FILIPPO MARIA Visconti, duca di Milano
Secondogenito di Gian Galeazzo signore e poi (1395)duca di Milano, e di Caterina Visconti, figlia di Bernabò, nacque a Milano il 3 sett. 1392.Alla morte del padre (1402)ereditò, appena decenne, il titolo di conte di Pavia ed il relativo dominio sulla città e sui territori al di là del Ticino e nel Veneto, in particolare su Verona e Vicenza, conquistate nel 1387 da Gian Galeazzo, che sarebbero rimaste sotto Milano fino al 1404. Erede del Ducato fu invece il figlio primogenito, Giovanni Maria, nel quale il padre non pare avesse molta fiducia.
A Pavia prima della sottomissione ai Visconti dominava - e vi prevaleva ancora a sottomissione avvenuta - la potente famiglia Beccaria, e a prevenire quella che sembrava una sua immediata presa di possesso della città, la duchessa vedova, Caterina, decise di installarvi già nell'agosto 1402 il piccolo F. nel cui nome governava però Castellino Beccaria. Ma le ribellioni si susseguirono a catena nel Ducato che, nel giro di un decennio, subì un totale smembramento e vide la distruzione dell'opera di Gian Galeazzo, la perdita delle maggiori città, la fuga dei mercanti e degli imprenditori, la rovina economica e monetaria. Giovanni Maria fu ucciso in una congiura di palazzo il 16 maggio 1412;a Milano si insediarono Estorre e Giovanni Carlo Visconti, rispettivamente figlio e nipote di Bernabò, mentre F. rimaneva nel suo castello di Pavia, sotto il controllo del condottiero e ormai signore della città, Facino Cane, il quale, nel 1410, in accordo con Castellino Beccaria, dopo aver posto l'assedio al castello e saccheggiata la città, si era impadronito del potere estromettendone il giovane conte. Però, contemporaneamente all'assassinio di Giovanni Maria moriva lo stesso giorno di malattia anche Facino Cane, lasciando in eredità alla moglie, Beatrice, contessa di Biandrate, il suo esercito mercenario - che solo l'energia del capitano Sicco da Montagnana riuscì a mantenere unito - ed un capitale, pare, di circa 400.000 ducati nonché vastissimi territori.
F., al quale i Beccaria avevano già assicurato l'appoggio pavese, assunto il titolo di duca di Milano, decise di sposare la vedova di Facino Cane - come infatti avvenne il 24 luglio di quello stesso anno - e si accinse a servirsi delle truppe faciniane per la ricostituzione del dominio, a cominciare da Milano, riconquistata tra il 25 maggio ed il 15 giugno 1412. F. vi entrò il 16, mentre le campane suonavano a festa e il popolo gridava "Viva il duca"; Estorre e Giovanni Carlo Visconti, rimasti isolati, si rifugiarono nel castello di Monza. Un indulto, concesso dal duca a sottolineare l'importanza della giornata, rese salva la vita a oppositori e a ribelli, ad eccezione di coloro che avevano preso parte all'assassinio del fratello: gli esecutori materiali furono giustiziati, i congiurati subirono il bando per tradimento esteso fino ai parenti in quarto grado.
Monza fu riconquistata nel 1413; Estorre morì nell'assedio della città, Giovanni Carlo si rifugiò in Ungheria, sperando nell'aiuto di Sigismondo di Lussemburgo, re dei Romani.
Fu proprio tra F. e Sigismondo, il quale si era impegnato a recuperare all'Impero le terre del Ducato di Milano concesse da suo fratello Venceslao a Gian Galeazzo, che i rapporti si fecero difficili. Il 6 dic. 1412, qualche mese dopo il suo ingresso a Milano, F. cominciò infatti a premere sul sovrano per ottenere la conferma del titolo ducale e prestare quindi il giuramento di fedeltà; ripeté i tentativi il 10, il 20 marzo 1413 ed il 13 ag. 1414, promettendo "omnem obedientiam et subiectionem", ma senza alcun risultato. F. procedette quindi ad un'alleanza con Venezia contro Sigismondo e costui concesse il vicariato imperiale per la Lombardia a Teodoro Il Paleologo, marchese di Monferrato, un altro vicariato imperiale ai Rusconi di Como e la signoria di Lodi a Giovanni Vignati. In tali frangenti, il duca si rivolse a Venceslao di Lussemburgo il quale, in contrasto con il fratello, fu ben felice di essere riconosciuto da F. re dei Romani, e gli confermò tutti i privilegi paterni. Sigismondo decise allora una spedizione contro la Lombardia, senza però ottenere consistenti appoggi; procedette comunque nella sua politica di appoggiare quei signori locali che si opponevano ai Visconti, come avvenne a Cremona con Cabrino Fondulo e a Crema con i Benzoni. Per contrastare il re F. stipulò un trattato di tregua decennale con Genova, una lega con il marchese d'Este, e rinnovò gli accordi con il conte di Savoia e con il marchese di Monferrato.
Sigismondo, abbandonato dai mercenari svizzeri da lui assoldati ma non pagati, fu costretto a venire a patti con Filippo Maria. Malgrado cio, le trattative tra sovrano e duca non procedettero affatto bene e la sospirata conferma del famoso privilegio di investitura non fu concessa. Si tenga presente che la concessione dell'investitura imperiale non era una pura e semplice questione di prestigio, ma che il privilegio era necessario al duca per legittimare l'esercizio del potere sia di fronte ai sudditi, sia di fronte agli altri Stati della penisola e Oltralpe. A lungo andare tuttavia F. seppe tenere a bada il re dei Romani che, dopo estenuanti trattative con diversi potentati padani, vide fallire completamente la sua azione ed abbandonò l'impresa antiviscontea.
F., dopo che alcune sue ambascerie al sovrano non avevano sortito il risultato sperato, il 15 febbr. 1415 - la relativa procura è del 15 gennaio - ne inviò una molto solenne che ottenne almeno il riconoscimento di quanto egli già possedeva in Lombardia. I procuratori di Sigismondo vennero a Milano nel maggio di quell'anno e F. prestò il giuramento di fedeltà. Sebbene soltanto parziale, tale riconoscimento poneva F. al riparo da eventuali bandi o confische, legittimandone la posizione.
Egli si dedicò allora sistematicamente alla ricostituzione del dominio, conscio tuttavia che nel periodo intercorso dalla morte del padre la configurazione politica della penisola era andata mutando. Ad Est, ad esempio, la Serenissima stava uscendo dal ristretto ambito del territorio cittadino - o poco più -, si espandeva sulla Terraferma inglobando le minori signorie e veniva pericolosamente a contatto con Milano; ad Ovest, i Savoia stavano unificando il loro dominio a cavallo delle Alpi. La riconquista delle città e dei territori perduti fu condotta pertanto senza mai sottovalutare la situazione generale e approfittando di ogni occasione favorevole. Gli avvenimenti che contraddistinguono gli anni del ducato di F. vengono qui sinteticamente delineati tenendo conto dei rapporti e dei contrasti affrontati da F. con i rispettivi Stati regionali e stranieri.
Con Francesco Bussone, conte di Carmagnola, quale capitano delle sue armate, non fu difficile risolvere, anche se provvisoriamente, la questione di Vercelli che nel 1404 era stata data da Facino Cane, per dieci anni, al marchese di Monferrato; il decennio scadeva nel 1414, ma la città fu restituita definitivamente solo nel 1417. Si rivolse poi a Lodi. Giovanni Vignatí, il cui figlio era stato preso in ostaggio da F., il 10 maggio 1415 fu investito a titolo ereditario della contea di Lodi a condizione che facesse pace e guerra per il duca, prestasse giuramento di fedeltà (come pure avrebbe fatto il Consiglio generale del Comune), e si sottomettesse ad altre gravose condizioni. Il duca non si fidava però né del padre né del figlio e se ne liberò alla prima occasione. Il sistema del rapporto vassallatico venne usato l'11 sett. 1416 a Como, con l'investitura a Loterio Rusconi della contea, dipendente dal Ducato, che concerneva la città ed il relativo territorio. Fu eretta in contea anche la Valle di Lugano, con tutti i castelli e le pievi che vi erano compresi e con tutti i dazi e i diritti che vi si esigevano e ne vennero investiti ancora i Rusconi, con le più ampie facoltà di giurisdizione.
Pure Cabrino Fondulo fu sottomesso, il 1º genn. 1415, con l'investitura solenne della contea di Cremona istituita per lui e comprendente anche i beni che gli erano stati tolti da Pandolfo Malatesta. Nel febbraio 1420 la città ed il suo distretto vennero però recuperati al duca da Oldrado Lampugnani. Alla fine del 1416 il Carmagnola attaccò Trezzo sull'Adda difesa strenuamente dai Colleoni ma ne ebbe ragione soltanto all'inizio dell'anno seguente. Ebbe ragione anche di Piacenza (1418) in signoria del condottiero ribelle Filippo Arcelli, malgrado l'aiuto prestato a quest'ultimo da Cabrino Fondulo, e quindi, più tardi, di Parma e Reggio recuperate nel 1420 dal marchese Niccolò (III) d'Este con la promessa di un versamento dilazionato di qualche mese di 28.000 fiorini, e di Bergamo e Brescia tolte a Pandolfo Malatesta (1421) dietro un indennizzo di 34.000 fiorini.
La rapida sottomissione delle città ribelli e dei loro signori messi in un modo o nell'altro in condizione di non nuocere, fece sì che Sigismondo cominciasse ora a guardare a F. in una prospettiva ben diversa. Tra l'altro, il sovrano considerava con grande attenzione anche l'instaurarsi di rapporti commerciali tra Milano e le città renane. Così nel febbraio 1418 gli ambasciatori regi vennero in Lombardia recando i sospirati diplomi: quello relativo all'infeudazione fu però depositato presso il marchese di Monferrato. F. prestò il giuramento di fedeltà ai rappresentanti del re; Sigismondo aveva questa volta acconsentito all'investitura ducale avanzando nel contempo, tuttavia, la riserva dell'approvazione dei grandi elettori, imprescindibile soprattutto per la conferma del titolo ducale conferito a Gian Galeazzo con il diploma dell'11 maggio 1395. F. sarebbe riuscito ad ottenerlo soltanto nel maggio 1427.
Si stava intanto riaprendo il grave problema di Genova, ove il doge Giorgio Adorno non era riuscito a portare la pace. Nel 1417 due abilissimi ambasciatori ducali - G. F. Gallina e G. F. Sartirana consigliere ducale - furono inviati a Genova con un pretesto, ma con il compito di stipulare un trattato di alleanza settennale, che comprendesse l'impegno di reciproci aiuti militari.
La sottomissione di Genova a Milano avvenne peraltro qualche tempo dopo, il 3 nov. 1421. Nel 1422 fu recuperata anche Asti, data in dote a Valentina Visconti per il suo matrimonio con Luigi d'Orléans.
Nel 1422 si ebbe anche il recupero di Bellinzona e della Valle di Blenio, cedute nel 1419 dai signori di Sax ai Cantoni di Montagna, e del Gottardo controllato dagli Urani. All'inizio di quell'anno Angelo Della Pergola aveva riconquistato anche l'Ossola ed il 30 giugno il Carmagnola, insieme col Della Pergola, nella famosa battaglia di Arbedo descritta come uno dei più sanguinosi scontri del Medioevo, riconsegnava all'Universitas mercatorum Mediolani ed al commercio milanese il libero transito sui valichi alpini del Sempione, del Gottardo e della Leventina ed il dominio sulle valli del Ticino e dell'Adda. La pace, dopo alterne vicende e trattative, fu stipulata a Sion il 26 genn. 1426.
Tra il 1412 ed il 1422 F. era riuscito dunque a ricostituire il ducato press'a poco nei limiti ai quali lo aveva portato il padre; tuttavia sia il decennio infausto del governo di Giovanni Maria, sia il decennio di guerre per la riconquista avevano lasciato larghe ferite che ora occorreva rimarginare. Era necessario soprattutto ristabilire le rispettive sfere di influenza dei potentati italiani. I vari trattati stretti con Venezia, con Firenze, con i Savoia non impedivano al Ducato di Milano di avanzare pretese più o meno valide su territori posti anche al di fuori dei confini ormai stabiliti, mentre il possesso di Genova apriva alle ambizioni ducali la via della politica mediterranea. Il personaggio che aveva condotto una strenua lotta decennale contro coloro che gli avevano smembrato lo Stato sembra improvvisamente svanire o sminuirsi una volta completato l'impegno di riportare il dominio alla primitiva grandezza, ma tale impegno e le sue capacità politiche non vanno per questo sottovalutate a posteriori nel campo militare come nella costante attenzione ai problemi della penisola, e neppure nel confronto con gli altri principi del suo tempo. Sono proprio quei tempi, in cui tutto avviene o è pensabile ed immaginabile, ad imporre continui ed improvvisi cambiamenti di posizione e di fronte, tante sono le forze in gioco nella penisola e fuori di essa.
Le notizie che si hanno sulla vita privata e pubblica di F. provengono in genere dalla biografia scritta da P. C. Decembrio con un vigore per lui insolito, ma con la consueta amara ironia, cosicché si debbono a lui quei giudizi spesso impietosi che poi la posteriore storiografia avrebbe fatto acriticamente suoi. È vero che F. doveva costituire un enigma anche per coloro che gli vivevano accanto per quanto lo consentisse l'isolamento nel quale si era chiuso dopo il 1422, sentendosi forse improvvisamente estraneo alla lotta politica cui lo obbligava l'essere duca di Milano od anche, forse, stanco di essa ora che il suo obiettivo era stato raggiunto, isolamento che durò fino alla morte. Il Decembrio descrive anche le sue fattezze fisiche (cap. L, pp. 291 ss.): "Forma fuit a principio non ineleganti", di bella corporatura, con membra ben proporzionate salvo forse il collo taurino, come appare dalla celebre medaglia del Pisanello, un corpo che con gli anni si andò deteriorando cosicché molti scrittori anche coevi - ma ancora più la posteriore tradizione - ci hanno lasciato di lui un ritratto che avrebbe dovuto corrispondere nelle fattezze quasi deformi al suo difficile carattere ed al suo ineguale e forse crudele comportamento tanto nel caso dei familiari, quanto in quello dei sudditi.
Sappiamo come, pur avendo avuto un'educazione negli studia humanitatis, non li tenne in grande considerazione, il che ha determinato per sempre il giudizio negativo sulla sua cultura. Tuttavia il Decembrio gli riconosce una fortissima memoria "quod maximum principis decus et ornamentum esse Plato existimat" (cap. LV, p. 307), e la capacità di ricordare colloqui e discorsi anche a distanza di anni dal momento in cui erano stati fatti.
Un metro di valutazione relativo al problema "cultura" è costituito dallo Studium pavese, che non ebbe, a detta di critici recenti, grande peso nell'umanesimo lombardo, se si tiene conto che non vi era una cattedra di greco e vi si preferiva un Travesio a Gasparino Barzizza. Ma un simile indirizzo non era nelle intenzioni dei suoi reggitori in quanto lo Studium di Pavia, gelosamente seguito dai duchi, fu uno dei punti di forza della politica di governo viscontea perché vi si dovevano formare gli officiales dominorum. Edurante il periodo di governo di F. lo Studium forgiò, si può dire così, tutti gli uomini - laici ed ecclesiastici - che vediamo in un settore o nell'altro gestire la cosa pubblica fino al termine della dinastia viscontea, dare vita alla Repubblica Ambrosiana e quindi consentire la nascita del Ducato sforzesco.F. si sposò due volte: la prima nel 1412, come si è detto, con Beatrice vedova di Facino Cane, più anziana di lui di circa vent'anni. Nel 1414 le aveva donato la terra ed il castello di Monza, i cui procuratori avevano prestato a lei e al duca giuramento di fedeltà. Beatrice fu fatta giustiziare per un mai provato adulterio nel 1418. La seconda moglie fu Maria di Savoia figlia del duca Amedeo VIII e di Maria di Borgogna: un matrimonio politico, celebrato nel 1427, che forse non fu neppure consumato. La donna che gli stette sempre al fianco e che gli diede la figlia Bianca Maria - poi moglie di Francesco Sforza - fu invece Agnese del Maino, alla cui famiglia F. fu sempre legato e che privilegiò largamente.
Per quel che riguarda i rapporti con gli altri Stati italiani, i trattati conclusi entro il 1422 sarebbero stati rotti ancora prima di divenire effettivi. Milano non sarebbe dovuta scendere a Sud oltre la linea Pontremoli-Crostolo verso Bologna per non urtarsi con Firenze; avrebbe abbandonato ogni pretesa su Verona, Vicenza, Padova, Udine e su un eventuale allargamento in quell'area per non scontrarsi con Venezia, mentre ad Occidente gli accordi con il duca di Savoia le impedivano di riprendere le direttrici di espansione che già erano state di Luchino e dell'arcivescovo e signore Giovanni Visconti. Praticamente immobilizzata, vedeva profilarsi anche il più che imminente pericolo costituito dalle sue genti d'arme ora prive di ingaggio e in cerca di sistemazione.
Così F. ricominciò a muoversi e se per conquistare Genova si era appoggiato ad Alfonso di Aragona, nella questione più diretta del Regno divenne filoangioino in accordo, in questo caso, con il pontefice Martino V Colonna, del quale avrebbe inteso sposare una nipote, così come pensava di poter eventualmente sposare Maria d'Angiò, sorella di Luigi III l'erede destinato del Regno di Napoli. Non vi fu invece alcun matrimonio, ma una cosa era certa: proseguendo nella direzione già seguita dai suoi predecessori almeno fino dal 1339, il duca di Milano, probabilmente sotto la spinta del forte gruppo della Universitas mercatorum Mediolani, intendeva ritentare la via del Mediterraneo.
Molto consistente e pericoloso fu l'intervento visconteo in Romagna motivato dagli avvenimenti determinatisi alla morte di Giorgio Ordelaffi signore di Forlì (1422) al quale succedeva il figlio minorenne affiancato dalla madre Lucrezia Alidosi. Il padre di costei, signore di Imola e collegato di Firenze, cercò di impadronirsi del governo di Forlì approfittando della minore età del nipote, ma causò la rivolta dei cittadini che preferivano ritornare sotto il diretto dominio della S. Sede, e l'intervento di Filippo Maria. Il suo capitano, Sicco da Montagnana, che già si trovava a Lugo si portò a Forlì con 1000 cavalli, insieme col commissario ducale, dietro il pretesto di essere al servizio di Niccolò III d'Este. A quella di Forlì tenne dietro l'occupazione di Forlimpopoli, mentre Firenze, chiaramente preoccupata dalla palese violazione della sua sfera di influenza, cercava aiuti ed alleanze tra gli altri potentati e soprattutto a Venezia. La Serenissima tuttavia non aveva alcun interesse a rompere gli accordi stipulati con Milano: così, nel dubbio che la proposta di una lega antiviscontea non fosse accolta, Firenze, il 20 marzo 1423, passò, sebbene tra molti contrasti interni, all'azione diretta nominando i Dieci di balia.
La Signoria, malgrado avesse capitani quali Pandolfo Malatesta, Braccio da Montone e Carlo Malatesta, non ebbe fortuna nell'impresa militare: Sicco da Montagnana ed Angelo Della Pergola sconfissero le milizie fiorentine già nel settembre di quell'anno, dopo averle cacciate da Forlì; Imola fu presa dalle truppe viscontee e Ludovico Alidosi chiuso nel castello di Monza, mentre i Manfredi, signori di Faenza, si affrettarono a divenire aderenti e raccomandati del duca di Milano dietro la promessa di ricevere per dieci anni una provvisione di 300 fiorini l'anno.
Le ripetute sconfitte inflitte da Milano a Firenze (1423-1424 e in particolare quella di Zagonara presso Lugo con la fuga di Pandolfo Malatesta e la cattura di Carlo), fecero rifiorire il progetto della lega antiviscontea che vide gli oratori fiorentini in grande attività tra la primavera del 1424, quando Rinaldo Albizzi si recò a Venezia, ed il 1426 quando Amedeo VIII di Savoia aderì alla coalizione. Venezia al momento rimase però neutrale onorando il trattato stipulato con i Milanesi.
Per quanto concerne il Regno, le vicende tra F. ed Alfonso di Aragona hanno i loro punti focali nei fatti di Ponza (1435) quando il re fu catturato dai Genovesi e condotto a Milano, dove si accordò con F., e nel tanto discusso - e mai rinvenuto - testamento del signore di Milano in favore della successione dell'Aragonese al Ducato. Ma, a monte di questo in apparenza inspiegabile fatto, stava l'intuito politico, contorto ed astuto al tempo stesso, di F: lasciare il Ducato di Milano - o farlo soltanto credere - ad Alfonso era forse un modo per salvarlo dalle troppe mire ed invidie sottraendolo ai più immediati amici-nemici, come Venezia o la Francia.
Nell'estate del 1424 F. aveva preparato una spedizione, guidata dal Carmagnola, a Napoli in aiuto di Luigi III d'Angiò. Tuttavia nell'ottobre di quell'anno, dopo la sfortunata battaglia di Verneuil contro i Borgognoni in cui erano state distrutte le truppe francesi insieme con le compagnie milanesi colà inviate (17 ag. 1424), F. rinunciò senza, apparentemente, una ragione specifica, all'impresa nel Regno. La conseguenza più immediata di tale rinuncia fu la rottura tra il duca ed il suo capitano, che, nel novembre passò il Sesia rifugiandosi presso il marchese di Saluzzo, meta ultima Venezia. Quindi, nel 1426 F. tornava a negoziare con Alfonso al quale venivano cedute le basi di Portovenere e Lerici, anche se poi il duca riusciva a sfuggire agli impegni più gravosi verso l'alleato per non colpire troppo gravemente Genova, i cui interessi egli si era obbligato a difendere nel Mediterraneo proprio contro Aragonesi e Catalani. Negli anni seguenti F. si mostrò peraltro ancora una volta, favorevole ad una successione angioina nel Regno e l'appoggiò inviandovi sue truppe su navi genovesi.
Nel 1435 tra Alfonso e F. erano stati stipulati due trattati, uno pubblico ed uno segreto: il secondo, che sarebbe divenuto operante soltanto nel 1442, mostrava come la liberazione dell'Aragonese non fosse stata un atto magnanimo del duca ma una necessità imposta da altri, di cui non vengono fatti i nomi. Il trattato sottolinea i punti fondamentali della politica milanese incentrata su Genova, sulla conquista aragonese del Regno di Napoli tramite la consegna della fortezza di Gaeta da parte del presidio visconteo, sul non intervento milanese nei confronti del pontefice e sulla divisione delle sfere di influenza dei due potentati, il cui confine correva sotto Bologna. Per quanto concerneva Francesco Sforza, Alfonso sarebbe stato tenuto a combatterlo ogni volta che, trovandosi nel Regno, F. gli avesse segnalato che il condottiero era suo nemico, ma a sospendere ogni ostilità se lo Sforza fosse divenuto suo aderente. Questi patti sfociarono il 30 nov. 1442 nell'alleanza tra F., Alfonso ed il pontefice che vanificava le aspirazioni sforzesche: Francesco si rivolse allora alla Francia ed agli Angiò.L'anno seguente - 1443 - F. si riappacificò con il condottiero sperando di riuscire ad abbattere Venezia, alla quale si legò peraltro il 23 sett. 1443; nel 1444 Alfonso infranse i patti del 1442 stringendo un'alleanza antiviscontea con Genova con la segreta intenzione di riuscire ad impadronirsi del Ducato di Milano. Ed in lui, infatti, alcuni dei potentati italiani sembravano vedere l'ideale successore di F. per l'appoggio datogli anche dagli Este e per il prestigio della dinastia cui apparteneva.
Negli ultimi mesi di vita - tra il gennaio e l'agosto 1447 - F. si mosse concitatamente in campo politico e diplomatico rivolgendosi ora al delfino di Francia, ora allo Sforza, nel quale finì per vedere colui che avrebbe potuto salvare il Ducato, ma non aveva di che pagare le sue truppe e gli fu necessario ricorrere a prestiti su pegno. Quasi contemporaneamente sollecitava l'Aragonese perché si recasse a Milano proponendogli l'associazione al governo e la cessione di Genova, mentre Alfonso offriva allo Sforza 40.000 ducati perché cacciasse Venezia dalla Lombardia. Anche Cosimo de' Medici temeva la Serenissima e sosteneva finanziariamente il condottiero.
La Repubblica di Venezia era infatti una sorta di perno - spesso ben mimetizzato - attorno al quale si muoveva la vita politica della penisola. Il Decembrio enumera cinque guerre combattute da F. contro i Veneziani (Vita, pp. 33, 39, 43, 48, 54); in realtà si trattava di una continua guerra serpeggiante tra gli altri conflitti, anche perché Milano non aveva soltanto un problema di confini con la Serenissima, ma pure quello, altrettanto importante, del commercio, di cui Venezia aveva il monopolio e che il gruppo di governo milanese avrebbe voluto attirare su Genova.
La Lega veneto-fiorentina del 1426 colse, in un certo senso, di sorpresa il duca. In quell'anno si intrecciarono a Venezia le ambascerie, fiorentina con L. Ridolfi, e viscontea, con l'aretino G. Corvini e Oldrado Lampugnani. Il doge Francesco Foscari era propenso alla guerra, ma non così il Senato che si mostrava assai esitante, esitazione cui fa cenno anche il Corio (Storia, II, p. 1097), venuta meno, infine, a causa del passaggio del Carmagnola da Milano a Venezia.
La guerra fu infine dichiarata il 3 marzo 1426 e subito a Milano toccò il durissimo colpo della perdita di Brescia, la cui "parte guelfa", d'accordo con il Carmagnola, aprì le porte della città alle milizie veneziane. Le cittadelle però resistettero e la conquista completa si ebbe soltanto nell'ottobre di quell'anno.
La prima pace fu negoziata dal bolognese N. Albergati, cardinale di S. Croce, il 30 dicembre e ratificata da F. il 12 febbr. 1427, pace che cedeva al pontefice Imola e Forli, tolte a Firenze, mentre Salò e le terre del lago di Garda finivano sotto Venezia. Ma il progetto di spartizione e smembramento del Ducato milanese - in caso di vittoria della Lega - contenuto nello schema di trattato dell'aprile 1426 mostra molto chiaramente quale timore se ne avesse in Italia.
La perdita di Brescia fu un grave colpo per il prestigio visconteo, anche se F. non volle consegnare alla Serenissima i castelli del territorio bresciano ancora nelle sue mani, appellandosi al fatto che, essendo Venezia ribelle dell'Impero, essa avrebbe dovuto prima accordarsi con il sovrano. Così la guerra riprese subito nel Bergamasco, nelle cui valli serpeggiava ormai da tempo una sorda ribellione. Se vi fu una vittoria viscontea a Casalmaggiore (17 apr. 1427), vi fu anche la sconfitta di Brescello (20 maggio), con gravi perdite negli armamenti e nelle salmerie milanesi.
Nei mesi seguenti, F. seguì le truppe al campo di Cassano e quindi a quello di Caravaggio, incitando le popolazioni locali, che mal sopportavano lo stato di guerra endemica, a combattere e a resistere. La battaglia di Maclodio (12 ott. 1427) concluse la campagna militare: Milano perse uomini ed armi in gran numero.
Venuta meno la speranza di consistenti aiuti militari da parte di Sigismondo, F. si adoperò a smembrare la Lega accordandosi con Amedeo VIII; del resto la rapida espansione veneziana in Terraferma preoccupava anche i Savoia. L'alleanza sabaudo-milanese contro Venezia e Firenze fu stipulata il 2 dic. 1427 e fu poi suggellata dal matrimonio di F. con la figlia di Amedeo, Maria. Ma, poco dopo, F. firmava con la Serenissima e con la Signoria fiorentina la pace di Ferrara (19 apr. 1428), che gli costava perdite territoriali molto elevate: Brescia ed il suo contado, la Val Camonica, Iseo, Palazzolo, Bergamo con il relativo contado, le fortezze del Cremonese, i beni restituiti ai Pellavicino, agli Arcelli, al Dal Verme, al Carmagnola; si impegnava inoltre a non intromettersi nelle questioni della Toscana e della Romagna; lasciava liberi da ogni impegno di alleanza i Malatesta; riconosceva i Fregoso quali aderenti di Firenze; esentava i mercanti fiorentini a Genova dal pagamento di tutti i dazi. Il lodo Albergati sui territori controversi assegnò a Milano alcune terre cremonesi e la Ghiara D'Adda; a Venezia andarono Casalmaggiore, Gussola, Piadena, Vidiceto, Castelletto, Castel San Giovanni in Croce, Pescarolo, Bina, Isola di Dovara, Gabbianetta. La Serenissima non era però soddisfatta, perché avrebbe preferito avere un ben preciso confine sulla linea dell'Adda: aveva dovuto lasciare invece, oltre alle terre di cui sopra, anche Caravaggio, Treviglio, Lecco.
F. indisse festeggiamenti per la pace, ma il malcontento generale fu grande sia per i costi della guerra, sia per le perdite territoriali subite e per il conseguente grave danno che ne veniva ai commerci e all'economia dello Stato.
La pace non durò a lungo: le questioni del Monferrato e di Lucca riportarono ben presto le truppe in campo. Il Monferrato, che aveva tenuto una posizione ambigua tra la Lega, il Visconti ed Amedeo VIII nella speranza di ricavare il possesso di Alessandria dall'eventuale sconfitta di Milano, fu oggetto delle mire incrociate di F., del duca di Savoia e di Venezia, ciascuno inteso a ricavarne il risultato più favorevole ai propri piani. Quanto a Lucca, sulla quale Firenze sperava di rifarsi delle sconfitte subite, essa venne difesa dallo Sforza, inviatovi da F., che in breve tempo rovesciò la situazione esistente insediando in città un governo repubblicano. Quando Firenze inviò le sue truppe all'assedio di Lucca, si trovò di fronte le milizie di Niccolò Piccinino, che presidiava Genova al servizio di F., le quali inflissero all'esercito fiorentino la sconfitta del Serchio (2 dic. 1430). Il Piccinino entrò poi in Lucca come un liberatore. A Firenze si cominciò a discutere sulle responsabilità del disastro militare e si finì qualche anno dopo con la cacciata dei Medici (1433) e degli Albizzi (1434). E nel 1431 era ricominciata la guerra tra Milano e Venezia, che si protrasse stancamente e con incerti esiti - si combatteva un po' ovunque - fino ad una seconda pace di Ferrara stipulata nel 1433, che nulla innovò rispetto alla prima. Nel frattempo il conte di Carmagnola era stato giustiziato a Venezia con l'accusa di tradimento (5 maggio 1432), accusa alla quale non era forse estraneo F. a sua volta, come si è visto, tradito dal Carmagnola.
Approfittando della precaria situazione dello Stato della Chiesa per il conflitto in atto tra il pontefice Eugenio IV ed il concilio di Basilea, F. aveva ripreso a scorrere con le sue truppe le terre della Romagna: si ebbe così un'ennesima lega antiviscontea formata, come sempre, da Venezia, da Firenze e dal papa che attirarono dalla loro parte lo Sforza il quale, spinto da F., si era fatto un discreto dominio nelle Marche, dominio che ora gli veniva riconosciuto dal pontefice (1433-1434). A questo punto, si inserisce la vicenda di Ponza, ed il nuovo cambiamento di fronte di F. che, dall'alleanza angioina necessaria ad aiutare Genova contro un'eventuale espansione aragonese nel Mediterraneo, passò a quella con Alfonso d'Aragona già suo prigioniero (1435).
Ancora una volta contro il duca di Milano si mossero Venezia, Firenze e Francesco Sforza al quale F. non si decideva a far sposare la figlia Bianca Maria malgrado il precoce fidanzamento: i Viscontei furono sconfitti dagli Sforzeschi a Barga (1437) e ad Anghiari (1440), e benché il Piccinino ottenesse dei successi in Romagna e nella Padania anche contro lo Sforza ed il Gattamelata, si venne alla pace di Cavriana (20 nov. 1441), che riconosceva l'indipendenza di Genova; Firenze otteneva il Casentino e Venezia Ravenna.
Il 24 ottobre di quell'anno si celebrò finalmente a Cremona il matrimonio dello Sforza con Bianca Maria, che non servì peraltro a dissipare quel senso di sospetto ed anche di timore che il duca provava nei confronti del genero, cui si univa forse anche il dispetto nel pensare che il condottiero di umili origini - in forza di quel matrimonio - avrebbe potuto aspirare a succedergli sul trono del Ducato.
Non che la situazione politica della penisola fosse chiara o passibile di chiarificazione a breve termine, ma F. compì nell'ultimo periodo della sua vita una tale ridda di alleanze o di tentati accordi - con il pontefice, con Alfonso d'Aragona, poi ci fu di nuovo una avance verso gli Angioini, infine il confronto-scontro tra il Piccinino e lo Sforza e l'aiuto chiesto a quest'ultimo per riavvicinarsi a Venezia e a Firenze - da confondere ulteriormente il quadro generale senza però trarne, vantaggi per lo Stato di Milano. Tentò, ad esempio, di recuperare Cremona e Pontremoli facenti parte della dote di Bianca Maria, ma Venezia stava all'erta e sconfisse le truppe viscontee guidate dal Piccinino a Casalmaggiore (1446) e di tappa in tappa - Romanengo, Treviglio, Caravaggio, Cassano oltre l'Adda - portò la minaccia alle porte di Milano. Ed ecco allora gli appelli di F. ad Alfonso per aveme aiuto, contrastati da Leonello d'Este per timore della Serenissima; gli appelli di Venezia allo Sforza rimasti inascoltati, le proposte di alleanza viscontea con il delfino di Francia dietro consegna della città di Asti, fino all'ultimo appello di F. al genero nel luglio 1447, il suo accorrere infine a Milano perché Venezia si stava impadronendo del Ducato e lo voleva per sé. Ma il 13 ag. 1447 F. moriva a Milano e si aprivano i problemi per la successione.
Di F. si può dire senza ombra di dubbio che il suo solo vero amore fosse rivolto allo Stato - "corpus suum se minus carum habere quam animam, statum vero dominatus sue saluti corporis et anime anteferre" (Decembrio, Vita, p. 409) -e che l'opera da lui svolta anzitutto per ricostruirlo e quindi per dargli un assetto unitario ed una posizione dominante nella penisola non è certo da sottovalutare come, del resto, mi sembra dimostrare il timore che gli altri Stati mostravano nei suoi confronti e, in seguito, il continuo riferimento al suo ruolo ed alla sua politica da parte di Francesco Sforza e dei suoi successori.
Di quest'opera vengono qui esaminati alcuni aspetti, sebbene sia difficile stabilire un ordine di priorità tra i settori che furono oggetto di attenzione con riforme, o con semplici ordinamenti, da parte di Filippo Maria.
Fin dai primi tempi della sua signoria, mentre i suoi predecessori si erano mostrati attenti promotori dell'edilizia militare pubblica (fortificazioni cittadine, con castelli e cittadelle nei centri urbani soggetti), F. aveva curato in modo particolare l'esercito, continuando quanto Facino Cane aveva iniziato intorno al 1410 con la creazione di un corpo di milizie cittadine. A. Biglia (Mediolanensium, coll. 44 s.) ne descrive la composizione fermando l'attenzione del lettore sulla guardia personale del duca formata da 700 cavalieri sceltissimi e su altre due squadre speciali dette "lance spezzate", i cui comandanti portavano le insegne ducali; il reclutamento di questi soldati - e degli altri a cavallo e a piedi per un complesso di circa 20.000 unità - veniva fatto in loco: una sorta quindi di esercito permanente che si andava formando, mentre le compagnie di ventura diminuivano di importanza avviandosi a divenire elementi organici degli eserciti statali e si creavano strutture amministrative per disciplinare il settore militare.
Il mantenimento delle milizie locali gravava però in modo oppressivo sui sudditi, obbligati dapprima a varie forme di tributi e di "ospitalità", e quindi, dal 1443, a sobbarcarsi un onere stabile che divenne in breve una tassa in denaro, detta appunto "tassa dei cavalli", estesa a tutto il dominio e calcolata su 12.500 capi.
Da quanto sopra risulta molto chiaramente come le finanze del Ducato fossero fortemente impegnate dalle spese militari: in effetti, il reperimento delle somme necessarie - si tenga conto anche della rete delle fortificazioni ai confini del dominio, dei castellani e dei soldati adibiti alla difesa - rappresentò il problema più gravoso e difficile da risolvere per lo Stato visconteo. Non per niente, il sistema difensivo milanese si fondò sulla coesistenza di fortificazioni ducali direttamente dipendenti dal principe, custodite da truppe da lui stipendiate, e di castelli o piazzeforti allodiali o feudali, il cui mantenimento e la cui difesa spettavano a chi le deteneva a vario titolo, ma comunque sempre come emanazione del potere ducale o come delega di funzioni, e non in modo autonomo.
L'organizzazione militare era peraltro imprescindibile per attuare quella linea politica di cui si è detto e che F. concepiva come un insieme di aggressive imprese militari e di astuta diplomazia e che gli era necessaria per esercitare, come sarebbe stato nei suoi programmi, influenze determinanti anche al di fuori dei confini del proprio territorio.
Nel periodo della sua costituzione (1332-1359) il dominio visconteo si presentava come un'aggregazione di città, borghi, villaggi, comunità, terre la cui capitolazione ai Visconti era avvenuta sulla base di patti speciali legati al mantenimento di alcune autonomie locali. Si deve a Gian Galeazzo la formazione di un governo centrale al quale si collegavano gli organi periferici e quelli di controllo, l'istituzione del vicario generale (al tempo di F. i vicari divennero tre, con vaste e diverse competenze), dei Consigli segreto e di Giustizia. F. riportò inoltre a 900 i componenti del Consiglio generale del Comune, ridotti a 72 da Giovanni Maria. Sebbene non venisse più convocato, l'appartenervi costituiva sempre motivo di alto prestigio per le famiglie milanesi del ceto eminente. A lui di deve probabilmente anche l'istituzione dell'officio del giudice generale dei Malefizi con competenza su tutto il territorio, quale officio di collegamento tra il Consiglio di Giustizia ducale e la giustizia applicata nelle varie città.
Per quanto concerne la Cancelleria, dotata di segretari e di notai, essa provvedeva a due tipi di documenti, le litterae e i decreta corroborati dai due sigilli, quello "grande" (mm 58 circa di diametro) e quello "piccolo" (mm 25), a seconda del contenuto dell'atto. Gian Galeazzo e poi F. usarono la "corniola secreta", piccolo sigillo personale necessario per determinati atti. Tra i cancellieri-segretari di F. si possono ricordare Giovanni Corvini da Arezzo, Corradino da Vimercate, Zanino Riccio, Lancillotto Crotti, impiegati anche in servizi di tipo diplomatico - molte delle lettere per l'estero e dall'estero erano in cifra - e, in seguito, quali consiglieri segreti.
Questi - in breve - furono dunque i principali organi del governo visconteo, ma tra gli strumenti usati per reggere lo Stato ve ne fu un altro, al quale si ricorse dapprima soltanto in casi particolari, ma il cui uso divenne molto frequente a partire dalla seconda metà del secolo XIV e per tutto il XV. Si tratta del cosiddetto contratto feudale, ossia del sistema delle investiture di castelli, terre, diritti giurisdizionali ai signori locali, cui i Visconti fecero ricorso per disciplinare i rapporti con i domini del contado - "un groviglio di giurisdizioni particolari e di autonomie locali" (Chittolini, La formazione, p. 37) - e per ampliare e consolidare la fragilissima sovranità che essi erano in grado di esercitare. Le investiture operate dai Visconti vanno collocate in quest'ambiente di frazionato esercizio di diritti signorili locali e rispondono al principio di legittimare il suddetto esercizio in sede locale sovrapponendovi però la superiorità del principe che appunto lo legittima.
Parallelo a questo era il problema delle cosiddette terre separate, delle quali con F. il numero era peraltro diminuito a seguito delle infeudazioni di cui sopra, ma forse anche della sempre più accentuata contrarietà al sistema da parte dei centri urbani già abbastanza provati dalla politica vassallatica viscontea. È del novembre 1441 il decreto De maiori magistratu che avrebbe dovuto sanare, almeno in parte, la situazione, riducendo i poteri giurisdizionali dei podestà feudali a favore di quelli esercitati dai magistrati cittadini. Molti antichi privilegi, ma non certo tutti, vennero così meno, anche perché proprio il periodo di governo di F. fu ricco di circostanze eccezionali che ne giustificarono il mantenimento.
Vi era un altro settore, quello finanziario-fiscale, - non molto diverso per i problemi di cui era causa - nel quale ancora prima dell'avvento di Gian Galeazzo, era stata fortemente sentita l'esigenza di mettere in atto sistemi che ne unificassero o almeno ne rendessero il più possibile omogenea e centralizzata la complessa amministrazione, anche allo scopo (non dichiarato ma sottinteso) di togliere spazio e forza alle città che si erano date ai Visconti o che erano state conquistate, sempre fautrici di opposizioni interne.
Gli strumenti usati furono il salarium domini dovuto al signore da centri urbani e contadi, traendolo dalle entrate ordinarie comunali costituite in prevalenza dai dazi; le imposizioni straordinarie da parte del principe; i controlli sulle spese dei singoli Comuni con la sua preventiva approvazione; il soldo per i presidi militari addossato ai Comuni che se ne dovevano servire, i quali dovevano spesso ricorrere per tale impegno ai prestiti dei privati.
L'organismo al quale spettava l'amministrazione del patrimonio dello Stato (e di quello privato del duca) era la Camera domini, dove agivano, riuniti in un solo organo, i Magistri intratarum ordinariarum ed extraordinariarum. Ma è del 1384 il Capitulum thesaurariarum civitatum con il quale Gian Galeazzo diede vita ad una riforma amministrativa e tributaria (1384-1388) che - prendendo inizio da Pavia - innovò profondamente - rovesciandolo - il sistema del salarium domini perché avocava totalmente al principe gli introiti delle casse comunali, in cambio di una modesta assegnazione per le spese generali e della riscossione di qualche piccola entrata locale.
F. ereditò tale sistema che, tuttavia, nel 1427 apparirebbe già modificato, sostituito, in genere, dalla taxa mensualis o tallea, piuttosto pesante ma pagabile in rate mensili, della quale F. promise, nel 1428, l'abolizione senza però attuarla. Comunque, i principali introiti del Ducato erano costituiti dagli appalti dei dazi e degli offici (già con F. anche pluriennali), dalle multe e dalle confische dei beni ai danni dei colpevoli di gravi delitti contro lo Stato o il principe.
Dal 1414 cominciò l'imposizione delle taglie straordinarie sulla base dell'estimo, il cui sistema venne modificato da F., ma che fu sempre motivo di contestazioni e di discordie (si ricorda però che nel 1433 - in occasione dell'estimo - ordinò l'iscrizione dei beni del clero in elenchi separati da quelli dei civili); in qualche caso si ricorse ai sussidi straordinari. Il 14 luglio 1429 F. stabilì, con decreto, l'applicazione di un sistema di tassazione diretta che fosse meno gravoso per i sudditi, sulla base di un modus etordo focorum da pagarsi da tutti, civili, chierici, militari e nobili. Il 29 agosto di quell'anno ne chiedeva già il versamento.
L'operazione più importante compiuta in materia da F. fu l'emanazione del regolamento sulle magistrature finanziarie e sull'amministrazione delle entrate ducali, varato in 84 capitoli il 2 sett. 1445.
F. aveva ereditato dal suo predecessore anche una gravissima situazione monetaria con specie fortemente inflazionate (si tenga presente che il principe quattrocentesco operava sulle monete in regime di monopolio e ne stabiliva il corso per decreto), per cui si trovò subito (1413) nella necessità di controllare tale situazione soprattutto per quanto concerneva la coniazione e lo spaccio delle monete false e di operare un tentativo di deflazione, senza però ottenere alcun effetto positivo. Negli anni del suo ducato si ebbe un costante accrescimento del corso della moneta aurea riservata al commercio internazionale ed alle maggiori transazioni e un parallelo svilimento di quella argentea su cui si basava la vita quotidiana della popolazione.
Uno dei principali aspetti collegati a quanto sopra è quello del commercio soprattutto con l'estero, nel quale Milano avrebbe voluto contrastare Venezia, uscendo dallo strettissimo monopolio attuato dalla Serenissima. Le iniziative in tale senso furono molteplici ma non ebbero apprezzabili risultati, malgrado gli sforzi del duca, del suo gruppo dirigente e della potente Universitas mercatorum Mediolani.
Un altro settore della politica di F. che va messo in rilievo è quello relativo ai rapporti con il clero ed al problema beneficiario. Fin dai primi decenni del Trecento i Visconti avevano cercato di controllare la provvista dei benefici ecclesiastici in modo da collocarvi persone da gratificare per servigi resi e da poter contare sul maggiore numero di persone fidate nei posti-chiave. Con Gian Galeazzo l'esercizio di tale controllo assunse il carattere di un normale diritto dello Stato in materia ecclesiastica, da esercitarsi in maniera continuativa a prescindere dalle condizioni in cui lo Stato (cioè il principe) potesse trovarsi nel suo rapporto con i pontefici e con la Sede romana.
F. istituzionalizzò tutte le pratiche riguardanti la verifica e l'amministrazione dei benefici vacanti, con la creazione dell'officio detto appunto "economato dei benefici vacanti", cui prepose un officiale. Chiaro come sempre, il Decembrio afferma che F. "beneficia quoque ecclesiastica a nullo impetrare voluit, nisi ipse mandasset" (Vita, p. 122 e note pp. 173 s.). Nel 1442 vietò ai feudatari di disporre entro il proprio feudo in materia ecclesiastica.
Un altro momento della politica ecclesiastica di F. è quello che concerne la disciplina della gestione dei beni del clero nel Ducato. Sebbene F. riconoscesse l'esistenza di due sfere ben distinte sia nell'ambito della giurisdizione, sia in quello delle proprietà, nel 1446 tassò in modo consistente anche i beni degli enti religiosi, il che gli causò qualche problema di coscienza al punto da convocare una commissione di teologi che stendesse un consilium a giustificazione del suo operato. Per quanto concerne il privilegium fori cercò di limitarne gli abusi, sottoponendo al foro laico i chierici primae tonsurae colpevoli di reati (1416) ed anche coloro che, coinvolti in controversie civili, fossero privi della tonsura e dell'abito al momento della citazione (1425).
Da quanto sopra sembra dunque possibile inquadrare la politica ecclesiastica di F. nella linea di quella che verrà indicata come tradizione giurisdizionalistica milanese, avente quale fine il completo controllo sulle istituzioni ecclesiasti che sia attraverso la normativa specifica all'interno dello Stato, sia attraverso un attento uso della diplomazia capace di sfruttare le rivalità dei pontefici durante lo scisma, e tra Martino V e Eugenio IV da un lato e i concili generali dall'altro.
F. si servì del concilio di Costanza (1414-18) soprattutto per inviare reiterati appelli all'imperatore onde ottenere la conferma del titolo ducale; l'appoggio al sinodo pavese (1423-24) puntava invece sulla speranza di servirsene per i propri scopi contro l'alleanza antiviscontea tra Savoia e Firenze; molto più complesso invece il sostegno fornito a quello di Basilea negli anni 1438-1440, con raccolta di imposte e di sussidi a favore dei prelati presenti al concilio (nel 1434 F. creò all'uopo a Milano l'ufficio dei Commissari per gli Affari del concilio) e con un'opera di persuasione nei confronti di coloro che erano renitenti a parteciparvi. La presenza del clero milanese a Basilea in questo primo periodo è infatti molto consistente: vi si trovavano quasi tutti i più importanti vescovi lombardi (alcuni dei quali decedettero a Basilea), con alla testa l'arcivescovo di Milano, B. Capra.
Non appare peraltro molto probabile che l'atteggiamento di F. nei confronti dell'assemblea di Basilea fosse dettato da una profonda convinzione conciliarista, ma è piuttosto da ascriversi a motivazioni politiche, vista anche la presenza in loco di persone che non appartenevano alle posizioni estreme del conciliarismo, ma erano piuttosto abili nel mediare con la Curia romana, come G. Landriani o il vescovo di Tortona, poi arcivescovo di Milano, E. Rampini. È del resto significativo che tutte le provviste beneficiarie di quegli anni fossero a favore di prelati legati al concilio.
Il governo di F. costituì in tal modo, sul piano politico-amministrativo, un termine di raffronto per i successivi regimi instauratisi nel Ducato.
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