TURATI, Filippo
– Nacque il 26 novembre 1857 a Canzo (Como), figlio unico di Pietro, funzionario prefettizio, e di Adele De Giovanni.
Durante l’infanzia seguì il padre nei vari trasferimenti (San Remo, Cuneo, Forlì, Napoli, Pavia) della sua carriera, culminata con la nomina a prefetto, dapprima di Siracusa e poi, nel 1873, di Cremona. Fin dalla giovinezza iniziò a soffrire dei sintomi di una forma neuroastenica, che lo tormentarono a lungo; ciò non gli impedì di completare i suoi studi in giurisprudenza a Pavia, e quindi a Bologna dove si laureò l’11 luglio 1877. Contemporaneamente coltivava la sua passione per la poesia, frequentando gli ambienti della Scapigliatura milanese e pubblicando alcuni componimenti di ispirazione carducciana su varie riviste. L’incontro con Arcangelo Ghisleri e la collaborazione ai due fogli da lui diretti (Preludio e Rivista repubblicana) lo avvicinarono al radicalismo in politica e al positivismo in filosofia, anche attraverso lo studio delle opere di Roberto Ardigò e di Cesare Lombroso.
Sulla rivista di quest’ultimo, Archivio di psichiatria, antropologia criminale e scienze penali, scrisse nel 1881 un saggio Sulle critiche alla nuova scuola antropologica penale; ma già l’anno seguente, sul settimanale socialista La Plebe, pubblicando a puntate Il delitto e la questione sociale, individuò anche nei condizionamenti sociali le cause dei comportamenti criminali.
Recatosi a Napoli per collaborare con Agostino Bertani in un’inchiesta (appendice di quella promossa da Stefano Jacini) sulla condizione dei lavoratori agricoli, nell’aprile del 1885 vi conobbe la socialista russa Anna Kuliscioff, destinata a diventare la sua compagna di vita e di impegno politico. Dimessosi dall’Associazione democratica milanese, iniziò a scrivere sulla Rivista italiana del socialismo di Andrea Costa e sulla Revue socialiste di Benoît Malon, auspicando un’alleanza tra radicali, democratici e Partito operaio, di cui assunse la difesa legale dopo lo scioglimento deciso nel 1886, componendone anche l’inno, il Canto dei lavoratori.
Nel luglio del 1889 fondò la Lega socialista milanese e nell’ottobre dello stesso anno, grazie a un accordo con i democratici, fu eletto nel consiglio provinciale di Milano. Nel novembre del 1890 rilevò da Ghisleri la proprietà di Cuore e critica, trasferendone la redazione a Milano e mutandone la testata in Critica sociale, il cui primo numero uscì il 15 gennaio 1891. Delegato nell’agosto dello stesso anno al congresso internazionale socialista di Bruxelles, un anno dopo, a Genova, Turati fu tra i fondatori del Partito dei lavoratori italiani, che nel 1896 prese il nome di Partito socialista italiano (PSI), sostenendo parimenti la necessità della separazione dagli anarchici e dell’autonomia politica rispetto a radicali e democratici. Nel 1893 guidò la delegazione socialista al congresso della II Internazionale, dove conobbe Friedrich Engels e, nello stesso anno, al congresso socialista di Reggio nell’Emilia, elaborò il cosiddetto «programma minimo». Eletto deputato, nel 1896, del V collegio di Milano, fu arrestato il 9 maggio 1898 durante i moti scoppiati a causa dell’aumento del prezzo del pane, repressi nel sangue dal generale Fiorenzo Bava Beccaris. Nonostante Turati avesse tentato di placare l’animo dei manifestanti, il 1° agosto fu condannato da un tribunale militare a dodici anni di reclusione con l’accusa di «incitamento alla guerra civile». Decaduto da deputato e detenuto nel carcere di Pallanza, il 26 marzo 1899 fu rieletto, nelle elezioni suppletive, con 4364 voti su 4436 votanti. Dichiarato ineleggibile in quanto detenuto, fu liberato il 4 giugno grazie a un indulto e nuovamente rieletto il 13 agosto, in tempo per condurre la battaglia ostruzionistica contro le leggi Pelloux.
Dopo la vittoria della frazione riformista al VI Congresso nazionale del PSI tenutosi a Roma dall’8 all’11 settembre 1900, che sancì anche l’autonomia dei gruppi parlamentari rispetto alla Direzione, Turati chiarì gradualmente anche il suo pensiero, influenzato dalla contemporanea diffusione delle tesi di Eduard Bernstein, nella ribadita convinzione della validità del gradualismo come metodo e della «pressione degli interessi proletari sulla politica generale dello Stato» (Il Partito socialista e l’attuale momento politico, in Critica sociale, 16 luglio 1901, pp. 209-215) come prassi, ma anche riaffermando, come fece al successivo Congresso di Imola (6-9 settembre 1902), che il riformismo non stava a indicare la pura ricerca filantropica della riforma per la riforma, bensì «la riforma conquistata per via della lotta di classe, che non è fine a se stessa, ma tappa verso la costruzione della società socialista» (Le vie maestre del socialismo, a cura di R. Mondolfo, 1921, pp. 37-48).
Nel frattempo, il 17 luglio 1901, era avvenuta, nella sezione di Milano, una scissione tra riformisti e intransigenti dopo la presentazione di un ordine del giorno Turati con cui si sosteneva l’appoggio concesso dal PSI al nuovo ministero Zanardelli-Giolitti. Tale appoggio non andava però considerato come illimitato: l’11 giugno 1902 lo stesso Turati pronunciò infatti alla Camera un discorso critico nei confronti dell’esecutivo, cui rimproverava le «tante promesse mancate, le libertà lesinate» (Discorsi parlamentari, 1950, I, pp. 179-192) e il 25 marzo dell’anno seguente il gruppo parlamentare socialista approvava un documento in cui si accusava il governo di rinviare le riforme, costringendolo di lì a poco alle dimissioni.
Sconfitto al Congresso di Bologna (8-11 aprile 1904) da un ordine del giorno di Enrico Ferri, appoggiato dai sindacalisti rivoluzionari di Arturo Labriola, Turati tornò in maggioranza al successivo Congresso di Roma (7-10 ottobre 1906), confluendo sulla mozione ‘integralista’ di Ferri e Morgari. Il X Congresso nazionale del PSI, svoltosi a Firenze nell’ottobre del 1908, vide poi la vittoria dei soli riformisti, la cui dialettica interna restava comunque articolata: le conseguenze furono evidenti all’XI Congresso nazionale del PSI (Milano, 21-25 ottobre 1910), quando i riformisti ottennero una nuova vittoria su un ordine del giorno presentato da Turati, ma durante il quale emersero le divergenze tra il gradualismo turatiano, in cui la tattica restava comunque subordinata alla lotta di classe, e le posizioni di Leonida Bissolati (che si dimise perciò dalla direzione dell’Avanti!). Alla fine dell’anno, il gruppo parlamentare socialista decise quindi di passare all’opposizione, togliendo la fiducia al governo Luzzatti sulla questione dell’allargamento del suffragio, e decidendo invece di sostenere Giolitti, che si era pronunciato per l’estensione del diritto di voto anche agli analfabeti. La fiducia nel liberalismo giolittiano e nella sua capacità di favorire una trasformazione democratica della società italiana venne però meno al momento della guerra di Libia, anche per le ripercussioni all’interno del PSI, con l’espulsione di Bissolati, Ivanoe Bonomi e Angiolo Cabrini, sancita, contro il parere di Turati, da un ordine del giorno presentato da Benito Mussolini al Congresso di Reggio nell’Emilia del luglio del 1912 che vide quindi il prevalere della corrente rivoluzionaria.
Al momento dello scoppio della prima guerra mondiale, e del successivo ingresso dell’Italia nel conflitto, Turati accettò di fatto la formula («né aderire, né sabotare») coniata dal segretario del partito, Costantino Lazzari, nel difficile tentativo di tenere unito il partito, difendere il Parlamento e mantenere un rapporto tra socialismo e nazione, evidente già nel manifesto, stilato il 21 settembre 1914 da Camillo Prampolini, Turati e Mussolini (un mese prima dell’uscita di fatto di quest’ultimo dal PSI).
Ciò spiega anche la fiducia nutrita da Turati, fin quasi all’ultimo, nella possibile formazione di un governo Giolitti che riuscisse a mantenere l’Italia neutrale e, d’altro canto, la sua ostilità alla proclamazione dello sciopero generale in caso di intervento. Le dimissioni e il successivo reincarico ad Antonio Salandra, con il cedimento di Giolitti, non poterono quindi essere giudicate diversamente da un vero e proprio tradimento: nel suo discorso alla Camera del 20 maggio, Turati riprese le sue critiche, ma cercò, ancora una volta, di non fermarsi alle polemiche e di parlare alla nazione, sia ribadendo la concezione che della neutralità avevano i socialisti (diversa dal ‘parecchio’ giolittiano, ma anche dal ‘sacro egoismo’ di Salandra), sia delineando l’ipotesi di una politica estera ‘democratica’ che non aveva avuto successo, ma che si sarebbe riproposta alla fine del conflitto (Discorsi parlamentari, cit., II, pp. 1365-1370). Soprattutto, si sforzò di far uscire il socialismo italiano dall’isolamento in cui era venuto a trovarsi, difendendo le conquiste di anni di lotta, esaltando gli ideali di fratellanza e solidarietà tipici del socialismo umanitario e proponendo un ruolo concreto, di assistenza alle famiglie dei richiamati, per i Comuni amministrati dai socialisti.
Nel corso della guerra Turati si batté quindi per tutelare i diritti degli internati, criticando la censura e chiedendo un aumento dell’indennità per i richiamati alle armi e per le loro famiglie, dando ai Comuni le risorse necessarie per provvedere ai compiti di assistenza. Di fronte alle notizie provenienti dalla Russia, Turati commemorò le vittime della rivoluzione di febbraio, «così formidabile da ricordarci la Rivoluzione francese», esprimendo l’auspicio di un suo trionfo pacifico (Noi, Primavera di rivoluzione, in Critica sociale, 16 marzo 1917, pp. 81-83). Ma già nel discorso che tenne il 12 agosto successivo nell’aula del consiglio comunale di Milano (ibid., 16-31 agosto 1917, pp. 210-213) in onore della delegazione sovietica giunta in quei giorni in Italia si avvertì l’eco della cautela cui lo inducevano la Kuliscioff e le notizie dei contemporanei moti operai di Torino, riconoscendo il significato della rivoluzione nell’abbattimento dello zarismo, ma limitandone il valore come modello al di fuori dei confini russi. Dopo la rotta di Caporetto, il 22 dicembre 1917 presentò un ordine del giorno di condanna dell’operato del governo Boselli, definendolo «un disastro [...], la cui responsabilità è esclusivamente militare» (Discorsi parlamentari, cit., III, pp. 1536-1542).
Nei confronti del nuovo governo Orlando, pur protestando contro la violazione delle libertà costituzionali (Lazzari e Nicola Bombacci, rispettivamente il segretario del PSI e il suo vice, erano stati arrestati e l’Avanti! sottoposto a continui sequestri), il leader riformista intervenne il 23 febbraio 1918, riprendendone la parola d’ordine ‘Il Grappa è la nostra patria’, per poi aggiungere: «Ma la patria si serve ciascuno secondo i propri ideali e la propria coscienza; e la coscienza nostra la sapremo difendere anche noi, fino alla morte!» (pp. 1548-1558).
Pochi mesi dopo, il 12 giugno, Turati pronunciò un appello alla concordia nazionale, applaudito da tutta la Camera (pp. 1559-1572), ma criticato dalla direzione massimalista del PSI, che uscì vincitrice anche dal congresso nazionale tenutosi a Roma nel settembre 1918 e da quello successivo di Bologna dell’ottobre 1919 e verso la quale i dissensi di Turati andarono crescendo, soprattutto a proposito del giudizio verso la rivoluzione bolscevica.
Critico sugli esiti della conferenza di Versailles (nonostante le iniziali simpatie per il presidente americano Woodrow Wilson), definita il 14 luglio 1919, motivando il voto contrario dei socialisti nei confronti del governo Nitti, come una «pace di guerra» (pp. 1620-1623), Turati deplorò anche l’occupazione dannunziana di Fiume, auspicando, nel suo discorso di fine legislatura, il 28 settembre 1919, l’avvento di un’Italia «amica entro sé, amica coi vicini, che non sperperi se stessa in militarismo e in violenze» (pp. 1714-1727).
Le elezioni politiche del 16 novembre 1919, le prime con il sistema proporzionale, per la cui introduzione Turati si era battuto con forza, videro un notevole successo dei socialisti, che passarono da 53 a 156 deputati. La grave situazione economica e sociale del Paese impensieriva però Turati, che il 17 febbraio 1920 scriveva alla Kuliscioff: «Quanto sarebbe prezioso per noi questo momento storico e quale delitto politico vi sia nel vivere così alla deriva, fra una rivoluzione che non si fa e una riforma che non si tenta, gli uni cercando l’alibi negli altri per giustificare il proprio nullismo, e viceversa» (Turati - Kuliscioff, 1977, V, p. 330). Formando il suo quinto ministero, Giolitti interpellò peraltro Turati per ottenere l’appoggio socialista, senza però riuscirvi per la netta opposizione della maggioranza massimalista. Ciò non impedì a Turati, intervenendo alla Camera il 26 giugno 1920 sulle dichiarazioni programmatiche del nuovo governo, di esporre un proprio ampio piano di riforme economico-sociali, passato alla storia con il titolo di Rifare l’Italia (Discorsi parlamentari, cit., III, pp. 1737-1776).
Stava però giungendo a un primo redde rationem la lunga vicenda dei contrasti interni al socialismo italiano. Dal 15 al 21 gennaio 1921 si tenne a Livorno il XVII Congresso del partito. Al centro del dibattito vi furono i ventuno punti formulati nel luglio 1920 dal II Congresso dell’Internazionale comunista, la cui accettazione integrale (compresa l’espulsione dei riformisti – Turati e Giuseppe Emanuele Modigliani erano citati ad personam – e il cambiamento del nome del partito, gli unici non accettati dalla maggioranza massimalista) era stata posta come condizione per l’adesione alla stessa Internazionale: su questo terreno si verificò la scissione comunista e la contestuale nascita del Partito comunista d’Italia.
Nel discorso tenuto il 19 gennaio al congresso, Turati riaffermò il valore politico del riformismo e del gradualismo rispetto a qualsiasi forma di giacobinismo, includendo in questa definizione anche il leninismo. Per Turati, però, ciò che differenziava i riformisti dalle altre correnti del PSI non era tanto l’ideologia, ma piuttosto la valutazione sulla maturità della situazione e dei mezzi, in particolare su tre punti: il culto della violenza; la dittatura del proletariato; la coercizione del dissenso. Il suo discorso si concludeva con una vera e propria ‘profezia’, rivolta ai propri avversari interni: «Fra qualche anno il mito russo, che avete il torto di confondere con la rivoluzione russa alla quale io applaudo con tutto il cuore sarà evaporato e il bolscevismo attuale o sarà caduto o si sarà trasformato [...]. Avrete allora inteso appieno il fenomeno russo, che è uno dei più grandi fatti della storia, ma di cui voi farneticate la riproduzione meccanica e mimetica, che è storicamente e psicologicamente impossibile, e, se possibile fosse, ci ricondurrebbe al Medio Evo. Avrete capito allora, intelligenti come siete, che la forza del bolscevismo russo è nel peculiare nazionalismo che vi sta sotto, nazionalismo che del resto avrà una grande influenza nella storia del mondo, come opposizione ai congiurati imperialismi dell’Intesa e dell’America, ma che è pur sempre una forma di imperialismo» (Le vie maestre del socialismo, a cura di R. Mondolfo, 1921, pp. 301-315).
Le successive elezioni del 15 maggio (nelle quali i socialisti ridussero la propria rappresentanza a 122 deputati, mentre i comunisti ne ottennero 16) videro l’ingresso in Parlamento anche di 35 deputati fascisti, tra i quali Mussolini, eletti nei ‘blocchi nazionali’. Di fronte alle crescenti violenze fasciste, fin dal novembre 1920 (assalto a palazzo d’Accursio, sede del Comune di Bologna) Turati aveva chiesto il ripristino della legalità e il disarmo delle milizie armate (Discorsi parlamentari, cit., III, pp. 1787-1791). Il 24 giugno, rispondendo al discorso della Corona, Turati tracciò quindi un quadro fosco delle condizioni del Paese, denunciando esplicitamente la soppressione dello Stato di diritto (pp. 1821-1838). Nei mesi successivi l’azione di Turati si indirizzò quindi a trovare, senza riuscirvi, una soluzione politica che garantisse sia l’unità di ciò che restava del PSI, sia la formazione di un governo che contrastasse seriamente la violenza fascista: a questo fine il 29 luglio 1922 partecipò alle consultazioni dopo le dimissioni del primo governo Facta, recandosi dal re per chiedere il ristabilimento delle libertà previste dallo Statuto e, il giorno seguente, appoggiò lo sciopero generale ‘legalitario’.
Agli inizi di ottobre, pochi giorni prima della marcia su Roma, al XIX Congresso del PSI tenutosi a Roma, prevalse però ancora, sia pure di stretta misura, la mozione massimalista, che prevedeva l’espulsione dei riformisti, i quali fondarono il Partito socialista unitario (PSU, cui aderì lo stesso Turati), eleggendo come segretario Giacomo Matteotti. Il 17 novembre Turati prese la parola alla Camera, durante la presentazione del nuovo governo Mussolini, sottolineando i rischi della rottura istituzionale che si era verificata: «Oggi, da che la nuova “istoria” è cominciata, non è più il governo che si presenta alla Camera, è la Camera che è chiamata a presentarsi al governo e a dare essa l’esame, per vedere se meriti o no di essere bocciata» (Il bivacco fascista alla Camera, in Critica sociale, 15-30 novembre 1922, pp. 339-349). Alle elezioni politiche del 6 aprile 1924 (si votò con la legge Acerbo, contro la cui introduzione Turati intervenne in aula il 15 luglio 1923: cfr. Il fascismo e la riforma elettorale e politica, ibid., 16-31 luglio 1923, pp. 211-217) il PSU ottenne il 5,9% dei voti e 24 deputati. Il sequestro e l’assassinio di Matteotti videro Turati in prima linea, fin dalla commemorazione del segretario socialista tenuta il 27 giugno 1924 in un’aula di Montecitorio (Discorsi parlamentari, cit., III, pp. 1944-1953), alla fine della quale si decise il ritiro delle opposizioni dal Parlamento. Il mancato intervento del re e il fallimento dell’‘Aventino’ (delle cui speranze, incertezze e debolezze è testimonianza fondamentale l’epistolario con la Kuliscioff) aprirono la strada alla reazione di Mussolini e, dopo il fallimento dell’attentato Zaniboni, all’instaurarsi della dittatura: il 6 novembre 1925 anche il PSU veniva sciolto e così il suo quotidiano, La Giustizia.
I funerali di Anna Kuliscioff, morta a Milano il 29 dicembre, furono l’ultima occasione per una manifestazione pubblica socialista, peraltro anch’essa oggetto di violenza da parte fascista e della stessa polizia. Ormai anziano, solo e sconfitto, Turati si decise comunque ad affrontare la via dell’esilio, soprattutto per l’insistenza dei suoi compagni che, grazie all’aiuto di Riccardo Bauer, Ferruccio Parri e Carlo Rosselli, il 21 novembre 1926 riuscirono a farlo fuggire dall’abitazione di Portici Galleria 23. Dopo alcuni giorni di permanenza nella casa di Ettore Albini, critico teatrale dell’Avanti!, a Caronno Ghiringhello, vicino a Varese e successivamente a Ivrea presso Adriano Olivetti e a Torino dal professore Giuseppe Levi, l’11 dicembre Turati salpò da Savona su un’imbarcazione, procurata da Sandro Pertini e condotta da Italo Oxilia e Lorenzo Da Bove, per approdare dodici ore dopo a Calvi, sulle coste della Corsica e da lì a Parigi. Al successivo processo di Savona fu condannato in contumacia a dieci mesi di arresto.
Nell’esilio francese (dove si trovava ormai la maggior parte del gruppo dirigente socialista) Turati riprese immediatamente a lavorare, scrivendo il manifesto della Concentrazione antifascista, costituitasi il 28 marzo 1927 e tentando di mettere in guardia l’opinione pubblica francese e internazionale sul fatto che il fascismo italiano precorresse una possibile diffusione di regimi autoritari nel continente (cfr. Schiavi, 1956, pp. 55-59). Nell’aprile del 1928 scriveva quindi un saggio, significativamente intitolato Ciò che l’Italia insegna, in cui indicava la stretta relazione tra prima guerra mondiale, origini del fascismo e crisi della democrazia e degli istituti parlamentari: «Il fascismo non sarebbe stato né possibile né concepibile senza il precedente della grande guerra; ciò per un coacervo di ragioni politiche, economiche, psicologiche» (p. 123). Il 7 agosto dello stesso anno intervenne al Congresso socialista internazionale di Bruxelles durante la Giornata delle nazioni oppresse, svolgendo un duro atto di accusa contro il fascismo (individuandone anche le caratteristiche di modernità), ma anche contro il bolscevismo e indicando, come antitesi a entrambi, la ‘democrazia socialista’, fondata su libertà e autonomia (pp. 192-198).
Nel maggio 1929 iniziò le pubblicazioni, in lingua francese, il bollettino quindicinale Italia, diretto sempre da Turati, che il 20 dicembre vi pubblicò, prendendo spunto dal progetto Briand, l’articolo Gli Stati Uniti d’Europa e il fascismo: «Da secoli, l’idea degli Stati Uniti d’Europa è l’aspirazione suprema di tutte le democrazie [...]. Il ricordo degli orrori e delle delusioni dell’ultima guerra, la previsione certa che una nuova guerra “scientifica” sarebbe la distruzione di intere nazioni e il suicidio della nostra civiltà, la preminenza e il predominio economico ognor crescente degli Stati Uniti d’America [...] fanno della Federazione Europea una questione di vita o di morte per noi» (pp. 339-342). Sostenitore della riunificazione tra riformisti e massimalisti (avvenuta nel luglio 1930 al Congresso di Parigi), il 25 settembre 1930 Turati testimoniò davanti alla corte d’assise del Brabante a discarico di Fernando De Rosa che l’anno precedente aveva attentato alla vita del principe ereditario Umberto di Savoia e, poche settimane dopo, il 27 novembre, comparve davanti alla corte federale di Lugano intervenendo a favore di Giovanni Bassanesi, accusato, insieme con Carlo Rosselli e Alberto Tarchiani, di aver organizzato, l’11 luglio 1930, un volo non autorizzato su Milano diffondendo materiale antifascista.
Gli ultimi mesi della sua vita furono dedicati al proseguimento di questa instancabile attività, nonostante le condizioni di salute e le difficoltà morali e materiali in cui si trovava. Nel luglio del 1931 partecipò quindi al Congresso di Vienna dell’Internazionale socialista, dove pronunciò un appassionato discorso di denuncia dello stretto rapporto esistente tra fascismo e guerra: «“Il fascismo è la guerra”. Mi sarebbe facile dimostrare che anche le cause profonde della crisi tedesca si connettono strettamente alle cause della guerra, e quindi al fascismo [...]. Dodici anni dopo la guerra l’Europa vive ancora sotto l’incubo angoscioso della guerra. Il timore della guerra si libra sopra il mondo e arroventa la febbre degli armamenti» (p. 465).
Il 29 marzo 1932 morì a Parigi, nella casa di boulevard Ornano 8 della famiglia di Bruno Buozzi di cui era da tempo ospite, per le conseguenze di una broncopolmonite.
Dopo gli imponenti funerali, fu sepolto al Père-Lachaise. L’11 ottobre 1948 i suoi resti, insieme a quelli di Claudio Treves, furono traslati al cimitero Monumentale di Milano.
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