JUVARRA, Filippo
Nacque a Messina il 27 marzo 1678 da Pietro e da Eleonora Tafurri, sua seconda moglie.
L'iniziale formazione artistica dello J. avvenne nell'ambito della bottega paterna di argenteria, una delle principali di Messina, nella quale furono attivi anche quattro suoi fratelli maggiori, tra cui Francesco Natale autore della biografia che costituisce la fonte più attendibile sulle sue vicende giovanili (1736 circa: pubblicata in Pascoli). Secondo quanto racconta il fratello, fu proprio eseguendo bassorilievi in argento sotto la sua direzione che l'adolescente J., "di naturale molto vivace, e di buonissimo intelletto", manifestò le prime espressioni artistiche, frutto dell'esercizio nel disegno di figura praticato al contempo degli studi ecclesiastici ai quali fu avviato all'età di dodici anni.
La definizione di "pittore architetto e cesellatore", attribuitagli dallo storico concittadino Francesco Susinno nel 1724, sembra ancora riflettere la percezione che due decenni prima si aveva nella città natale della personalità artistica dello J. al momento in cui, dopo avere preso i voti sacerdotali nel 1703, egli decise di perfezionarsi come architetto a Roma, dove giunse nell'estate del 1704 all'età di ventisei anni.
Il suo percorso formativo dalla pittura all'architettura, che, secondo le notizie biografiche, avrebbe studiato da autodidatta soprattutto sui trattati di Vitruvio, del Vignola (Jacopo Barozzi) e di Andrea Pozzo, senza un apprendistato pragmatico, si collocava nel contesto della vocazione interdisciplinare degli architetti messinesi e della condizione personale di ecclesiastico che avrebbe notevolmente condizionato il carattere e l'evoluzione della sua carriera artistica. Sotto la protezione di influenti membri della Chiesa appartenenti alla famiglia Ruffo, committente della bottega paterna, si svolse anche il suo viaggio a Roma, dove fu ospite dei Passalacqua presso via dei Leutari, zona abitata da numerosi messinesi.
Con la protezione di monsignor Tommaso Ruffo, lo J. entrò presto in contatto con il ticinese Carlo Fontana, l'architetto e insegnante di architettura più importante a Roma. Secondo quanto si può desumere dal confronto delle due differenti versioni sulle circostanze dell'incontro riportate nella biografia del fratello e in quella di Scipione Maffei, l'anziano maestro, constatati l'eccezionale abilità nel disegno e il talento inventivo, ma anche l'eccessiva esuberanza espressiva del giovane pervaso dal mito universalistico di Michelangelo, lo introdusse alla logica e alla razionalità del metodo progettuale da lui sperimentato nell'attività professionale e applicato nella didattica presso l'Accademia di S. Luca. Riflessi dell'inventiva dello J. si possono trovare nelle incisioni autografe degli apparati effimeri allestiti a Messina nel 1701 per celebrare l'incoronazione di Filippo V, tra i quali è particolarmente significativa l'opulenta decorazione della "piramide degli orefici e argentieri". Di quanto egli padroneggiasse gli strumenti e le tecniche di rappresentazione sono eloquenti testimonianze i suoi primi disegni noti eseguiti a Roma nell'agosto 1704 riguardanti "fantasie" architettoniche a carattere antiquario, già molto vicine a quelle con cui nel prosieguo della sua carriera avrebbe segnato l'evoluzione del genere fino all'avvento di G.B. Piranesi.
Il primo concreto approccio dello J. con l'ambiente fontaniano risale già alla redazione del saggio per il concorso clementino di prima classe dell'Accademia di S. Luca, riguardante una "villa per tre personaggi" (Roma, Accademia di S. Luca: per i disegni citati all'interno della voce se non altrimenti specificato si vedano i contributi di Millon, 1984; Gritella, 1992; Barghini).
In questa circostanza egli poté avvalersi della consultazione dell'enorme repertorio di progetti conservati nello studio del maestro, rimanendo fortemente improntato nel giro di pochi mesi dal filone della tradizione architettonica del Seicento romano più orientato alla linearità e all'organizzazione spaziale in chiave monumentale di cui Fontana era il consapevole depositario. Ciò è chiaramente dimostrato dal suo saggio, designato vincitore in Campidoglio il 7 maggio 1705, raffigurante una villa con tre distinti corpi di fabbrica innestati a un cortile centrale esagonale circondata da un articolato sistema geometrico di giardini e spazi accessori potenzialmente tendente all'infinito, magistrale compendio di matrici rinascimentali sviluppate nel solco della tradizione seicentesca con una attenzione particolare al rapporto tra architettura e territorio.
Subito dopo la vittoria, sospendendo ogni decisione sull'eventuale prosecuzione della carriera romana, lo J. ritornò a Messina, dove il 1° marzo 1705 era morto il padre. Qui ebbe modo in parte di dimostrare l'evoluzione romana del suo linguaggio con la sistemazione del coretto della chiesa di S. Gregorio (nella quale, secondo il fratello, aveva curato alcune decorazioni anche prima della partenza), commissionato dai Ruffo, e con il progetto di ampliamento e ristrutturazione del palazzo di Muzio Spadafora.
Lasciata Messina, probabilmente insieme con il nobile lucchese Coriolano Orsucci, lo J. durante un lento viaggio di riavvicinamento a Roma sostò a Napoli (dal 30 gennaio al 6 marzo 1706 almeno). Qui dimostrò una grande capacità di adattare al contesto locale i portati più congruenti della tradizione seicentesca romana, misurandosi idealmente con i significativi temi progettuali offerti dalle facciate irrisolte delle chiese di S. Brigida e di S. Filippo, nella chiave interpretativa di G.L. Bernini e di Pietro Berrettini da Cortona e stabilendo un contrappunto dialettico con il borrominiano altare Filomarino nella chiesa dei Ss. Apostoli mediante l'esercizio progettuale sul tema di un antistante altare per la famiglia Pignatelli (Torino, Fondazione Marrocco, già collezione Tournon, 1, f. 29).
Al ritorno a Roma (documentato dal 5 apr. 1706), a questo primo confronto autonomo con i protagonisti del barocco - assai vicino alle sperimentazioni di Francesco Fontana, figlio ed erede designato di Carlo, con il quale lo J. entrò in uno stabile rapporto di collaborazione - si sovrappose una indagine selettiva da lui condotta direttamente sulle architetture romane del secolo precedente, oltre a quelle dell'amato Michelangelo. A tale indagine - assolutamente predominante sui pochi studi riguardanti architetture antiche - sono riferibili moltissimi dei disegni conservati nei suoi album, recanti anche testimonianza della frequentazione del cantiere fontaniano della chiesa dei Ss. Apostoli, alla quale si deve gran parte della sua prima acculturazione tecnica.
Una importante verifica su scala monumentale di questa fase della carriera dello J. fu costituita dal progetto di ristrutturazione e ampliamento del palazzo pubblico di Lucca, lasciato incompiuto da B. Ammannati, affidatogli dal Senato di quella Repubblica - probabilmente attraverso il citato Orsucci, certamente con il consenso e l'appoggio dei Fontana - con il quale lo J. (presente a Lucca almeno dal 14 ott. 1706 al 7 genn. 1707), nel contesto di un sostanziale rispetto del lessico cinquecentesco, andò oltre le richieste della committenza, prefigurando decise innovazioni funzionali e spaziali nelle numerose parti disconnesse del complesso.
Contemporaneamente, oltre a un progetto di sistemazione dell'ospedale della Ss. Trinità, egli redasse molteplici proposte per le ville della colta e raffinata nobiltà lucchese, che rappresentano variazioni sul tema della villa rinascimentale toscana mediate dal repertorio fontaniano, come per le ville Controni a Monte S. Quirico, Guinigi alla Marina di Viareggio, o applicazioni sperimentali dei concetti a scala territoriale sviluppati nel saggio accademico, come per la villa Orsucci a Segromigno.
Mentre ancora era a Lucca, il 31 dic. 1706, su proposta del viceprincipe F. Fontana lo J. fu nominato membro dell'Accademia di S. Luca.
A sottolineare l'importanza da lui attribuita a questo onore, conferitogli all'ancora giovane età di ventotto anni, rimane, come eloquente testimonianza, il progetto, consegnato tre mesi dopo come dono accademico, raffigurante una chiesa a pianta centrale con due campanili. Esso costituiva un manifesto del suo linguaggio architettonico nel quale l'ideale visione michelangiolesca si era sostanziata attraverso l'interpretazione di Bernini e Pietro da Cortona, per l'articolazione monumentale della struttura compositiva, e di F. Borromini, per l'invenzione della struttura decorativa intesa paritariamente.
Nella seduta accademica del 26 apr. 1707 lo J. venne nominato insegnante unico del corso di architettura. Ruolo che egli ricoprì con molta partecipazione anche negli anni seguenti (corsi di architettura nel 1708 e nel 1712, corso di prospettiva nel 1711) attraverso un articolato metodo didattico, che poté sperimentare anche in una sorta di accademia domestica delle arti, frequentata tra gli altri dai giovanissimi apprendisti architetti G. Passalacqua e D. Gregorini.
Il legame dello J. con il mondo professionale romano era limitato a una collaborazione libera e amichevole con F. Fontana e a contatti occasionali con gli architetti membri dell'Accademia di S. Luca, nell'ambito di una concezione elitaria dei rapporti con i colleghi e con la committenza, consentitagli probabilmente dalla perdurante protezione di monsignor Ruffo. Come sembrano dimostrare la scarsa frequentazione delle affollate riunioni di artisti della Congregazione dei Virtuosi al Pantheon, nella quale fu ammesso il 13 maggio 1708, e l'assenza di indizi circa il suo coinvolgimento nelle attività pragmatiche esercitate dalla maggior parte degli architetti romani.
Il rapporto con i Fontana gli procurò la piccola ma significativa commessa della cappella di famiglia dell'avvocato T. Antamoro intitolata a S. Filippo Neri nella chiesa di S. Girolamo della Carità.
Progettata nella prima metà del 1708 e completata entro il 1710, con l'importante apporto di Pierre Legros per l'esecuzione dell'apparato scultoreo, la cappella esprime una studiata compenetrazione tra la dinamica articolazione plastica dell'altare dominato dalla statua del santo, influenzata dalle precedenti ricerche di Bernini e di Pozzo, e il delicato equilibrio dei tenui aggetti della struttura dell'ordine architettonico e della decorazione in stucco, che rappresenta la sua caratteristica più originale.
Il mondo dei "pensieri" architettonici dello J. era dominato da temi aulici. Nei suoi album ricorrono disegni di giganteschi palazzi e ville principesche, colonne e archi trionfali, anfiteatri e monumenti equestri. Essi riflettono, oltre all'essenza profonda della sua ispirazione a un antico idealizzato, un crescente desiderio di affrontarne i soggetti al servizio di una delle corti d'Europa che in quel tempo celebravano il successo di numerosi architetti italiani, sia direttamente, sia attraverso progetti inviati per "corrispondenza", come nel caso dei due Fontana. In questo contesto si inseriscono il magniloquente progetto dello J., rimasto allo stato preliminare, di un palazzo a otto cortili approntato per il langravio Carlo di Assia-Kassel, che dovette essere originato da una sorta di concorso tra gli architetti romani, e probabilmente il progetto - di cui si ha solamente notizia - di un palazzo con cortile circolare redatto nel 1708 per un "principe", forse tedesco (Lorenz).
La morte di F. Fontana, avvenuta il 3 luglio 1708, spezzò il labile legame dello J. con la pratica professionale ordinaria, inducendolo ad affrettare la ricerca di un impiego di corte. In questo senso si collocava l'ambiziosa ricostruzione grafica dell'antico Campidoglio confrontato con il nuovo, che originariamente avrebbe dovuto contribuire ad attrargli la benevolenza di Federico IV re di Danimarca, annunciato in visita a Roma per la Pasqua 1709 e che, una volta sfumata la visita del sovrano danese, inviata in dono a Parigi ai primi di agosto al duca d'Antin, Louis Pardaillan de Gondrin, ministro di Luigi XIV, avrebbe dovuto favorire un suo impiego come architetto della corte di Francia, grazie alla raccomandazione del pittore François Poerson, direttore dell'Accademia di Francia a Roma.
Mentre forse ancora nutriva speranze di una chiamata presso la corte reale di Luigi XIV, nel mese di luglio lo J. fu accolto in quella cardinalizia del veneziano Pietro Ottoboni, procancelliere apostolico, in procinto di essere nominato protettore del Regno di Francia. Al di là delle mansioni di cappellano assegnategli ufficialmente, secondo gli intenti del cardinale egli svolse il ruolo di regista delle sue molteplici iniziative artistiche connesse principalmente all'attività teatrale, proponendosi come un eccezionale scenografo.
L'alloggio fornito allo J. dal cardinale nel palazzo Ornani De Cupis in piazza Navona (dove fu raggiunto intorno al 1713 dalla madre, dalle sorelle Benedetta e Agata Fortunata e dal fratello Francesco Natale) fu il laboratorio dove fu ideato un grande numero di scenografie teatrali, alcune realizzate, altre rimaste sulla carta. Tra le prime vi furono quelle per le opere di burattini (quasi a misura d'uomo) messe in scena dal cardinale Ottoboni tra il 1710 e il 1712 nel teatro della Cancelleria (ristrutturato dallo J. tra luglio e dicembre 1709) e nel 1714 nel teatro Capranica (di cui lo J. sistemò il palcoscenico nel 1713), ma anche quelle allestite dalla regina di Polonia in esilio Maria Casimira d'Arquien, vedova di Giovanni III Sobieski, nel suo teatrino domestico sul monte Pincio, tra il 1710 e il 1713.
All'ambito del cardinale Ottoboni è da ricondurre la pubblicazione da parte dello J. della Raccolta di varie targhe di Roma fatte da professori primarj (Roma 1711), ideata fin dal 1706, oltre alla sua intensa attività come illustratore di volumi a stampa (svolta anche per l'editore Salvioni) e, soprattutto, a quella come progettista di apparati effimeri. Tra questi ultimi è da segnalare il progetto, in collaborazione con P. Legros, per l'allestimento della chiesa di S. Luigi dei Francesi in occasione della commemorazione funebre del delfino di Francia nel 1711. Sul piano più strettamente architettonico sono direttamente ascrivibili all'influenza di Ottoboni il progetto per l'altare maggiore del santuario di Caravaggio del 1712 (attuato con varianti nel 1750) e la proposta per il completamento del chiostro del convento di S. Maria dell'Umiltà (1714 circa).
Durante il servizio presso Ottoboni lo J. fece un salto di qualità sul piano culturale e la sua figura pubblica coincise definitivamente con quella di un uomo di corte raffinato e brillante. Ciò fu dovuto soprattutto alla stretta frequentazione del circolo di artisti protetti dal cardinale, tra i quali il pittore F. Trevisani, lo scultore A. De Rossi, il musicista e compositore A. Corelli, il sopranista A. Adami, tutti accomunati da interessi multidisciplinari: dalle arti alla recitazione, alla musica, alla letteratura, coltivate a stretto contatto con illustri uomini di cultura e poeti che gravitavano presso la corte ottoboniana come G.M. Crescimbeni, V. Gravina, monsignor L. Sergardi. In questo contesto si inserirono l'ingresso nell'Accademia dell'Arcadia, di cui Ottoboni era protettore, nel 1712, con l'evocativo nome pastorale di Bramanzio Feesseo, e una rinnovata attività di maestro di architettura, che più tardi avrebbe coinvolto anche il giovanissimo Luigi Vanvitelli, figlio dell'amico pittore Gaspar.
La morte di C. Fontana, avvenuta nel febbraio del 1714, presaga di grandi cambiamenti negli equilibri professionali a Roma, colse lo J. in un periodo di relativa stasi dell'attività di scenografo e di insegnante presso l'Accademia di S. Luca, nel quale si collocò un secondo soggiorno a Lucca, attestato da una serie di disegni datati dal 20 aprile al 21 maggio 1714.
Tali disegni riflettono un itinerario di piacere delle residenze di villeggiatura nobiliari, di cui egli prefigurò ampliamenti e sistemazioni idealistici, degni della sua consolidata fama di creatore di suggestioni scenografiche, come nei disegni per le ville di Cesare Benassai in Vallebuia, di Fabio Mazzarosa e ancora di Coriolano Orsucci a Segromigno, a cui si possono collegare le più tarde proposte per la palazzina d'estate della villa Garzoni a Collodi.
Mentre ancora sulla strada del ritorno, il 3 giugno a Firenze, studiava ammirato la chiesa brunelleschiana di S. Spirito, il destino dello J. stava per compiersi a Messina. Nella città natale, grazie agli auspici dell'amico conterraneo e arcade, Francesco Aguirre, fu chiamato da Vittorio Amedeo II di Savoia, diventato re di Sicilia a seguito del trattato di Utrecht del 1713, che si trovava nell'isola per prenderne possesso e che era in cerca di un successore del suo primo architetto M. Garove, morto nel 1713. L'incontro dello J. con Vittorio Amedeo II (di cui egli era formalmente suddito) avvenne alla metà di luglio 1714: lo J. interpretò come un saggio il progetto di ampliamento del palazzo reale di Messina richiestogli da Vittorio Amedeo, conferendogli una forte connotazione rappresentativa congruente a quella che il sovrano prefigurava per Torino come capitale del suo Regno.
Stabilita una immediata intesa con il Savoia, all'età di trentasei anni lo J. coronò finalmente la sua aspirazione di misurarsi con le ambizioni costruttive di un vero principe. Nominato di fatto "primo architetto civile" del Regno sabaudo già prima di imbarcarsi, il 1° sett. 1714, da Palermo alla volta di Torino (dove giunse tra la fine di settembre e i primi di ottobre), lo J. prestò giuramento il 14 dicembre seguente.
Allo stesso giorno dell'arrivo a Torino di Vittorio Amedeo, il 10 ott. 1714, risale il primo disegno datato dello J. attinente al suo ruolo: un rapido schizzo per il nuovo altare della S. Sindone nel duomo, che inaugurava l'intenso rapporto intercorso tra il re e l'architetto costituito da incalzanti sollecitazioni dell'uno e repentine soluzioni creative dell'altro.
L'obiettivo che accomunava entrambi era quello di qualificare con i segni e i significati architettonici della Romanitas la nuova città capitale, mantenendo tuttavia la continuità con lo sviluppo urbanistico già chiaramente prefigurato e orientato dal programma ideale riflesso nelle incisioni del Theatrum Statuum regiae celsitudinis Sabaudiae ducis… (Amsterdam 1682), seguito da Vittorio Amedeo fin dall'inizio del suo ducato (1684), mediante operazioni architettoniche influenzate dalla cultura di corte francese, dalla quale ora egli si voleva in parte affrancare.
Le prime iniziative erano ancora in corso di definizione, quando lo J. risiedette a Roma in due periodi ravvicinati (tra la seconda metà di novembre e la prima metà di dicembre 1714 e dalla fine di gennaio ai primi di luglio del 1715) durante i quali fu impegnato nella progettazione della sagrestia vaticana, nell'ambito di un concorso di modelli indetto da Clemente XI, per il quale ideò un monumentale complesso rettangolare a due cortili animato da canoni e proporzioni michelangioleschi, che pur in assenza di un verdetto ufficiale riscosse un notevole successo.
Al ritorno a Torino, nell'estate del 1715, lo J. diede un impulso decisivo alla riorganizzazione dell'efficiente, ma rigido, sistema statale di gestione delle Fabbriche regie. Contemporaneamente lo J., come mai nessun predecessore, per le sue grandi competenze interdisciplinari, riuscì a concentrare sotto il proprio controllo l'intero processo ideativo ed esecutivo, ponendosi al vertice di una piramide organizzativa capace di agire a ogni scala d'intervento edilizio e di seguire direttamente l'impostazione e l'esecuzione dei cicli decorativi.
I primi esiti della febbrile attività iniziale dello J., svolta nell'abitazione studio ubicata nel palazzo dell'Università a contatto con il laboratorio dei modelli, riguardarono la realizzazione della grande basilica sul colle di Superga (dal 1715 al 1727-31), voluta da Vittorio Amedeo come tempio votivo e mausoleo sabaudo, a prolungamento della direttrice prospettica virtuale tra il castello di Rivoli e la porta Susina, e quella delle facciate delle chiese gemelle nella testata della seicentesca place royale rettangolare di S. Carlo, commissionategli dalla madama reale Maria Giovanna Battista di Savoia Nemours, di cui fu realizzata solo quella di S. Cristina (1715-18).
Connotati da grandi significati simbolici entrambi i progetti presentavano riferimenti linguistici alla cultura architettonica romana da Michelangelo a C. Fontana, dimostrati dalle molte analogie della basilica di Superga con la sintesi storica riflessa nel disegno presentato come dono accademico all'Accademia di S. Luca nel 1707 e delle chiese gemelle con la facciata fontaniana di S. Marcello al Corso. Analoghi riferimenti sono riscontrabili anche nel progetto di ricostruzione della chiesa torinese di S. Filippo Neri, crollata il 26 ott. 1714. Elaborato dallo J. in più varianti a cavallo del soggiorno romano del 1715 (in seguito più volte modificato fino all'inizio della fase esecutiva nel 1732), il progetto dovette anche al lusinghiero giudizio di imprecisati architetti romani la sua approvazione da parte della Congregazione dell'Oratorio di Torino, posta sotto la protezione sabauda, con la quale in seguito lo J. avrebbe intrattenuto intensi rapporti.
Accanto ai nuovi progetti "romani", lo J. avviò un intenso rapporto dialettico con gli imponenti complessi delle residenze di piacere extraurbane della Venaria reale, iniziata da Amedeo di Castellamonte e lasciata interrotta da Garove (completamento della galleria di Diana e del padiglione di testa: 1714-26; chiesa di S. Uberto: 1716-30), e del castello di Rivoli, la cui trasformazione era stata iniziata da Garove nel 1711 (nuovo progetto di ristrutturazione nel 1715, e inizio dei lavori del corpo centrale sospesi nel 1720).
Tali opere evidenziavano l'avvio di un processo di rapida assimilazione al vasto quadro dei riferimenti romani dello J. della concezione spaziale di matrice francese che improntava le strutture esistenti e che era pienamente congruente alla sua tendenza a esaltare progressivamente il rapporto con la grande scala del territorio e del paesaggio.
Il monumentale scalone a due rampe di palazzo Madama, unica parte realizzata (1718-21) di un più esteso avancorpo commessogli dalla madama reale, quasi una materializzazione delle aeree scenografie teatrali, evidenziava nell'aperta facciata sipario strutturata da un ordine gigante, l'armonica fusione dei canoni linguistici delle fabbriche reali parigine - e del Louvre in particolare - con la tradizione architettonica romana rappresentata soprattutto dal berniniano palazzo oggi Odescalchi ai Ss. Apostoli.
Decisamente più orientati verso l'interpretazione locale della cultura urbanistica francese furono gli interventi di committenza regia dell'ampliamento occidentale di Torino in corrispondenza dei quartieri militari e contrada di Porta Susina, che impegnarono lo J. dal 1716 fino al 1728, consentendogli di sperimentare originali modulazioni omogenee delle quinte architettoniche nel contesto degli allineamenti prospettici ancora dettati dal Theatrum Sabaudiae. Nell'architettura civile nobiliare apparivano ormai autonomi dalla tradizione romana i palazzi dei conti Birago di Borgaro e Martini di Cigala (dal 1716 in avanti), nuove tipologie residenziali funzionalmente aggregate sulla corte interna, del tutto congruenti alle esigenze della classe aristocratica di cui lo J. si era rapidamente conquistato il favore. È eloquente in tal senso la testimonianza diretta di S. Maffei, secondo cui lo J., uomo "di naturale allegro, di buona conversazione, e molto amico dei divertimenti", era spesso al centro di riunioni conviviali "con gli amici e gentiluomini" nei caffè di Torino, dove si esibiva in estemporanei saggi di disegno tracciati a matita su piccoli fogli che cedeva malvolentieri agli occasionali richiedenti.
Nello stesso periodo, nel campo dell'architettura religiosa vanno segnalate le chiese di S. Croce (progetto e inizio del cantiere nel 1718, altari nel 1730), con un impianto ovale ispirato a tematiche berniniane, e di S. Giacomo di Campertogno (progetto del 1719, attuato negli anni seguenti), con un impianto ottagono allungato simile a quello della navata della chiesa romana di S. Maria Maddalena di G.C. Quadri; nonché la decorazione interna della chiesa vitozziana della Ss. Trinità (progetto del 1717, attuato in più fasi fino al 1734) e l'altare della Sacra Famiglia nella chiesa di S. Teresa, per il marchese Arduino Tana di Entracque (progetto del 1715, realizzazione del 1718), fortemente debitore della cappella Cornaro di Bernini.
Nei suoi primi anni di attività in Piemonte, approfittando della sosta invernale dei cantieri e dell'efficiente organizzazione del suo gruppo di lavoro nella predisposizione dei progetti per la buona stagione, lo J. fu protagonista di una intensa diplomazia delle arti tra Torino e le capitali europee che lo impose come uno degli architetti più capaci di concretizzare le istanze di rappresentazione del potere regio. In particolare, a Roma egli coltivò e incrementò i molteplici rapporti già instaurati con gli esponenti della cultura artistica europea nel quadro strategico delle crescenti occasioni di committenza per la decorazione delle fabbriche sabaude.
Ai due soggiorni romani avvenuti nei mesi invernali del 1715-16 e del 1716-17 (il secondo preceduto da un viaggio nelle città di Milano, Piacenza, Parma, Modena, Reggio Emilia e Bologna) risalgono le vedute prospettiche ideali della nuova chiesa patriarcale di Lisbona, commissionategli da parte dell'ambasciatore straordinario di Giovanni V, don Rodrigo de São Almeida e Menezes, marchese de Fontes. Quest'ultimo fu il tramite del viaggio in Portogallo intrapreso dallo J. nel dicembre 1718 su invito ufficiale del re in merito alla colossale impresa costruttiva della patriarcale e del nuovo palazzo reale, nella zona collinare di Bellas Aires, che non ebbe esiti, ma che gli arrecò molti onori, tra cui la nomina a cavaliere dell'Ordine di Cristo e un cospicuo vitalizio. Partito da Lisbona nel luglio 1719, prima di raggiungere Torino nel mese di dicembre, lo J. visitò Londra e Parigi.
Quando lo J. ritornò a Roma nell'inverno 1720-21 (progetto per la ricostruzione della piccola chiesa della Confraternita dei Barbieri intitolata ai Ss. Cosma e Damiano) curò con l'amico incisore F. Vasconi l'edizione a stampa dei progetti integrali per le facciate di palazzo Madama e delle chiese gemelle di piazza S. Carlo. Le due incisioni facevano parte di un vasto programma iconografico di comunicazione, non realizzato, concordato con il sovrano per illustrare le maggiori opere regie in corso, soprattutto quelle come il palazzo Madama e il castello di Rivoli la cui completa attuazione sembrava già chimerica.
La collaborazione pressoché quotidiana tra il re e l'architetto nel portare avanti i progetti assumeva i termini di una vorticosa rincorsa contro il tempo, in cui alcuni cantieri subivano repentine accelerazioni, altri erano iniziati e subito sospesi, altri ancora definiti nel dettaglio ma nemmeno avviati, senza contare le innumerevoli idee e suggestioni testimoniate solo da schizzi.
Alla Venaria reale si aggiunsero i cantieri della citroniera-scuderia e della "mandria" (1720-29). Nel palazzo reale iniziò un processo di sistemazione con la nuova scala delle Forbici, progettata e costruita nel 1720-21, e con il teatrino di corte detto "del Rondeau" (1722). Nel "palazzo reale vecchio" fu rifatto l'antico teatro Regio (1722-23). Venne iniziata la costruzione del nuovo palazzo del Senato, poi sospesa (1720-22). Fu soprelevato il campanile del duomo (1720-23).
In questo intensissimo periodo di attività l'impegno dello J. per opere fuori Torino fu limitato. Fu solo in base a una speciale licenza regia che nell'ottobre 1723 tornò a Lucca per redigere una sostanziale variante a carattere tecnico e funzionale del suo precedente progetto del palazzo pubblico, corrispondente a un significativo ripensamento critico, occupandosi anche di progetti per il locale duomo e per la villa Mansi a Segromigno (il progetto per la villa fu definito nel 1725 e attuato a partire dal 1732).
Tra il 1724 e il 1726 lo J. costruì la sua casa studio, in via di S. Domenico, su un terreno donatogli dal re nel 1720. Un disegno riferibile alla facciata verso il giardino dell'edificio, demolito nel 1932, mostra un'articolazione dell'ordine ionico permeata da significativa influenze del palladianesimo nordeuropeo.
Riferimenti specifici alla romanità invece furono ancora predominanti nei numerosi apparati effimeri che a partire dal 1722 lo J. allestì in occasione della celebrazione degli eventi dinastici dei Savoia, di cui egli fu il regista assoluto adoperando l'architettura in chiave simbolica con il supporto dell'élite culturale gravitante presso la Regia Università riformata da F. Aguirre.
Roma per lo J. in quel momento sembrava rappresentare solo il teatro delle idealità. Giacché quando vi giunse nuovamente il 9 dic. 1724, prevedendo di ripartire per la Pasqua dell'imminente anno santo, egli si impegnò in un progetto, in quattro varianti, per il palazzo del conclave, probabilmente richiestogli dal cardinale Annibale Albani. Tanto monumentale quanto privo di qualsiasi attuabilità, il progetto rimase così sulla carta, ma contribuì a fargli assegnare la carica, ormai solo onorifica, di architetto della Fabbrica di S. Pietro, detenuta prima di lui da Bernini e da C. Fontana.
Tornato a Torino, nella dedica del volume di disegni inviato in dono al conte Traiano Roero di Guarene nel 1725 egli avvertì il bisogno di spiegare la sua concezione dell'architettura definendosi un amante della "sodezza dell'arte, secondo l'insegnamento di Vitruvio e Palladio e di tutti i più celebri Autori […] e del semplice in cui ogni arte riconosce […] la sua perfezione" e ponendo l'attenzione sulla sobrietà e sulla coerenza nell'uso degli ornati dichiarandosi in questo imitatore di Borromini. Accanto alle pragmatiche relazioni dei progetti per il palazzo pubblico di Lucca sono queste le più significative definizioni della sua propria poetica ispirata innanzitutto a una luministica chiarezza di forme e di spazi.
Nel contesto di una attività progettuale che si esplicava in ogni settore tipologico riversando un'enorme mole di lavoro sul suo ufficio (nel quale cominciavano a emergere le personalità dei principali collaboratori G.B. Sacchetti e G.P. Baroni di Tavigliano, alias Ignazio Agliaudi), lo J. intorno al 1730 elaborò un piano urbanistico della zona dei "palazzi di comando" in prossimità del palazzo reale, teso al suo definitivo riassetto.
A tale piano sono da ricondurre nuove costruzioni, come il palazzo degli Archivi di corte (1731) e alcune ristrutturazioni interne: nell'Accademia militare (1726-27, 1730-31), nel palazzo reale (1730-32) dentro il quale era previsto il nuovo teatro Regio, progettato dallo J. nel 1730 e realizzato successivamente da B. Alfieri, nonché nel palazzo reale vecchio (1730).
Quest'ultimo edificio, insieme con molti altri della zona, era destinato alla demolizione nell'ambito del colossale progetto di costruzione del duomo nuovo, non attuato, per cui lo J. fu impegnato dal 1728 al 1730, elaborando più versioni, nessuna delle quali definitiva ma accomunate da una grandiosa visione spaziale ispirata al S. Pietro di Bramante e di Michelangelo.
Al contempo in ambito urbanistico si occupò anche della sistemazione della contrada di Porta Palazzo con la combinazione di espansioni polari sul raddrizzamento dell'asse stradale preesistente (1729-32). Nell'edilizia civile nobiliare realizzò il palazzo del conte Richa di Covassolo (1730) e la facciata del palazzo del conte Roero di Guarene (1730).
Nel quadro degli interventi di ristrutturazione che interessarono pressoché tutte le residenze regie urbane ed extraurbane, a partire dal 1729 lo J. iniziò la costruzione della palazzina di Stupinigi, padiglione di caccia e palinsesto funzionale alla celebrazione dei piaceri della corte. L'impianto a bracci incrociati in diagonale irraggiati dall'ovale del salone centrale dell'edificio, oltre a modulare geometricamente il rapporto tra architettura, paesaggio e città, al culmine di una lunga sperimentazione sul tema, fu alla base di una scenografica declinazione architettonica, audace strutturalmente e innovativa per chiarezza e permeabilità degli spazi, che ne fecero un caposaldo dell'architettura europea del Settecento.
Parallelamente, nel campo dell'architettura religiosa tra il 1728 e il 1733 lo J. proseguiva il confronto con la tradizione romana, distaccandosene sensibilmente, come nel caso della scomparsa chiesa di S. Andrea a Chieri, a croce greca lobata (per la stessa città progettò la chiesa di S. Antonio Abate realizzata dopo la sua morte), o interpretandola dialetticamente, come nella serie di altari che aggiunse ai molti già realizzati allargando le applicazioni sperimentali nella prediletta linea interpretativa di Bernini, Pietro da Cortona e Pozzo.
In particolare si riferiscono a questo periodo gli altari maggiori del santuario della Consolata (1729) e della chiesa dei Ss. Martiri (1730-34), gli altari della Ste-Chapelle nel castello di Chambéry, realizzato a Torino (1726-27), di S. Francesco di Sales nella chiesa della Visitazione (1730) e di S. Giuseppe nella chiesa di S. Andrea a Savigliano (1728-33).
Il conferimento del titolo di abate di Selve da parte di Vittorio Amedeo II nel 1728 venne a coronare anche a livello sociale il raggiungimento del vertice della scalata professionale che connotava lo J. come il più autorevole architetto italiano. In questa veste fu spesso sollecitato a viaggiare per fornire consulenze e pareri su varie tematiche.
Nel 1728 egli compì brevi viaggi nel Cuneese: a Mondovì, dove fu coinvolto nella costruzione dell'ardita cupola del santuario di Vicoforte a opera di F. Gallo. Tra il 18 e il 30 giugno 1728 raggiunse di nuovo Lucca per una ulteriore variante del progetto del palazzo pubblico dovuta all'aggravarsi delle condizioni statiche successivo all'inizio dei lavori nel 1725 (attuazione nel 1729-32, interruzione dei lavori nel 1744). Tra il gennaio e il febbraio del 1729 sostò per un breve periodo a Brescia per una consulenza per la Fabbrica del duomo; per lo stesso motivo si recò a Calcinate in merito alla ricostruzione della chiesa parrocchiale di S. Maria Assunta. Nel 1731 (tra gennaio e l'inizio di aprile) tornò in Lombardia per affrontare il problema della cupola del duomo di Como (realizzata tra il 1732 e il 1734), già oggetto di un precedente progetto del maestro C. Fontana; forse nell'occasione raggiunse anche Bergamo in merito al concorso da lui vinto per la progettazione dell'altare dei Ss. Fermo e Procolo nel duomo (completato nel 1742), fornendo un progetto anche per l'altare nella chiesa di S. Agata del Carmine (realizzato nel 1743 circa).
Nel 1732 lo J. soggiornò a Roma, dal 15 febbraio al 30 agosto, in base a una licenza concessagli da Carlo Emanuele III, succeduto al padre nel 1730, per quella che sembrava la realizzazione del suo vecchio sogno: la costruzione della sagrestia vaticana, che papa Clemente XII sembrava volesse finalmente compiere, ma che si rivelò presto come l'ultima grande delusione romana, nel contesto dei difficili rapporti con la corte papale in merito al contemporaneo concorso per la facciata di S. Giovanni in Laterano e alla mancata esecuzione del progetto per il monumento funebre di Benedetto XIII nella chiesa di S. Maria sopra Minerva.
Amareggiato da questi eventi, lo J. non fece più ritorno a Roma, ponendo al centro della sua attenzione Torino.
Grazie allo J. la capitale sabauda era diventata un polo dell'architettura europea fino a incrinare il tradizionale rapporto di sudditanza con la Francia.
In questo contesto una tappa fondamentale è costituita dalla chiesa del Carmine (1732-36) che rappresentava il culmine della riflessione progettuale dello J. sul tema ricorrente della chiesa a navata unica con cappelle laterali, attraverso la spazialità avvolgente creata dalle camere di luce ricavate sopra le cappelle segnate da diaframmi mistilinei, dall'esaltazione dei nodi della struttura portante e dalla completa integrazione a essa dell'apparato decorativo. Caratteristiche riscontrabili in parte anche nel coevo altare di S. Giuseppe nella chiesa di S. Teresa (1733-36).
Nello stesso periodo si verificò una svolta nella definizione architettonica della "zona di comando": nel palazzo reale fu iniziata la galleria della Regina, poi detta del Beaumont oggi Armeria (1732), si realizzarono gli archivi privati del re (1733-34) e fu compiuta la grande fabbrica delle segreterie di Stato (1733). Tra le altre opere si segnalano l'altare maggiore della chiesa di S. Maria Maddalena (1732) e la villa Morra di Lavriano a Villastellone (1732-33), nonché i progetti per il campanile del duomo di Belluno (1732: realizzato l'anno seguente) e per la ristrutturazione del seminario arcivescovile di Vercelli (realizzato dal 1735).
L'autorità di cui godeva condusse lo J. a confrontarsi con antiche questioni riguardanti il completamento di alcuni edifici monumentali. Nell'agosto del 1733 fece un viaggio di pochi giorni a Mantova per una consulenza sul progetto per la cupola dell'albertiana chiesa di S. Andrea, per cui lasciò un disegno corredato da istruzioni che influenzò la fabbrica completata nel 1758. Poco prima si era recato a Milano, consultato per un parere sulla facciata del duomo, per la quale si disse pragmaticamente disposto anche a una progettazione in stile, contrariamente al suo primo parere. Alla fine dell'estate del 1734 tornò a Como per la conclusione della cupola del duomo.
In quest'ultima fase della sua attività ogni impresa artistica dello J. acquistava inevitabilmente connotazioni emblematiche, soprattutto il volume delle Memorie sepolcrali (1735), una raccolta di disegni per monumenti funebri dedicati idealmente a importanti condottieri e ad artisti e letterati defunti che egli aveva conosciuto personalmente, che costituiva una galleria di ricordi e insieme il bilancio di una vita.
Subito dopo la fama dello J. "architetto delle capitali" fu consacrata dalla sua chiamata a Madrid da parte di Filippo V, per la progettazione del nuovo palazzo reale, nella quale fu impegnato forse già prima del suo arrivo nella capitale spagnola, avvenuto il 1° apr. 1735.
Quasi consapevole che questa impresa costituisse il termine finale di una carriera iniziata con l'analogo soggetto ideato per il concorso accademico del 1705, concepì gli studi preliminari come una sintetica esplorazione della sua poetica in materia, giungendo alla configurazione dell'impianto definitivo, trasposta in modello, con uno schema a quattro cortili prefigurante la più grande reggia d'Europa.
Tuttavia dopo dieci mesi di intenso lavoro, durante i quali si occupò anche del palazzo di Aranjuez e della Granja di San Ildefonso, lo J. morì a Madrid il 31 genn. 1736, all'età di cinquantotto anni, colto da polmonite (ma secondo Gaburri non «senza sospetto di veleno»: F.M.N. Gaburri, Vite di pittori, BNCF, MS PAL E.B.9.5, II, c. 228r), mentre si dedicava alle ultime fasi del progetto del palazzo reale, che fu realizzato in versione ridotta e con sostanziali modifiche dal suo allievo G.B. Sacchetti.
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