DORIA, Filippo (Filippino)
Nacque a Genova tra il 1470 e il 1480 da Bartolomeo fu Carlo e da Lucrezia Del Carretto fu Giorgio; ebbe un unico fratello, Bernardo, senza prole. Come discendente di un ramo cadetto della famiglia, allora di modeste fortune, il D. venne avviato giovanissimo alla carriera delle armi, probabilmente anche lui, come già Andrea Doria suo lontano parente, per interessamento di Nicolò Doria.
Infatti la carriera del D. ebbe inizio presso la famiglia dei Della Rovere e continuò presso Francesco Maria, duca d'Urbino fino che questi non uscì di minore età, cioè attorno al 1510: nello stesso periodo in cui Nicolò (che era stato fedelissimo di Giovanni, padre di Francesco, e poi della sua vedova), lasciata Genova, era tornato al servizio dei Della Rovere, allora nella persona del pontefice Giulio II.
Si ignora l'anno preciso in cui il D. lasciò il servizio di Francesco Maria e se, ancora una volta, sia stato Nicolò il mediatore del nuovo rapporto d'impiego del D.; ma due circostanze sono sicure: in ricompensa dei servigi prestati, il D. ebbe dal Della Rovere la contea di Sassocorbaro e, nel 1516-17, militava agli ordini di Andrea Doria. Andrea lo aveva investito della luogotenenza nella guerra contro i corsari barbareschi che Genova stava conducendo insieme col pontefice e con l'allora alleato francese. E nel 1519, quando ormai solo Andrea continuava la caccia al corsaro barbaresco Gad-Alì, il D. fu l'artefice della vittoria di Pianosa.
L'intervento provvidenziale del D., infatti, sopraggiunto alle spalle del corsaro con due galee, mentre Andrea ferito stava per soccombere alle forze superiori dell'avversario, consentì il capovolgimento della situazione ed una clamorosa, se pur sofferta, vittoria, con la cattura di due navi nemiche e dello stesso capo corsaro. Se la gloria della vittoria andò ad Andrea, questi non sottovalutò il coraggio e il merito del D., e da allora lo volle compagno - e lo ebbe fedelissimo - nell'attività militare sul mare. La probabile indifferenza del D. in materia politica dovette costituire un altro motivo di unione tra i due: Andrea infatti poteva contare sulla disciplinata obbedienza del D. per quanto riguardava alleanze e servigi politici.
La consacrazione della funzionalità di questo sodalizio sarebbe venuta tra il 1527 e il 1528, negli anni cruciali del passaggio di Andrea (e della Repubblica) dalla Francia alla Spagna; ma la conferma era già venuta nel 1522 quando - tornati a Genova gli Adorno dopo il sacco spagnolo - Andrea e i Fregoso avevano dovuto abbandonare la città. Il D., insieme con Andrea e con le sue quattro galee, si rifugiò a Monaco e di qui, sempre con Andrea, passò al servizio di Francesco I.
Perciò quasi certamente tutte le circostanze documentate per Andrea negli anni immediatamente successivi (la partecipazione alla congiura contro Luciano Grimaldi, signore di Monaco; la difesa dal mare di Marsiglia nel 1524, quando la città era stata attaccata da terra dall'esercito spagnolo del marchese di Pescara e di Carlo di Borbone, e i rocamboleschi rifornimenti attraverso il Rodano; la fortunosa cattura di Filiberto d'Orange - poi non ricompensata da Francesco I -; l'audace progetto di liberazione dello stesso re francese, prigioniero dopo la battaglia di Pavia) valgono anche per il Doria. E infatti dopo Pavia, anche il D., come Andrea, passò al servizio del pontefice Clemente VII, allora alleato ai Francesi.
Andrea disponeva allora di una flotta di otto galee: quattro sue personali, due del cugino Antonio Doria e due del papa. Lasciatele a Civitavecchia sotto la luogotenenza del D., Andrea poté recarsi a Roma per concordare col pontefice il piano delle operazioni navali che avrebbero dovuto togliere Genova agli Spagnoli. Nel corso del 1526 la lega franco-veneto-pontificia riuscì a mettere il blocco a Genova, grazie all'occupazione delle fortezze di, Savona, Spezia e Portofino. Quest'ultima nel settembre 1526 subì un durissimo attacco dal doge Antoniotto Adorno, intenzionato a rompere il blocco, ma fu strenuamente difesa dal D., che, con due navi di Andrea, era riuscito a portare gli aiuti necessari a Filippino Fieschi e a Giovan Battista Grimaldi, che reggevano la guarnigione: dopo una cruenta lotta, il D. e i compagni ebbero la meglio e l'Adorno dovette abbandonare l'assedio. Ma le sorti del conflitto franco-imperiale si stavano facendo critiche per il pontefice, reo, agli occhi di Carlo V, di aver aderito alla Lega di Cognac. La notizia del sacco di Roma fece veleggiare la flotta di Andrea dalle acque liguri a quelle di Fiumicino, per portare aiuto a Clemente VII chiuso in Castel Sant'Angelo. Il D., a capo di un manipolo di soldati, tentò di raggiungere il pontefice: ma, alle porte della città, fu fermato dalle truppe del duca di Borbone e costretto a desistere dall'audace progetto. La flotta riveleggiò verso Genova e - scaduto fortunatamente proprio in quei giorni dell'agosto 1527 il contratto che legava Andrea al pontefice, allora improbabile pagatore - verso un nuovo contratto col re di Francia. Francesco I, nominato Andrea capitano delle flotte francesi nel Mediterraneo, lo fece incontrare a Savona col maresciallo Lautrec e gli altri capi militari per concordare la nuova campagna antimperiale. Andrea, con una flotta di 24 galee, di cui 16 francesi, rimise il blocco a Genova e mandò di nuovo il D. a Portofino. Ma questa volta l'azione del D. fu meno fortunata: attaccato da terra, attorno al 15 agosto capitolò e fu fatto prigioniero. Immediata la reazione di Andrea, che il 19 agosto constringeva l'Adorno ad abbandonare Genova. Il D. stesso, liberatosi, sembra aver aperto le porte della città al cugino e a Cesare Fregoso.
Nel settembre, mentre la lega si lacerava-tra le rivalità degli alti comandi, il D. partecipò con Andrea allo sfortunato tentativo di Castello Aragonese m Sardegna, validamente difeso e dal presidio spagnolo e da una tempesta micidiale per la flotta della lega; quindi, agli ordini di Renzo da Ceri (con cui Andrea era apertamente in polemica), il D. partecipò all'occupazione di Sassari. Poi, sciolta la flotta anche per il sopraggiungere dell'inverno e la necessità delle riparazioni, sempre secondo gli ordini di Andrea, il D. portò le sette galee del cugino e quella di Antonio Doria a Livorno.
Nella successiva primavera 1528, al riaprirsi delle operazioni, Andrea, in una situazione ormai tesa con Francesco I, nonostante le sollecitazioni a partire per il Regno di Napoli in sostegno alla manovra via terra condotta dal Lautrec, rimase polemicamente a Genova e ordinò al D. di salpare in sua vece da Livorno per Napoli.
Per il D. fu la grande occasione per dimostrare il proprio valore, anche in assenza delle direttive strategiche dei famoso cugino (sebbene non siano poi mancate le ipotesi che la grande vittoria del D. sia da attribuire alle indicazioni di Andrea, che in precedenti occasioni avrebbe studiato la conformazione di Napoli e la strategia di conquista).
La squadra del D., composta dalle galee "Capitana", "Pellegrina", "Donzella", "Sicana", "Fortuna", "Nettuno", "Mora" e "Signora", ancorò nel golfo di Salerno, in attesa delle navi veneziane per chiudere da ogni lato la piazza di Napoli. Ma il viceré Ugo di Moncada, fidando nella superiorità numerica delle sue forze, pensò di portare un attacco di sorpresa al D., prima che giungessero i rinforzi veneziani.
Sulla squadra spagnola, comandata da Fabrizio Giustiniani e composta di 6 galee, 2 fuste, 2 brigantini e molte barche, ben armata di artiglieria e carica di 1.200 archibugeri spagnoli, si imbarcarono, certi del successo della sorpresa, oltre al Moncada, il marchese di Santa Croce ed Ascanio e Camillo Colonna. Invece il D., informato del piano dal giorno precedente e fornitosi rapidamente di 300 archibugeri scelti dal Lautrec, mosse risolutamente contro gli assalitori, dopo aver fatto sciogliere i rematori forzati e gli schiavi, con promessa di libertà a vittoria ottenuta. L'astuzia dei piano consistette nell'ordinare al suo luogotentente Lomellini di simulare la fuga e di allargarsi in mare con una parte delle galee; e quindi di ritornare, assalendo di fianco i nemici. Inoltre fece coricare tutti i suoi soldati sul ponte, in modo che ricevessero minor danno dalle artiglierie spagnole. La battaglia, detta di Capo d'Orso, o di Amalfi, o della Cava, avvenne il 28 apr. 1528 (altre date proposte dalla vecchia storiografia sono da ritenersi errate, alla luce della documentazione acquisita). Appena giunti a tiro, gli Spagnoli spararono tutte le loro artiglierie; ma, meglio diretti, i colpi del cannone di corsia della capitana del D. fecero strage delle fanterie spagnole raccolte a prua. E quando, rimessisi dallo sgomento, saliti all'abbordaggio, gli Spagnoli avevano già conquistato due galee del D., all'improvviso quelle del Lomellini, dopo un lungo giro, piombarono sulla squadra spagnola. Nella travolgente azione genovese, favorita dall'esempiare comportamento dei galeotti, trovarono la morte il Moncada e Cesare Fieramosca; 1.400 tra soldati e vogatori spagnoli restarono uccisi o feriti; il marchese del Vasto, Ascanio e Camillo Colonna furono fatti prigionieri.
Il trionfo del D. fu enorme, nonostante i gravi danni riportati dalla flotta e la perdita di circa 500 uomini. Inoltre questa vittoria, nell'unico vero combattimento navale della prima metà del XVI secolo, dimostrava l'efficacia risolutiva della marma nei conflitti del tempo: e la Francia grazie ad essa avrebbe conquistato Napoli, se rivalità e risentimenti nell'ambito della lega non avessero fatto il gioco di Carlo V. E proprio questa vittoria del D., accentuando il prestigio internazionale di Andrea e consentendogli accresciuto potere contrattuale, favorì il passaggio dell'ammiraglio alla Spagna nel luglio 1528.
Il D. nel giugno si era portato alla Spezia, dove Andrea subito lo raggiunse per servirsi dei prigionieri, Ascanio Colonna e Alfonso d'Avalos marchese del Vasto, come mediatori per definire i termini del suo passaggio alla Spagna, che sarebbe poi stato sottoscritto a Madrid ai primi di agosto.
La prima spedizione spagnola di Andrea e del D. fu di nuovo a Napoli, questa volta per liberarla dai Francesi. Quindi, tornati alla Spezia con la loro flotta di 12 galee, accordatisi con emissari genovesi, inalberato per la prima volta il 10 settembre lo stendardo imperiale (che la leggenda vuole strappato dal D. alla capitana del Moncada), arrivarono davanti a Genova.
Nella notte, mentre Andrea chiudeva il porto, due gruppi sbarcarono in due punti distinti: uno a Carignano, comandato dal D., l'altro al molo, guidato da Lazzaro Doria e da Cristoforo Pallavicini. Gridando "S. Giorgio e libertà", il D. e il suo gruppo occuparono in rapida successione il palazzo pubblico e le porte della città: al segnale convenuto, Andrea sbarcò al molo e raggiunse subito la sede del governo e l'attigua piazza di S. Matteo, su cui si affacciavano le case dei Doria.
Mentre, dal discorso famoso della "libertà" alla costituzione della grande Balia dei dodici riformatori delle leggi, Andrea definiva gli aspetti politici della conquista, e della funzione sua e della sua famiglia nella città "liberata", al D. vennero affidate le questioni militari ancora insolute. Per prima cosa, la liberazione della fortezza del Castelletto, dove si era asserragliato il governatore Trivulzio con le truppe francesi: il D. riuscì a impedirne i rifornimenti e quindi ad ottenerne la resa. Poi, la liberazione di Savona: attaccati dal mare dalle navi del D. e via terra da Agostino Spinola, i Francesi lasciarono la città nell'ottobre. Nell'anno successivo, il 1529, il valore e la lunga fedeltà ad Andrea valsero al D. la nomina a capitano generale delle armi e la solenne consegna del gonfalone della Repubblica dalle mani del doge.
Eppure, dopo il momento della massima gloria, il D. sembra entrare in ombra: benché Andrea si fosse preoccupato di estendere a lui, oltre che agli zii Tomaso e Franco Doria, tutti i privilegi concessigli dalla Repubblica, le fonti documentarie e le stesse biografie dell'ammiraglio non fanno più menzione del D. fino alla notte della congiura dei Fieschi, il 2 genn. 1547. La coincidente ascesa prima di Marcantonio Del Carretto, poi del giovane e audace Giannettino Doria, spiega il graduale "cambio della guardia" operato tra il 1530 e il 1540 dal vecchio ammiraglio-principe, cui premeva un giovane luogotenente altrettanto audace del D. ed altrettanto ossequiente alle sue direttive: per garantirsi la continuità di quella efficiente "compagnia di ventura" marinara che, resa solidale proprio dai vincoli e dagli interessi familiari, costituiva ancora la base formale del suo potere politico di grande assentista e del potere economico dei gruppi finanziari a lui collegati.
Ma nella notte della congiura in cui Giannettino trovò la morte, proprio alla fedeltà del D. il vecchio principe affidò la proprio salvezza. Infatti fu il D., insieme ad Agostino Doria, ad accompagnare il principe a Sestri, a condurlo in salvo fino alla spiaggia di Voltri, da dove avrebbe proseguito per il feudo di Masone dell'amico Adamo Centurione. Quindi, una volta ristabilito l'ordine in città e ritornato Andrea, il D., nonostante l'età, guidò insieme ad Agostino Spinola la spedizione di 2.000 soldati corsi contro il castello di Montoggio, dove si erano rifugiati i congiurati dei Fieschi, ottenendone la capitolazione e meritandosi così per l'ultima volta la riconoscenza di Andrea. Riconoscenza che il principe, poiché il D. gli premorì - tra il 1548 e il 1558 -, dimostrò nel proprio testamento con codicilli a favore del figlio dei D., suo omonimo ma non suo degno erede, come Andrea sapeva bene.
Questa disistima è esplicitamente confermata dal nuovo principe Doria, Giovanni Andrea, che nella Vita scritta di sua mano rimprovera al figlio del D., di cui era nipote, di aver dissipato al gioco la fortuna lasciatagli dal padre, tra cui i feudi nel Regno di Napoli. Filippo iunior, nato da Giacoba Doria fu Nicolò, aveva sposato Peretta Doria fu Tomaso, sorella di Giannettino e vedova di Giulio Cibo. Dal matrimonio nacquero tre figli: Faustina (poi sposa di Emanuele Filiberto Di Negro), Giovan Carlo e Tomaso. Con l'unica figlia di quest'ultimo, Peretta, poi sposa di Lazzaro Doria fu Domenico, si chiude la discendenza del Doria. Nella chiesa gentilizia di S. Matteo è il monumento sepolcrale del D., con iscrizione posta dal figlio.
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