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Visconti, Filippo Maria

di Isabella Lazzarini - Enciclopedia machiavelliana (2014)
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Visconti, Filippo Maria

Isabella Lazzarini

Secondogenito di Gian Galeazzo Visconti, signore e poi primo duca di Milano, e di Caterina di Bernabò Visconti, Filippo Maria nacque a Milano il 3 settembre 1392. Alla morte del padre, nel 1402, divenne conte di Pavia; e nel 1412, dopo l’assassinio del fratello Giovanni Maria (16 maggio), assunse il titolo ducale. Nel luglio dello stesso anno sposò Beatrice, vedova del potente Facino Cane, per assicurarsi il sostegno della compagnia del condottiero, essenziale al recupero del controllo su Milano. Liberatosi della prima moglie, giustiziata nel 1418 per un adulterio quanto meno dubbio, si risposò con Maria di Savoia, figlia del duca Amedeo VIII e di Maria di Borgogna, nel 1427 (matrimonio tutto politico, forse mai consumato). Da una duratura relazione con Agnese del Maino ebbe nel 1425 l’unica figlia Bianca Maria, legittimata nel 1430. Morì a Milano il 13 agosto 1447, lasciando aperto il campo a una lotta accanita per la successione al ducato.

La figura del V. è ben nota, e negli ultimi anni è stata oggetto di un rinnovamento di studi e interesse (Seicento anni dall’inizio del ducato di Filippo Maria Visconti (1412-1447), in corso di stampa): in questa occasione si punterà dunque a ricostruire soltanto i lineamenti essenziali del suo ducato, a contrappunto della sua presenza, minuziosa e assillante, nelle Istorie fiorentine machiavelliane. Senza appassionarsi al personaggio, M. avverte l’enorme pressione che il confronto trentennale con V. ha imposto a Firenze, condizionandone con forza le vicende e gli equilibri.

Giunto al potere in modo drammatico, V. si trovò di fronte a un compito difficile: assicuratosi nei primissimi anni il controllo di Milano e del cuore del ducato, intraprese, a partire dal 1418, un’opera capillare di recupero dell’ampia compagine territoriale conquistata dal padre. I territori toscani e veneti, con Brescia e Bergamo, erano perduti, passati i primi sotto il dominio di Firenze, gli altri sotto quello di Venezia, la cui signoria giungeva ormai sino all’Adda, ma il potere visconteo si riaffermò sugli antichi domini di Gian Galeazzo, fissando i confini che avrebbero tenuto sino alla fine del secolo (Del Tredici 2012). Le guerre con Venezia e con Firenze, i rapporti con il papato e con il Regno, le ambizioni verso Genova, i complessi equilibri padani sia con le minori signorie gonzaghesca ed estense, sia con Bologna e la Romagna, sia infine nei confronti dei poteri dell’area subalpina, in cui i Savoia stavano prendendo un ruolo egemonico e sempre più ‘italiano’, scandirono il governo di Filippo Maria, dettando al duca un sovrapporsi talora contraddittorio di linee politiche (Cognasso 1955; Soldi Rondinini 1997). Nonostante questo complesso contesto internazionale (e nonostante che le perdite documentarie, successive alla morte del V., ne abbiano reso talora difficile l’approfondimento), il suo principato fu un’età importante per la costruzione del potere ducale e per la definizione dei suoi caratteri di dominio su una compagine di poteri più o meno territoriali varia e mutevole (Chittolini 1979; Gentile 2001; Cengarle 2006; Gamberini 2009).

M., come si diceva, non fa di V. un personaggio memorabile: citato in tre passi dei Discorsi (I xvii 11, II xviii 31, xxv 15) e in uno dell’Arte della guerra (II 50), egli è molto presente – come è naturale – nelle Istorie fiorentine (da qui in poi abbreviate in Ist. fior.), in particolare nei libri IV-VI, ma in un’ottica principalmente strumentale alla narrazione degli eventi. A partire dal V libro lo sguardo di M. si allarga, le sue fonti si diversificano: l’intreccio delle vicende punta a interpretare le dinamiche peninsulari, e il ritratto di V. si snoda secondo due diversi binari. La ricostruzione delle vicende belliche e diplomatiche viene messa in costante relazione con le ricorrenti crisi interne della Repubblica fiorentina. La storia di Filippo Maria diviene un’epitome del principato tirannico, e quindi si connota con una serie di attributi negativi (l’ingratitudine, la slealtà, l’autorità incontrollata, la diffidenza), senza che spicchino alcuna peculiare virtù o qualche tratto caratteriale men che stereotipico.

La complementarità fra l’aggressione viscontea e la fragilità fiorentina si lega in un rapporto causale, chiaramente identificato nel memorabile passaggio in cui M. riconosce che solo la morte, di Gian Galeazzo Visconti (nel 1402) e di Ladislao di Durazzo (nel 1414), aveva salvato la libertà di Firenze. «Dopo la morte di questo re [Ladislao] – scrive M. – stette la città quieta, fuori e dentro, otto anni; in capo del qual tempo, insieme con le guerre di Filippo duca di Milano, rinnovorono le parti» (Ist. fior. III xxix 8).

V. poté nuocere a Firenze perché i fiorentini erano divisi fra loro: e la sua influenza fece aumentare deliberatamente queste divisioni (Ist. fior. IV iv 1 e segg.). Come M. scrive a proposito della reazione del duca alle richieste dell’esule Rinaldo degli Albizzi nel 1434, del resto, «Non erano necessarie molte parole a persuadere al duca che movesse guerra a’ Fiorentini, perché era mosso da un ereditario odio e da una cieca ambizione» (Ist. fior. V ix 1). La lunga tradizione di guerre e sfiducia reciproca emerge in ogni occasione a spiegare come sia V. sia Firenze cedessero alla tentazione di campagne militari che entrambi avrebbero dovuto riconoscere come costose, rischiose e sostanzialmente inutili. È il caso della seconda guerra lucchese: V. «avendo aggiunto all’odio antico de’ Fiorentini l’obbligo fresco de’ Lucchesi, e sopra tutto desideroso che i Fiorentini non crescessino in tanto acquisto, deliberò mandare grossa gente in Toscana» (Ist. fior. V xii 3); i fiorentini dal canto loro «erano adunque [...] distratti da due diverse passioni, e dalla voglia di avere Lucca, e dal timore della guerra col duca» (Ist. fior. V xiii 6). Nonostante questa concatenazione di debolezze reciproche, nei Discorsi M. definisce il lungo e contrastato rapporto fra V. e la città grazie a un aneddoto lapidario:

Filippo Visconti, duca di Milano, più volte mosse guerra a’ Fiorentini, fondatosi sopra le disunioni loro, e sempre ne rimase perdente; talché gli ebbe a dire, dolendosi delle sue imprese, come le pazzie dei Fiorentini gli avevano fatto spendere inutilmente due milioni d’oro (Discorsi II xxv 15).

Il ritratto machiavelliano di V. si compone di vari tasselli moralmente sgradevoli e politicamente inefficaci. I primi anni lo vedono protagonista di episodi efferati come l’eliminazione della prima moglie, Beatrice: riconquistati Milano e la Lombardia grazie alle forze militari che la vedova di Facino Cane gli aveva portato in dote, «per essere grato de’ benefizii grandi, come sono quasi sempre tutti i principi, accusò Beatrice sua moglie di stupro, e la fece morire» (Ist. fior. I xxxvii 3). Gli è abituale non rispettare gli accordi stipulati: subito dopo la pace di Ferrara, nel 1428, M. nota come di essa «il duca [...] non osservò le condizioni, in modo che di nuovo la lega riprese le armi» (Ist. fior. IV xv 2); si muove più per paura che per considerazione (come durante la prima guerra di Lucca, allorché «La paura [...] che il duca ebbe di questo [che Guinigi potesse consegnare Lucca ai fiorentini] gli fece porre da parte i rispetti», Ist. fior. IV xxiv 4).

Non si fida di nessuno, nemmeno di coloro che si schierano con lui, di fatto inducendoli a tradirlo (Francesco Spinola, che gli aveva consegnato Genova, «veduto che il duca seguitava ne’ sospetti suoi, perché egli non poteva credere che quello che non aveva amato la libertà della sua patria amasse lui, deliberò di tentare di nuovo la fortuna», Ist. fior. V vi 7). È infine un manipolatore d’uomini: memorabili i suoi rapporti con il futuro genero, Francesco Sforza (→), che di volta in volta tiene sospeso facendogli balenare davanti agli occhi il matrimonio con Bianca Maria («e quel duca, che cognosceva questo suo desiderio, gliene dava speranze grandissime [...] e poi con varie gavillazioni, ogni cosa si risolveva», Ist. fior. V xviii 8-9), o supplica giocando sulla propria vecchiaia («Pertanto Filippo ricorse con i prieghi al conte: che non volesse abbandonare il suocero già vecchio e cieco», Ist. fior. VI xii 1, dove M. cita direttamente da Giovanni Simonetta, Commentarii, 171). È però vulnerabile alla collera e allo sdegno, e da manipolatore diviene manipolato: il comportamento arrogante di Niccolò Piccinino lo decide infine a gettarsi nelle braccia di Francesco Sforza «E quel che tanti pericoli e tanti minacci di inimici non avevono fatto piegare, gli insolenti modi degli amici piegorono: e deliberò fare lo accordo col conte» (Ist. fior. VI iv 8).

Il suo stile di governo gli merita, infine, un memorabile, seppur breve, ritratto nel capitolo dedicato allo stato d’Italia e dei suoi eserciti nel primo Quattrocento, che in qualche modo riassume l’uomo, i suoi limiti e il suo destino: «Tutti questi principali potentati erano di proprie armi disarmati: il duca Filippo, stando rinchiuso per le camere e non si lasciando vedere, per i suoi commissarii le sue guerre governava» (Ist. fior. I xxxix 6).

Bibliografia: Fonti: Commissioni di Rinaldo degli Albizzi per il Comune di Firenze dal 1399 al 1433, a cura di C. Guasti, 3 voll., Firenze 1867-1873; P.C. Decembrio, Vita Philippi Mariae, in Id., Opuscula historica, a cura di A. Butti, F. Fossati, G. Petraglione, in RIS, 20.1, Bologna 1925; G. Simonetta, Rerum gestarum Francisci Sfortiae commentarii, a cura di G. Soranzo, in RIS, 21.2, Bologna 1932; G. Cavalcanti, Istorie fiorentine, a cura di G. di Pino, Milano 1944.

Per gli studi critici si vedano: F. Cognasso, Il ducato visconteo da Gian Galeazzo a Filippo Maria, in Storia di Milano, Istituto della Enciclopedia Italiana, 6° vol., Il ducato visconteo e la repubblica ambrosiana (1392-1450), Milano 1955, pp. 1-383; G. Chittolini, La formazione dello stato regionale e le istituzioni del contado. Secoli XIV e XV, Torino 1979; G. Soldi Rondinini, Filippo Maria Visconti, duca di Milano, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 47° vol., Roma 1997, ad vocem; M. Gentile, Terra e poteri. Parma e il Parmense nel ducato visconteo all’inizio del Quattrocento, Milano 2001; F. Cengarle, Immagine di potere e prassi di governo. La politica feudale di Filippo Maria Visconti, Roma 2006; A. Gamberini, Oltre le città. Assetti territoriali e culture aristocratiche nella Lombardia del tardo Medioevo, Roma 2009; F. Del Tredici, Lombardy under the Visconti and the Sforza, in The Italian Renaissance state, ed. A. Gamberini, I. Lazzarini, Cambridge 2012, pp. 156-76; Seicento anni dall’inizio del ducato di Filippo Maria Visconti (1412-1447). Economia, politica, cultura, Atti del Convegno di studi, Milano 12-13 giugno 2013, a cura di N. Covini, in corso di stampa.

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