PALIZZI, Filippo
PALIZZI, Filippo. – Nacque a Vasto, in Abruzzo, il 16 giugno 1818. La famiglia, di estrazione borghese, era formata dal padre Antonio, «prima avvocato e poscia incaricato di pubblici uffici e professore di belle lettere e filosofia» (Vasto, Biblioteca Gabriele Rossetti, Carteggio palizziano, Autobiografia, fascio 6.4.9., c. 50), dalla madre Doralice del Greco e da nove figli (sei maschi e tre femmine), di cui quattro «pittori di grido» (ibid.): Giuseppe, Filippo, Nicola, Francesco Paolo; quattro pittori o pittrici dilettanti: Filippina, Michele, Felicia, Luisa; e un ultimo figlio Camillo che aveva interessi per la meccanica.
Da Francis Napier ([1853], 1956, p. 90) sappiamo che i fratelli Palizzi furono allevati in un ambiente ricco di stimoli culturali e che erano denominati «le nove muse»; tutti loro fin da bambini manipolavano la creta per modellare pastori da presepe o decoravano stendardi per le processioni religiose o ancora, nel caso delle sorelle, dipingevano fiori. Lo stesso Filippo ha parlato della sua casa come di una vera e propria «officina», anche se nelle ambizioni del padre c’era la prospettiva di impiegare i figli maschi nelle professioni civili soprattutto di tipo forense. Il primo a contravvenire ai voleri paterni fu Giuseppe, che abbandonò gli studi di avvocato per iscriversi a Napoli nel 1835 al Real Istituto di belle arti.
Da un documento risulta che Filippo era residente a Napoli fin dal 1836 (Archivio di Stato di Napoli, Ministero della Pubblica Istruzione, fascio 477 I, c. 9). Grazie al parere favorevole del Consiglio provinciale di Chieti e poi del Consiglio del Real Istituto di belle arti di Napoli, ottenne una pensione di quattro anni, con una borsa di studio di otto ducati al mese (Napoli, Archivio dell’Accademia di belle arti, Cartella Palizzi, Lettera del ministro Santangelo, del 28 agosto 1837, trascritta in parte senza citare la fonte da Ricci, 1960, p. 19), e si iscrisse al Real Istituto di belle arti di Napoli; qui fu compagno di corso di Domenico Morelli, con cui da allora strinse un complesso rapporto di amicizia e rivalità – a causa dei loro temperamenti opposti – ma con cui stabilì in definitiva, al di là delle incomprensioni, un sodalizio che durò tutta la vita.
Proprio a Morelli, in occasione del suo discorso commemorativo all’indomani della morte di Palizzi, dobbiamo la descrizione dei primi anni di Accademia, quando con grande meticolosità Filippo si confezionava i pennelli da sé e, nell’eseguire i disegni, non ricorreva mai allo sfumino, ma copiava anche i tratti del bulino, così come li aveva distribuiti l’incisore (Morelli - Dalbono, 1915, pp. 6 s.).
Dopo pochi mesi tuttavia, insofferente degli insegnamenti accademici, Filippo li abbandonò e si iscrisse alla scuola libera di Giuseppe Bonolis, dove, attraverso Federico Quercia che insegnava estetica, entrò in contatto con le idee di Francesco De Sanctis, innovative tanto sul piano del linguaggio quanto su quello etico-politico, in virtù della stretta connessione propugnata fra forma e contenuto. Pur avendo abbandonato l’Accademia napoletana, Filippo aveva conservato il diritto di partecipare ai concorsi interni, come i due concorsi banditi sul tema di «ritrarre animali dal vero», dove si classificò al primo posto. Questa esperienza, che lo costrinse a «studiare il vero nelle campagne», fu per lui determinante (Autobiografia, c. 50 v). Prese quindi parte ad alcune mostre biennali nel Real Museo borbonico: nel 1839 con Studi di animali (medaglia d’argento di II classe), acquistati da Carolina di Borbone duchessa di Berry; nel 1841 con Due pastori e un Pastore che beve ai bordi di una fontana (per il quale è possibile identificare uno studio preparatorio nella Galleria dell’Accademia di belle arti di Napoli [Donazione Palizzi..., 2000, p. 174, cat. n. 2.17], rivelatore della probabile conoscenza di un’incisione di analogo soggetto di Eugène Delacroix, che aiuta nell’identificazione della corretta iconografia); nel 1851 con Il Real Sito di Carditello (Napoli, Museo di Capodimonte), un dipinto comprato dal re Ferdinando II che presentava ancora un forte legame con la veduta a volo d’uccello di Jakob Philipp Hackert. Nel 1841, grazie alla mediazione dell’architetto Gaetano Genovese, il re aveva già acquistato da Filippo Il mese di maggio (o Maggio lucano, Napoli, Avvocatura distrettuale dello Stato), insieme a un pendant (Ritorno dalla campagna, non firmato, Napoli, Museo di Capodimonte) che gli aveva ordinato dopo aver rilevato il primo dipinto, rifiutato da un precedente committente.
In tali opere di soggetto popolare con contadini e animali Filippo cercò di mettere in pratica la formula di Léopold Robert, che combinava la dignità neoclassica con la varietà pittoresca dei costumi popolari, appartenenti alla pittura di genere. I buoni rapporti stabiliti con la famiglia reale dei Borbone, e in particolare con Leopoldo conte di Siracusa che era anche scultore, gli procurarono di lì a poco l’incarico di fare da maestro di pittura a Luigi conte d’Aquila, fratello del re, e a donna Amalia, sorella del re e poi moglie del principe Sebastiano di Borbone, infante di Spagna, pittore anche lui.
Alla fine del 1841 Filippo si recò in Basilicata per quattro mesi allo scopo di approfondire i suoi studi di costumi popolari. Tornato nella primavera del 1842, ripartì nell’autunno di quello stesso anno per seguire il principe Maronsiin Moldavia: nel lungo viaggio via mare toccò La Valletta, Smirne, Costantinopoli, Galaţi e infine Jassy(ora Iaşi) nell’interno. Durante il viaggio fece molti ritratti e conobbe vari artisti tra i quali anche un pittore russo, Alexander Vassal, con cui rimase in contatto anche in seguito e che lo avrebbe aiutato a sistemare a Parigi le opere del fratello Giuseppe dopo la sua morte. Di questa esperienza restano una Veduta della Valletta (Roma, Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea) e due vedute di Costantinopoli, il serraglio (1842 e 1843, Vasto, Pinacoteca civica), oltre a vari schizzi sui suoi taccuini (Chieti, Museo d’arte Costantino Barbella). Tornò in Italia nel 1844, in tempo per salutare il fratello Giuseppe in partenza a sua volta per la Francia, dove si sarebbe stabilito definitivamente.
Con il trasferimento di Giuseppe cominciò un fitto scambio epistolare tra i fratelli (alcune lettere in Murolo, 1987, e in Ricciardi, 1989), in cui ciascuno dava conto dei propri avanzamenti e delle novità più clamorose della storia del momento. Famosa è la lettera di Filippo a Giuseppe in cui gli descrive con grande partecipazione gli eventi, ma soprattutto il clima e i sentimenti che avevano animato i moti del 1848, da Filippo ricordati anche in tre piccoli dipinti di collezione privata che rappresentano le barricate con i soldati borbonici e la città imbandierata con la folla esultante, quando il 18 febbraio 1848 era stata concessa la Costituzione. Rivelò i suoi sentimenti patriottici anche nel bel Ritratto di Garibaldi (Roma, collezione privata) del 1851, cui poi seguirono vari studi di garibaldini, per lo più in riposo.
Dal 1847 Filippo aveva cominciato a trascorrere i mesi estivi a Cava dei Tirreni, per trarre studi dal vero nelle campagne. Per l’animalistica, nei primi tempi, accanto agli studi dal vero dovette ricorrere probabilmente a repertori di incisioni: in particolare per lo studio dei cavalli si rifaceva alle incisioni inglesi, nel genere di quelle di John Frederick Herring, come testimoniano varie opere degli anni Cinquanta tra cui La caccia alla volpe del 1850 di collezione Marzotto a Valdagno e Puro sangue (già Napoli, collezione Maglione). Fino al 1854 la resa degli animali, ancora legata a una serie di convenzioni, si traduceva spesso in pose forzate (L’arrivo del temporale, del 1847, e Difesa del gregge, del 1854, entrambi in collezione privata), sulla base di vecchi modelli: dagli olandesi Paulus Potter e Dirk van Bergen al francese Jacques Raymond Brascassat, al napoletano Domenico Brandi, le cui opere poteva aver visto nella collezione di Carlo d’Avalos, XIV marchese del Vasto (Napier [1853], 1956, p. 92); ma trovavano riscontri anche nelle litografie degli anni Venti di Théodore Géricault.
Nei primi anni Cinquanta il successo di Filippo fra i collezionisti soprattutto stranieri si consolidò, arrivando sia in Russia sia in America (Carteggio palizziano, fascio 6.4.11, cc. 429-430). Nel 1853 i suoi interessi per il mondo popolare sfociarono in una serie di disegni, poi tradotti in incisione da Francesco Pisante, per l’illustrazione del libro in due volumi di Francesco De Bourcard Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti (Napoli 1853-58).
Stimolato dall’esempio del fratello Giuseppe, nel 1855 decise di recarsi a Parigi, anche per visitare l’Esposizione universale. Qui conobbe i paesaggisti della scuola di Barbizon e apprese la tecnica del «disegno sopra il cristallo héliotypique», ossia il cliché-verre (lettera a Giuseppe del 4 febbraio 1856, in Murolo, 1987, pp. 31-33 con errori di trascrizione e in Picone Petrusa, 1992, p. 27); unico esempio finora rintracciato dei suoi clichés-verre è Buoi all’abbeveratoio (Avellino, Museo Irpino, datato 1855 e dedicato «all’amico Cucinotta»). Al ritorno dal viaggio a Parigi fece un ampio giro in Europa passando dall’Olanda (si veda la tela Olanda, 1855, Vasto, Pinacoteca civica), dal Belgio e da varie città italiane. Importante fu il soggiorno a Firenze, dove incontrò Giovanni Fattori e gli altri pittori che si sarebbero chiamati di lì a poco macchiaioli, ai quali mostrò gli studi dei barbizonniers, che aveva portato con sé dalla Francia (oggi a Napoli, Galleria dell’Accademia di belle arti).
Dopo il soggiorno parigino l’indagine luministica appare notevolmente maturata, come ci attestano varie opere del 1856 e oltre (Ritratto di uomo, 1856, Napoli, Museo di S. Martino; Lavandaie di Sarno, 1856, Roma, Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea). Anche il suo atteggiamento nei confronti degli animali sarebbe col tempo mutato: mentre in un disegno giovanile conservato fra le carte palizziane a Vasto sono accostati profili di animali a determinati caratteri psicologici umani, con un evidente riferimento di tipo moralistico alla fisiognomica settecentesca di Johann Kaspar Lavater, dagli anni Sessanta gli animali non appaiono più umiliati a rappresentare i vizi degli uomini, ma considerati degni di essere osservati nel loro habitat con le loro specifiche caratteristiche fisiche e psicologiche (Ricciardi, i989, tav. in b/n 29; Filippo, Giuseppe, Nicola, Francesco Paolo Palizzi del Vasto, 1989, p. 81) come attestano alcuni suoi scritti (Lorenzetti, 1955, pp. 240-242; Murolo, 1987, pp. 51-56, 61-63) e i numerosi dipinti, realizzati in chiave antiaccademica, dedicati a buoi, cani, cavalli, pecore e soprattutto asinelli. Fra le opere più notevoli in tale genere, La caccia al cervo e Il ritorno dal mercato (passate dalla collezione del principe Marcantonio Colonna di Stigliano nella raccolta Poletti a Milano), accanto a L’amore del toro (Milano, coll. Prada).
Negli anni Cinquanta il suo studio in via Cupa a Chiaia diventò un luogo d’incontro e di dibattito per Morelli, Bernardo Celentano, Michele Cammarano, Francesco Saverio Altamura, Nicola Parisi, Antonio Migliaccio, Giacomo Di Chirico, Saro Cucinotta e tanti altri.
Dopo l’Unità fu incaricato da Cesare Dalbono di far parte di una commissione che avrebbe dovuto riformare l’Istituto di belle arti napoletano, ma ne uscì dopo poco scoraggiato dai pregiudizi dei docenti più anziani. La sua critica verso l’impostazione tradizionale dell’insegnamento accademico emerse chiaramente in un noto scritto polemico, Un artista fatto dall’Istituto di belle arti (in Murolo, 1987, pp. 73-81), databile fra il 1861 e il 1864, anno in cui fondò con Cucinotta il giornale L’arte moderna, dal sottotitolo molto significativo Foglio da pubblicarsi finché non si sciolga il Reale Istituto di belle arti. Nel 1861 contribuì alla fondazione e alla stesura dello statuto della Società promotrice di belle arti di Napoli, ma rifiutò di esporre nella I Esposizione nazionale di Firenze, che visitò e commentò in una importante lettera al suo amico milanese il pittore Eleuterio Pagliano del 28 ottobre 1861: «L’Esposizione è un caos di Passato, Presente ed Avvenire. Di opere buone poche, di mediocri molte, di pessime moltissime. [...] La pittura passata, sebbene rappresentata da uomini di talento, cade al paragone […]. Dunque è la gioventù che trionfa coi suoi tentativi, colle sue ricerche ad una via vera, semplice, ed anche colla imitazione della pittura di buoni artisti moderni [...] quello che bisogna cercare ora nella pittura moderna sono le finezze e la totalità» (pubbl. in stralcio in Picone Petrusa, 1991, p. 499 e in Id., 2002, p. 51).
Con i concetti di «finezze» e «totalità» Palizzi definiva la sua poetica che si basava su una personale concezione della «macchia», in quanto la «totalità» alludeva all’impressione d’insieme propria della «macchia», che però doveva essere completata dalle «finezze», ossia dalla resa delle sottigliezze percettive. I passaggi chiaroscurali in lui si fondavano su un’attenzione micrografica agli effetti di luce piuttosto che su una visione sintetica; e questo sarebbe stato oggetto di polemiche con un artista come Cammarano, ma avrebbe suscitato l’interesse di Vittorio Imbriani che, proprio analizzando la sua pittura, era pervenuto alla definizione teorica del concetto di «macchia» in una sua nota recensione alla quinta Promotrice (Imbriani [1868], 1937, pp. 65 s.).
Nel 1861 prima a Firenze, dove inviò una dozzina di studi da esporre nell’atelier di Altamura, e poi a Milano, fu accolto dagli artisti come un innovatore. Il suo esempio fu di grande stimolo per i suoi coetanei e per i giovani che lo indussero a creare nel suo atelier napoletano una vera e propria scuola. Entrato fin dalle origini nella Società promotrice di belle arti di Napoli, ne divenne socio onorario dal 1888.
In tale istituzione rivestì cariche rappresentative: fu presidente del consiglio della società nel 1862, presidente della giuria, che ne modificò lo statuto, nel 1864, nel 1866 e nel 1867 e, infine, nel 1892, fece ancora parte del giurì artistico. Nelle mostre organizzate dalla Promotrice napoletana espose poche volte: nel 1862 (Armenti), nel 1864 (Mastino di guardia, acquerello), nel 1867 (Carica di cavalleria al comando del colonnello Strada a Villafranca, fuori catalogo), nel 1870 (due fotografie di suoi dipinti: I cani di S.A.R. la principessa Margherita e L’episodio della giornata di Custoza) e nel 1871 (L’amore nel deserto, fuori catalogo).
Nel 1868 si recò per la prima volta a Venezia accolto con calore, fragli altri, da Federico Zandomeneghi, Giacomo Favretto e Mosè Bianchi. Dopo il 1864 la sua ricerca sugli effetti luministici si approfondì attraverso indagini sul controluce e sulla luce riflessa, come documentano opere nel genere di Interno di stalla (Napoli, collezione Portolano), Dopo la pioggia e Donna sul limitare della porta (entrambe a Roma, Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea).
Fu un assiduo visitatore delle più importanti mostre internazionali tenute in Europa, dove talvolta espose. All’Esposizione universale di Parigi del 1867 presentò ben sei dipinti fra cui All’abbeverata (1867; Milano, Museo nazionale della scienza e della tecnica Leonardo da Vinci), lo Studio di uno stagno, una Testa di vitello e L’uscita degli animali dall’arca o Dopo il diluvio (1864, Napoli, Museo di Capodimonte), che gli era stato commissionato nel 1861 da Vittorio Emanuele II e per il quale ottenne a Parigi una medaglia d’oro.
Quest’ultima opera è particolarmente significativa nella produzione dell’artista, in quanto ne condensa la concezione improntata a un naturalismo cosmico, privo di drammaticità e, per questo molto diverso dal modo di vedere di Cammarano che fu fortemente critico verso tale dipinto. Dell’opera esistono due bozzetti (uno a Napoli, Galleria dell’Accademia e un altro in collezione privata) e vari studi (Roma, Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea), oltre a un’incisione tratta da Cucinotta nel 1867 (Napoli, Gabinetto di disegni e stampe del Museo di Capodimonte) e presentata a Parma nell’Esposizione nazionale di belle arti del 1870.
Nel 1873 si recò all’Esposizione universale di Vienna, dove presentò, fuori concorso, L’amore nel deserto con il titolo Il leone a casa sua.
Si tratta di un’opera molto importante che Filippo aveva già esposto alla Promotrice napoletana e che fin dal 1871 era appartenuta al banchiere svizzero-napoletano Giovanni Vonwiller per poi passare, dopo la vendita all’asta del 1901, nella collezione di Emiddio Mele; da quest’opera fu tratta anche un’incisione all’acquaforte, su richiesta di Carlo Felice Biscarra (un esemplare a Roma, Istituto nazionale per la grafica, inv. n. C.L. 1712).
Nell’Esposizione di Vienna fu incaricato di svolgere il ruolo di giurato e di redigere con Cesare Mariani una relazione sulla pittura italiana, ottenendo la commenda dell’I.R. Ordine di Francesco Giuseppe d’Austria e Ungheria. In Austria, in particolare a Innsbruck e a Vienna e in Germania, a Monaco, era già stato nel 1866, come si desume dagli appunti dei suoi taccuini, anche se i viaggi più frequenti furono senza dubbio in Francia: oltre quelli citati, sono con certezza documentati, soprattutto attraverso il suo cospicuo epistolario, suoi soggiorni a Parigi anche negli anni 1859, 1863 (per eseguire studi di animali per il citato Dopo il Diluvio), 1865, 1875, 1878 (per visitare l’Esposizione universale) e nel periodo che va dalla fine del 1887 all’inizio del 1888, quando si ammalò e poi morì il fratello Giuseppe, di cui fu curatore testamentario.
Nella sua produzione sono molto rari i temi religiosi e in generale di pittura di storia, con alcune eccezioni: un dipinto giovanile dedicato a Ettore Fieramosca (1856; Vasto, Pinacoteca civica), che dimostra qualche debito verso Delacroix; un altro che rappresenta Gli ultimi giorni di Pompei (1878, collezione privata; bozzetto presso la Pinacoteca civica di Vasto), che riprende il tema del famoso dipinto omonimo di Karl Pavlovič Briullov (1833) e poi del romanzo di successo di Edward George Earle Bulwer-Lytton, The last days of Pompeii (1834); e un dipinto molto tardo, Ecce Agnus Dei (1898), realizzato per la chiesa di S. Pietro a Vasto. Non mancano invece nel suo catalogo le battaglie e i soggetti militari che confermano i suoi rapporti con Casa Savoia: in particolare ricordiamo la citata Carica di cavalleria al comando del colonnello Strada a Villafranca (1867, collezione privata), Assalto alla Cavalchina nella battaglia di Custoza e Il Principe Amedeo ferito nella battaglia di Custoza (entrambi in collezioni private; vari studi a Roma, Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea),tutti e tre esposti nella Mostra della Società promotrice di belle arti di Torino nel 1870.
Per tali dipinti si era servito delle testimonianze dirette del colonnello Enrico Strada o dell’amico Luigi Archiati per Custoza (Di Matteo, 1999) e aveva utilizzato militari come modelli recandosi sui luoghi di battaglia per studiarne dal vero la conformazione e le luci con la rinuncia all’uso di fotografie, suggerito da Pagliano (Picone Petrusa, 1995, p. 298).
Vari e interessanti sono anche gli autoritratti e i ritratti (alcuni dedicati ai familiari a Vasto, Pinacoteca civica). Fra i ritratti segnaliamo quello raffigurante Il principe di Fondi a caccia (1849), quello di Giuseppe Palizzi (1869), donato al Museo Gaetano Filangieri di Napoli, quelli del Barone De Riseis (1869; Chieti, Museo d’arte Costantino Barbella), quello del Barone Nicola Tesorone (1874, Milano, collezione privata) e quelli di vari membri della famiglia del marchese Vincenzo Cimino di Casolla Valenzano, patriota esule a Parigi e suo collezionista.
Di Filippo furono esposti, nella Mostra del ritratto storico napoletano (1954), La famiglia borbonica a caccia (Firenze, Palazzo Pitti) e Il marchese di Castelnuovo (1859-60), un bel ritratto di un interessante esponente di quella società liberale che aveva preparato l’Unità d’Italia, dall’artista conosciuto e frequentato a Cava dei Tirreni.
Negli anni Filippo consolidò il suo ruolo istituzionale: prima entrò nel corpo docente del Real Istituto di belle arti di Napoli nel 1868, anno in cui collaborò con Morelli a una riforma dell’insegnamento accademico che vide la luce solo nel 1878. In quell’anno venne nominato direttore generale delle scuole della Società operaia napoletana e, poco dopo, per volere del ministro Francesco De Sanctis, presidente del Real Istituto di belle arti di Napoli. Ma, quando si crearono delle divergenze sulla nomina del docente di scultura, nel 1881 decise di dare le dimissioni, seguito a ruota da Morelli. Passò allora nel Museo artistico industriale (ora MAI) di Napoli, che aveva contribuito a fondare nel 1878. Qui ottenne la direzione nell’ottobre 1881, lavorando all’impianto didattico di tutte le scuole officine, a cominciare da quella di ceramica.
Avendo coltivato personalmente l’incisione, la ceramica e la decorazione parietale, decise di rifondare le varie discipline delle arti applicate, incrementando il repertorio di modelli, con acquisti di fotografie e di opere originali, e introducendo il disegno dal vero delle piante, al fine di favorire il rinnovamento dei partiti decorativi. Tuttavia, su questo aspetto nacque una polemica con Giovanni Tesorone (Alamaro, 1984, 1985), direttore dell’officina di ceramica, il quale, avendo come obiettivo la riproduzione industriale, proponeva un decoro molto più semplificato, già orientato verso le stilizzazioni del liberty.
Alla ceramica Palizzi si era dedicato fin dal 1860, ma aveva intensificato le sue sperimentazioni subito dopo l’esposizione viennese del 1873. Ricordiamo fra le sue opere di rilievo la Fontana del fauno (Napoli, MAI), la placca con Uccelli in volo (1884; Napoli, MAI) e il notevole pavimento cosparso di petali di rose dipinte in trompe-l’oeil realizzato su suo disegno da Francesco Nagar nel 1888 per villa Siracusa a Sorrento di proprietà della principessa Olga Gortschakoff e poi riprodotto almeno altre tre volte.
Nel 1880 fu nominato socio onorario sia della Reale Accademia di archeologia, lettere e belle arti sia della Società filantropica napoletana. Con la fama in tarda età arrivarono varie onorificenze.
Nel 1891 fu nominato ufficiale dell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro, del quale nel 1893 ottenne il titolo di commendatore e, nel 1898, di cavaliere; nel 1892 fu insignito del titolo di commendatore della Corona d’Italia e di di grande ufficiale dello stesso Ordine; nel 1893 fu nominato membro della commissione giudicatrice dei concorsi per l’Istituto di belle arti della città di Venezia.
Con decreto del 1° marzo 1891 ottenne nuovamente la nomina di presidente del Real Istituto di belle arti di Napoli, e poco dopo quella per l’insegnamento di pittura di paese e animali. Nello stesso anno maturò la decisione di donare tre nuclei di opere a tre istituzioni pubbliche che gli stavano particolarmente a cuore: nel 1892 al ministero della Pubblica Istruzione, che destinò i suoi circa trecento studi alla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma; nel 1896 e nel 1898 all’Accademia di belle arti di Napoli; nel 1898 al Comune di Vasto.
Oltre che nei musei citati, suoi dipinti sono presenti in varie altre sedi museali fra cui ricordiamo, a titolo di esempio, a Firenze la Galleria degli Uffizi (Autoritratto, 1870) e la Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti (Monelli che inseguono un asinello, 1872); a Milano la Pinacoteca dell’Accademia di Brera (Asinelli alla fonte) e la Galleria d’arte moderna (tre dipinti fra cui Vitello preceduto dalla contadinella); a Trieste il Museo Revoltella (Abbeveratoio). Altre sue opere sono presenti nelle Raccolte Frugone di Genova Nervi, nella Civica Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia, nella Pinacoteca civica di Forlì, nel Museo Borgogna di Vercelli, nella Galleria d’arte moderna Ricci Oddi di Piacenza, nella Galleria d’arte moderna di Torino.
Numerosi sono stati i committenti e i collezionisti di Filippo, spesso disseminati in vari paesi europei e talvolta anche extraeuropei. Fra i più prestigiosi, oltre quelli già citati, ricordiamo il granduca Michele di Russia (la cui moglie, la granduchessa Olga era stata sua allieva nel 1872), il barone Carlo Chiarandà, il principe veneziano Giuseppe Giovanelli, il conte Angelo Papadopoli, il principe di Sirignano Giuseppe Caravita, il conte Giberto VI Borromeo, pittore ed amico, con cui tenne una fitta corrispondenza (Pisoni, 1994).
Morì a Napoli il 10 settembre 1899.
Nel 1901 il nipote fotografo Giuseppe De Guglielmo vendette al Municipio di Vasto, e dunque sono ancora lì conservati, alcuni oggetti e documenti appartenuti allo zio: tra gli altri, insieme con pochi schizzi, vari diplomi di Accademie italiane: di Perugia, di Genova, di Milano, di Venezia, di Firenze e di quella romana di S. Luca; inoltre i diplomi di socio onorario dell’Associazione artistica internazionale di Roma, del Reale Istituto d’incoraggiamento di Napoli, delle Società operaie di mutuo soccorso di Napoli e di Vasto; infine il diploma quale membro della giuria ricevuto in occasione della Mostra del lavoro tenuta a Napoli nel 1890.
Fonti e Bibl.: Per la famiglia Palizzi nel suo insieme: Vasto, Biblioteca Gabriele Rossetti, Carteggio palizziano, fasci 6.4.9, 6.4.11, 6.4.13; Parigi, Bibliothèque Nationale de France, Carteg-gio Nadar-fratelli Palizzi, NAF 24280.7479-7485; G.N. Durini, De’ Professori delle belle arti di Abruzzo Citeriore che oggi godono celebrità, in Giornale abruzzese di scienze lettere e arti, III (1838), pp. 145-148; G.F. [Filioli], Sopra alcune opere di scultura, pittura ed architettura messe in mostra nel Real Museo borbonico il giorno 30 di Maggio 1839, inAnnali civili del Regno delle Due Sicilie, VII (1839), vol. 20, pp. 130-152; P.S. Mancini, Belle Arti. Su’ lavori degli artisti abruzzesi esposti nel maggio di quest’anno nel Real Museo borbonico, in Giornale abruzzese di scienze lettere e arti, IV (1839), pp. 154-158; V. Torelli, Cenno sull’Esposizione di belle arti aperta nel R. Museo borbonico nel 30 maggio 1839. 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