MACCARI, Filippo
– Sono scarsi i dati biografici sul M., che la tradizione storiografica, non confermata da ricerche documentarie, vuole nato a Bologna nel 1725 (Zannandreis, p. 424). Nessuna notizia rimane sui primi anni di attività del M., nonostante di lui si avesse all’epoca una certa considerazione («disegnò di buon gusto e si distinse fra gli altri suoi coetanei»: ibid., p. 425), oggi forse in parte ridimensionata (Marini). La sua formazione artistica sarebbe avvenuta sotto la guida di Carlo Galli Bibiena, anche se egli lavorò prevalentemente a Verona, ove si recò al seguito di Antonio Luigi Galli Bibiena nel 1764. Nella città scaligera egli venne subito incaricato con il maestro, e in collaborazione con L. Pavia e F. Lorenzi, di allestire alcune decorazioni pittoriche destinate allo scalone e al salone delle feste di palazzo Verità Poeta (già Ferrari Cartolari).
In questi ambienti il M. dimostrò di essere «valoroso nel disegnare di prospettiva e nell’inventare» (Zannandreis, p. 425) attuando la lezione bibienesca, vale a dire la scansione matematica delle superfici e il raggiungimento di effetti decorativi attraverso linee pure, non senza qualche concessione al pittoricismo rococò avvertibile nella varietà degli ornati figurati. In palazzo Verità Poeta il M. ha trasposto graficamente le idee del maestro secondo la tradizione bolognese, che voleva le pareti integralmente dipinte e sottoposte a visione prospettica centrale di tipo neocinquecentesco. Il salone delle feste, infatti, è un grande ambiente rettangolare i cui lati lunghi, delimitati agli estremi da quattro porte, ospitano al centro due arcate illusionistiche che immettono su fughe prospettiche diverse (il lato est simula un corridoio «a perdita d’occhio» introdotto da una balaustra; il lato ovest si affaccia su un ambiente decorato che conduce ad altri vani). I lati brevi sono tripartiti verticalmente da due paraste scanalate; nel registro inferiore compaiono tre aperture, inquadrate da timpani mistilinei, che nel superiore si riducono a due, separate da un monocromo centrale. La copertura è formata da un colonnato che, al centro di ogni lato, si apre in arcate a sostegno del plafond piatto, decorato a lacunari esagonali e romboidali, senza alcun tipo di sfondamento prospettico barocco. L’équipe seguì una rigida divisione dei ruoli, come testimoniano le didascalie dei busti che ritraggono i quattro artisti nelle sovrapporte (del M. è scritto che «disegnò»).
Un interessante studio (Biavati) ha rintracciato nella collezione del Museo Luxoro di Genova-Nervi tre probabili progetti per questa committenza e ha rilanciato l’ipotesi che al M. possano spettare anche le quadrature nella sala dei Fasti del palazzo comunale di Forlì, allestita da A.L. Galli Bibiena nel 1763, per alcune somiglianze nelle strutture che lo stesso M. avrebbe messo in opera più tardi a Mozzecane, nell’attuale provincia di Verona.
La storia settecentesca della decorazione d’interni nel Veronese seguì percorsi particolari, in quanto priva di una vera e propria tradizione alle spalle e legata alle maestranze esterne presenti sul territorio, tra le quali va annoverato naturalmente il Maccari. Per tale motivo lo stile delle ville presenta – ed è una vera eccezione – caratteri identici a quello dei palazzi (Zava Boccazzi, p. 53). In effetti si riconosce una certa analogia d’impianti compositivi in città e nelle residenze extraurbane. Si pensi al salone di villa Giuliari Colombo a Settimo di Gallese, decorato dal M. tra il 1765 e il 1775.
L’ampio ambiente presenta sui lati lunghi i consueti finti loggiati, seppure questa volta sorretti da colonne corinzie binate e non in alternanza a lesene, che si aprono al centro in vaste arcate, in corrispondenza delle quali è posto un grande vaso ornamentale sorretto dal parapetto che corre parallelo alla fila di colonne. I lati brevi sono nuovamente tripartiti, ma ospitano una decorazione più ricca, fatta di mensole, ghirlande, foglie, fiori e mascheroni a finto stucco. Nella fascia tra le pareti e il soffitto corre un fregio a racemi e volute, e subito al di sopra finte membrature inquadrano l’arioso cielo in cui fluttuano le figure mitologichecentrali dubitativamente assegnate a P. Piatti. L’effetto complessivo, decisamente rococò nel sovraffollamento di finti stucchi, anticipa soluzioni organizzative che il M. avrebbe attuato nel decennio successivo a Lavagno.
Alcuni anni più tardi (1768-70) fu chiamato a decorare villa Fracanzani a Ponso d’Este insieme con A. Da Campo. Il M. fu incaricato di occuparsi del salone terreno e dell’atrio delle scale.
Nell’ambiente di rappresentanza si segnala l’adozione di vedute architettonichedi delicata cromia che interrompono il finto loggiato; mentre ancor più articolato è l’abbellimento delle sovrapporte: medaglioni con teste di profilo, finti timpani con busti e trofei, fino alle quattro allegorie (Arti, Poesia, Musica e Arte militare), una delle quali reca la sua firma: «F. M. Fece / 1768». Lungo la curvatura del soffitto ricorrono finti palchetti e dodici tondi a monocromo con divinità e due stemmi della famiglia, mentre agli angoli ritornano trofei. La ben congegnata distribuzione dell’apparato ornamentale si riflette anche nell’atrio delle scale; ma va comunque valutato che l’insieme fu danneggiato nel 1943 (Donzelli).
Se è impossibile discutere degli affreschi, con le Storie di Ercole, compiuti tra il 1770 e il 1780 ancora con Da Campo nel salone di villa Marioni Pullè a Chievo, poiché le scene furono in gran parte ridipinte nell’Ottocento, si deve invece ricordare come la stessa équipe attiva in palazzo Verità avesse allestito anche lo scalone e il salone di villa Verità Fraccaroli (detta il Boschetto) a Lavagno, in un arco temporale che rientra negli estremi 1775-85.
Particolarmente importante dovette essere il rapporto tra i proprietari e gli esecutori dei lavori, che qui riproposero lo schema organizzativo adottato nell’edificio cittadino tranne che per una maggiore severità nelle pareti (il cui trompe-l’oeil è decisamente contenuto) di contro a una più pronunciata ariosità nel soffitto, abbellito dal Mito di Fetonte attribuito con qualche cautela a G. Anselmi. Il salone mostra quindi un tipico esempio di ciò che è stato definito «tiepolismo» (Zava Boccazzi, p. 86).
Quella che forse deve considerarsi la prova più nota del M. fu la nuova decorazione del teatro Filarmonico di Verona, motivo per cui egli seguì A.L. Galli Bibiena nel Veneto. L’edificio, riaperto al pubblico nel 1754 dopo il devastante incendio del 1749, venne completamente distrutto durante i bombardamenti del 23 febbr. 1945.
L’impresa si rivelò assolutamente propizia per il M., giacché, alla morte del maestro nel 1774, egli lo sostituì come pittore ufficiale del teatro «pel quale ogni anno nuove scene dipinse» (Zannandreis, p. 425); effettivamente sono stati trovati pagamenti per apparati effimeri fino al 1783 (Romin, p. 87).
Della struttura originale oggi sopravvive soltanto la sala Maffeiana (o «di Mozart»), edificio seicentesco adiacente al teatro, ma miracolosamente rimasto illeso e riattato per iniziativa del marchese Sagramoso tra 1777 e 1779. Al M. spettano l’affresco nel salone e la stesura delle tele poi fissate nei piani dei cassettoni. Lungo le pareti si affollano sfondi architettonici ornati da statue con colonne corinzie.
Assumono carattere parzialmente diverso le architetture (1780 circa) nel salone superiore di villa Canossa a Grezzano di Mozzecane: qui il quadraturismo di gusto anticheggiante si colora di una nuance erudita, in quanto espressione del clima culturale locale su cui ancora influiva l’eredità di S. Maffei (morto nel 1755).
La struttura presenta sia l’abbinamento colonna-lesena (ma le pareti lunghe appaiono maggiormente scandite per la presenza di tre porte per lato, di cui le centrali inquadrate da timpani triangolari), sia le aperture «a perdita d’occhio» su uno sfondo urbano immaginario. I lati brevi acquistano verticalità per merito delle colonne che delimitano la finestra centrale dell’ordine più basso; il ritmo ascensionale prosegue con le membrature sulla curvatura del soffitto, traversata da un basso parapetto. La decorazione a figure è praticamente assente: anche nella volta, la cui apertura centrale lascia spazio a lacunari.
Il M. fu attivo anche in qualità di progettista. In tal veste, tra il 1782 e il 1783 fu chiamato a Rovereto – ove si era già recato nel 1778 per dipingere la scenografia di un melodramma – onde realizzare il teatro oggi dedicato a R. Zandonai, a semicerchio e modellato sull’esemplare veronese. Egli avrebbe poi dipinto anche le scene per il primo spettacolo (Zeni, p. 14).
Al M. vengono assegnate con riserva anche le quadrature nel salone del primo piano di villa Lavagnoli a Veronella, databili tra il 1780 e il 1800. Il «rigore degli elementi» (P. de Landerset Marchiori) e un gusto classicista hanno fatto parlare di analogie con la villa di Lavagno.
Non si ha traccia dei suoi interventi a Brescia e Salò – «ove non si trattenne che quanto era duopo a dar compimento a qualche opera di non molta conseguenza» (Zannandreis, p. 425) – se non la generica menzione da parte della critica (Rama). Aveva avuto come allievi G. Canella, C. Ederle, F. Marcola, G.B. Gru. Zannandreis (p. 426) ricorda tra i suoi mecenati il conte G.B. Allegri.
Il M. morì a Verona il 22 ott. 1800.
Fonti e Bibl.: D. Zannandreis, Le vite dei pittori, scultori e architetti veronesi, a cura di G. Biadego, Verona 1891, pp. 424-426; F. Zeni, Note per una cronaca del teatro di Rovereto dal Seicento al Novecento (sec. XIX), a cura di C. Lunelli, Rovereto 1994, pp. 14, 33-35, 37; C. Donzelli, I pittori veneti del Settecento, Firenze 1957, p. 38; R. Brenzoni, Diz. di artisti veneti, Firenze 1972, p. 190; L. Romin, La scenografia teatrale veronese nella seconda metà del Settecento, in Vita veronese, XXVII (1975), 3-4, pp. 83-88; La villa nel Veronese, a cura di G.F. Viviani, Verona 1975, pp. 541 s., 634; Gli affreschi nelle ville venete dal Seicento all’Ottocento, a cura di R. Pallucchini, I, Venezia 1978, pp. 152, 177, 239; F. Zava Boccazzi, ibid., pp. 53, 86, 169; G. Pavanello, ibid., p. 219; P. de Landerset Marchiori, ibid., p. 256; G. Biavati, Tre progetti autografi di A. Bibiena e le loro realizzazioni pittoriche, in Boll. dei Musei civici genovesi, I (1979), pp. 27 s., 30; E. Rama, in La pittura in Italia. Il Settecento, II, Milano 1981, p. 774; P. Marini, È dolce folleggiare a tempo e a luogo. Scenografia e decorazione in due sale veronesi del 1780, in Verona illustrata, I (1988), pp. 74 s.; Ville venete: la provincia di Verona, a cura di S. Ferrari, Venezia 2003, pp. 59, 232-235, 623-625; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXIII, p. 506.