VISCONTI, Filippo Maria
– Nacque il 19 agosto 1721 a Massino Visconti, nei pressi del lago Maggiore.
Era l’ultimo dei sei figli di Orlando, discendente dal ceppo dei Visconti, e di Isabella d’Antonio Bendoni. Era parente dell’ex arcivescovo di Milano Federico Visconti, nonché nipote di monsignor Ignazio, prevosto della metropolitana, e cugino per via materna di Luigi Bossi, letterato e poi funzionario napoleonico. Conseguì il dottorato in teologia e fu ordinato sacerdote nel 1749, indi operò come sacerdote diocesano a Milano, dove fu prima canonico del capitolo della basilica di S. Lorenzo e poi visitatore legionario, deputato dei seminari, vicario moniale, protonotario apostolico onorario, prelato domestico del papa e prevosto del capitolo del duomo di Milano.
Nel 1783 fu accolto nel collegio dei nobili giureconsulti. Ultimo di una serie di patrizi ambrosiani chiamati alla cattedra episcopale, fu il primo a essere nominato direttamente da Giuseppe II d’Asburgo il 1° settembre 1783, ai sensi di un editto del 1782 che avocava all’imperatore le nomine episcopali nei territori lombardi. La controversia giurisdizionale che ne derivò fu composta il 20 gennaio 1784 grazie a un’amichevole convenzione tra il cardinale František Herzan von Harras, difensore degli interessi imperiali, e il papa Pio VI il quale non lo elevò mai alla porpora cardinalizia. Visconti, già a Roma dal marzo, ricevette il pallio il 25 giugno e due giorni dopo la consacrazione; indi giurò fedeltà a Giuseppe II. Fece solenne entrata a Milano il 29 agosto. Quale suo vicario volle il canonico del duomo, Ercole Maria Bonanomi, dottore in teologia. Suo agente a Vienna fu monsignor Fortunato Maria Torrenti. Accettò di buon grado il passaggio di quarantatré parrocchie ambrosiane alla diocesi bergamasca, l’esproprio della Valsolda, signoria degli arcivescovi di Milano, e nel 1786 del collegio elvetico già di amministrazione curiale divenuta sede del governo asburgico. Su invito di quest’ultimo collaborò alle riforme giuseppine. Nel settembre del 1784 preparò un metodo di concorso per i benefici curati ispirato alle norme tridentine. A più riprese nel 1785 e nel 1787 presentò un piano esecutivo per la sistemazione delle parrocchie della città di Milano ridotte da sessantotto a quarantanove indi a trentuno (più nove nei ‘corpi santi’) proponendo un gran numero di coadiutori e di chiese sussidiarie. Visconti, infatti, era attento alla cura pastorale dei fedeli, specie dei contadini che riteneva «la porzione più utile ed eletta dell’umana società» (Monsignor Filippo Visconti al dilettissimo nostro popolo delle città e diocesi di Milano, Milano 20 maggio 1786, p. 1). Stese un regolamento diocesano per gli esercizi di devozione e gli offici ecclesiastici. Disapprovò l’uso del volgare nella liturgia e la traduzione del messale dal latino nonché la costituzione matrimoniale giuseppina del 1784. Nel 1789 quale testo ufficiale della diocesi pubblicò il catechismo preparato anni prima dall’oblato Paolo Maria Locatelli per ordine dell’arcivescovo Giuseppe Pozzobonelli con il titolo Esposizione della dottrina cristiana (Milano 1789). Dopo la morte di Giuseppe II nel giugno del 1790, a nome dei vescovi lombardi, inviò al nuovo imperatore Leopoldo II una supplica in trentuno punti contro i mali della Chiesa prodotti dalla legislazione giuseppina. Ottenne solo la riapertura dei seminari vescovili e un parziale controllo sulla censura dei libri di religione, ma non la revoca dei provvedimenti più invisi. Nel 1792 e 1793 si schierò duramente contro il giansenismo pavese con due nuove suppliche all’imperatore Francesco II per ottenere un maggiore controllo sugli studi teologici.
Visconti fu fin dall’inizio avverso alla Rivoluzione francese. Tra il 1793 e il 1794 invitò il clero a vendere gli oggetti religiosi e a far recitare pubbliche orazioni al fine di sostenere la prima coalizione contro Napoleone Bonaparte. Preoccupato per l’arrivo dei francesi a Milano, il 4 maggio 1796 chiese istruzioni alla S. Sede senza averne risposta, indi preferì collaborare con il nuovo governo con «moderato riserbo» (Zaghi, 1989, p. 83). Nel maggio del 1796 si recò a Pavia per sedare i tumulti antinapoleonici. Lo accompagnò l’arciprete Giuseppe Ordoño de Rosales, morto tragicamente in questa occasione. Il 29 maggio pubblicò una lettera pastorale per incitare il popolo milanese alla fedele sottomissione ai francesi e ordinò un solenne Te Deum in duomo per la Repubblica d’Oltralpe. Nel luglio indisse pubbliche preghiere in tutte le chiese a favore di quest’ultima, ma poi si rifugiò nel collegio degli oblati di Gorla Minore. Nel 1797 fu iscritto alla Società di pubblica istruzione, ma rifiutò di pronunciare un discorso «per la causa della libertà». Fu per questo vilipeso dai repubblicani milanesi contro i quali Pietro Verri scrisse la Risposta ai detrattori dell’arcivescovo. Dopo la pace di Leoben del 17 aprile 1797, Visconti fece cantare il Te Deum in tutte le chiese e il 9 luglio partecipò alla festa della federazione della Repubblica in campo Marte ma non volle celebrare messa davanti alla statua della dea Libertà. Non ottenne favori dalla Cisalpina di cui disapprovò la politica anticlericale. Nel 1798 chiese alle autorità di procedere ad alcune ordinazioni sacerdotali straordinarie per le necessità della diocesi e suggerì loro di rendere obbligatorio l’esame di concorso per le provviste parrocchiali, quale garanzia dell’elezione popolare del pastore sancita dalla legge del 13 vendemmiale anno VI (ottobre 1797). Nel maggio del 1799 ordinò un Te Deum per il ritorno degli austriaci a Milano e il 28 luglio partecipò alla solenne cerimonia in duomo che ne seguì. Chiese loro la riapertura di alcuni conventi e monasteri soppressi. Dopo il ritorno dei francesi in città nel giugno del 1800 domandò al governo cisalpino di ottenere almeno la nomina dei vicari parrocchiali. Non presenziò al nuovo Te Deum celebrativo del 2 giugno 1800 in loro onore ma si rifugiò a Padova. Rientrò il 12 novembre in tempo per inneggiare alla successiva pace di Lunéville, firmata il 9 febbraio 1801. Si mise a disposizione della Repubblica Cisalpina. Per questo motivo nel novembre del 1801 accettò l’invito di Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord di recarsi ai comizi di Lione per la costituzione della Repubblica italiana. Lo accompagnarono il cancelliere episcopale Gioachino Gambarana, l’arciprete Carlo Oppizzoni e il teologo della metropolitana Stefano Bonsignore. Gioacchino Murat scrivendo a Talleyrand accennò a una promessa di cappello cardinalizio. Il 21 novembre Visconti confessò invece personalmente al cardinale Ercole Consalvi, segretario di Stato, di esservi andato per il bene della sua chiesa. A tal fine, del resto, scrisse invano più volte a Napoleone attraverso sia Murat sia monsignor Giuseppe Spina residente a Parigi.
Visconti giunse a Lione il 9 dicembre; prese alloggio alla locanda della posta in rue Granella 93; fu presentato a Talleyrand il 29 dicembre; morì alle 18,30 del 31 dicembre nel corso di un banchetto. Invano fu soccorso dal medico Pietro Moscati. Un anonimo che si firmava ‘zelante cattolico’ vide nella sua morte la punizione dell’Onnipotente per la collaborazione con i francesi. Al suo funerale erano presenti sette vescovi. Il 4 gennaio il cardinale Carlo Bellisomi, vescovo di Cesena, celebrò la messa e monsignor Stefano Bonsignore pronunciò l’elogio funebre presso l’oratorio del collegio gesuitico colmo di folla, lionesi compresi, quasi tutti i deputati cisalpini e lo stesso Talleyrand. La salma fu riportata a Milano, ricevette solenni esequie il 15 febbraio e fu tumulata in duomo.
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