FILIPPO V di Macedonia
Figlio di Demetrio II detto l'Etolico e di Criseide, probabilmente una nobile macedone, nacque circa il 237 a. C. Quando nel 229, morto il padre in battaglia, avrebbe dovuto succedergli, non era che un bambino, e perciò assunse la tutela il cugino del padre, Antigono Dosone, figlio di Demetrio detto il Bello. Le condizioni della Macedonia, circondata da nemici, erano gravissime. Tuttavia Antigono riuscì presto ad assicurare l'incolumità dello stato, e assunse titolo di re sposando la vedova di Demetrio, Criseide, e adottando come figlio e successore F. Morto Antigono nel 221-20, F. diciassettenne fu proclamato re.
Trovava la Macedonia restaurata dal valore e dall'ingegno di Antigono, e a capo di una grande simmachia ellenica di cui faceva parte, con la Tessaglia, l'Eubea, l'Epiro, l'Acarnania, la Beozia, la Focide, anche la potente Lega achea. Sparta stessa dopo la battaglia di Sellasia (222) aveva fatto adesione alla simmachia. Impedire che nella simmachia agissero le forze disgregatrici, mantenere la concordia fra gli alleati che Antigono aveva saputo riunire, allargare la simmachia stessa agli stati greci che le erano rimasti estranei, questo doveva essere il primo compito di F. Ma richiedeva esperienza superiore a quella che il giovanetto allora possedesse. Scoppiarono subito disordini a Sparta, e il re, il quale s'era recato con forze nel Peloponneso, fu dal massimo politico acheo Arato dissuaso dall'intervenire energicamente, facendo sentire a Sparta il predominio della Macedonia. Infatti Arato temeva che il predominio macedonico, rinsaldatosi a Sparta, divenisse troppo oppressivo per gli Achei. Accettando il consiglio, che gl'impedì l'intervento nel momento opportuno, F. allontanatosi dovette lasciare che Sparta, staccandosi dalla simmachia aderisse agli Etoli. Così il massimo successo raggiunto da Antigono Dosone fu annullato, e Sparta, tornata potenza indipendente, minò sempre da allora in poi, come aveva fatto prima di Sellasia, l'unità peloponnesiaca, e rese l'alleanza degli Achei un peso morto per la Macedonia. Subito dopo, istigato dagli Achei, i cui maggiori uomini politici avevano saputo assicurarsi molto ascendente su di lui, iniziò la grande guerra contro la Lega etolica, che fu detta guerra sociale degli Achei. Occasione appunto ne era stata la rivalità fra le due maggiori leghe elleniche e l'opera svolta dagli Etoli nel Peloponneso a danno dell'Acaia. Condotta con energia e con abilità di direttive politico-militari, questa guerra poteva portare a grandi successi e preparare anche l'unificazione della Grecia. Né a F. mancò l'energia. Mancò la genialità di stratego. Per le inutili spedizioni punitive, come quella a Termo, la capitale federale dell'Etolia, per le marce e contromarce con cui accorreva a difesa di posti minacciati, per la mancanza d'un vero piano di guerra, egli, pur guadagnando terreno sia nel Peloponneso ove tolse agli Etoli i loro possessi arcadici e agli Elei la Trifilia, sia in Tessaglia ove conquistò Tebe Ftie, sia ai confini dell'Etolia ove occupò Ambraco ed Eniade, sia nello Ionio ove occupò Zacinto, non ottenne nessun successo rilevante, come avrebbe potuto essere una grande vittoria campale o anche l'occupazione di Ambracia, Lamia o Eraclea. Nel 217 tutti erano stanchi e si venne a una pace sulla base dell'uti possidetis. Così era andata perduta l'ultima occasione che si ebbe di unificare la Grecia prima dell'intervento romano.
Le preoccupazioni suscitate dagli avvenimenti che si svolgevano in Occidente non erano state estranee alla deliberazione di far pace. Roma che aveva ridotto a unità tutta l'Italia a sud di Pisa e di Rimini, conquistata gran parte della Sicilia, ridotta a provincia la Sardegna, stabilito il suo predominio nell'Italia settentrionale fino alle Alpi, era allora impegnata in una lotta mortale contro Cartagine, e appunto nel 217 Annibale riportava la sua grande vittoria del Trasimeno, dopo avere sconfitto l'anno avanti i Romani alla Trebbia. Quanto fosse pericolosa la potenza romana anche per la Macedonia, tutti avevano avuto agio di misurare dalle due spedizioni illiriche del 229 e 219, mercé le quali i Romani con uno sforzo minimo erano riusciti ad assicurarsi il possesso di Corcira e quello di Apollonia e Durazzo che costituivano un'eccellente testa di ponte oltre il Canale d'Otranto, e il predominio nell'Illiria meridionale. Intervenire perciò nella grande guerra, che si combatteva tra Roma e Cartagine, poté parere a Filippo indispensabile nell'interesse della Macedonia. E sarebbe stato di fatto indispensabile, ma anche più indispensabile era che si attuassero prima le condizioni senza le quali tale intervento non poteva riuscire efficace, cioè l'unificazione della Grecia, senza la quale i Romani sarebbero stati sicuri di trovarvi importanti alleati contro F., e la costruzione d'una poderosa armata navale che gli permettesse di proteggere le sponde greche ed eventualmente d'intervenire senza troppo rischio in Italia. Ma solo l'esperienza mostrò a F. quanto tale armata fosse necessaria. Nel 216 con una flottiglia di piccole navi da guerra (lembi) mosse verso la costa illirica credendo di poter profittare dello sforzo che i Romani dovevano fare contro Annibale per ricuperare il predominio della regione illirica. Ma bastò che i Romani si movessero da Reggio con dieci quinqueremi percné F., che non si teneva in grado di affrontare coi suoi lembi le grandi navi da battaglia, si ritirasse precipitosamente. Non molto dopo (agosto 216) i Romani toccarono la terribile sconfitta di Canne, e la ribellione contro di essi dilagò nell'Italia Meridionale. F. parve decidersi a entrare risolutamente nella lotta e iniziò trattative per un accordo con Annibale. Queste trattative si protrassero a lungo e finirono con un accordo nel quale i due contraenti delineavano abbastanza nettamente le rispettive sfere d'influenza, ma non prendevano nessun preciso impegno intorno alle modalità dei soccorsi scambievoli. La ragione era che Filippo senza un'armata navale e circondato nella Grecia stessa da avversarî non si sentiva di poter prendere accordi precisi circa un intervento in Italia. Annibale alla sua volta sapeva di non avere autorità sufficiente in Cartagine per impegnare i Cartaginesi ad assicurare a F. quegli aiuti navali che avrebbero potuto egualmente giovargli, se la guerra fosse stata portata in Grecia, e facilitargli in caso contrario il passaggio in Italia. E tutto ciò si comprende. Ma è assai dubbio se nella guerra aperta in queste condizioni da F. i vantaggi ragionevolmente sperabili potevano compensare i rischi. A tali rischi per allora il re non pensava. Nel 215, intervenuto in Messene a favore del partito popolare in lotta con gli oligarchici e lasciatosi poi persuadere da Arato a uscire dalla città senza profittare del suo intervento per assicurargli saldamente il suo dominio, vide presto seguire anche qui quello che era seguito a Sparta per essersi attenuto ai consigli d'Arato, il quale naturalmente dava consigli affatto contrarî all'interesse della Macedonia; cioè, essendosi F. guastato in Messene con tutti i partiti, la città aderì alla Lega etolica e fu vano, come per Sparta, il tentativo di ricuperarla (213). Frattanto un nuovo intervento nell'Illiria fatto con una flotta di lembi dal re non ammonito a sufficienza dall'esempio del 217, terminò in modo anche più inglorioso. Mentre il re assediava Apollonia, sopravvenne con una squadra di quinqueremi e con poche forze da sbarco M. Valerio Levino; e il re, tolto l'assedio e bruciati i suoi lembi perché non cadessero nelle mani del nemico, si ritirò precipitosamente attraverso i monti nella Macedonia. Egli non aveva saputo profittare del momento utile per prendere sul serio l'iniziativa strategica, né aveva soccorso la metropoli dell'ellenismo occidentale, Siracusa, che dopo una gloriosa resistenza cadde nel 211 in mano dei Romani. I quali, caduta anche Capua, sventato ogni pericolo d'offensiva per parte d'Annibale, furono in grado di prendere anche in Grecia quell'iniziativa strategica che F. pareva avesse voluto lasciare a essi. La guerra fu iniziata da M. Valerio Levino mediante un'alleanza con gli Etoli, alla quale partecipò, con gli amici degli Etoli nel Peloponneso, l'Elide, Messene e Sparta, anche il re di Pergamo Attalo I. Così F. si trovò assalito da una coalizione, che anche senza l'aiuto romano era capace di tenergli testa. Seguirono quattro anni (210-208) di lotta accanita che i Romani condussero con pochissime forze e valendosi soprattutto delle forze dei loro alleati. Filippo resisté energicamente e compensò le perdite non lievi, quella p. es. di Egina, che conquistata dai Romani sugli Achei passò agli Etoli e fu da questi ceduta ad Attalo, e quella di Zacinto, che fu però più tardi ricuperata; nell'insieme tenne testa abbastanza felicemente ai nemici e strappò loro terreno, particolarmente in Tessaglia (Farsalo) e al confine illirico. I Romani, i quali nel 210 erano penetrati nell'Egeo, finirono con lo stancarsi della lotta che aveva raggiunto più che a sufficienza lo scopo di tenere F. lontano da un intervento nell'Occidente, e nel 208-7 ritirarono le loro forze dai mari greci. Si stancò anche Attalo richiamato in patria dagl'interessi del regno pergameno. Gli Etoli lasciati a sé finirono col concludere con F., che aveva invaso l'Etolia e messo nuovamente a sacco Termo, una pace separata la quale lasciava a F. tutti i vantaggi da lui conseguiti. Questa pace costrinse i Romani a un nuovo intervento che però non aveva lo scopo di riprendere a fondo la guerra, ma solo di concludere col re l'accordo che gl'impedisse di soccorrere in qualsiasi modo Annibale con cui essi erano sul punto d'impegnare la partita decisiva. L'accordo fu facilmente concluso, lasciando ai Romani Corcira, Apollonia e Durazzo e a F. i vantaggi da lui conseguiti in Grecia e parte almeno di quelli, non molto importanti del resto, conseguiti nell'Illiria meridionale. Trattato in apparenza favorevole a F. il quale usciva onorevolmente da una guerra con un nemico così terribile come i Romani, in realtà sfavorevolissimo a lui perché i Romani erano sul punto di chiudere vittoriosamente la loro guerra con Cartagine e avrebbero potuto riprendere, quando e come fosse loro piaciuto, quella partita con Filippo che avrebbe potuto essere per loro durante la seconda punica assai pericolosa e che si era risoluta nel nulla. A ogni modo, occupati pel momento i Romani nel porre termine alla guerra d'Annibale, F. aveva le mani libere nell'Oriente ellenico. Già durante gli ultimi anni della guerra con Roma, avvedutosi del vantaggio che i Romani traevano dalla supremazia navale, aveva posto mano alla costruzione di una flotta di grandi navi da guerra. Di questa egli profittò per cercare di assicurarsi la supremazia dell'Egeo, quando la morte di Tolomeo IV Filopatore e la successione del fanciullo Tolomeo V Epifane indebolì l'Egitto, che aveva avuto fino allora il predominio in quel mare. Antioco III di Siria e Filippo di Macedonia si allearono per muovere guerra, senza alcun pretesto ragionevole, contro il giovane re per strappargli tutti i suoi possessi oltre i confini dell'Egitto. Filippo si riservava l'Egeo e la Cirenaica, Antioco la Celesiria. Nel 202 F. iniziò la guerra nella regione ellespontica conquistando Lisimachia, Calcedone, Cio e Perinto e inimicandosi perciò i Rodî e i Bisanzî cui stava a cuore la libertà degli stretti della Propontide. Nel 201 poi attaccò a fondo i possessi tolemaici dell'Egeo, impadronendosi prima di tutto di quello che ne era come il centro, Samo. Contro di lui si allearono i Rodî col suo vecchio nemico Attalo di Pergamo intimorito dai suoi progressi in Asia. Vinti i Rodî a Lade, il re pose l'assedio a Chio, ma dalla flotta riunita dei Pergameni e dei Rodî fu costretto a togliere l'assedio e ad accettare una battaglia in cui subì danni gravissimi. Ripiegò nella Caria, dove acquistò terreno sopra i Tolomei e su Rodi, e di lì, ingannando la sorveglianza della flotta rodia, riuscì a tornare in Macedonia verso il termine del 201.
Ma intanto i Romani avevano vinto Annibale nella decisiva battaglia di Naraggara e concluso, nella primavera del 201, la pace con Cartagine, e non erano disposti a tollerare che il loro antico avversario accrescesse troppo la sua potenza in Oriente. Sebbene sulle prime i comizî rifiutassero la rogazione per dichiarargli la guerra, presto i Romani ebbero un pretesto tale d'intervento che le esitazioni dei comizî furono vinte. L'uccisione perpetrata dagli Ateniesi di due Acarnani, che avevano sacrilegamente assistito alla celebrazione dei misteri, provocò una devastazione dell'Attica per parte di Macedoni e Acamani. In conseguenza gli Ateniesi aizzati da Attalo, dai Rodî e da ambasciatori romani, dichiararono a F. la guerra, e non molto dopo la dichiararono anche i Romani che nel trattato di Fenice avevano pattuito con F. l'incolumità del territorio di Atene. F. ancora nel 200, prima della dichiarazione di guerra romana, occupò le piazze che rimanevano a Tolomeo nella Tracia meridionale e poi assediò sulla sponda asiatica dell'Ellesponto l'importante fortezza di Abido, che prese dopo lungo assedio, facendo poi malgoverno della città e degli abitanti, nonostante l'intervento minaccioso dell'ambasciata romana. Poi tornò in Macedonia. Già infatti nell'autunno del 200 il console P. Sulpicio Galba, con due legioni, era sbarcato ad Apollonia nelle cui vicinanze prese i quartieri d'inverno. Nel 199 Galba penetrò con le sue legioni nell'interno della Macedonia devastandola, e senza che F. potesse dargli battaglia campale, riportò sui Macedoni due notevoli successi, e tornò indisturbato alla sua base. Questa dimostrazione palese della schiacciante superiorità militare dei Romani, indusse gli Etoli a rinnovare la loro guerra con F. e gli Achei a perseverare nella loro neutralità, che si faceva sempre più benevola per Roma e malevola per il loro alleato F. Le cose precipitarono l'anno seguente quando, dopo il brevissimo comando del console del 199, P. Villio Tappulo, assunse il comando delle legioni, nell'estate del 198, il console di quell'anno T. Quinzio Flaminino. F., che, ammonito dai danni morali e materiali derivati dall'invasione romana in Macedonia, fronteggiava questa volta i Romani, non lontano dai loro quartieri d'inverno a nord dell'Epiro ai passi dell'Aoo, toccò quivi una prima grave sconfitta da Flaminino, che rese questo padrone di buona parte della Grecia centrale. Una dimostrazione contro Corinto, che egli fece sulla fine della campagna di quell'anno, indusse gli Achei, che temevano di veder cadere in mano dei Romani questa città, che essi avevano assai a malincuore ceduta ad Antigono Dosone, a rompere l'alleanza con la Macedonia per entrare nell'alleanza romana. La battaglia decisiva avvenne nel 197 in Tessaglia presso Cinoscefale (v.). F., totalmente sconfitto dai Romani, sostenuti da un buon nerbo d'alleati greci, fra cui primeggiavano per numero e per valore gli Etoli, chiese pace, e l'ottenne, lasciando libera tutta la Grecia, rinunziando a tutti i suoi possessi asiatici, distruggendo la sua nuova flotta da guerra a eccezione di cinque navi. Data l'immensa sproporzione delle forze tra la Macedonia, quasi per nulla sostenuta dagli alleati greci, e Roma, vincitrice di Cartagine, aiutata anche in Grecia da numerosi e bellicosi alleati, questo risultato era inevitabile; ma contribuì ad affrettarlo e a renderlo più facile ai Romani F. stesso, con la sua insufficiente capacità di stratego rivelatasi nell'infelice difensiva in Macedonia non meno che nella disastrosa offensiva in Tessaglia. Gli sforzi fatti così da F. come dai suoi predecessori per l'unificazione della Grecia sotto l'egemonia macedonica rimanevano interamente annullati. Ma F. non perdette ogni speranza di poterli riprendere. Il malcontento fermentava infatti in Grecia contro i Romani e specialmente fra gli Etoli che dalla guerra cui avevano partecipato con grande energia speravano maggiori guadagni. Assicuratisi gli Etoli l'appoggio di Antioco il Grande re di Siria, che aveva ristabilito il proprio dominio sull'Asia seleucidica, le ostilita s'iniziarono nel 192. Uno dei primi atti fu l'occupazione per parte degli Etoli di Demetriade, il porto della Tessaglia. Era un notevole successo perché assicurava le comunicazioni marittime con Antioco, ma era un successo pericoloso, perché al ricupero di Demetriade aspirava, per ovvie ragioni, F., che in quella piazza fondata da un suo antenato aveva avuto uno dei suoi maggiori arsenali. Questo alienò l'animo di F. dagli Etoli che del resto egli aveva sempre odiato come accaniti avversarî della sua egemonia. Quando poi, verso l'autunno del 192, Antioco sbarcato in Grecia invase con gli Etoli la Tessaglia, F. si strinse risolutamente coi Romani non già perché, come dice la tradizione, egli riputasse ingiuriosa per lui la sepoltura onorevole data da Antioco alle reliquie insepolte dei Macedoni caduti a Cinoscefale, ma perché l'occupazione etolica della Tessaglia gli toglieva ogni speranza di avvantaggiarsi territorialmente da una guerra contro Roma e l'alleanza degli Etoli con Antioco gl'impediva di servirsi di questa guerra per preparare il ricupero dell'egemonia macedonica sulla Grecia. E poiché le contingenze gli rendevano difficile e pericolosa la neutralità e d'altronde solo combattendo poteva sperare di riguadagnare qualcosa di ciò che aveva perduto, si alleò risolutamente con Roma. Così i Romani, i quali poterono senza fatica né pericolo trasportare le loro forze attraverso i monti della Macedonia, trovarono nella Tessaglia un'ottima base per la guerra contro gli Etoli e contro Antioco. E questo fu d'importanza decisiva nella loro vittoria. Già sulla fine del 192 l'intervento d'un piccolo corpo romano scortato da F. attraverso la Macedonia, permise di arrestare i progressi di Antioco. Nell'anno seguente poi F. e i Romani strapparono intera la Tessaglia al nemico mentre Antioco si limitava a difendere le Termopili dove toccò una sconfitta che lo costrinse a ripiegare in Asia, e gli Etoli si difendevano a stento contro il console Manio Acilio Glabrione. F., che già aveva occupato l'Atamania e altre regioni vicine, otteneva la resa di Demetriade e della lega magnetica. L'Atamania e qualche altra parte delle nuove conquiste andarono perdute per F. l'anno seguente, 190, quando egli dovette combattere da solo gli Etoli, avendo Lucio Scipione condotto in Asia le forze romane che erano in Grecia. Ma quando la guerra tra Etoli e Romani si chiuse con la resa di Ambracia nel 189, F. conservava ancora buona parte delle sue conquiste tessaliche. La vittoria poi dei Romani su Antioco, alla quale egli aveva notevolmente contribuito facilitando il passaggio di L. Scipione nell'Asia attraverso la Macedonia e la Tracia, gli permise di occupare le città greche di Eno e Maronea, sulla sponda settentrionale dell'Egeo, già appartenute ad Antioco.
A questo punto parve ai Romani che fosse necessario porre un termine agl'incrementi di F. e affermare vigorosamente la loro supremazia in Grecia. A F. essi ordinarono di sgomberare tutte le sue conquiste nell'Atamania, Perrebia e Tessaglia e inoltre le città recentemente acquistate di Eno e Maronea. Alla risoluta intimazione dovette piegarsi il re, al quale delle conquiste fatte non rimase così che la Dolopia, la Magnesia con Demetriade e alcune città ftiotiche. E da questo momento si acuì il suo odio verso Roma e il suo proposito di lotta contro i Romani, che egli aveva interrotto durante la guerra di Antioco, si fece sempre più fermo. Alla preparazione di questa lotta egli dedicò tutto il rimanente della sua vita. A tal uopo egli cercò di estendere il suo dominio in Tracia e di acquistarsi l'amicizia sia di varie tribù tracie, tra cui quella più potente degli Odrisî, sia dei Bastarni, popolazione forse germanica che stanziava allora a nord del Danubio, sia degli Scordisci, tribù celtica stanziata nell'Illiria. Riordinò inoltre l'esercito macedonico e preparò con la massima cura le armi e i mezzi per la riscossa. Il pensiero della riscossa lo indusse a incrudelire non solo contro tutti quelli fra i sudditi della cui fedeltà gli pareva di dover dubitare, ma anche contro la sua stessa famiglia. Infatti dei due figli avuti da consorti diverse, Perseo e Demetrio, il minore, Demetrio, che era stato inviato a Roma, e ivi dalla nobiltà romana era stato accortamente circuito e lusingato, ne era tornato con sentimenti favorevoli ai Romani e, pare, col desiderio di soppiantare sul trono, mercé il loro aiuto, il fratello maggiore. F. non esitò per questo a metterlo a morte insieme ai suoi amici, assicurando così a Perseo l'incontrastata successione, quando egli morì nel 179.
Di alto animo, d'ingegno vivace e versatile, F. mancò di genialità come stratego, e, carattere impetuoso e fiero, mal seppe dominare la sua ira e il suo desiderio di vendetta delle offese ricevute. Ciò lo indusse ad atti d'inconsulta ferocia sia nelle sue devastazioni dell'Etolia, sia più tardi negli assalti contro Atene e dopo la presa di Abido. Questo fece ardere lo sdegno dei Greci contro di lui e facilitò il compito del combatterlo a generali romani che erano anche politici abili e assennati come Flaminino. D'altronde, salito al trono giovanissimo, la sua inesperienza gli fece commettere nel primo decennio del suo regno una serie d'errori che non riuscì più tardi a riparare. Lo danneggiò gravemente l'improntitudine con cui, parte pel proprio desiderio di dominare, parte per i consigli non disinteressati di Arato, si liberò dai provetti consiglieri e ministri che gli aveva lasciati il suo predecessore Antigono. Ambizione e diffidenza fecero poi sì che, morti Arato e Demetrio di Faro, egli si trovasse solo a dirigere politicamente e militarmente i suoi Macedoni. Su lui pertanto ricade la responsabilità dell'aver facilitato coi suoi errori ai Romani l'acquisto del predominio in Grecia. E tuttavia si deve riconoscere che egli fin dagl'inizî del suo regno avvertì la gravità del pericolo romano; che si rese conto, come mostra una sua lettera ai Larissei, degli elementi costitutivi della potenza di Roma; che alla lotta contro i Romani tese tutte le sue energie, alienandosi dalla causa nazionale solo per un breve momento, e non senza forti attenuanti; che infine preparò mirabilmente la riscossa, la quale fallì soprattutto per l'inettitudine del successore. Meno disinteressato, meno geniale, meno umano di Annibale, egli dedicò però tutta la sua vita come il grande cartaginese alla difesa della patria contro lo straniero, e merita quindi assai più di Filopemene d'essere chiamato l'ultimo dei Greci.
Bibl.: G De Sanctis, Storia dei Romani, III, ii, Torino 1917, p. 427 segg., IV, i, Torino 1923 passim; G. Niccolini, La confederazione achea, Pavia 1914, p. 100 segg. e passim; G. Colin, Rome et la Grèce, Parigi 1905; J. Kromayer, Antike Schlachtfelder, II, Berlino 1907, p. 3 segg.; M. Holleaux, in Cambridge Ancient History, Cambridge 1930, VIII, p. 116 segg.