Filippo Grimani e la «nuova Venezia»
«Il compito di amministrare la cosa pubblica diviene sempre più difficile e gravoso. Si vive una vita agitata e febbrile, tra un tumultuare di idee e di opere: i pubblici servizi, la salute pubblica, l’istruzione, la polizia presentano complessità e varietà di sempre nuove esigenze e di perfezionamenti e non sempre, anzi quasi mai, i mezzi corrispondono alle necessità»(1).
In modi e toni così succinti e significativi il sindaco di Venezia Filippo Grimani riassumeva nel 1914 oltre un decennio di vita e politica amministrativa del Comune di Venezia. Se non fosse per l’arcaismo e l’aulicità dello stile, sembrerebbe di avere a che fare con un moderno politologo alle prese col concetto di overload o «sovraccarico», inteso come freno alle possibilità e capacità di conseguire obiettivi richiesti o proposti a causa della limitatezza degli strumenti a disposizione e conseguente crisi di governabilità e perdita di efficacia dell’azione politica(2), piuttosto che ascoltare un amministratore liberale conservatore di inizio Novecento(3).
Grimani poi, non senza una punta d’orgoglio, tracciava un bilancio dei risultati ottenuti dalla sua gestione ed elencava i principali punti degli interventi che l’amministrazione comunale veneziana aveva affrontato in quegli anni, coincidenti con l’arco dell’età giolittiana:
La ricostruzione del campanile di S. Marco […], la municipalizzazione e lo sviluppo del servizio di navigazione interna, i miglioramenti per i servizi della fornitura del gaz, dell’energia elettrica e dell’acqua potabile, i restauri dei monumenti cittadini, l’apertura dell’esercizio della ferrovia della Valsugana, il contributo in varie forme alla soluzione del problema delle abitazioni, l’istituzione di un ospedale per i tubercolosi, la sistemazione definitiva dell’ospedale delle malattie infettive, i provvedimenti presi per la riduzione e costruzione di edifici scolastici, l’opera multiforme svolta al Lido per assecondare il promettente sviluppo di quella stazione balneare e creare in quell’isola un nuovo centro di vita cittadina(4).
Glorie e lamenti di Grimani si inserivano in un contesto più generale di quello veneziano. Il problema lambiva aspetti e questioni di profondi cambiamenti che avevano coinvolto società, istituzioni, Stato in Italia nell’esordio di secolo, all’indomani del fallimento del «progetto nazionale crispino» e della crisi di fine Ottocento(5) e all’alba dell’impostazione dello «stato amministrativo» e della trasformazione di una «società complessa» insite nel nuovo corso riformatore del «sistema giolittiano»(6). Si aveva a che fare anzitutto con la reimpostazione del rapporto tra «centro» e «periferia», che aveva consolidato una relazione di ammodernamento autoritario del processo di relazioni istituzionali attraverso un centralismo rafforzato e un’autonomia contrattata mediante un sistema di «amministrazioni parallele»(7); ma d’altro canto si mettevano in gioco le discussioni sulle competenze pubbliche in ordine al controllo dei servizi sociali e delle iniziative private nella gestione di funzioni economiche, ammettendo un binario incrociato di relazioni tra burocrazia pubblica e imprenditorialità privata(8).
Esemplare a tale proposito — per non parlare della nazionalizzazione delle ferrovie del 1905 — è il caso della legge 29 marzo 1903, nr. 103, sulle municipalizzazioni, o meglio «sulla assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei comuni». È noto come questa legge lasciasse ampia facoltà ai Comuni di assumere o meno «l’impianto e l’esercizio diretto dei pubblici servizi», senza indicare con precisione natura e caratteristiche di tali «servizi», individuati poi a posteriori perlopiù nelle forniture di acqua, gas, elettricità, trasporti(9). Nonostante alcuni timori per l’insorgenza di un «socialismo municipale» che avrebbero suscitato successivamente alcune amministrazioni, quali quella del «blocco popolare» di Roma retta dal 1907 da Ernesto Nathan o quella socialriformista di Milano governata dal 1914 da Ernesto Caldara(10), lo spirito informatore della legge e le modalità della sua applicazione risposero sostanzialmente alla finalità di «consentire lo sviluppo di una gestione municipale dell’economia evitando il conflitto con l’impresa privata»(11). La legislazione quindi prendeva atto di un «sistema in movimento» e cercava di proporre una forma di «gestione della complessità sociale», in bilico tra istituzioni statali alla ricerca di un «comando impossibile» e di un municipal engineering in costruzione per rispondere alle richieste espresse da una «città che sale», com’è stato indicato con un’efficace espressione mutuata dal titolo di un quadro di Umberto Boccioni(12).
A Venezia anzi ben a ragione si può affermare che l’azione municipalizzatrice messa in atto si mantenne su linee morbide e contenute, evitando di intervenire con forme di concorrenza verso e, soprattutto, contro le imprese private. Tra le varie possibilità a disposizione l’amministrazione comunale veneziana scelse nel febbraio 1904 soltanto quella di una parte del servizio di trasporti mediante vaporetti, inerente la navigazione lagunare interna all’ambito comunale, che venne rilevata dalla Società veneta di navigazione a vapore lagunare(13); si lasciò sussistere invece il servizio privato delle comunicazioni con gli altri comuni persistenti nella laguna esercitato fin dal 1872 dalla medesima società — la cui denominazione originale era Società veneziana di navigazione lagunare —, che nel 1890 era subentrata anche nella navigazione interna alla Compagnie des bateaux omnibus de Venise esercente il servizio dal 1881, che fu causa del primo sciopero di protesta da parte dei gondolieri(14).
Va ricordato per inciso che il Comune di Venezia comprendeva allora, oltre alla città storica e all’isola della Giudecca, la sola isola del Lido, il cui territorio facente capo a Malamocco era stato incorporato nel 1883: le altre isole di Pellestrina, Murano e Burano, ancora comuni autonomi, sarebbero state inglobate a Venezia tra il 1923 e il 1924. Si affacciavano poi nella gronda lagunare i comuni di Mestre, che sarebbe stato annesso alla «Grande Venezia» nel 1924 insieme ad altri comuni dell’immediato entroterra (Favaro, Chirignago, Zelarino), e di Chioggia, che avrebbe mantenuto sempre la propria autonomia(15).Prima però di assumere direttamente la gestione dei trasporti acquei interni — anzitutto le comunicazioni lungo il Canal Grande, che fin dal 1881 era stato classificato «strada nazionale di I classe»(16) — l’amministrazione comunale sottopose la decisione al parere dei cittadini, o meglio di quella parte che godeva del diritto elettorale, indicendo il 18 settembre 1904 un referendum consultivo, il cui esito agli occhi di oggi può apparire irrisorio: su 19.401 iscritti al voto (in rapporto ad una popolazione di 148.000 abitanti), si recarono a votare 6.496 elettori (33,5%), 5.027 (77,4%) dei quali si espressero a favore del servizio pubblico, 1.450 votarono contro, 19 furono le schede nulle(17). Nel 1905 venne costituita l’apposita Azienda comunale di navigazione interna; in otto anni i transiti dei passeggeri nei vaporini dell’azienda municipalizzata conobbero un incremento di quasi il 110%(18).
Nulla si fece per gli altri servizi in merito ad iniziative di municipalizzazione da parte dell’amministrazione comunale, nonostante pendessero lunghi e annosi contenziosi sull’esercizio dell’acqua e del gas(19). Si presero in considerazione — è vero — alcune remote ipotesi di assunzione diretta dei servizi da parte del Comune(20), ma alla fine si imboccò la strada dell’incentivazione privata dei servizi affidati rispettivamente alla Compagnie générale des eaux pour l’étranger, per l’acquedotto, che ne esercitava la gestione sin dal 1879, e alla Società per l’illuminazione a gas della città di Venezia, che ne aveva assunto il servizio dal 1843 con la denominazione originaria di Compagnie du gaz de Venise, espressione locale della ben nota Lyonnaise(21). Interessante questa concentrazione di capitali stranieri a Venezia, che aveva visto protagonisti francesi, inglesi, tedeschi, in una specie di supplenza sostitutiva di iniziative finanziarie e imprenditoriali in una città di lunga decadenza, databile dal suo declassamento da capitale di Stato a sede marginale di sopravvivenza della propria memoria gloriosa(22).
Si incentivò dunque da parte dell’amministrazione comunale l’iniziativa delle società private con miglioramenti contrattuali a loro favore, per di più — per quanto riguarda l’illuminazione pubblica — sollecitando l’intervento concorrenziale di una nuova società gestrice di una risorsa energetica emergente, l’elettricità. Si trattava della Società italiana per l’utilizzazione delle forze idrauliche del Veneto — chiamata più semplicemente Cellina, dal luogo di produzione dei propri impianti —, sorta nel 1900 per iniziativa di un singolare coagulo di aristocrazia, proprietà terriera, finanza, imprenditoria, che a Venezia, come nel resto d’Italia, stava attuando un processo di modificazione dei tradizionali assetti di potere economico mediante la trasformazione delle vecchie concentrazioni e la sostituzione di nuove alleanze imperniate sulle emergenti banche miste(23). Molti dei nomi presenti nell’atto di fondazione e nel consiglio di amministrazione della società sarebbero tornati con insistente ricorrenza nelle maggiori iniziative imprenditoriali a Venezia nel primo quindicennio del Novecento: da Nicolò Papadopoli Aldobrandini a Marco Besso, da Tito Braida a Giuseppe De Zara, da Amedeo Corinaldi a Nicolò Spada(24).
Non è un caso che proprio dal 1900 la Banca Commerciale Italiana fosse presente a Venezia con una propria filiale affidata a Giuseppe Toeplitz, il cui concorso fu decisivo nella costituzione della società Cellina attraverso l’intervento diretto di oltre il 18% del capitale sociale di 6.000 lire(25). Del resto anche il Credito Italiano aveva stabilito una palese presenza a Venezia, non direttamente con l’apertura di una propria rappresentanza, bensì trasversalmente mediante la Società generale italiana di elettricità sistema Edison (Edison) e il suo referente finanziario veneziano, la Banca Treves, con un investimento del 50% del capitale seppur modesto di 600 lire nella Società per l’illuminazione elettrica di Venezia, che era stata fondata nel 1889(26). Questa società elettrica era sorta con intenti industriali e commerciali precisi, anche se inizialmente limitati, concentrati nella fornitura di illuminazione al Teatro la Fenice e all’albergo Britannia, di proprietà dello stesso promotore dell’impresa elettrica sorta nel cuore della città, Carlo Walther, nonché per l’illuminazione pubblica nelle zone adiacenti(27): un’operazione che ricalcava in piccolo l’iniziativa simile messa in atto qualche anno prima a Milano dalla stessa Edison con l’impianto installato nel centro della città per illuminare la Scala e l’area del Duomo, e che riproponeva in Italia quanto già era avvenuto a Parigi, Londra, Berlino(28).
Accanto alla Società per l’illuminazione elettrica di Venezia si sarebbe posta ben presto, come accennato, la società Cellina, che si configurava non soltanto come l’espressione di finanze e imprenditorialità emergenti, ma che propose soprattutto un servizio esteso di illuminazione pubblica progressivamente ricoprente vaste zone della città, anche se naturalmente l’obiettivo principale era costituito dalla fornitura di forza motrice elettrica alle industrie cittadine. La Cellina prima stipulò col Comune un contratto molto vantaggioso, impegnandosi a costruire un impianto di derivazione, trasformazione e distribuzione dell’energia per la città, poi acquistò direttamente dalla Edison l’impianto della Società per l’illuminazione elettrica(29), avviando così decisamente un graduale processo di sostituzione dell’illuminazione pubblica a gas con quella elettrica, ma, ancor più, inaugurando un vero e proprio monopolio di un gruppo, che sarebbe partito da Venezia per coprire una vasta area estendentesi successivamente lungo tutta la costa adriatica dal Veneto orientale fino alla Puglia(30).
Gli umori e le colorazioni della politica amministrativa della città lagunare, che aveva presieduto alle operazioni descritte, non lasciavano spazi a dubbi. Sindaco era Filippo Grimani; la giunta era composta da elementi appartenenti all’ala moderata e conservatrice del liberalismo veneziano e agli ambienti del cattolicesimo intransigente. L’accordo tra le due componenti era stato siglato in occasione delle elezioni generali amministrative del 28 luglio 1895 e aveva portato alla composizione di un’unica lista formata tra il Comitato antiradicale e l’Associazione degli elettori cattolici veneziani allo scopo di contrastare la maggioranza «progressista» che aveva governato la città dal 1890 col sindaco Riccardo Selvatico. La vittoria alle elezioni del 1895 aveva portato alla composizione di una giunta definita «clerico-moderata», che venne affidata in un primo momento alla guida di Dante Serego degli Allighieri, e, alla morte di questi nel novembre successivo, al più significativo erede di una delle più antiche dinastie aristocratiche veneziane, Filippo Grimani(32) appunto, discendente da un’atavica stirpe di dogi di Venezia e di patriarchi di Aquileia, tanto da far dire a un suo panegirista dopo la morte: «Chi grida Grimani grida S. Marco!»(33).
Del resto di apologisti Grimani non dovette sentire la mancanza, se ancora nel pieno fulgore della sua vita nel 1912 un prolisso e logorroico lodatore, Gino Bertolini, gli aveva dedicato ben due volumi di osanna di oltre 2.000 pagine come monumento verboso a «á ¨ρistoj», «il migliore», identificandolo con la «sua» Venezia, centro di tutta l’Italia(34). L’apologeta non sacrificava aggettivazioni cascanti a iosa, che sembrano una silloge del vocabolario di Cantù o del dizionario di Tommaseo: a parte la ricorrente sequenza di titolazioni aristocratiche (conte, patrizio, nobiluomo), si rincorre una serie parossistica di qualità e attributi, di cui si può fornire soltanto una limitata campionatura tratta da una successione inventariata nell’opus magnum: gentiluomo, galantuomo, garbato, buono, calmo, paziente, gentile, cortese, delicato, signorile, sensibile, sensato, equilibrato, sereno, benevolo, arguto, sereno, faceto, versatile, probo, saggio, schietto, sincero, virtuoso, garbato, munifico, diligente, acuto, ossequiente, osservatore, lucido, imparziale, e così via. Ma, al di là di placcature intellettuali, come Giobbe redivivo, angelo, mistico, esteta, filosofo, primeggia su tutte l’invenzione della mitologia del «sindaco d’oro», espressione usata come allitterazione paranoica almeno una settantina di volte (ma il conteggio viene fornito per difetto), con l’apice raggiunto mediante sei ripetizioni in una sola pagina(35).
Ma perché «sindaco d’oro»? Certamente non perché resistente ormai da diciassette anni sul seggio della sede municipale di Ca’ Farsetti (e ve ne sarebbe rimasto altri sette, per complessivi ventiquattro anni, anche se ciò Bertolini non poteva prevederlo), ma per ragioni di simbologie:
Prima di tutto, l’oro fiammeggia spesso nella storia di Venezia. La Nave d’Oro, che era il Bucintoro; la Basilica d’Oro; l’Angelo d’Oro; la Pala d’Oro; la Ca’ d’Oro, ecc. ecc.; e se si vuol far brillare abbastanza nelle tavole eliotipiche d’un libro i ‘Dogi’ e le ‘Donne’ e i ‘Minuetti’ ecc. di Venezia, è mestiere di scegliere il colore rosso, quale succedaneo dell’oro. […] Grimani poi è di nobile lignaggio: il suo nome è quello di una delle più illustri e più antiche prosapie della Repubblica. Qui è il Libro d’Oro che mi assiste: e si badi che tanto più degno di nota è il mio ossequio, dato che non sono solito a tenerlo in biblioteca, quel libro. Il Sindaco d’Oro è, da questo lato, il Sindaco della lunghissima e gloriosa tradizione veneziana: di quella miracolosa tradizione, vivente in tutto il medioevo e in gran parte dell’età moderna, e le cui tracce nessuna vicenda varrà a distruggere. […] Ma Filippo Grimani mi pare particolarmente Sindaco d’Oro, perché tante e tante delle più belle e originali doti dell’anima veneziana egli fa rivivere nella propria […]. Che cosa direbbe una delle nostre popolane, se dovesse giudicare Filippo Grimani, che è tanto popolare?… Direbbe: el x’è un tesoro de omo, un omo d’oro! El x’è proprio oro zechin!…(36).
Era nato a Venezia, Grimani, nel 1850; si era laureato in Giurisprudenza, aveva provato per poco tempo a fare l’avvocato, ma si era reso conto ben presto che vivere della rendita familiare era più produttivo sotto tutti i punti di vista che affaticarsi in una professione borghese. Meglio era controllare gli affari dal palazzo in Canal Grande nei pressi della «volta de Canal» a S. Tomà o nella villa di campagna a Mirano(37). Grimani preferì dunque dedicarsi ai beni di famiglia e al «bene pubblico», seguendo un classico esempio di «notabile» della politica, la cui tipologia sarebbe stata descritta magistralmente da Max Weber(38). Nel 1889 era stato nominato sindaco di Mirano ed era stato eletto nel mandamento di Mirano consigliere provinciale di Venezia. Entrato nel consiglio comunale di Venezia nelle elezioni suppletive del 1893 sostenuto dalla prima lista clerico-moderata che si presentò alle elezioni amministrative veneziane, sarebbe stato riconfermato due anni dopo e poi, come già detto, nominato sindaco(39).
Singolare esperienza questa del clerico-moderatismo veneziano, che non può essere isolata dall’esperienza attraversata dai cattolici dopo la presa di Roma, l’emanazione della legge sulle «guarentigie» e la conseguente dichiarazione del non expedit — cioè di non convenienza, o meglio di non liceità, di partecipazione alle elezioni politiche —, ma che deve essere valutata alla luce della possibilità sempre espressa di partecipazione alla vita amministrativa locale, ritenuta ‘altro’ rispetto alle scadenze elettorali politiche, tappe obbligate delle istituzioni dello Stato liberale giudicato prevaricatore e illegittimo nei confronti dell’istituzione ecclesiastica(40). Anzitutto anticipatrice dei tempi, perché precorse di due anni l’ondata della collaborazione amministrativa tra moderati, conservatori e cattolici, che avrebbe avuto le due punte di diamante proprio nel 1895 a Milano e, appunto, a Venezia(41); in secondo luogo negatrice dell’inconciliabilità sino allora dichiarata tra gli schieramenti interessati, perché si trattò di un accordo (a Milano poi si sarebbe parlato di «contratto») non solo tra liberali moderati, ma anche tra liberali conservatori e clericali, esemplari esponenti di quell’intransigentismo che ebbe in Venezia la sua punta di diamante fin dal 1889, quando alla presidenza dell’Opera dei Congressi e comitati cattolici — l’organizzazione dei cattolici sorta nel 1874 — era stato nominato il veneziano Giambattista Paganuzzi(42); quindi rivelatrice delle tensioni in atto da tempo, manifestatesi palesemente dopo l’allargamento del suffragio con le elezioni del 1889, perché l’alleanza veneziana stava a confermare che l’incontro del clericalismo col liberalismo si collocava all’interno di un progetto politico e sociale congeniale all’insieme dei «gruppi dirigenti» in funzione antisocialista e antiradicale(43); infine espressione della irrinunciabile guida gerarchica della Chiesa cattolica, poiché l’avvicinamento tra schieramenti che sino allora erano apparsi opposti si realizzò grazie all’intervento e alla mediazione di due cardinali quali l’arcivescovo di Milano Andrea Ferrari, arrivato nella diocesi nel settembre 1894, e il patriarca di Venezia Giuseppe Sarto — futuro papa Pio X —, giunto a Venezia nel novembre dello stesso anno dopo una lunga diatriba col governo presieduto da Crispi sulla questione dell’exequatur(44).
Certamente Venezia non era Milano: le due città, le due società, le due economie erano troppo diverse. Milano ormai si era incamminata decisamente sulla strada dell’industrializzazione, con l’avvio di un vero take off industriale, la formazione di un proletariato diffuso, l’insorgenza di una estesa urbanizzazione, la costituzione di parte integrante con Torino e Genova del «triangolo industriale»(45). Per di più Milano non aveva mai abdicato al suo ruolo di città-stato, centro e perno ‘naturale’ delle élites commerciali, imprenditoriali, finanziarie, tanto da dare adito alla costruzione di una tradizione dello «Stato di Milano», motore dell’economia e antagonista delle crisi istituzionali centrali, unanimemente rivendicato, ovviamente con diverse impostazioni e obiettivi, da tutte le componenti politiche sia conservatrici che moderate, sia radicali che repubblicane, sia clericali che socialiste(46).
Venezia a cavallo tra i due secoli era ancora segnata da attività tradizionali e intrisa di un tessuto sociale preindustriale, ma non agricolo, date la caratteristica e la conformazione della città, segnata però da alcuni significativi prodromi di insorgente industria «moderna». Un quadro eloquente della situazione dell’industria è presentato dal rilevamento statistico sulle «condizioni industriali della provincia di Venezia» promosso dalla Direzione generale di statistica nel 1898. L’indagine prese in considerazione tutta la provincia di Venezia, ma i riferimenti specifici compresi nella rassegna e la comparazione con altre fonti consentono di far emergere i dati disaggregati per la città di Venezia. In poche industrie prevaleva il maggior numero di occupati: si trattava soprattutto di «industrie di Stato», tra le quali emergevano l’Arsenale e la Manifattura Tabacchi, che impiegavano rispettivamente 3.442 e 1.206 addetti, nel primo caso quasi esclusivamente uomini, nel secondo donne. A un buon livello si collocavano, sempre per quantità di lavoratori impiegati, le industrie meccaniche — alcune delle quali legate alla cantieristica — con 1.247 occupati, tra cui eccellevano i 280 della fonderia-meccanica Neville, i 240 della cantieristica e meccanica Società veneta per costruzione ed esercizio di ferrovie secondarie italiane (Veneta), i 178 del silurificio Schwartzkopff; quelle cotoniere (Cotonificio Veneziano) con 992 operai nella maggior parte donne; quelle vetrarie di antica e tradizionale ascendenza — quasi tutte collocate nell’isola di Murano (ancora comune autonomo, come si è ricordato) — con ben 3.800 lavoratori (circa 2.000 dei quali donne lavoranti a domicilio come impiraperle). Altro settore non trascurabile era quello della lavorazione dei merletti, antica attività di remota origine, che si esercitava principalmente nelle isole di Pellestrina e Burano (pure questi ancora comuni autonomi), sempre con lavoro femminile a domicilio, con una stima approssimativa di 2.790 lavoranti(47). A Venezia dunque erano presenti alcune industrie che costituivano una punta di diamante avanzata, con qualifiche di forte specializzazione, come le industrie meccaniche — si distinguevano soprattutto quelle collegate alla motoristica e alla cantieristica —, e altre invece che rimanevano legate a produzioni e lavorazioni pressoché arcaiche, come quelle del vetro e dei merletti.
A questi settori occupazionali, in bilico tra forme e aspetti di modernizzazione e di arretratezza, va aggiunto il settore che offriva il più ampio mercato di lavoro diretto e indiretto, il porto, che nel 1901 poteva contare in totale su 4.320 persone coinvolte(48). Un ramo in forte espansione quello del porto veneziano, che, dopo un lungo periodo di stasi nel corso di quasi tutto l’Ottocento, aveva conosciuto un impulso di accelerazione da quando il governo italiano aveva cominciato a guardare a Venezia come alternativa al porto austriaco di Trieste dopo l’apertura del canale di Suez. Dal 1880, anno dell’entrata in funzione della nuova stazione marittima, al 1906, quando il porto di Venezia raggiunse il livello di secondo porto in Italia dopo quello di Genova, le attività portuali veneziane conobbero una crescita quasi frenetica del 385%(49).
Ma i lavoratori collegati alle produzioni descritte non potevano contare su una forte consistenza di organizzazioni operaie, se non in settori alquanto limitati, come in quelli di più avanzata produzione, esclusi però ambiti di notevole rilevanza quantitativa di mano d’opera, come l’Arsenale, a causa del regime di militarizzazione dell’inquadramento nel lavoro, che vietava ogni forma di sindacalizzazione. La stessa esperienza del socialismo veneziano poi era stata alquanto travagliata. Uscito piuttosto tardi da un’accentuata fase anarchica, il maggior esponente del socialismo veneziano divenne Carlo Monticelli, che abbracciò la via di un socialismo eclettico nostalgicamente legato alla tradizione operaista, tanto da organizzare a Venezia ancora nell’ottobre 1895 — a tre anni di distanza dalla fondazione del partito dei lavoratori italiani — un congresso nazionale operaio(50). Promotrice ufficiale del congress si era fatta la locale Camera del lavoro, una delle prime sorte in Italia e diretta appunto da Monticelli, che aveva potuto contare inizialmente su un aiuto economico stanziato dalla giunta democratica, radicale e moderata nello stesso tempo, guidata dal sindaco Riccardo Selvatico(51).
La giunta Grimani invece, appena conquistato il Comune nel 1895, pensò bene di eliminare il sussidio alla Camera del lavoro, che si avviò così verso una inevitabile crisi di sussistenza, dirottandolo verso il Segretariato del popolo, organismo di derivazione dell’Opera dei Congressi(52). Si sarebbe dovuto attendere l’esordio del nuovo secolo perché a Venezia si vedessero operare socialisti ancorati alla linea del partito socialista dei lavoratori italiani, quali Eugenio Florian ed Elia Musatti — capostipite questi del primo gruppo di socialisti entrati in consiglio comunale nelle elezioni del 1905 e primo deputato socialista eletto a Venezia nel 1909 — e, ancor più in là negli anni, capaci di impostare un’azione politica e sindacale di ampio respiro, come Girolamo Li Causi — giunto a Venezia per studiare nell’istituto superiore di economia e commercio (Ca’ Foscari) — e Giacinto Menotti Serrati, che nel 1912 prese in mano le redini della Camera del lavoro e del giornale «Il Secolo Nuovo»(53).
La solidarietà clerico-moderata non fu certo scalfita dalla crisi istituzionale seguita allo stato d’assedio decretato dal governo Rudinì per affrontare col ristabilimento della «quiete» e col «riordinamento sociale» i moti della «plebe» contro il ‘carofame’ del 1898. La repressione attuata all’insegna del proclama «l’ordine è ristabilito» portò a individuare tutti i possibili avversari delle ricostituzioni statali, quindi non solo i socialisti, ma in taluni casi anche alcune sacche cattoliche. Anche a Venezia, come in altre parti d’Italia, l’autorità pubblica stabilì lo scioglimento temporaneo di qualche organismo cattolico, che però presto venne ricostituito, a differenza della scure ben più pesante e recisa abbassata sulle organizzazioni socialiste(54). Ma si può dire che — al di là dei morti di piazza provocati dall’intervento dell’esercito — in ogni caso queste furono misure persecutorie preventive, ben diverse da quanto sarebbe capitato qualche anno dopo, in occasione dello sciopero generale del settembre 1904 che spaventò e angosciò larghi strati della borghesia, anche per il diverso atteggiamento di non ingerenza messo in atto dal governo Giolitti. Proprio in quella circostanza a Venezia si rafforzò il patto sociale tra moderati, conservatori e cattolici(55). Grimani prese in prima persona l’iniziativa di scindere ogni responsabilità di fronte al terrore provocato più che dal «pericolo della rivoluzione» dalla inazione delle istituzioni, e far avvertire così la distanza che lo separava dalla politica giolittiana del non intervento. La lettera dai toni catastrofici rivolta al presidente del Consiglio il 20 settembre in realtà, prendendo lo spunto da un resoconto dei fatti verificatisi a Venezia, era un manifesto antigiolittiano alquanto contraddittorio con il momento, che avrebbe determinato, proprio in conseguenza della paura verso il socialismo, la prima tacita partecipazione dei cattolici alle elezioni politiche che si sarebbero svolte di lì a poco.
Ora che la città è rientrata nella calma [esordiva Grimani] e ai cittadini è stato concesso di riprendere la vita ordinaria, l’amministrazione comunale sente il dovere di rivolgersi al governo in nome della cittadinanza che per due giorni fu gravemente lesa nella libertà e negli interessi ed impedita perfino di soddisfare alle legittime sue esigenze.
Sospesa per tutta la giornata di domenica ogni comunicazione della città colla terraferma sia per la via ferrata, sia per le vie d’acqua; impedito e sospeso per due giorni il servizio interno dei vaporetti e delle gondole; sospeso per due notti il servizio della pubblica illuminazione; impediti colla violenza i vigili urbani di disimpegnarlo in sostituzione dei gasisti scioperanti; impedito il trasporto dei malati all’ospedale e privato l’istituto della carne e del latte; minacciata la conduttura dell’acqua; minacciato il servizio di estinzione degli incendi; chiusi forzatamente gli edifici destinati al culto; imposta la chiusura di tutti i negozi, quelli perfino necessari alla alimentazione; sospeso in alcune parti della città il servizio telefonico mediante la rottura dei fili; sospesa la distribuzione della posta a domicilio; recati guasti alle lampade, agli orologi pubblici; impedito il servizio della polizia stradale; abbandonata la città alla balìa del disordine e della prepotenza: questo lo spettacolo al quale assistettero in questi giorni, rattristati e scandalizzati migliaia di forestieri.
La più ampia libertà fu infatti lasciata ai promotori di cotali disordini, mentre fu tolta del tutto alla massima parte della cittadinanza la quale a ragione si lagnava dell’assoluto abbandono in cui venne lasciata da parte del governo.
[…] Mai Venezia si è sentita meno governata che in questi giorni ed è notorio che non vi erano in essa nemmeno gli elementi necessari per mantenere l’ordine o per ripristinarlo in caso di maggiore violazione.
[…] Perciò l’amministrazione comunale manda al governo viva protesta e domanda che la libertà sacra per tutti, sia a tutti, da chi si deve, mantenuta e garantita.
[…] L’amministrazione comunale ha diritto di sapere se il governo intende di proteggere la cittadinanza da ogni sopruso, o se questa deve pensare a sostituirsi ad esso per provvedere alla legittima difesa di sé stessa(56).
Invero Grimani non era e non sarebbe stato un antigiolittiano di principio. La lettera però indica in modo chiaro e significativo perché dieci anni prima fosse stato scelto Grimani a guidare la nuova coalizione clerico-moderata. Lo avrebbe ricordato in seguito, nel 1924, il suo commemoratore ufficiale, il cattolico Francesco Saccardo, fornendone una descrizione completa ed esaustiva:
Credente e legato alle istituzioni patrie; veneziano ma senza rimpianti e devoto fino alla gelosia alla Dinastia di Savoia, riconoscendola cardine della sicurezza e della prosperità italiana, nel suo animo. Egli auspicava il progredire ognor crescente di quel risveglio in cui l’Italia avrebbe finalmente ritrovato se stessa. A quel programma si mantenne ligio con la sincerità della sua fede, con la lealtà del gentiluomo(57).
Dunque uomo della tradizione ma aperto al «progredire», cattolico ma laico, aristocratico monarchico ma pronto allo spirito borghese, capace di mantenere uomini «vecchi» come Antonio Fradeletto alla guida della Esposizione internazionale d’arte(58), e ad accogliere uomini «nuovi» come Giuseppe Volpi, col quale si sarebbero tessute nuove trame su una prospettiva di Venezia «emporio moderno»(59). Insomma, virtù che lo avrebbero tenuto alla guida del Comune per quasi un quarto di secolo, nonostante scossoni non indifferenti, anzi, forse, anche per merito di questi. Il più emblematico appare il crollo del campanile di S. Marco. Si può dire che nel primo quindicennio del nuovo secolo a Venezia tutto ruoti intorno alla caduta e alla ricostruzione del campanile. Fu un evento traumatico, ancorché simbolico, la mattina del 14 luglio 1902 la seduta su se stesso del campanile edificato tra il X e l’XI secolo. Era una fine annunciata quella del campanile, che almeno da dieci anni aveva suscitato via via le preoccupazioni sempre più crescenti del «proto» di S. Marco Pietro Saccardo, anche in considerazione del fatto che alcuni restauri intrapresi non avevano affrontato radicalmente la situazione. Sicché la mattina fatale, quando i tecnici costatarono con passiva rassegnazione che «è tutto inutile», si procedette allo sgombero di piazza S. Marco in attesa dell’inevitabile(60). «El paron de casa» venne giù, «xe cascà»: si parlò di «eroe infranto», «sventura», «disastro», «catastrofe», «di rovina in rovina», «lutto cittadino», anzi «nazionale»(61), cantando l’inno funebre all’insegna del motto della Serenissima «pax tibi Marce», come modulò Maria Pezzè Pascolato:
Go durà mile ani — mile ani —
Venezia, vechia mia, no te lagnar,
In là, fioi, che no vogio far malani,
Pax tibi Marce, a l’ora de cascar(62).
Una specie di evirazione della città, come forse inconsapevolmente mise in evidenza Antonio Fradeletto dopo l’erezione del nuovo campanile:
Necessità per la deliziosa Loggetta, cespo fiorito del Rinascimento, che non poteva sopravvivere avulsa dalla quercia medievale a’ cui piedi era germogliata in una stagione di sole e di gioia. Necessità per Venezia, che, veduta di lontano, dalla laguna, sembrava una città umiliata, decapitata. Esitante a levarsi dal seno di quelle onde di cui un giorno aveva tenuto l’impero. Necessità per l’anima, che in quel culmine lanciato verso il cielo ravvisava un simbolo di elevazione civile e quasi l’antenna del gran vascello italico navigante verso i paesi del sole e delle spezie, mentre ancora ruggiva il mar grosso della barbarie feudale(63).
Fatto simbolico questo del campanile: sarebbe stato riedificato «dov’era e com’era», anche se sarebbe stato non più «il monumento della passata grandezza» ma «il monumento della nostra gratitudine verso le glorie del passato», come si sarebbe espresso Grimani a testimonianza della convinzione dell’esistenza di una «Venezia antica» e di una «Venezia nuova»(64); avrebbe congiunto idealmente il Comune, lo Stato — soprattutto per le risorse finanziarie, per un totale di 2.800.000 lire —, il Patriarcato, la Santa Sede — una riunificazione ideale mentre patriarca di Venezia era Sarto: una specie di anticipazione delle predisposizioni che Sarto, divenuto papa Pio X l’anno seguente, avrebbe espresso per il tacito consenso della partecipazione dei cattolici alle elezioni politiche(65) —; una liaison indiretta tra Chiesa e monarchia, dal momento che il campanile sarebbe stato inaugurato dopo la ricostruzione nel giorno di S. Marco — patrono, mito, simbolo di Venezia — il 25 aprile 1912 alla presenza del patriarca Aristide Cavallari, della rappresentanza regale (il duca di Genova), oltre che, naturalmente, del sindaco Grimani(66). Del resto Grimani era salito alla soglia di sindaco e vi era rimasto ancorato anche grazie alle promesse fatte in antitesi alla precedente amministrazione Selvatico, e tutte mantenute, di ripristino dei ponti votivi provvisori su chiatte di legno sul Canal Grande o sul canale della Giudecca in occasione di festività religiose particolarmente significative per la città, come la Madonna della Salute, il Redentore, S. Antonio, della presenza ufficiale della rappresentanza comunale nelle celebrazioni religiose delle stesse festività o di altre ancora, come il Corpus Domini o l’Ascensione; oppure della reintroduzione della preghiera e dell’insegnamento religioso nelle scuole elementari, dell’assistenza religiosa agli ammalati in ospedale, e così via(67).
«A Venezia casca tutto», avevano tuonato quanti si erano lamentati dei mancati interventi decisivi per la salvaguardia del campanile di S. Marco(68). Ma la Venezia antica si manifestava, più che nella sua conformazione e nei suoi monumenti, nella vita quotidiana, nella miseria di ogni giorno. La celebrazione della morte e del lutto di Thomas Mann in Der Tod in Venedig non fece che riecheggiare un mito tramandato e un’esperienza vissuta. Mann aveva potuto vedere gli effetti e le manifestazioni del colera a Venezia durante il suo soggiorno nel 1911:
L’autorità locale aveva fatto rispondere che le condizioni sanitarie di Venezia non erano mai state migliori, e aveva preso i provvedimenti indispensabili in casi simili. Ma probabilmente molte cibarie — verdure, carne, latte — erano già contaminate, poiché ad onta di smentite e zittìi, la morte mieteva vittime nell’intrico delle calli; e la precoce calura estiva, intepidendo l’acqua dei canali, era un fomite di contagio. In verità sembrava che il morbo si fosse arricchito in vigore, che fosse raddoppiata la tenacia, la prolificità dei suoi agenti. Rari erano i casi di guarigione: l’ottanta per cento dei colpiti moriva, e di morte atroce, poiché la malattia aveva assunto virulenza terribile e si presentava sovente sotto la forma più pericolosa, quella chiamata ‘secca’. Questa faceva sì che il corpo non riuscisse neppure più ad espellere l’acqua, secreta in gran copia dai vasi sanguigni: in poche ore il malato si prosciugava e moriva tra spasimi e rantoli lamentosi, soffocato dal sangue fattosi denso come pece. In alcuni, più fortunati, il male si manifestava in forma di profondo sopore susseguente a un leggero malessere; allora non si svegliavano più, o solo per brevi istanti(69).
Effettivamente l’epidemia colerica del 1911 a Venezia colpì 247 persone in maniera certa e provocò 88 morti, classificati statisticamente come decessi per «malattie d’origine esotica». La causa, secondo il direttore dell’Ufficio d’igiene del Comune, Raffaello Vivante, andava ricercata, oltreché nelle condizioni e abitudini antigieniche di molta parte degli strati popolari, nella raccolta fatta in acque inquinate di molluschi e crostacei, soprattutto di un tipo di caratteristici granchi locali, le «masanete», che in periodo autunnale erano state pescate in grande abbondanza, avevano fatto crollare i prezzi di mercato e quindi erano state vendute «a vilissimo prezzo» e mangiate «in quantità insolitamente smodata»; certamente questi crostacei venivano sottoposti a cottura prima di essere consumati, con conseguente eliminazione del vibrione colerico, ma il consumo eccessivo aveva creato condizioni ideali per l’attecchimento dello stesso vibrione mediante contatti diretti con portatori o con ingestione di altri cibi infetti(70).
Il livello dei morti per tale causa però stava ben al di sotto di quello prodotto da altre malattie infettive, pressoché endemiche, come la tubercolosi, che, sempre nel 1911, aveva provocato in città 338 morti. Certo che proprio in quell’anno su 508 decessi per malattie infettive, ben 426 erano imputabili alle due cause di mortalità indicate. Se poi si aggiungono i 41 morti per tifo addominale, si raggiunge la quasi totalità delle cause di mortalità infettiva(71). La tubercolosi non presentava dati particolarmente ragguardevoli a Venezia rispetto ad altre grandi città italiane, mentre si attestava su quote notevolmente inferiori rispetto a una vicina città straniera come Trieste, dove si arrivava a gradi doppi di asprezza, pari soltanto a quelli record registrati a Parigi(72).
Alcuni fattori predisponenti a Venezia concorrevano a mantenere la cronicità di certe situazioni. Anzitutto si poteva rilevare una carenza di educazione igienica della popolazione, che, oltre all’inveterata abitudine di gettare nelle calli i rifiuti domestici, continuava a scaricare spesso e volentieri nei rii — laddove le abitazioni vi si affacciavano — i residui organici umani, data la penuria di servizi igienici, come si dirà di seguito(73). Figurarsi poi dove esistevano anche stalle: già, perché a Venezia ancora all’inizio del secolo si potevano contare 80 stalle, di cui 25 bovine in città, 26 sempre bovine nelle isole, e altre 29 equine, suine, ovine, anche se nessuna di queste rispondeva a requisiti di tipologia zootecnica, essendo in maggior parte magazzini adattati, e l’allevamento risultava problematico a causa della difficoltà di approvvigionamento di foraggio; si aggiungano poi le penose dislocazioni dei letamai a cielo aperto che ammorbavano tutt’intorno coi loro miasmi e dispersioni(74).
Nonostante quindi la verifica che «il bacino su cui sorge Venezia, ha indubbiamente una facoltà autodepurativa, che non si appalesa soltanto là dove i canali sono larghi e regolari, ma che si rende già sensibile nelle più remote e strette diramazioni della canalizzazione», si era intravista da tempo la necessità di intervenire mediante un regolare sistema di fognatura a canalizzazione con percorso quanto più lineare possibile e sbocco diretto nei canali in modo da favorirne la «diluizione naturale»(75).
Ma la causa principale di ogni genere di «insalubrità» andava ricondotta, secondo il medico capo dell’Ufficio d’igiene del Comune, alle condizioni penose della maggior parte delle case abitate dai ceti sociali popolari. Nel 1909 su 23.325 abitazioni della città storica ben 3.534, cioè il 15,1%, venivano classificate inabitabili. Di queste 1.967 (55,6%) si trovavano a pianoterra, quindi soggette all’umidità e all’invasione dell’acqua alta; 2.227 (63%) erano di piccole dimensioni, quindi sovraffollate. Si pensi poi che in totale abitavano nei pianoterra ben 12.086 persone su una popolazione di 135.416 abitanti, quindi in percentuale l’8,9%, e che il sovraffollamento abitativo coinvolgeva 30.282 persone (22,4%). Le latrine erano assenti soltanto in 159 abitazioni, ma 16.423 (27,7%) abitazioni possedevano soltanto il servizio igienico in comune, 10.880 (46,6%) delle quali lo avevano collocato in cucina; 6.455 (27,7%) potevano servirsi del water-closet; 10.746 (46,1%) case risultavano prive di acqua corrente(76). Tutte condizioni che facevano ritenere a Vivante, non a torto, che il problema della casa fosse assolutamente quello prioritario per impostare ogni forma di controllo e intervento igienico-sanitario a Venezia.
Proprio sulle «case sane, economiche e popolari» la giunta Grimani aveva puntato, assumendo una direttiva che era stata impostata dalla precedente amministrazione Selvatico. L’obiettivo di procedere ad un intervento migliorativo di alcune delle condizioni più precarie in cui si trovava a vivere gran parte della popolazione veneziana a causa delle inadeguate condizioni abitative — individuate nel degrado edilizio, nella precarietà igienica, nel sovraffollamento — venne avviato inizialmente nel 1889 con la formulazione di un «progetto di risanamento» inserito nell’elaborazione di un piano regolatore della città, impostato nelle sue grandi linee fin dal 1886 e perfezionato due anni dopo, nel 1891, con l’adozione di un «provvedimento generale per promuovere la costruzione di case sane ed economiche» affiancato all’adozione di un «piano di risanamento» e a un «piano regolatore» per Venezia approvato ufficialmente in sede comunale e ministeriale(77). Nel 1893 il Comune stipulò una convenzione con la Cassa di Risparmio e approvò uno stanziamento di 500.000 lire come intervento diretto per la costruzione di «case sane ed economiche», affidandone il compito ad un’apposita commissione amministrativa del fondo per la costruzione di case sane, economiche e popolari(78). Per la realizzazione delle costruzioni vennero individuati ben 37.000 mq situati in varie zone periferiche della città — soprattutto nei sestieri di Castello, Cannaregio, S. Polo —, che disponevano ancora di ampi spazi liberi per nuove edificazioni. Le scelte delle aree a Venezia erano obbligate, non potendo la città, per la sua particolare conformazione, estendersi in ampie zone circostanti, come stava avvenendo negli stessi anni in altre grandi città italiane, ad esempio Milano o Roma(79). A Venezia cioè si potevano utilizzare soltanto spazi non edificati interni alla città storica o tutt’al più ricavabili mediante interramento di «barene» o «sacche» circostanti.
I lavori per il primo blocco di case vennero iniziati nel 1897 e conclusi nel giro di poco più di un anno(80). Fu dunque — come già osservato — l’amministrazione Grimani ad avviare un programma che era stato formulato in precedenza. Nel corso di quindici anni il Comune impegnò complessivamente una somma di 2.850.000 lire per la costruzione di ben 56 edifici con totali 601 appartamenti in varie parti della città(81). Il bilancio poteva essere più che lusinghiero, tanto che, ancora ‘in corso d’opera’, Grimani aveva ottenuto un plauso da Luigi Luzzatti, che, come noto, aveva promosso nel 1903 la prima legge sulle case popolari(82): «Ella, egregio Sindaco [scrisse Luzzatti], ha messo il suo grande Comune fra i primi e più fortunati cultori di questi gravi problemi sociali che sono la gloria e il tormento dei nostri tempi»(83).
Nel 1910 il Comune passava le competenze della precedente commissione ad un ente creato specificamente, l’Istituto autonomo per le case sane ed economiche, che qualche anno dopo si sarebbe trasformato in Istituto Autonomo per le Case Popolari(84).
Considerazioni a sé stanti meritano invece le progettazioni di due veri e propri quartieri, quelli di S. Elena, nell’estrema punta sud-est della città, e del Lido, precisamente in località Quattro Fontane, perché furono ideati completamente ex novo in terreni interamente liberi e affidati all’impostazione di veri e propri piani. Nel primo caso si parlò di «colonizzazione» di un’isola che era stata bonificata con l’interramento di sacche e barene; il piano regolatore dell’isola era stato affidato nel 1911 alla direzione degli architetti Giuseppe e Duilio Torres, i quali previdero l’insediamento di un quartiere dalla struttura urbanistica tipicamente metropolitana, scostato del tutto dalle consuete tipologie edilizie di Venezia(85). Nel secondo caso invece si indisse un concorso di progettazione, che avrebbe dovuto contenere i presupposti di una «città giardino»; anche questa volta nell’ideazione si sarebbero cimentati i fratelli Torres(86).
In realtà nessuno dei due piani sarebbe stato portato a realizzazione per il momento: l’attuazione sarebbe stata soltanto avviata, sospesa poi temporaneamente durante la guerra, ma soprattutto rinviata in attesa di adottare una decisione di fronte ad un’alternativa non tanto tra S. Elena e Lido, bensì tra i due quartieri e una ipotesi di «sviluppo edilizio» nella zona dei Bottenighi, cioè ai margini della laguna nella terraferma, dove si stava impostando il nuovo progetto di Marghera(87), come si vedrà. Le idee sarebbero state riordinate dopo la fine della Grande guerra, conferendo un’integrazione di riprogettazione in entrambi i casi al tecnico di fiducia dell’Istituto Autonomo per le Case Popolari, l’ingegnere Paolo Bertanza(88).
L’isola del Lido comunque aveva conosciuto nel corso dei primi anni del secolo una profonda trasformazione, che ne aveva cambiato radicalmente l’assetto. In dieci anni l’incremento della popolazione era stato notevole, passando dai 1.796 abitanti del 1901 ai 4.202 del 1911, con un aumento del 134%(89). Ciò era dovuto all’allargamento degli insediamenti connesso all’espansione delle infrastrutture della fascia centrale dell’isola. Era stato soprattutto lo sviluppo del turismo balneare a fare da volano. Nel 1907 si erano potute contare 3.500.000 presenze, concentrate quasi esclusivamente nella stagione estiva(90). La potenzialità dell’incremento economico e urbanistico del Lido era stata pienamente intuita sin da quando, nel 1872, la Società dei bagni aveva puntato sull’utilizzazione delle spiagge e sugli ampi spazi dell’isola. Nel 1900 era stato ultimato il primo grande albergo di lusso, l’Hotel Des Bains, su progetto di Francesco Marsich. Ma ben presto il controllo del turismo di lusso venne assunto dalla Compagnia Alberghi Lido, che si era costituita nel 1906 intorno alla concentrazione di potere ormai dominante a Venezia e che vedeva presenti i consueti nomi, quali Nicolò Papadopoli Aldobrandini, Alberto Treves de’ Bonfili, Tito Braida, Nicolò Spada, Giuseppe Volpi, nonché, naturalmente, la Banca Commerciale col 20% di partecipazione al capitale sociale d’origine(91). Ben presto la società alberghiera, che l’anno seguente cambiò il nome nel definitivo Compagnia Italiana Grandi Alberghi (C.I.G.A.), assorbì la Società dei bagni e procedette alla costruzione del secondo albergo di lusso, l’Hotel Excelsior, terminato nel 1908 su progetto dell’architetto Giovanni Sardi(92).
Il Lido dunque era diventato una realtà dell’«industria del forestiero», industria d’élite che aveva richiesto ingenti opere infrastrutturali, tanto che dopo il primo quindicennio del secolo Grimani poteva fornirne soddisfatto una descrizione compiaciuta:
Il Lido non è più la duna sabbiosa, il poetico deserto d’un tempo, e non è nemmeno più soltanto la stazione balneare di vent’anni fa, con la modesta chiesetta, che circondano le poche case con l’unico stradone della laguna al mare percorso da un tram a cavalli tra campi coltivati ed orti, con la sua breve vita effimera dei giorni estivi. Oggi il Lido è coperto da una rete di strade e di larghi viali che lo intersecano in lungo e in largo, ha canali e ponti, giardini, ville, alberghi, caffè, teatri, un servizio incessante di vaporini che lo mette in comunicazione rapida e frequente con la città e l’estuario, un servizio decoroso di tram elettrico, una ricca illuminazione, stabilimenti dei bagni alla portata d’ogni ceto di persone, un grandioso servizio di capanne per la cura dell’aria e dell’acqua di mare(93).
Se si volesse individuare un simbolo della Venezia in trasformazione da una fase ancora in attesa di decollo ad una di avvio alla modernità, questo non potrebbe essere trovato che nella maggiore impresa creata nei primi anni del secolo, la S.A.D.E. (Società Adriatica di Elettricità). Il destino di questa industria elettrica si sarebbe intrecciato e incrociato nel bene e nel male con i vari periodi di prosperità e decadenza attraversati da Venezia nel corso del Novecento.
Alla costituzione della società nel 1905 concorsero i consueti personaggi: Nicolò Papadopoli Aldobrandini, Giuseppe Volpi, Ruggero Revedin, Tito Braida, ma vi si inserirono anche nomi ‘nuovi’ rispetto ai precedenti, come quello di Maurizio Capuano — uno dei massimi esponenti della Società meridionale di elettricità(94) —, o quello di Piero Foscari(95) — altro nome di antica ascendenza dogale —, che però ‘nuovo’ certamente non era nell’ambiente veneziano né in quello finanziario imprenditoriale, avendo assunto la responsabilità o promosso in modo determinante numerose iniziative di penetrazione finanziaria nei Balcani, interpretata unanimemente come una delle più significative presenze dell’espansionismo imperialistico italiano all’inizio del secolo(96). Foscari si trovava implicato in tutte le maggiori iniziative dirette o indirette della Banca Commerciale nella regione balcanica: apparteneva cioè al gruppo degli «amici veneziani» della banca(97). Società per le miniere d’Oriente (1901), Sindacato italo-montenegrino (1903), Regia cointeressata dei tabacchi del Montenegro (1903), Compagnia di Antivari (1905), ma soprattutto la Società commerciale d’Oriente (1907) — un’autentica filiale della Banca Commerciale in tutta l’area balcanica e in Turchia — rappresentavano le imprese più significative della banca e dei suoi «amici»(98).
Evidentemente alla nascita della S.A.D.E. non poté essere estranea la Banca Commerciale, che vi partecipò non soltanto con la presenza del nuovo direttore della sede veneziana, Giovanni Battista Del Vo, ma ancor più col concorso di una quota percentuale del 6,4% sul capitale sociale della società(99). Fu proprio la S.A.D.E. che divenne la leva e il punto di forza per la configurazione di un complesso finanziario vasto e articolato, che si sarebbe sfaccettato in vari aspetti, come impresa di produzione e di fornitura di energia elettrica, come holding di un gruppo di imprese adibita al controllo anche di altre società di produzione, come canale di partecipazioni incrociate con altre grandi industrie elettriche o imprese finanziarie italiane prima, ma anche internazionali poi: insomma, un vero e proprio colosso economico e finanziario(100).
La nascita e la prima crescita della S.A.D.E., come delle altre società finanziarie e industriali di cui si è parlato, coincise non soltanto con un trend generale di sviluppo industriale che stava coinvolgendo l’Italia(101), ma si manifestò negli anni in cui a Venezia si espresse il dibattito sull’ampliamento del porto e sull’insediamento di una sua parte nel margine lagunare della terraferma. Lunga e ampia fu la discussione che si accese intorno alla questione, finché la svolta decisiva venne data dalla proposta avanzata nel 1905 da Piero Foscari di progettare un rafforzamento delle funzioni e delle attività portuali in relazione con un più generale «problema industriale» e con l’«avvenire industriale» della città, che non poteva essere disgiunto dalla «grande industria moderna». Venivano poste così le premesse e le basi del «progetto di Marghera», riferito alla obbligatorietà ormai irreversibile di individuare «vaste aree necessarie alle grandi industrie manifatturiere», di cogliere le potenzialità insite in un ampio hinterland che si estendesse dall’Adriatico al centro Europa, di superare con la moderna vitalità del sistema di produzione industriale la china altrimenti fatale della «morte di Venezia»(102). Non si trattava più soltanto di pensare a una semplice dilatazione del porto in terraferma, ma di individuare una nuova funzione portuale fondata sul collegamento senza soluzione di continuità nave-industria-treno, cioè rifornimenti, trasformazioni, trasporti(103).
Il progetto può essere sintetizzato in alcune ulteriori espressioni di Foscari: «dovunque è laguna ivi è Venezia», egli aveva affermato sempre nel 1905, aggiungendo qualche anno dopo «porto significa zona industriale»(104): veniva così codificato l’assioma secondo cui il porto di Venezia avrebbe potuto e dovuto estendersi in tutto l’arco lagunare, quindi anche nei contermini di terraferma; ma ancor più che in aggiunta al vecchio porto commerciale si sarebbe dato corso a un nuovo porto industriale. Erano state gettate dunque le premesse per la realizzazione di un porto industriale, di cui altrove era stata fatta già una prova con la costruzione di un porto attrezzato in funzione industriale ad Antivari da parte della omonima Compagnia(105).
Le tappe successive si accavallarono piuttosto rapidamente. Si trattava anzitutto di improntare le prime infrastrutture. Prioritaria si presentava la necessità di collegare la zona individuata in località Bottenighi di Marghera con un canale navigabile che la congiungesse senza soluzione di continuità al vecchio porto commerciale nel canale della Giudecca e di qui all’accesso al mare attraverso il bacino di S. Marco e la bocca di porto del Lido. Utilizzando le opportunità messe a disposizione dalla legge sulle nuove opere marittime del 1907 e l’approvazione del piano regolatore per il nuovo porto dell’anno seguente, nel 1909 si diede avvio all’escavazione del canale di collegamento, che sarebbe stato completato nel 1913(106).
Ma di lì a poco a sospendere temporaneamente le iniziative sopraggiunse l’«accidente» della guerra. Incidente opportuno e salutare per le sorti di Marghera, perché, se tutte le circostanze avrebbero potuto fare pensare ad un’interruzione del percorso, in realtà paradossalmente ne accelerarono le tappe. La congiuntura di guerra, come noto, produsse effetti benefici nella maggior parte dei settori industriali, tra i quali emergeva quello elettrico per via di ripercussioni finanziarie a catena(107). La S.A.D.E. si inserì a pieno titolo in questo processo di espansione, tanto da stare a pieno passo con lo sviluppo finanziario delle altre grandi industrie elettriche, che nel corso della guerra rafforzarono il proprio capitale sociale con una media dell’86% di aumento(108). E ciò si ripercosse, naturalmente, anche sull’«affare Marghera», in cui la società elettrica veneziana era direttamente implicata, soprattutto dopo che Volpi ne aveva assunto la presidenza nel 1912(109). Del resto il «progetto Marghera» non era stato considerato sin dall’inizio anche come un ottimo investimento di «immense riserve di forza idro-elettrica» prodotta a breve distanza e quindi disponibile a bassi costi(110)?
Certo, va bene inteso che il progetto e la realizzazione di Marghera non possono essere ridotti a una modesta operazione di piccolo cabotaggio per la destinazione di surplus di energia, né ad un’iniziativa partorita nell’ambito di una semplicistica visione localistica di sfruttamento di una contingenza favorevole(111). Insomma, Marghera non può essere limitata al parto di un genio, come cantò un epigono di Volpi, ritenendo di farne un’esaltazione e riducendone invece l’importanza: «Porto Marghera uscì dalla mente del Volpi, vivo e completo in ogni sua caratteristica ‘come Minerva uscì armata di tutto punto dal capo di Giove’»(112).
Con una rara capacità di intuizione dei tempi e di accaparramento delle occasioni, che lo aveva sempre contraddistinto(113), Volpi nel febbraio 1917 promosse un Sindacato di studi per imprese elettro-metallurgiche e navali nel porto di Venezia, che raccoglieva non solo soggetti privati — ad esempio i consueti Papadopoli Aldobrandini, Revedin, Da Zara, Toso, Stucky —, ma soprattutto società industriali ormai affermate, come, oltre alla S.A.D.E., la Cellina, la Veneta, la Società anonima veneziana industrie navali e meccaniche, le Officine meccaniche di Battaglia(114).
Gli eventi poi si susseguirono a ritmi forzati. Dopo tre mesi era già pronto e approvato il progetto e piano regolatore di modifica e integrazione «Pel nuovo porto di Venezia» affidato a Enrico Coen Cagli, che era stato il progettista del porto di Antivari. Nel giugno successivo fu costituita la Società Porto Industriale di Marghera, che avrebbe svolto da quel momento il ruolo trainante di tutto lo sviluppo del nuovo porto e dell’area. Nella nuova società entrarono sempre in prima persona Papadopoli Aldobrandini, Treves de’ Bonfili, Revedin, Stucky, Toso, Ratti, nonché società come la S.A.D.E., la Cellina, la Veneta, le Officine meccaniche di Battaglia, ed altre ancora(115).
In tutto questo fervore l’amministrazione comunale di Venezia e il sindaco Grimani anzitutto non erano rimasti passivi a guardare. Grimani alla fine di aprile si era recato a Roma per incontrare il ministro dei Lavori pubblici Ivanoe Bonomi, al fine di predisporre gli opportuni contatti tra il Comune di Venezia e la rappresentanza del governo, sui quali riferì in maggio in una seduta del consiglio comunale convocata con «carattere di riunione privata»: il sindaco chiese ai consiglieri di «tener riservate le notizie», mettendo in evidenza con particolare peso che si trattava di una «questione di capitale importanza» che coinvolgeva l’«avvenire della nostra città», per la quale ottenne dal consiglio un «mandato di fiducia […] per la prosecuzione e il compimento delle trattative in corso», rinnovatogli un mese dopo in una seconda «seduta segreta»(116). Quando ormai le previsioni apparivano del tutto chiare, il consiglio comunale poco dopo la metà di giugno venne convocato in una «seduta straordinaria» con l’ordine del giorno «Comunicazioni del sindaco in ordine agli interessi portuali ed industriali della città», in cui Grimani riferì di altri incontri avuti a Roma col ministro dei Lavori pubblici ed espose uno schema di convenzione, che avrebbe dovuto costituire la base di un accordo coinvolgente lo Stato, il Comune, la Provincia, la Società Porto Industriale di Venezia; egli venne alla fine autorizzato alla prosecuzione e alla conclusione delle trattative «nell’interesse del Comune»(117).
Sarebbe passato ancora un mese per mettere a punto definitivamente l’atto che avrebbe sancito la nascita ufficiale della «zona industriale» di Marghera. Già, perché questa — l’indicazione esplicita di una «zona industriale» — è l’ulteriore novità della convenzione che il 23 luglio stipularono i soggetti prima individuati, che intervennero alla firma dell’atto, cioè il presidente del Consiglio Paolo Boselli, il ministro dei Lavori pubblici Ivanoe Bonomi, il sindaco di Venezia Filippo Grimani, il presidente della deputazione provinciale Giovanni Chiggiato, il presidente della Porto Industriale Giuseppe Volpi. Lo Stato offriva la concessione, si impegnava alle espropriazioni, cedeva le aree, esentava da imposizioni fiscali, agevolava i crediti, esonerava dai rendiconti. Il Comune si impegnava alla costruzione delle infrastrutture di servizio di tutta l’area, che, con la convenzione approvata, veniva inglobata nel comune di Venezia. La Porto Industriale accettava. Un «capolavoro», come è stato definito l’atto(118).
La convenzione si sarebbe tradotta in decreto luogotenenziale tre giorni dopo, e sarebbe stata pubblicata nella «Gazzetta Ufficiale» a distanza di poco più di dieci giorni(119). Il consiglio comunale, chiamato alla metà di agosto a «prendere atto» della situazione venutasi a creare, approvava l’operato del sindaco, con la sola astensione irrilevante del piccolo drappello dei socialisti(120).
Alla fine di settembre infine si sarebbe costituita ancora una società, questa volta però non per predisporre atti relativi all’istituzione di Marghera, ma in previsione del primo insediamento nella zona industriale. Nasceva cioè la Cantieri navali e acciaierie di Venezia, che raccoglieva il fior fiore della siderurgia, della meccanica e della cantieristica italiana, dall’Ansaldo alla Terni, dall’Ilva alla Piombino, dalla Tosi alla Miani, dalla Bondi alle Ferriere piemontesi, dagli Odero agli Orlando; come potevano mancare poi tra le società la S.A.D.E., la Cellina, la Veneta, la Officine di Battaglia, e tra i singoli personaggi — oltre a Volpi — Papadopoli Aldobrandini, Toso, Ratti, Stucky(121)?
E venne Caporetto; ma ormai tutto era stato compiuto. Venezia si preparava ad accogliere il «martirio», come venne definito non soltanto il ripetuto getto di bombe sganciate dagli aerei austriaci su Venezia (42 incursioni, più di 1.000 bombe)(122), ma anche l’esodo forzato della popolazione, che, venutasi a trovare a ridosso della linea del Piave, dovette prendere la via della «profuganza» in varie regioni italiane, raggiungendo secondo una stima attendibile un culmine di 135.000 persone(123).
Con la fine della guerra Grimani, che nel febbraio 1917 era stato nominato anche senatore(124), comprese di aver concluso la sua lunga permanenza sulla poltrona di sindaco: egli presentò le dimissioni nel dicembre 1919, ricevendo un anno dopo un pubblico attestato di benemerenza dal nuovo sindaco Davide Giordano(125), nominato in seguito alle nuove elezioni amministrative dell’ottobre 1920 che portarono alla formazione di una delle prime giunte clerico-nazionalfasciste in Italia. Sarebbe stato l’ultimo riconoscimento tributatogli in vita, perché Grimani sarebbe morto all’inizio del dicembre 1921(126).
A Venezia si chiudeva un’epoca, anzi si chiudeva un mondo, di cui Grimani aveva saputo farsi interprete impeccabile con la sua capacità di trovare sempre forme di continuità con le situazioni e con gli uomini che lo avevano preceduto o con quelli che lo affiancarono, sapendo cogliere gli elementi in grado di garantire certamente passaggi dolci ad una transizione morbida fatta di adattabilità e di trasformismo verso i cambiamenti funzionali a un progetto — è vero —, ma imposti da un mondo in trasformazione. Tutto sembrò rispondere più a criteri di «modernizzazione arretrata» che non a progressi impostati su «stadi di sviluppo» o su impulsi di «rivoluzione» modernizzante(127).
1. Resoconto morale della Giunta sull’amministrazione del Comune di Venezia dall’anno 1903 a tutto 1913, Venezia 1914, p. 3.
2. Cf. Challenge to Governance. Studies in Overload Polities, a cura di Richard Rose, London 1980.
3. Cf. Istituzioni e borghesie locali nell’Italia liberale, a cura di Maria Pia Bigaran, Milano 1986; Ettore Rotelli, Il martello e l’incudine. Comuni e provincie fra cittadini e apparati, Bologna 1991; Il governo delle città nell’Italia giolittiana. Proposte di storia dell’amministrazione locale, a cura di Cesare Mozzarelli, Trento 1992; Piero Aimo, Stato e poteri locali in Italia 1848-1995, Roma 1997; Oscar Gaspari, L’Italia dei municipi. Il movimento comunale in età liberale (1879-1906), Roma 1998.
4. Resoconto morale della Giunta, 1914, pp. 3-4.
5. Umberto Levra, Il colpo di stato della borghesia. La crisi politica di fine secolo in Italia. 1896-1900, Milano 1977; Gastone Manacorda, Dalla crisi alla crescita. Crisi economica e lotta politica in Italia. 1892-1896, Roma 1993; Daniela Adorni, Francesco Crispi. Un progetto di governo, Firenze 1999.
6. Nino Valeri, Giovanni Giolitti, Torino 1971; Franco Gaeta, La crisi di fine secolo e l’età giolittiana, Torino 1982; Francesco Barbagallo, Da Crispi a Giolitti. Lo Stato, la politica, i conflitti sociali, in Storia d’Italia, 3, Liberalismo e democrazia. 1887-1914, a cura di Giovan;ni Sabbatucci-Vittorio Vidotto, Roma-Bari 1995, pp. 3-133.
7. Raffaele Romanelli, Il comando impossibile. Stato e società nell’Italia liberale, Bologna 1988; Fulvio Cammarano, Storia politica dell’Italia liberale. L’età del liberalismo classico. 1861-1901, Roma-Bari 1999.
8. Sabino Cassese, L’amministrazione pubblica in Italia, Bologna 1990; Raffaele Romanelli, Centralismo e autonomie, in Storia dello stato italiano dall’unità a oggi, a cura di Id., Roma 1995, pp. 125-186.
9. Alberto Aquarone, L’Italia giolittiana (1896-1915), I, Le premesse politiche ed economiche, Bologna 1981, pp. 181-283; Giulio Sapelli, Comunità e mercato. Socialisti, cattolici e ‘governo economico municipale’ agli inizi del XX secolo, Bologna 1986; La municipalizzazione nell’area padana. Storia ed esperienze a confronto, a cura di Aldo Berselli-Franco Della Peruta-Angelo Varni, Milano 1988.
10. Alberto Caracciolo, Roma capitale. Dal Risorgimento alla crisi dello Stato liberale, Roma 19742, pp. 268-299; Maurizio Punzio, La giunta Caldara. L’amministrazione comunale di Milano negli anni 1914-1920, Milano-Roma-Bari 1986; Roma nell’età giolittiana. L’amministrazione Nathan, Roma 1986; Giuseppe Barbalace, Riforme e governo municipale a Roma in età giolittiana, Napoli 1994; Federico Lucarini, Il ‘socialismo municipale’ in alcune città italiane tra Ottocento e Novecento, «Passato e Presente», 16, 1998, nr. 44, pp. 41-68; Elisabetta Colombo, Comuni e municipalizzazioni nell’età giolittiana, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Lombardia, a cura di Duccio Bigazzi-Marco Meriggi, Torino 2001, pp. 701-750.
11. Fabio Rugge, Un nuovo pubblico. Profili giuridico-amministrativi dell’imprenditorialità municipale in età giolittiana, in La municipalizzazione nell’area padana. Storia ed esperienze a confronto, a cura di Aldo Berselli-Franco Della Peruta-Angelo Varni, Milano 1988, p. 24 (pp. 19-42).
12. Id., ‘La città che sale’: il problema del governo municipale di inizio secolo, in Istituzioni e borghesie locali nell’Italia liberale, a cura di Maria Pia Bigaran, Milano 1986, pp. 54-71.
13. Paola Somma, Trasformazioni economiche, sviluppo urbano e servizi pubblici a Venezia nel primo decennio del secolo ventesimo, in La municipalizzazione nell’area padana. Storia ed esperienze a confronto, a cura di Aldo Berselli-Franco Della Peruta-Angelo Varni, Milano 1988, pp. 649-652 (pp. 643-664).
14. Percorso Venezia, Venezia 1984, pp. 27-34.
15. Sergio Barizza, Il Comune di Venezia 1806-1946. L’istituzione, il territorio, guida-inventario dell’Archivio Municipale, Venezia 19872, pp. 123-129.
16. R.d. 24 aprile 1881.
17. Resoconto morale della Giunta, 1914, pp. 44-48.
18. Ibid., pp. 54-55. Cf. Archivi delle Aziende municipalizzate, a cura di Giorgetta Bonfiglio Dosio, Venezia 1987, p. 39.
19. Resoconto morale della Giunta, 1914, pp. 213-217.
20. Comune di Venezia, Provvedimenti sul servizio diretto del gaz. Relazione della Giunta al Consiglio comunale, Venezia 1905; Id., Riscatto ed esercizio diretto dell’acquedotto. Relazione della Giunta al Consiglio comunale di Venezia, Venezia 1909; P. Somma, Trasformazioni economiche, pp. 652-658.
21. L’acquedotto di Venezia. Studi, progetti, lavori dal 1841 al 1923, Venezia 1984; Storia del gas nella città dei dogi, a cura di Gianpietro Zucchetta, Venezia 1996.
22. Rolf Petri, La sfida lagunare: investimenti e imprenditori stranieri a Venezia, «Padania», 2, 1988, nr. 4, pp. 57-82 (pp. 57-96); Maurizio Reberschak, L’industrializzazione di Venezia (1866-1918), in Venezia. Itinerari per la storia della città, a cura di Stefano Gasparri-Giovanni Levi-Pierandrea Moro, Bologna 1997, pp. 372-380 (pp. 369-404).
23. Antonio Confalonieri, Banca e industria in Italia. 1894-1906, II, Il sistema bancario tra due crisi, Milano 1975.
24. Maurizio Reberschak, L’economia, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 241-242 (pp. 227-298).
25. Antonio Confalonieri, Banca e industria in Italia. 1894-1906, III, L’esperienza della Banca commerciale italiana, Milano 1976, pp. 239-240, 247-249; Rolf Petri-Maurizio Reberschak, La Sade di Giuseppe Volpi e la ‘nuova Venezia industriale’, in Storia dell’industria elettrica in Italia, 2, Il potenziamento tecnico e finanziario. 1914-1925, a cura di Luigi De Rosa, Roma-Bari 1993, pp. 317-319 (pp. 317-346).
26. A. Confalonieri, Banca e industria in Italia. 1894-1906, III, p. 247; Claudio Pavese, Le origini della Società Edison e il suo sviluppo fino alla costituzione del ‘gruppo’ (1881-1919), in Energia e sviluppo. L’industria elettrica italiana e la Società Edison, a cura di Bruno Bezza, Torino 1986, p. 60 (pp. 23-169); Id., La prima grande impresa elettrica: la Edison, in Storia dell’industria elettrica in Italia, 1, Le origini. 1882-1914, a cura di Giorgio Mori, Roma-Bari 1992, p. 467 (pp. 449-521); Luciano Segreto, Imprenditori e finanzieri, ibid., pp. 265-266 (pp. 239-347).
27. Ernesto Trevisani, Rivista industriale e commerciale di Venezia e provincia, Venezia 1897, pp. 65-76; Mario Baldin, La illuminazione pubblica a Venezia. Il nuovo impianto, Venezia 1928, pp. 29-30; Venezia città industriale. Gli insediamenti produttivi del 19° secolo, Venezia 1980, p. 19.
28. C. Pavese, Le origini della Società Edison, p. 25; Id., La prima grande impresa elettrica, pp. 452-462.
29. Municipio di Venezia, Contratto 2 dicembre 1902 fra il Comune di Venezia e la Società italiana per l’utilizzazione delle forze idrauliche del Veneto, Venezia 1903; Resoconto morale della Giunta, 1914, pp. 56-59. Cf. A. Confalonieri, Banca e industria in Italia. 1894-1906, III, pp. 248-249.
30. R. Petri-M. Reberschak, La Sade di Giuseppe Volpi, pp. 317-334.
31. La consultazione dell’archivio di famiglia Grimani, specificamente di quello relativo a Filippo Grimani, non mi è stata concessa dagli attuali eredi.
32. Emilio Franzina, L’eredità dell’Ottocento e le origini della politica di massa, in Venezia, a cura di Id., Roma-Bari 1986, pp. 117-135 (pp. 117-151).
33. Francesco Saccardo, Filippo Grimani, Venezia 1924, p. 2.
34. Gino Bertolini, ‘Italia’, I, Le categorie sociali. Venezia nella vita contemporanea e nella storia, Venezia 1912; II, L’ambiente fisico e psichico. Storia sociale del secolo ventesimo, Venezia 1912.
35. Cf. ibid., II, p. 1062.
36. Ibid., I, pp. 65-66.
37. Elena Bassi, Palazzi di Venezia. Admiranda Urbis Venetae, Venezia 1987, pp. 396-399; Ead., Ville della provincia di Venezia, Milano 1987, pp. 485-486; Umberto Franzoi-Mark Smith, Canal Grande, Venezia 1993, p. 60; Ville venete. Catalogo e atlante del Veneto, a cura di Antonio Padoan-Sergio Pratali Maffei-Demus Dalpozzo-Linda Mavian, Venezia 1996, p. 345.
38. Max Weber, Il lavoro intellettuale come professione, Torino 1987 [1948] (ediz. originale Politik als Beruf, Wissenschaft als Beruf, Berlin 1919), pp. 80-82; Id., Economia e società, IV, Milano 1981 [1961] (ediz. originale Wirtschaft und Gesellschaft, Tübingen 1922), pp. 52, 512-513.
39. Filippo Grimani, «Gazzetta di Venezia», 6 dicembre 1921; Filippo Grimani, «Il Gazzettino», 6 dicembre 1921; F. Saccardo, Filippo Grimani, pp. 4-5.
40. Giovanni Spadolini, L’opposizione cattolica. Da porta Pia al ’98, Firenze 1961, pp. 128-132; Gabriele De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia, I, Dalla restaurazione all’età giolittiana, Bari 1966, pp. 106-113; Giorgio Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Roma 19723, pp. 136-145.
41. Fausto Fonzi, Crispi e lo ‘Stato di Milano’, Milano 1965, pp. 256-303, 363-384; Mario Belardinelli, Movimento cattolico e questione comunale dopo l’unità, Roma 1979, pp. 77-118; Silvio Tramontin, Il movimento cattolico, in La chiesa veneziana dal 1849 alle soglie del Novecento, a cura di Gabriele Ingegneri, Venezia 1987, pp. 178-185 (pp. 165-188).
42. Angelo Gambasin, Il movimento sociale nell’Opera dei congressi (1874-1904). Contributo per la storia del cattolicesimo sociale in Italia, Roma 1958, pp. 280-325; Silvio Tramontin, Paganuzzi Giambattista, in Dizionario storico del movimento cattolico in Italia. 1860-1980, II, I protagonisti, Casale Monferrato 1982, pp. 441-448.
43. Movimento cattolico e sviluppo capitalistico, Venezia-Padova 1974; Mario G. Rossi, Le origini del partito cattolico. Movimento cattolico e lotta di classe nell’Italia liberale, Roma 1977.
44. Cf. Carlo Snider, L’episcopato del cardinale Andrea C. Ferrari, I, Gli ultimi anni dell’Ottocento, Vicenza 1981; Annibale Zambarbieri, Il patriarca Sarto, in La chiesa veneziana dal 1849 alle soglie del Novecento, a cura di Gabriele Ingegneri, Venezia 1987, pp. 133-142 (pp. 129-163); Giampaolo Romanato, Pio X. La vita di papa Sarto, Milano 1992, pp. 187-226.
45. Stefano Merli, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale. Il caso italiano. 1880-1890, Firenze 1972; Volker Hunecke, Classe operaia e rivoluzione industriale a Milano. 1859-1892, Milano 1982, pp. 176-205; Franco Della Peruta, Milano. Lavoro e fabbrica. 1815-1914, Milano 1987, pp. 48-120; Lucio Gambi, I cent’anni dopo l’unità: l’esplosione urbana e la risposta commerciale della planimetria, in Id.-Maria Cristina Gozzoli, Milano, Roma-Bari 1982, pp. 309-321 (pp. 281-332); Valerio Castronovo, Storia economica d’Italia. Dall’Ottocento ai giorni nostri, Torino 1995, pp. 160-165.
46. Marco Meriggi, Lo ‘Stato di Milano’ nell’Italia unita: miti e strategie politiche di una società civile (1860-1945), in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Lombardia, a cura di Duccio Bigazzi-Marco Meriggi, Torino 2001, pp. 7-39 (pp. 5-49).
47. MAIC, Notizie sulle condizioni industriali della provincia di Venezia, «Annali di Statistica», ser. IV, 1900, fasc. II-A, nr. 5 bis. Cf. E. Trevisani, Rivista industriale e commerciale di Venezia.
48. Gianni Toniolo, Cento anni di economia portuale a Venezia, «CO.S.E.S. Informazioni», 2, 1972, nr. 3, p. 43 (pp. 33-74).
49. Compendio statistico, a cura di Giorgio Busetto, in Cinquant’anni del Provveditorato al porto di Venezia, Venezia 1979, p. 130 (pp. 125-140); M. Reberschak, L’economia, p. 237; Massimo Costantini, Dal porto franco al porto industriale, in Storia di Venezia, Temi, Il Mare, a cura di Alberto Tenenti-Ugo Tucci, Roma 1991, pp. 898-901 (pp. 879-914).
50. E.[va] Civolani, Monticelli Carlo, in Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico 1853-1943, a cura di Franco Andreucci-Tommaso Detti, III, Roma 1977, pp. 566-571.
51. E. Franzina, L’eredità dell’Ottocento, pp. 127-132. Luca Pes, Le classi popolari, in questo volume.
52. Silvio Tramontin, I cattolici e le camere del lavoro, «Rassegna di Politica e di Storia», 14, 1968, nr. 162, pp. 102-114.
53. S.[tefano] Caretti, Florian Eugenio, in Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico 1853-1943, a cura di Franco Andreucci-Tommaso Detti, II, Roma 1976, pp. 371-373; Id., Musatti Elia, ibid., III, pp. 626-629; T.[ommaso] Detti, Li Causi Girolamo, ibid., pp. 113-117; Id., Serrati Giacinto Menotti, ibid., IV, Roma 1978, pp. 615-629. Cf. Girolamo Li Causi, Il lungo cammino. Autobiografia 1906-1944, Roma 1974, pp. 35-52; Tullio Besek, «Il Secolo Nuovo». Un giornale socialista veneziano tra politica nazionale e problemi locali, 1900-1915, Marcon 1988.
54. A. Gambasin, Il movimento sociale nell’Opera dei congressi, pp. 476-480.
55. Giuliano Procacci, La lotta di classe in Italia agli inizi del secolo XX, Roma 1970, pp. 375-424.
56. Il sindaco all’on. Giolitti, «Gazzetta di Venezia», 21 settembre 1904.
57. F. Saccardo, Filippo Grimani, p. 5.
58. Renato Camurri, Fradeletto, Antonio, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLIX, Roma 1997, pp. 576-578; Daniele Ceschin, La ‘voce’ di Venezia. Antonio Fradeletto e l’organizzazione della cultura tra Otto e Novecento, Padova 2001.
59. Antonio Battistella, La Repubblica di Venezia ne’ suoi undici secoli di storia, Venezia 1921.
60. Leopoldo Pietragnoli, Cronaca di una fine annunciata, in Il campanile di San Marco. Il crollo e la ricostruzione. 14 luglio 1902-25 aprile 1912, catalogo della mostra, Milano 1992, pp. 35-53; Ettore Vio, La caduta del campanile nelle lettere e documenti dell’archivio del proto Pietro Saccardo, ibid., pp. 57-67.
61. E.L., Il campanile di S. Marco crollato, «L’Adriatico», 15 luglio 1902; Mario Morasso, L’eroe infranto, «Gazzetta di Venezia», 15 luglio 1902. Cf. Anita Mondolfo, Bibliografia del campanile dal crollo alla compiuta ricostruzione (14 luglio 1902-31 dicembre 1911), in Il campanile di San Marco riedificato. Studi, ricerche, relazioni, a cura del Comune di Venezia, Venezia s.a. [ma 1912], pp. 251-262 (pp. 251-324).
62. Maria Pezzè Pascolato, Il crollo, «Il Rinnovamento», 17 luglio 1902.
63. Antonio Fradeletto, Prefazione, in Il campanile di San Marco riedificato. Studi, ricerche, relazioni, a cura del Comune di Venezia, Venezia s.a. [ma 1912], p. VII (pp. III-XXI).
64. G. Bertolini, ‘Italia’, I, p. 100; Antonio Fradeletto, Venezia antica e nuova, Venezia 1921.
65. Cf. Arturo Carlo Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino 1963, pp. 373-380.
66. Intorno al campanile risorto dov’era e com’era, «Gazzetta di Venezia», 25 aprile 1912; Una indimenticabile giornata di trionfale vita veneziana, ibid., 26 aprile 1912.
67. Ruit Hora, «La Difesa», 23-24 luglio 1895; Le elezioni di domenica, ibid., 26-27 luglio 1895; A proposito delle elezioni a Venezia, «Gazzetta di Venezia», 25 luglio 1895; Assemblea generale del Comitato antiradicale, ibid., 26 luglio 1895.
68. F. Saccardo, Filippo Grimani, p. 10.
69. Thomas Mann, Morte a Venezia, Milano 1970, pp. 134-135 (ediz. originale Der Tod in Venedig, Berlin 1912).
70. Ufficio Municipale d’igiene di Venezia, Note del prof. R. Vivante (Direttore dell’Ufficio) sull’epidemia colerica del 1911, Genova 1917. Cf. Comune di Venezia-Ufficio d’igiene, «Bollettino Mensile», 4, 1911, nr. 12, p. 5 (i decessi indicati in quest’ultima fonte sono 103: la successiva indagine di Vivante però risulta molto accurata nelle ricerche, quindi più attendibile). Cf. Anna Lucia Forti Messina, L’Italia dell’Ottocento di fronte al colera, in Storia d’Italia, Annali, 7, Malattia e medicina, a cura di Franco Della Peruta, Torino 1984, pp. 429-494.
71. Comune di Venezia-Ufficio d’igiene, «Bollettino Mensile», 4, 1911, nr. 12, p. 5.
72. Ufficio Municipale d’igiene di Venezia, La tubercolosi polmonare. Sua diffusione e profilassi. Note del dr. R. Vivante, Venezia 1904. Cf. Domenico Preti, La lotta antitubercolare nell’Italia fascista, in Storia d’Italia, Annali, 7, Malattia e medicina, a cura di Franco Della Peruta, Torino 1984, pp. 967-973 (pp. 953-1015).
73. Ufficio Municipale d’igiene di Venezia, L’igiene stradale in Venezia. Note del dott. R. Vivante, Venezia 1900.
74. Id., Le stalle in Venezia. Osservazioni ed appunti del dott. V. Boldrin, Venezia 1902. Cf. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1900-1904, IV-4-1, ;fasc. 1903 «Le stalle in Venezia. Osservazioni e appunti del veterinario dell’Ufficio d’igiene dr. Vincenzo Boldrin», anno 1898.
75. Laboratorio Batteriologico dell’Ufficio Municipale d’igiene, Ricerche sull’inquinazione dei rivi e canali veneziani in rapporto alla fognatura della città, Venezia 1898. Autori di queste ricerche furono Filippo Trois, direttore del gabinetto batteriologico, e Raffaello Vivante, medico igienista nello stesso Gabinetto.
76. Municipio di Venezia, Il problema delle abitazioni in Venezia, Venezia 1910. L’indagine venne condotta appunto da Raffaello Vivante, che la stava curando da alcuni anni (Raffaello Vivante, Il problema delle abitazioni a Venezia, Mestre 1906). Cf. Paola Somma, L’attività di Raffaele Vivante al Comune di Venezia nella prima metà del secolo, «Storia Urbana», 5, 1981, nr. 14, pp. 213-231. Il nome corretto di Vivante è Raffaello, come egli si firma in alcune pubblicazioni, anche se all’anagrafe venne registrato come Raffaelo (Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Registro anagrafe postunitaria, ad nomen).
77. Comune di Venezia, Relazione della Giunta municipale e proposte tecnico finanziarie sul progetto di risanamento e di piano regolatore della città di Venezia, Venezia 1889; Id., Relazione della Giunta municipale di Venezia sul provvedimento generale per promuovere la costruzione di case sane ed economiche, Venezia 1891; Relazione della Commissione Ministeriale e Municipale intorno al piano di risanamento e al piano regolatore per la città di Venezia, Venezia 1891.
78. Resoconto sommario della Giunta sull’amministrazione del Comune di Venezia nel quinquennio 1890-1894. Letto nella seduta del Consiglio comunale 19 luglio 1895, Venezia s.a. [ma 1897], p. 26.
79. L. Gambi, I cent’anni dopo l’unità; Italo Insolera, Roma moderna. Un secolo di storia urbanistica. 1870-1970, Torino 1971, pp. 71-83.
80. Resoconto morale della Giunta sull’amministrazione del Comune di Venezia nei riguardi del conto consuntivo 1898 e dei precedenti, Venezia 1899, p. 12.
81. Le case sane economiche e popolari del Comune di Venezia, Bergamo 1911, pp. 34-39, allegati C e F. Cf. Comune di Venezia, Case popolari, Bergamo 1905; Id., Case sane economiche e popolari, Bergamo 1906.
82. L. 31 maggio 1903, nr. 254.
83. Le case sane economiche e popolari, p. 13.
84. Paola Somma, Venezia nuova. La politica della casa. 1893-1941, in Venezia nuova. La politica della casa. 1893-1941, catalogo della mostra, a cura di Ead., Venezia 1983, pp. 28-32 (pp. 13-141); Elia Barbiani, Case popolari tra industrializzazione e urbanizzazione, in Edilizia popolare a Venezia. Storia, politiche, realizzazioni dell’Istituto Autonomo per le Case Popolari della Provincia di Venezia, a cura di Id., Milano 1983, p. 14 (pp. 11-32); Stefania Potenza, Questione edilizia, politiche e realizzazioni del Comune di Venezia, ibid., p. 72 (pp. 68-92).
85. Giuseppe Torres-Duilio Torres-Fausto Finzi-Giulio Alessandri, Per la costruzione di un quartiere cittadino nell’isola di S. Elena. Riassunto del progetto presentato al Municipio di Venezia il giorno 4 aprile 1911, Vittorio s.a. [ma 1911]; P. Somma, Venezia nuova, pp. 29-32.
86. Comune di Venezia, Concorso per un progetto di costruzione di case popolari nella località sacca a Quattro Fontane di Lido, Venezia 1911.
87. Atti del Consiglio Comunale di Venezia. Anno 1913, Venezia 1913, seduta 14 febbraio 1913.
88. Giandomenico Romanelli, Dalle ‘case dei poveri’ ai quartieri anni Trenta. I residui del linguaggio, in Edilizia popolare a Venezia. Storia, politiche, realizzazioni dell’Istituto Autonomo per le Case Popolari della Provincia di Venezia, a cura di Elia Barbiani, Milano 1996, pp. 48-49 (pp. 35-67).
89. Comune di Venezia, Censimento della popolazione 10 febbraio 1901, Venezia 1904; Id., Relazione sul V. censimento demografico e I. censimento degli opifici ed imprese industriali 10-11 giugno 1911, Venezia 1912.
90. Sandro Simionato, La politica dell’amministrazione comunale veneziana e lo sviluppo del Lido. 1895-1914, «Storia Urbana», 8, 1984, nr. 29, p. 94 (pp. 79-103).
91. A. Confalonieri, Banca e industria in Italia. 1894-1906, III, p. 599; M. Reberschak, L’economia, pp. 247-248.
92. M. Reberschak, L’economia, p. 248.
93. Resoconto morale della Giunta, 1914, p. 219. Cf. Ernesto Conti, Il Lido di Venezia, Venezia 1919, pp. 27-40.
94. L. Segreto, Imprenditori e finanzieri, pp. 310-311; Giovanni Bruno, La Sme di Maurizio Capuano, in Storia dell’industria elettrica in Italia, 2, Il potenziamento tecnico e finanziario. 1914-1925, a cura di Luigi De Rosa, Roma-Bari 1993, pp. 347-376.
95. Cesco Chinello, Porto Marghera 1902-1926. Alle origini del ‘problema di Venezia’, Venezia 1979; Id., Foscari, Piero, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLIX, Roma 1997, pp. 338-340.
96. Richard A. Webster, L’imperialismo industriale italiano. 1908-1915. Studio sul prefascismo, Torino 1974, pp. 357-436.
97. Antonio Confalonieri, Banca e industria in Italia dalla crisi del 1907 all’agosto 1914, I, Il sistema bancario in una economia di transizione, Milano 1982, p. 407.
98. Angelo Tamborra, The Rise of Italian Industry and the Balcans (1900-1914), «The Journal of European Economic History», 3, 1974, nr. 1, pp. 87-120; A. Confalonieri, Banca e industria in Italia dalla crisi del 1907 all’agosto 1914, I, pp. 346, 406-411, 414-420; Gianni Toniolo, Cent’anni, 1894-1994. La Banca Commerciale e l’economia italiana, Milano 1994, pp. 47-48; Guido Montanari, Introduzione, in Banca Commerciale Italiana, Archivio storico. Collana inventari, ser. II, I, Segreteria dell’amministratore delegato Giuseppe Toeplitz (1916-1934), Milano 1995, pp. X-XI (pp. I-LIX).
99. A. Confalonieri, Banca e industria in Italia. 1894-1906, III, pp. 254-259.
100. M. Reberschak, L’industrializzazione di Venezia, p. 381.
101. Vera Zamagni, Industrializzazione e squilibri regionali in Italia. Bilancio dell’età giolittiana, Bologna 1978.
102. Piero Foscari, Il piano regolatore per l’ampliamento del porto e della città di Venezia. La nuova stazione marittima e la nuova zona edilizia di Marghera, Venezia 1905 (citato dall’Archivio Foscari in C. Chinello, Porto Marghera, pp. 119-124). Cf. Piero Foscari, Per il più largo dominio di Venezia. La città e il porto, Milano 1917.
103. M. Reberschak, L’economia, p. 256.
104. P. Foscari, Il piano regolatore per l’ampliamento del porto, e Discorso in Cons. Com. su progetto S. Elena, citati in C. Chinello, Porto Marghera, pp. 120, 140.
105. C. Chinello, Porto Marghera, pp. 84-85.
106. G. Toniolo, Cento anni di economia portuale a Venezia, pp. 52-53; Wladimiro Dorigo, Una legge contro Venezia. Natura, storia, interessi nella questione della città e della laguna, Roma 1973, p. 162.
107. Alberto Caracciolo, La crescita e la trasformazione della grande industria durante la prima guerra mondiale, in Lo sviluppo economico in Italia. Storia dell’economia italiana negli ultimi cento anni, III, Studi di settore e documentazione di base, a cura di Giorgio Fuà, Milano 19752, pp. 195-248; Giorgio Porisini, Il capitalismo industriale nella prima guerra mondiale, Firenze 1975, pp. 17-48.
108. Giorgio Mori, Le guerre parallele. L’industria elettrica in Italia nel periodo della grande guerra (1914-1919), in Id., Il capitalismo industriale in Italia. Processo d’industrializzazione e storia d’Italia, Roma 1977, pp. 141-215.
109. R. Petri-M. Reberschak, La Sade di Giuseppe Volpi, p. 320.
110. P. Foscari, Il piano regolatore per l’ampliamento del porto, citato in C. Chinello, Porto Marghera, p. 121.
111. Maurizio Reberschak, Spunti per una storia locale dell’industria idroelettrica, «Protagonisti», 4, 1983, nr. 12, p. 28 (pp. 27-36).
112. Mario Mainardis, La creazione del porto industriale di Marghera, in Giuseppe Volpi. Ricordi e testimonianze, a cura dell’Associazione degli industriali nel 40° anniversario di Porto Marghera e del Rotary club di Venezia nel 35° anniversario della sua fondazione, Venezia 1959, p. 39 (pp. 25-54).
113. Sergio Romano, Giuseppe Volpi. Industria e finanza tra Giolitti e Mussolini, Milano 1979, p. 8.
114. Santo Peli, Le concentrazioni finanziarie industriali nell’economia di guerra: il caso di Porto Marghera, «Studi Storici», 16, 1975, nr. 1, pp. 186-187 (pp. 182-204); C. Chinello, Porto Marghera, pp. 156-158.
115. S. Peli, Le concentrazioni finanziarie, pp. 188-189; C. Chinello, Porto Marghera, pp. 172-173.
116. Atti del Consiglio comunale di Venezia. Anno 1917, Venezia 1917, seduta privata 9 maggio 1917; seduta segreta 6 giugno 1917.
117. Ibid., seduta 18 giugno 1917.
118. W. Dorigo, Una legge contro Venezia, p. 163. Cf. S. Peli, Le concentrazioni finanziarie, pp. 193-194; C. Chinello, Porto Marghera, pp. 190-191.
119. D.lgt. 26 luglio 1917, nr. 1191 («Gazzetta Ufficiale», 7 agosto 1917, nr. 186).
120. Atti del Consiglio comunale di Venezia. Anno 1917, seduta 16 agosto 1917.
121. S. Peli, Le concentrazioni finanziarie, pp. 199-200; C. Chinello, Porto Marghera, pp. 214, 220.
122. Venezia nel decennale della vittoria, «Rivista Mensile della Città di Venezia», 7, 1928, pp. 495-564 (pp. 453-564); Giovanni Scarabello, Il martirio di Venezia durante la grande guerra e l’opera di difesa della marina italiana, I, Venezia 1933, pp. 53-140.
123. Ministero per le Terre Liberate, Censimento dei profughi di guerra, Roma 1919; Atti del Consiglio comunale di Venezia. Anno 1921, Venezia 1921, seduta 4 gennaio 1921.
124. Il Senato regio dal 1848 al 1946. Elenco alfabetico generale dei senatori regi (dal 1848 al 1946), in Il Parlamento italiano 1861-1988, XIV, 1946-1947. Repubblica e costituzione. Dalla luogotenenza di Umberto alla presidenza De Nicola, Milano 1989, p. 606.
125. Atti del Consiglio comunale di Venezia. Anno 1920, Venezia 1920, seduta 12 novembre 1920.
126. Venezia in lutto per la morte di Filippo Grimani, «Gazzetta di Venezia», 6 dicembre 1921; Filippo Grimani, «Il Gazzettino», 6 dicembre 1921; Atti del Consiglio comunale di Venezia. Anno 1921, seduta 7 dicembre 1921.
127. Cf. Walt W. Rostow, Gli stadi dello sviluppo economico, Torino 1962; Ronald M. Hartwell, La rivoluzione industriale, Torino 1967; Alexander Gerschenkron, Il problema storico dell’arretratezza economica, Torino 1965.