, che si protrasse, con alcune soluzioni di continuità, fino al luglio dell’anno seguente. La visita del 1462-63 è la più antica delle quali si siano conservate testimonianze documentarie a Pisa e l’unica che, anche se solo in parte, fu condotta personalmente dall’arcivescovo. Quei circa tredici mesi di indagine sugli enti, persone e luoghi religiosi della città e del contado gli permisero di conoscere a fondo e di reclamare, quando sembravano in pericolo, i diritti spettanti alla giurisdizione della sua Chiesa. Durante la permanenza sulla cattedra arcivescovile pisana il patrimonio fondiario relativo alle Comunità rurali subì una profonda riorganizzazione con nuove concessioni feudali a molte Comunità, e quasi altrettante donazioni di beni da parte delle Comunità che tacitamente potevano riottenerli indietro sotto forma di nuovi feudi, limitando così la penetrazione della proprietà cittadina. Allo stesso tempo il M., proprio grazie a quella visitatio, ebbe modo di verificare in prima persona la realtà sociale ed economica pisana a quasi sessanta anni dalla conquista fiorentina del 1406. Nelle lettere che egli inviò a Piero e soprattutto al figlio di questo, Lorenzo, si trovano numerosi riferimenti alle difficoltà che ampi strati della popolazione, in città e nelle campagne, stavano attraversando. Alle contingenze dovute alle guerre che avevano avuto termine con la pace di Lodi del 1454 si sommavano le ben più gravi conseguenze dei primi decenni di governo fiorentino, durante i quali, per rinsaldare il controllo su Pisa, le autorità della Dominante avevano intrapreso politiche che avevano fortemente impoverito il tessuto economico, sociale e demografico della città. Né erano bastati a invertire quella tendenza alcuni provvedimenti, presi in quegli anni, in favore della cantieristica navale o di alcune industrie locali.
Il M. contribuì alla riqualificazione architettonica e artistica di Pisa: fece ricostruire e ampliare il palazzo arcivescovile e nella seconda metà degli anni Sessanta chiamò a Pisa Benozzo di Lese (Benozzo Gozzoli), che realizzò nel Camposanto l’affresco raffigurante la Costruzione della torre di Babele con ritratti di diversi esponenti della famiglia, tra cui lo stesso Medici. Tra le ultime iniziative in favore di Pisa cui il M. partecipò, anche se solo in un ruolo secondario poiché già malato, vi fu l’inaugurazione, nel novembre del 1473, dello Studio pisano fortemente voluto da Lorenzo di Piero.
Nel frattempo il M. continuava a impegnarsi per la propria ascesa al cardinalato, le cui speranze si erano riaccese nel 1464 con l’elezione al soglio pontificio di Paolo II, il veneziano Pietro Barbo. Nel dicembre del 1468 il M. giunse a Roma per rappresentare la città di Pisa in occasione dell’arrivo di Federico III; la sua presenza era anche dovuta al matrimonio, contratto solo per procura il 10 di quel mese, tra Lorenzo de’ Medici e Clarice Orsini, ma anche questa volta, nonostante l’appoggio di Piero di Cosimo, egli non fu inserito nella rosa di cardinali nominati dal papa.
L’ascesa di Lorenzo ai vertici della politica fiorentina segnò un progressivo disinteresse della casa Medici nei confronti delle ambizioni del M. per la porpora cardinalizia. Dall’inizio degli anni Settanta, Lorenzo, succeduto al padre nel 1469, orientò la politica ecclesiastica della casa in favore di suo fratello Giuliano. Le lettere che in quegli anni Lorenzo scrisse a questo proposito ad alcuni tra i suoi più fidati consiglieri lasciano intendere che il M. non colse questo cambiamento e che anzi continuò ad aspirare al cardinalato fino alla sua morte, avvenuta nell’ottobre del 1474 probabilmente a Pisa.
L’attività pastorale del M. era stata segnata dall’intreccio tra le sue ambizioni al cardinalato, la volontà di operare presso i pontefici per favorire la propria casa cui tanto doveva, la necessità di amministrare i diritti delle sue Chiese e quella di rinforzare l’influenza dei Medici sulle terre del dominio. Il M. conseguì risultati disomogenei in ciascuno di questi ambiti, in alcuni dei quali anzi egli ottenne poco se paragonato alle energie profuse. La documentazione pisana mostra che fu un buon amministratore dei diritti arcivescovili e, nel contempo, assecondò prontamente il cambio di politica nei confronti di Pisa promosso dai Medici. Nel mediare tra gli interessi locali e quelli della propria casa egli forse poté giovarsi dell’esperienza maturata con gli Aretini, delle cui aspirazioni era stato un attento interprete. Tuttavia, proprio durante la permanenza ad Arezzo il M. aveva dovuto fare i conti con le difficoltà che potevano nascere quando si confrontavano concezioni diverse –delle quali erano portatori i diversi esponenti della famiglia – su quale fosse il bene della casa e su come andasse perseguito.
Forse proprio una differente valutazione del valore che un cardinalato avrebbe avuto per la famiglia costò la porpora al Medici. Egli fu l’unico serio candidato al cappello cardinalizio fino a quando furono in vita Cosimo e Piero, per i quali il conseguimento di quel risultato avrebbe sancito il definitivo consolidamento delle loro posizioni all’interno della stessa città di Firenze. Con l’avvento di Lorenzo alla guida della città un cardinale in Curia avrebbe invece fornito uno strumento in più da impiegare in un contesto interstatuale, nel quale le istituzioni ecclesiastiche rappresentavano una risorsa politica sempre più importante, per attingere alla quale il M., visti gli scarsi successi conseguiti personalmente fino a quel momento in Curia, non sembrava il candidato più adatto.
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G. Ciccaglioni