GHERI (Ghieri, Geri), Filippo
Nacque a Pistoia nel 1520 da Evangelista di Baronto e da Piera di Lorenzo Grifoni.
La famiglia, da poco ascritta alla nobiltà pistoiese, era rappresentata da meno di un secolo nelle cariche pubbliche cittadine. All'indomani della morte del padre, avvenuta ai primi d'agosto del 1534, fu il fratello maggiore Cosimo, cui lo zio Gregorio o Goro aveva resignato già dal 1524 la diocesi di Fano, a occuparsi dell'educazione e della formazione culturale del Gheri. Lasciate la madre e le sorelle Alessandra e Lucrezia a Pistoia, insieme con un fratello più piccolo, Vincenzo, il G. seguì Cosimo a Padova, dove il vescovo di Fano si era sistemato da qualche anno per attendere agli studi filosofici con l'amico bolognese Ludovico Beccadelli. Sotto la loro direzione, e accanto ad altri fanciulli che vivevano in casa Gheri, il G. fu avviato allo studio del greco e del latino e si esercitò presto sui testi di Omero, Virgilio, Cicerone e sulla grammatica di Teodoro Gaza.
Nell'estate del 1535 soggiornò, sempre insieme con Cosimo, nella villa di campagna di Beccadelli a Pradalbino, nel Bolognese, luogo di ritiro e di approfondimento dello studio dei classici, dove la cerchia di amici di Cosimo coltivava anche la comune passione per le rime in volgare. Simili esperienze, come del resto il biennio trascorso in una Padova allora vivace centro culturale, coinvolsero il G. in quella sodalitas literaria, al cui interno sembra si debbano collocare le radici della sua predilezione per gli esercizi poetici e dei suoi interessi letterari. Ai brillanti risultati nell'apprendimento egli, tuttavia, non doveva associare un carattere docile ed esemplare. Nel marzo 1536 Cosimo, deciso a trascorrere la settimana santa nella diocesi di Fano, rifiutò di affidarlo, come gli altri, alle cure di Niccolò Colonio, precettore di casa, e lo portò con sé per il timore della sua indole irrequieta. A Fano il G. tornò di nuovo, dopo una breve sosta a Pistoia, il 31 ott. 1536, al seguito del fratello, che faceva il suo ingresso in diocesi per risiedervi stabilmente. Le apprensioni di Cosimo diminuirono di lì a poco anche in conseguenza del forte ascendente esercitato sul G. da un ospite del giovane vescovo, l'inglese George Bucker, familiare del vescovo martire John Fisher, che rimase a Fano durante la primavera-estate del 1537. Alla morte di Cosimo, prematuramente scomparso il 24 sett. 1537, il G. e Vincenzo furono affidati, per esplicita volontà testamentaria, a Beccadelli, il quale cercò di procurare loro un'adeguata sistemazione, contando sull'appoggio di quanti avevano conosciuto e stimato l'amico defunto; riuscì a inserire il G. nella familia cardinalizia di Gasparo Contarini e Vincenzo in quella di Reginald Pole. Al seguito del cardinale veneziano, nominato legato a latere nel gennaio 1541 e insieme con Beccadelli, Girolamo Negri, Vincenzo Parpaglia e Adamo Fumano, il G. partì da Roma per Ratisbona, dove poté assistere, dal marzo al luglio 1541, al difficile confronto con il mondo protestante e al fallimento della politica irenica di Contarini. Rientrato in Italia, il G. restò vicino al cardinale e lo seguì a Bologna quando, nel gennaio 1542, questi fu designato legato della città. Continuò a dedicarsi agli studi sotto la guida di Beccadelli e del letterato bolognese Scipione Bianchini fino alla morte di Contarini (24 ag. 1542) per entrare già dal settembre seguente, e ancora grazie all'appoggio di Beccadelli, nella familia di Giovanni Morone, creato cardinale nel giugno 1542.
Da questo momento per delineare la vita del G. non è possibile prescindere dalle vicende di Morone. Nel 1567 il protonotario fiorentino Pietro Carnesecchi, illustrando i rapporti del G. con il cardinale, l'avrebbe definito davanti al tribunale del S. Uffizio "spirito e anima" di Morone. Dal novembre 1542 al luglio 1543 il G. accompagnò Morone, inviato come legato al concilio di Trento; lo seguì ancora in qualità di segretario quando nell'aprile 1544 questi fu nominato legato di Bologna. Non dovette tuttavia rimanere al suo fianco fino al termine della legazione, se almeno dalla fine di agosto 1546 risulta al servizio del cardinale Ranuccio Farnese, legato della Marca, accanto a Beccadelli, Alessandro Manzoli e Ugolino Gualteruzzi. Alla morte di Paolo III (10 nov. 1549), il G. accompagnava Ranuccio Farnese in conclave insieme con Vincenzo Cotto e Bonifacio Cherubini. Tra marzo e giugno del 1550 sostò a Venezia, dove aveva seguito Beccadelli, inviato lì come nunzio, ma fu presto richiamato da Morone, desideroso di riavere presso di sé il fidato collaboratore. Le lacunose notizie sul G. per il periodo precedente l'arresto di Morone, avvenuto il 31 maggio 1557, se non consentono una ricostruzione precisa di quegli anni, confermano, tuttavia, un suo più stabile servizio presso il cardinale. Una lettera del gennaio 1555 di Bernardino Cirillo, arciprete di Loreto e amico di Beccadelli, allude a una presenza del G. alla Dieta di Augusta a fianco del legato Morone. Morone tornò a Roma per la morte di Giulio III e l'elezione al papato, dopo la breve parentesi di Marcello II, del teatino Gian Pietro Carafa; il pontificato di Paolo IV fu caratterizzato dalla lotta intransigente contro l'eresia e i suoi esponenti nel seno stesso del Collegio cardinalizio, sui quali Carafa era riuscito ad accumulare prove e indizi nel corso della sua pluriennale direzione della congregazione romana del S. Uffizio.
Il G. aveva potuto cogliere le premesse della persecuzione ai danni degli "spirituali" sia nel 1549, quando assistette nelle vesti di conclavista di Ranuccio Farnese alla mancata elezione di R. Pole, sia, soprattutto, nell'incontro avvenuto a S. Paolo fuori le mura tra Pole e Carafa, di cui aveva riferito in una lettera a Beccadelli del 29 apr. 1553. Caldeggiato da Giulio III per limitare l'eccessiva autonomia del tribunale del S. Uffizio e anticipato da una serie di trattative alle quali, come dimostrano recenti studi, partecipò anche il G., l'incontro che vide Carafa offrire le proprie scuse a Pole per i sospetti nutriti in passato, si concluse con una serena quanto apparente riconciliazione, durante la quale Carafa tentò tuttavia di ribadire la fondatezza di quei sospetti, invitando il cardinale inglese alla stesura di un'apologia. La carcerazione di Morone e il richiamo di Pole dall'Inghilterra, quattro anni più tardi, confermarono con chiarezza inequivocabile le reali intenzioni di Paolo IV. Fiducioso della stima che Morone aveva guadagnato presso gli Asburgo durante le sue missioni diplomatiche, nonché dell'avversione da essi nutrita nei confronti di Carafa, il G. fuggì da Roma all'indomani dell'arresto di Morone, adoperandosi con infaticabile impegno per la sua liberazione presso la corte di Filippo II a Bruxelles. Nell'autunno del 1557 il G. si recò da Bruxelles in Inghilterra per incontrarsi con Pole. Intanto da Roma era partito per la corte asburgica il cardinale Carlo Carafa con l'incarico di liquidare alcuni problemi insoluti della guerra tra Spagna e S. Sede e con le copie degli incartamenti processuali contro Pole e Morone. In queste circostanze il G. dovette contribuire a mantenere solida la protezione degli Asburgo verso Morone, il quale dal carcere continuava a rivolgersi al cardinale Ercole Gonzaga perché conferisse al G. la diocesi di Fano, rimasta vacante alla morte di Pietro Bertano, nel marzo del 1558. Del resto, già negli anni 1550-52, aveva segnalato la candidatura del proprio segretario al Gonzaga, che di quel vescovato era amministratore dai tempi di Goro Gheri. Il giorno seguente la morte di Bertano, Vincenzo Casali, altro familiare di Morone, scriveva a Gonzaga esortandolo a conferire la cattedra episcopale di Fano all'"abbate Gerio" (dal 1553, infatti, il G. era titolare dell'abbazia dei Ss. Fabiano e Sebastiano in Val di Lavino). Prima di prendere una decisione che avrebbe palesato il suo appoggio a Morone, il 22 marzo Gonzaga inviò Ippolito Ghisi a Roma per interpellare in proposito i cardinali inquisitori J. Puteo, P. Pacheco e G.A. Sforza. Ebbe la conferma delle informazioni raccolte già nel gennaio dal suo agente romano Bernardino Pia e cioè che il G. era "uomo in questa corte mal visto et processato" (Monumenti…, p. 323). Non essendo documentata l'esistenza di un procedimento inquisitoriale a carico del G., B. Pia alludeva probabilmente ai sospetti e alle indagini in corso sul G. in quanto appartenente alla cerchia di Morone. Certamente, come ripeteva al Ghisi il cardinale Sforza, il pontefice "haveva mostrato di non havere quella buona opinione et sodisfatione di esso messer Philippo che si potrebbe desiderare che havesse" (ibid., p. 340). A conferma della vistosa diffidenza nutrita nei suoi confronti dal S. Uffizio, il G. rientrò a Roma da Bruxelles soltanto dopo la morte di Paolo IV e la scarcerazione di Morone, che con Giovanni Bianchetti accompagnò nel settembre 1559 nel conclave da cui uscì eletto Pio IV. Il 21 genn. 1560 la diocesi di Fano fu assegnata al mantovano Ippolito Capilupi con riserva di una pensione di 300 ducati annui per il G., e il 26 gennaio questi veniva nominato vescovo di Ischia, con una pensione di 500 ducati sulla diocesi di Tropea. Nel luglio 1560 il G. preparava un viaggio in Spagna per Morone, desideroso di ringraziare Filippo II dell'appoggio ricevuto durante i mesi trascorsi in carcere. Il G. partì da Roma il 19 settembre per Toledo e a questi negotii privati si aggiunse presto un incarico ufficiale: in itinere gli furono infatti consegnate alcune lettere pontificie, dalle quali il sovrano avrebbe appreso la ferma decisione di Pio IV di riaprire il concilio. Intrattenutosi, prima di giungere in Spagna, con il duca Emanuele Filiberto di Savoia per trattare sulla sede conciliare, da Toledo il G. informava a fine ottobre il cardinale Carlo Borromeo della disponibilità del duca alla riapertura del concilio. Ripartì da Toledo con il consenso del re per la riconvocazione del concilio e giunse a Roma il 30 novembre, all'indomani della pubblicazione della bolla Ad Ecclesiae regimen che ne fissava la prima riunione il 18 genn. 1562. Nominato nunzio straordinario, il G. tornava a fine dicembre in Spagna per risolvere alcune questioni, tra cui l'esazione di un'imposta annua sui beni della Chiesa spagnola per il mantenimento della flotta contro i Turchi. Era di ritorno a Roma il 10 sett. 1561 e un anno dopo giungeva a Trento per partecipare al concilio.
Nel novembre 1562 intervenne nel dibattito sul sacramento dell'ordine, sottolineando la necessità di difendere e promuovere l'autorità dei vescovi "pro salute ovium […] et pro damnatione haereticorum" (Concilium Tridentinum, IX, p. 92). Si pronunciò in seguito sulla residenza episcopale, sul sacramento del matrimonio e sui decreti di riforma. Dei dibattiti scaturiti intorno all'intricata questione dello ius divinum della residenza - su cui si irrigidirono in modo irreparabile i rapporti tra Beccadelli e Morone, il primo convinto sostenitore del diritto divino della residenza episcopale come fondamento della riforma ecclesiastica, il secondo propenso piuttosto a evitare simili discussioni e a fare proprie le direttive curiali - restano le Relationes de Concilio Tridentino del G., con l'analisi circostanziata degli interventi dei singoli padri, inviate a Morone dal 4 dic. 1562 al 3 febbr. 1563. Anche se il 3 genn. 1563 ometteva di riferire il proprio voto in proposito, il G. dovette in ogni caso condividere la posizione assunta dal legato, riconoscendo semmai, con il sacrificio delle convinzioni personali, la necessità di affrettare la conclusione del concilio. A riassumere la posizione del G. sui decreti conciliari, appare esemplare una sua lettera del 14 nov. 1563 a don Juan Manrique, alla vigilia dell'ultima sessione. L'urgenza con cui egli reclamava il "compimento della riforma" indica un palese adeguamento alla mentalità e alle esigenze curiali. Era superfluo perdere tempo in discussioni teologiche e dottrinali, occorreva soltanto "levar gli abusi per via di riforma et omettere le dispute" (ibid., III, 1, p. 228). Nella consapevolezza che a quella data nessuna "speranza di riduttione di Germania" poteva più essere nutrita, il G. interveniva, sempre a fianco di Morone, per aiutarlo a concludere il concilio. Grazie al suo antico "patrone", che fin dall'ottobre 1563 lo aveva raccomandato a Carlo Borromeo, gli fu assegnata il 1° marzo 1564, in cambio di quella di Ischia, la diocesi di Assisi.
L'elezione al pontificato di Michele Ghislieri, l'8 genn. 1566, aprì nuovamente le indagini su numerosi rappresentanti della gerarchia ecclesiastica. In questo contesto il G. si trovò coinvolto nelle vicende inquisitoriali che colpirono, fra gli altri, Pietro Carnesecchi e Niccolò Franco, e che non risparmiarono lo stesso Morone.
Nel maggio 1566, alla vigilia della consegna al S. Uffizio del protonotario fiorentino da parte di Cosimo I, il G. si affrettò ad allontanare da Roma una "cassa di scritture" contenente, oltre alle lettere che egli aveva ricevuto da Beccadelli e da altri, gli scritti del defunto Pole. Nel timore che potessero offrire prove compromettenti dei rapporti intercorsi tra il porporato inglese e Morone, il G. inviò la cassa in Toscana presso Lelio Torelli, auditore mediceo e suo amico, perché fosse occultata a Pistoia. Circa tre anni dopo il G. fu convocato a Roma in occasione del processo contro il Franco. Egli dovette precisare agli inquisitori, difendendosi forse dai sospetti circa un suo eventuale coinvolgimento nella vicenda, quanto sapeva del "libro diffamatorio scritto […] contro Paolo IV" (Mercati, p. 19), e della sua circolazione.
Durante gli anni della residenza ad Assisi il G. promosse alcune opere architettoniche come la costruzione, dal 1569, della basilica di S. Maria degli Angeli e, dal 1571, il restauro interno del duomo di S. Rufino, entrambi secondo progetti di Galeazzo Alessi. Nell'aprile 1575 accompagnò a Genova Morone, inviato in qualità di legato da Gregorio XIII a svolgere una funzione mediatrice accanto alla Spagna e all'Impero per ricomporre le discordie insorte intorno alla partecipazione al governo tra nobili "vecchi" e nobili "nuovi".
A Genova il G. morì in data incerta ma prima del 2 dic. 1575, quando la diocesi di Assisi fu assegnata al suo successore, Antonio Lorenzini.
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