GRIMANI, Filippo
Nacque a Venezia il 4 giugno 1850 da Pietro Luigi del ramo di S. Luca e da Elena Milissinò, nobile padovana, che morì di parto dandolo alla luce, primo maschio dopo due figlie femmine, Andriana (premorta) e Cornelia. Il padre si risposò nel 1853 con Regina Avogadro, dalla quale ebbe altri due figli, Giovanni Andrea Paolo e Dioniso Teodoro.
Famiglia tra le più blasonate della Serenissima (tre dogi, decine di procuratori, ambasciatori, patriarchi), aveva dovuto fare i conti con la decadenza istituzionale ed economica di Venezia: nonostante il vantaggioso matrimonio con Andriana Papafava (1796) e i suoi 50.000 ducati di dote, il nonno Filippo Vincenzo fu costretto a cedere (1805) il palazzo di S. Luca, sul Canal Grande, allo Stato, che vi insediò la direzione delle Poste, il Demanio e, dall'Unità, la corte d'appello. La celebre pinacoteca fu alienata e la famiglia si trasferì (1818) da Rialto a S. Tomà, acquistando palazzo Civran, "in volta de Canal". Ma, nel rilancio dell'immagine della città, un Grimani doveva essere "fulcro" (fu uno dei suoi eponimi) di coesione tra il passato e il presente, tra la tradizione e la modernità, per cui, avrebbe scritto F. Saccardo, "chi grida Grimani, grida san Marco".
Dopo gli studi classici, il G. si laureò in giurisprudenza all'Università di Padova (1873). Ma, più portato alla mediazione che all'enfasi oratoria, cercò di dedicarsi alla carriera diplomatica per poi riporre nel cassetto laurea e sogni giovanili e avviarsi (anche perché unico rappresentante principale del casato dopo la scomparsa del padre) dapprima all'amministrazione di un patrimonio che contribuì a risanare, quindi alla carriera politica, nella migliore tradizione dell'aristocrazia veneziana e del notabilato ottocentesco.
Il legame tra gestione delle proprietà e affari pubblici risulta evidente nella prima fase della sua attività, legata ai comuni di Mira e Mirano, centri rurali di discrete dimensioni (7234 gli abitanti censiti nel 1866 a Mira, 6168 a Mirano), nell'area della riviera del Brenta dove aristocratici e ricchi borghesi veneziani erano proprietari di terreni e ville in cui passavano la villeggiatura. A Mira, dove la famiglia possedeva antichi beni, il G. fu inizialmente consigliere; mentre a Mirano ampliò i possedimenti familiari acquistando le proprietà Boldù con annessa villa settecentesca, nel 1880. Ebbe di qui inizio la sua scalata al successo e al potere: eletto consigliere, divenne immediatamente (26 ott. 1886) sindaco, entrando anche nell'assise provinciale, rappresentante di quel distretto (1889). Eletto al Consiglio comunale di Venezia nelle suppletive del 1893, lasciò il seggio sindacale a Mirano (15 ott. 1893), ma mantenne sino alla morte lo scranno in Provincia, del cui Consiglio fu anche presidente dal 10 ag. 1914 al 4 sett. 1921.
Il suo ingresso in Comune avvenne tra le file della minoranza, mentre Venezia era retta da una giunta democratico-progressista presieduta da R. Selvatico, conseguenza dell'allargamento della base elettorale voluto da F. Crispi. Mentre la giunta Selvatico, vista con favore anche dai socialisti e caratterizzata da un forte laicismo in campo scolastico, proseguiva nei tentativi di industrializzazione della città, varava il piano regolatore (1891), stanziava fondi per la costruzione di case popolari e dava vita alla prima Esposizione internazionale d'arte (poi Biennale d'arte) nel 1895, criticata dall'opposizione come impresa "spendereccia" e di dubbia utilità, il ruolo del G. fu quello di catalizzare la minoranza, ricomponendo le divisioni dei liberali in funzione di un'unione moderata che non prescindesse dai voti cattolici.
L'accordo fu possibile per le elezioni del 1895, grazie alla nomina (1893) di monsignor G. Sarto a patriarca di Venezia e alla forte campagna di propaganda del proprietario e direttore della Gazzetta di Venezia, conte F. Macola, il quale si impegnò a promuovere a Venezia quell'intesa coi clericali che gli era già riuscita nella natia Castelfranco e di cui il primo esempio fu la lista che portò il G. in Consiglio nel 1893. Mentre le strutture ecclesiastiche si riorganizzavano per effetto della mobilitazione elettorale e la Gazzetta patrocinava un connubio basato sulla comune adesione a un'idea di rinnovamento politico e sociale, in cui la pratica amministrativa e il rispetto del senso religioso si unissero a vantaggio delle classi popolari tenendo lontano il pericolo socialista, prendeva piede un accordo politico d'avanguardia nell'Italia postunitaria, sancito dal notaio A. Gastaldis, che prevedeva l'esclusione di candidature anticlericali o massoniche e un'equa ripartizione dei seggi e dei referati tra clericali, comitato conservatore e comitato antiradicale.
Obiettivi minimi cari alla diocesi erano il ripristino dell'insegnamento religioso nelle scuole, la presenza ufficiale della giunta nelle cerimonie sacre più popolari, trascurate dalla laica giunta Selvatico (dalla festa della Salute a quella del Redentore, alla cerimonia "serenissima" dello "sposalizio del mare", nel giorno dell'Ascensione), il rilancio del ruolo delle gerarchie ecclesiastiche nella gestione delle Opere pie, il riposo festivo per i dipendenti municipali. Nella lista clerico-moderata, comprendente alcuni campioni dell'intransigentismo cittadino (tra gli altri gli avvocati E. Sorger e G. Paganuzzi, leader dell'Opera dei congressi) ed esponenti della nuova imprenditoria (P. Fambri), figuravano anche il G. e altri rappresentanti del patriziato veneziano non decaduto (A. Donà dalle Rose, il più votato, N. Papadopoli, A. Nani Mocenigo, A. Marcello), oltre ai tutori delle memorie patrie come P. Molmenti. Risultò eletto, il 3 ag. 1895, D. Serego di Alighieri, già sindaco dal 1879 al 1888, che, ammalato, dichiarò di non accettare; ma il Consiglio, pur scegliendo il G. come assessore anziano, provvide alla nuova elezione solo all'indomani della morte di Serego. Così, il 15 nov. 1895, il G. venne eletto con l'appoggio compatto dei suoi e l'astensione dei radical-progressisti: in seguito fu rieletto il 5 ag. 1899, il 6 ott. 1902, il 5 ag. 1905, il 6 luglio 1910 e il 15 luglio 1914, ventiquattro anni di governo - che gli valsero l'appellativo di sindaco d'oro - sino alle dimissioni del 25 ott. 1919. Le sue giunte, pur affidandosi essenzialmente alla libera iniziativa, nella loro politica neoinsulare volta all'espansione dell'attività industriale cittadina e al lancio turistico-mondano del Lido, non furono esenti da provvedimenti dirigisti.
I primi atti della nuova giunta onorarono gli impegni presi con gli alleati, reintroducendo, su mozione dell'assessore all'Istruzione P. Molmenti, la quotidiana recita del Pater noster nelle scuole elementari: contraddizione sulla quale si ebbe uno scontro politico, perché se per un verso l'educazione religiosa rimaneva facoltativa, l'orazione mattutina era d'obbligo. In seguito, l'intesa con il patriarca Sarto e con i suoi successori fu talmente armonica che il futuro Pio X ripeteva, a chi lo invitava a intervenire sulla giunta, "ciò che fa il conte Grimani è ben fatto e non ha bisogno dei consigli del Patriarca". Dal punto di vista sindacale, il G. rese omaggio al congresso nazionale operaio (1895), dove espresse la ferma concezione dell'apoliticità dei sodalizi operai; poco dopo tolse l'appoggio istituzionale ed economico offerto dal Selvatico alla Camera del lavoro, contribuendo ad affossarla a favore di un Segretariato del popolo vicino all'Opera dei congressi, dove gli operai dovevano trovare consulenze tecniche, ma non politiche. Nel 1897 il G. contribuì personalmente a piegare alcune categorie in lotta, come i fornai, denunciandoli all'autorità giudiziaria. E se i fatti milanesi del '98 non ebbero in città particolari ripercussioni pur in un rinnovato clima di tensione, maggior eco suscitò lo sciopero generale del 19 sett. 1904, durante il quale fu "sospesa ogni comunicazione della città con la terraferma e nell'interno delle acque cittadine, private le strade e le case dei servizi di illuminazione, impedito il trasporto dei malati e il rifornimento dei viveri all'ospedale, chiuse forzatamente le chiese e i negozi".
In una lettera aperta a G. Giolitti, il G. manifestò il profondo dissenso per come si erano potuti svolgere i fatti, addossando al presidente del Consiglio la responsabilità dei disordini: "purtroppo si è compreso che la consegna fu di lasciar svolgere liberamente gli avvenimenti […]. Mai Venezia si è sentita meno governata che in questi giorni". A farne le spese fu il prefetto C.B. Ferrari, che si dimise il 24 settembre.
Ma a fronte di quest'immagine di uomo d'ordine, il G. venne sempre più accentuando un atteggiamento paternalista nei confronti del popolo, che trovò espressione nel progetto delle "case sane, economiche e popolari" - avviato in realtà dal sindaco precedente - e nella costante presenza tra la gente, durante la Grande Guerra.
L'obiettivo dei nuovi quartieri, che rispondeva ai criteri di cooperazione del veneziano L. Luzzatti, ministro del Tesoro e presidente del Consiglio (1910), si sviluppò in tutti i settori popolari e periferici, da Cannaregio (il più ampliato: a Madonna dell'Orto si chiamano tuttora "case Grimani") alla Giudecca, da Sant'Elena a Dorsoduro, da Castello al Lido, divenendo un modello per le altre amministrazioni. Dopo Caporetto, il G. si prodigò per trovare una sistemazione ottimale alla popolazione in fuga da Venezia (quasi centomila, oltre i due terzi degli abitanti) e nel contempo far sentire la propria presenza nelle colonie per gli sfollati che, con l'aiuto della Cassa di risparmio, furono approntate in Piemonte, in Liguria e soprattutto in Romagna.
L'attività edilizia - gestita dal 1897 da una commissione trasformata (1910) in istituto semipubblico, poi Istituto autonomo case popolari - e l'altro progetto del Selvatico condiviso e portato avanti dal G., l'Esposizione internazionale d'arte - la Biennale, affidata ad A. Fradeletto - furono funzionali al rilancio europeo della città, di cui la riedificazione del campanile di S. Marco, crollato su se stesso nel 1902 e ricostruito "com'era e dov'era" nel 1912, era divenuta un simbolo. In questa logica si diluirono nel tempo gli interventi di risanamento abitativo, per dare spazio al restauro dei monumenti e dei palazzi e alle costruzioni neogotiche (pescheria), spesso in chiave turistica: una logica alla quale rispose anche la minimizzazione del colera (1911). L'ampio progetto lasciò mano libera ai privati con qualche eccezione, come il controllo sul liceo musicale (1895, poi conservatorio B. Marcello dal 1915), il miglioramento o la creazione di alcune strutture sanitarie speciali nelle isole (per i tubercolosi e gli infetti) e, soprattutto, la municipalizzazione dell'azienda dei vaporetti, nel 1905.
A fronte dell'Azienda di navigazione interna (Acni), la gestione delle acque e del gas restò, nonostante l'indirizzo inizialmente avverso della giunta, appannaggio di due società francesi, la Compagnie des eaux pour l'étranger e la Compagnie du gaz de Venise, nota come Lionese. Analogo comportamento il G. ebbe con l'illuminazione pubblica, sostituendo progressivamente, dal dicembre 1902, la Società per l'illuminazione pubblica di Venezia (che vedeva la compartecipazione della Edison e della Banca Treves) con la Cellina, nome diffuso della Società italiana per l'utilizzazione delle forze idrauliche del Veneto, sorta nel 1900 col concorso di alcuni aristocratici e proprietari, della Banca commerciale italiana (Comit), del Credito italiano, poi affiancata dalla Società adriatica di elettricità (1905), con l'ingresso di altri imprenditori e politici emergenti, tra cui P. Foscari e G. Volpi. Il disegno più ambizioso, voluto proprio da quest'ultimo, presidente del Porto industriale, fu quello di Marghera, che nacque ai Bottenighi dopo molte discussioni, ma senza l'opposizione dei socialisti che, pur consci delle possibili speculazioni e della gestione monopolistica dell'operazione, vi intravidero più favorevoli interessi per il proletariato che per l'"industria del forestiero", possibilità di formazione di un forte nucleo operaio, la soluzione delle questioni legate al porto e all'ampliamento del comune a Mestre e alla gronda lagunare. Venezia si estendeva allora al centro storico, alla Giudecca e (dal 1884) al Lido; le altre isole (Pellestrina, Murano e Burano) e i comuni della terraferma (Mestre, Favaro, Chirignago, Zelarino) sarebbero stati inglobati nella "grande Venezia" tra il 1923 e il 1926. La mediazione politica, operata in prima persona dal G., fu fondamentale per la stipula della convenzione, firmata a Roma il 23 luglio 1917, dal presidente del Consiglio P. Boselli e dal ministro dei Lavori pubblici I. Bonomi per lo Stato, dal G. per il Comune e dal Volpi per la società Porto industriale di Venezia.
La nascita di Porto Marghera fu speculare all'inserimento del Lido negli itinerari del turismo d'élite. L'isola fu radicalmente trasformata negli insediamenti e nella concezione, passando da luogo di cura elioterapica a centro balneare: la conferma venne dalla costruzione dell'hotel des Bains (1900) e dell'Excelsior (1908) attraverso la Compagnia italiana grandi alberghi (CIGA), società in cui il G. lasciò mano libera ai consueti soci privati (N. Papadopoli, A. Treves de' Bonfili, T. Braida, G. Volpi) e alla Comit, mentre il Comune fornì infrastrutture (dal tram al collegamento di vaporetti), viabilità e abitazioni.
Nel rilancio culturale della città e nel rinnovato panorama politico si situa l'episodio della presentazione della Nave di G. D'Annunzio alla Fenice, il 25 apr. 1908, probabilmente l'unico screzio di rilievo tra patriarcato e Municipio. Anche qui il G., ottenendo che il manoscritto venisse regalato dal vate al Comune, mediò tra le ansie della curia, offesa dal contenuto dello spettacolo e dalla provocazione della scelta del giorno di S. Marco, e quelle di nazionalisti e irredentisti.
Cavaliere di gran croce (1910) e di molti altri ordini, il G. fu nominato senatore nel febbraio 1917, riconoscimento non solo dell'attività politica, ma anche della lealtà verso la monarchia, mentre non poche furono le occasioni di contrasto col Giolitti, manifestatesi attraverso i frequenti dissidi con i prefetti. Fu consigliere d'amministrazione delle Assicurazioni generali e del Credito italiano; membro e presidente di diverse compagnie (specialmente nel settore ferroviario, in cui legò il suo nome all'apertura della linea della Valsugana Venezia-Trento, ai progetti dello Spluga e del collegamento con Vittorio Veneto e Ponte nelle Alpi; o elettrico, con la Società elettrica per il Porto industriale di Venezia), presidente della commissione parlamentare d'inchiesta per le Terre liberate, socio dell'Ateneo veneto, mentre gelosie campanilistiche (i molti soci padovani) e politiche (d'area giolittiana e massonica) gli negarono l'elezione all'Istituto veneto di scienze, lettere ed arti. Provato dai molti anni di governo e da alcune vicende personali, come la morte del primogenito Pier Luigi che stava per indurlo al ritiro già nel 1913, il G. (sposato dal 1875 con Enrichetta Dubois de Dunilac, dalla quale ebbe altri due figli, Enrico Maria e Marino) si dimise nel 1919, dopo la vittoria socialista a Venezia nelle elezioni politiche. Il suo ruolo di traghettatore di Venezia verso il XX secolo si era esaurito, scavalcato a destra dal nazionalismo fascista di P. Marsich, a sinistra da un partito socialista che non poteva più tenere a bada col solo paternalismo. Dopo il commissariamento di N. Vitelli, nel 1920, fu eletto il medico D. Giordano, sindaco di una delle prime giunte clerico-fasciste.
Fedele a un modello di governo che saldava la storia dogale a un presente interclassista, il G. unì la continuità delle istituzioni con la modernità di un progetto, la tradizione culturale al capitale monopolistico, Fradeletto a Volpi. In lui si esaltò la figura di un uomo dedito all'incarico, che tuttavia per ricrearsi l'animo "gravato da tante cure pubbliche" alternava il pianoforte, suonando Chopin e Grieg "con rara maestria", alla "sua partita di terziglio" al club Unione (di cui fu presidente), creando un mito popolare che trovò manifestazione alla sua scomparsa.
La morte lo colse a Roma, all'hotel des Princes, dopo una seduta in Senato: vittima di un ictus nella notte tra il 28 e il 29 nov. 1921, morì il 5 dicembre successivo. I funerali si svolsero a Venezia e videro un'enorme partecipazione di folla.
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