Mitologico, film
La mitologia e il mondo antico costituiscono un vasto repertorio di storie e immagini ampiamente 'saccheggiato' dal cinema fin dai primi anni del Novecento; e l'elemento mitologico si è spesso intrecciato con quello storico e con quello avventuroso, originando così un filone storico-mitologico costituito da film ambientati nell'antichità greco-romana o in un Medioevo favoloso, a volte presentando evidenti contaminazioni con il genere fantastico e dando vita in tal modo a pastiches cinematografici all'insegna dell'anacronismo.
Sul piano estetico, scenografie e costumi dei primi film che segnarono in Italia l'incontro tra mito e cinema (per es., Gli ultimi giorni di Pompei, 1908, di Luigi Maggi; Spartaco, 1909, di Oreste Gherardini; Rea Silvia, 1910, e Il ratto di Proserpina, 1910, entrambi di Alberto Degli Abbati; L'Odissea, 1911, di Francesco Bertolini e Adolfo Padovan) risultano chiaramente ispirati all'ottocentesca pittura storica di ambientazione classica che aveva tra i suoi principali esponenti L. Alma-Tadema ed E. Burne-Jones. Per quanto riguarda le trame, più di uno spunto proviene dai romanzi storici che nello stesso periodo avevano un'ottima accoglienza di pubblico, quali Ben Hur (1890) di L. Wallace o Quo vadis (1895) di H. Sienkiewicz. Da questi riferimenti estetici e letterari appare evidente quanto la mitologia e l'antichità fossero trattate senza ambizioni di ricostruzione storica, in chiave decisamente rétro, in contrapposizione alla cultura delle avanguardie e con evidenti intenzioni moralizzatrici e passatistiche. Il cinema delle origini, segnato da un evidente complesso d'inferiorità nei confronti delle forme d'arte ritenute maggiori (soprattutto il teatro), attingeva a piene mani da quelle espressioni di cultura di massa, anche per nobilitare il prodotto che offriva, per entrare in sintonia con i gusti manifestati dal grande pubblico, garantendo nello stesso tempo una patente intellettuale a una forma espressiva nata come prodotto esplicitamente commerciale. In questo utilizzo massificato la mitologia offriva spunti che potevano essere continuamente sottoposti a forzature: il primo esempio è fornito dal poeta Gabriele D'Annunzio, che proprio per la fama e il prestigio dei quali godeva venne incaricato dal regista e produttore Giovanni Pastrone di scrivere le didascalie di uno dei primi kolossal, Cabiria (1914). Il nome immaginifico scelto per il forzuto liberto Maciste, vero protagonista del film, venne infatti giustificato da D'Annunzio in quanto nome alternativo per il semidio Ercole, mentre si trattava di un'invenzione del poeta destinata a entrare nell'uso comune indicando per antonomasia un uomo di forza gigantesca. Quanto ai riferimenti mitologici, questi vennero sottoposti solitamente a una revisione che da un lato esaltava le loro implicazioni spettacolari, dall'altro li collocava in contrapposizione alla religione positiva per eccellenza, quella cristiana.
Se il cinema italiano fu il primo a fare uso del materiale mitologico, a partire dagli anni Venti del Novecento ciò avvenne anche e soprattutto a Hollywood, e tale materiale venne formalizzato in un vero e proprio genere cinematografico. Il primo a intuire le grandi possibilità commerciali del passato storico-mitologico fu Cecil B. DeMille. Si deve a lui la considerazione che la Bibbia è il libro più noto del mondo fuori da ogni diritto d'autore, concetto che può essere esteso alla mitologia in generale. Tra la ricostruzione kitsch di DeMille e quella più problematica di David W. Griffith (per es., l'episodio della caduta di Babilonia in Intolerance, 1916) il gusto del pubblico non solo americano sembrò privilegiare la prima, come provano le molte imitazioni, prima fra tutte Ben Hur (1926) di Fred Niblo. Lo stesso DeMille con il cinema sonoro avrebbe continuato a realizzare sensazionali kolossal nei quali i libri sacri, la mitologia e la storia romanzata costituiscono la struttura portante della sceneggiatura: il caso più evidente è Samson and Delilah (1949; Sansone e Dalila), che costituì un modello ampiamente ripreso in tutto il mondo.
Ma a canonizzare il genere non contribuì solo l'approccio hollywoodiano. L'adattamento cinematografico più riuscito di un'avventura mitologica è infatti considerato il dittico Die Nibelungen (1924; La canzone dei Nibelunghi) diretto da Fritz Lang a partire dalla più famosa saga della tradizione germanica. Pur essendo una vicenda unitaria, divisa per la sua lunghezza in due parti, il film propone quasi un'opposizione stilistica tra il primo episodio, Siegfried, dove si possono notare espliciti riferimenti al concetto di scena totale teorizzato negli stessi anni da Erwin Piscator, e il secondo, Kriemhilds Rache, dove il ritmo dell'avventura è più sciolto e incalzante. Allo stesso universo mitologico, trasposto in un imprecisato Medioevo, si ispirò l'italiano Alessandro Blasetti per La corona di ferro (1941) in cui la dimensione fantastica e gli spunti tratti dalla mitologia nordica vengono però capovolti in un finale di tolleranza e pacifismo, mentre contenuti e atmosfere mostrano affinità con la produzione anglosassone di letteratura heroic-fantasy, anch'essa ambientata in un Medioevo immaginario.
Già in quegli anni esisteva in tutto il mondo una notevole attenzione da parte delle varie cinematografie nazionali alle mitologie tramandate nei diversi Paesi. Ciò accadeva in particolare nell'ambito del cinema indiano, giapponese, cinese ed egiziano, con una produzione poco nota in Occidente ma capace di assecondare i gusti del pubblico locale. In particolare, l'opera di Kurosawa Akira ha tra le sue principali fonti di ispirazione la mitologia giapponese affrontata con stili e modi molto diversi, mutuati ora dal teatro nō (al quale il regista è debitore per la stilizzazione) ora dal kabuki (che conferisce ai suoi soggetti ritmo e ironia picaresca). Alla mitologia sulla vita dei samurai Kurosawa si ispira in due dei suoi film più noti in Occidente, Shichinin no samurai (1954; I sette samurai) e Yōjinbō (1961; La sfida del samurai): e non è un caso che entrambi siano stati poi oggetto di rifacimento occidentale in chiave western, la mitologia avventurosa di maggior impatto popolare, rispettivamente con The magnificent seven (1960; I magnifici sette) di John Sturges e Per un pugno di dollari (1964) di Sergio Leone. Sterminata è anche la produzione di film mitologici cinesi, strettamente legati alle opere incentrate sulle arti marziali (v. kung fu). Nel cinema indiano ed egiziano, fatte salve le profonde differenze culturali fra i due universi produttivi, la mitologia è soprattutto un riferimento al mondo della fantasia e del meraviglioso, da riprodursi con dovizia di colori, di suoni e di avventure a tutto tondo, a sottolineare il carattere decisamente popolare di queste opere.Nel cinema statunitense degli anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta l'elemento mitologico fu alla base di produzioni di grande impatto spettacolare, girate per lo più a Cinecittà. Il successo di tali film stimolò una parallela e massiccia produzione italiana (che andò esaurendosi intorno alla metà degli anni Sessanta) di opere storico-mitologiche ambientate per lo più nell'antichità greco-romana, che andarono a costituire un vero e proprio genere autonomo (v. peplum), dalla struttura molto codificata, in cui la mitologia costituiva un territorio di fantasia entro cui ambientare avventure mirabolanti e ricche di colpi di scena. Con la stessa formula in Gran Bretagna vennero realizzati i film di Ray Harryhausen, un maestro degli effetti speciali, poetici nella loro semplicità, realizzati con la tecnica del passo uno (stop motion): il più significativo è Jason and the Argonauts (1963; Gli Argonauti) di Don Chaffey, in cui le animazioni propongono la mitologia classica con un divertimento e una resa visiva che non sarebbero state più eguagliate, nemmeno anni dopo da Clash of Titans (1981; Scontro di Titani), diretto da Desmond Davis e dotato di un budget considerevolmente più elevato.Nella seconda metà degli anni Ottanta, del resto, cambiati costumi e riferimenti culturali, il ritorno alla fantasy mitologica si è rivelato una scelta desueta e particolare, e in un cinema più interessato al presente e all'attualità il mito e l'antichità hanno continuato a mantenere una presenza nel cinema, ma spesso all'insegna della rilettura ironica e comunque manifestando intenti addirittura di segno opposto rispetto alle caratteristiche popolari e di semplicità tipiche dei periodi precedenti, come appare evidente in un'opera come Excalibur (1981) di John Boorman. Questo film, infatti, filtra la saga della ricerca del Graal attraverso uno sguardo moderno e adulto, incentrandosi sul definitivo incrinarsi del rapporto tra uomo e natura. Se Boorman ha riletto la mitologia celtica in una chiave vicina alla sensibilità new age, John Milius ha affrontato invece un'altra saga letteraria e un altro territorio mitologico con spirito epico, adattando per il grande schermo un romanzo di R.E. Howard. Ha così realizzato con Conan the barbarian (1982; Conan il barbaro) un film basato su un'estetica primordiale, raccontando un mondo primitivo nel quale la forza è il valore prevalente: in questo senso la muscolatura ipertrofizzata di Arnold Schwarzenegger risulta un valore aggiunto che riempie (anche fisicamente) lo schermo e conferisce al personaggio quell'aura mitologica che lo accompagna tra combattimenti e magia. Sono così affiorati due approcci diversi alla mitologia. Da un lato si sono moltiplicate le ricostruzioni colossali ed estetizzanti, con una decisa prevalenza di elementi kitsch: è il caso di Highlander (1986; Highlan-der ‒ L'ultimo immortale) di Russell Mulcahy, di Braveheart (1995; Braveheart ‒ Cuore impavido) di Mel Gibson, di Rob Roy (1995) di Michael Caton-Jones e di Jeanne d'Arc (1999; Giovanna d'Arco) di Luc Besson, film che hanno in comune un linguaggio profondamente ispirato al ri-tmo di montaggio e alle angolazioni di ripresa del videoclip e della pubblicità. Il film più paradigmatico di questa tendenza è Gladiator (2000; Il gladiatore), esercizio stilistico rutilante e vuoto realizzato da Ridley Scott. In Wo hu cang long, noto con il titolo Crouching tiger, hidden dragon (2000; La tigre e il dragone), Ang Lee ha compiuto un'operazione più sofisticata, adattando modi narrativi e stereotipi tipici del cinema orientale di arti marziali al gusto del pubblico hollywoodiano. Dall'altro lato diversa impostazione ha rivelato Jacques Rivette con il suo Jeanne la Pucelle (1993; Giovanna d'Arco), diviso in due parti, spinto dall'idea di cercare la concretezza nel mito, di privilegiare le luci rispetto ai personaggi, di umanizzare i protagonisti pur conservando i contorni meravigliosi che l'intera vicenda sottende. In questo senso ricollegandosi alla scelta già effettuata in passato dal cinema d'autore che ha posto il mito in rapporto con una società e una cultura attraversate da profonde tensioni: esempi di questa coscienza inquieta sono stati film come Edipo re (1967), tradotto in chiave moderna e psicoanalitica da Pier Paolo Pasolini, o la trasposizione da Petronio realizzata da Federico Fellini in Fellini Satyricon (1969). A partire dagli anni Novanta, al di fuori delle regole stereotipate dei blockbusters, il cinema italiano d'autore ha mostrato una certa propensione a rileggere il mito in chiave contemporanea; ed è molto significativo che ben due film ambientati a Napoli riportino la tragedia greca nel contrasto tra passato e futuro tipico della metropoli partenopea. In Teatro di guerra (1998) Mario Martone immagina la messa in scena di Sette contro Tebe in una realtà attraversata da corruzione e criminalità, degrado e voglia di riscatto; con toni ancora più programmaticamente eccessivi, Antonio Capuano in Luna rossa (2001) prevede addirittura di far rivivere una tragedia come l'Orestea di Eschilo a una famiglia di camorristi, in un intreccio di sangue, canzoni e rumori che getta una luce moderna ma coerente su uno dei più bei miti della cultura greca classica.
J. Solomon, The ancient world in the cinema, South Brunswick (NJ) 1978, pp. 65-79.
D. Elley, The epic film. Myth and history, London 1984.