Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso del Cinquecento giungono a piena maturazione i frutti del lungo e laborioso processo culturale che ha visto il recupero della classicità attraverso la nuova prospettiva della scienza filologica, volta a consegnare la lezione degli autori greci e latini (ma anche volgari) in edizioni più attendibili e accurate, spesso corredate da ricche note di commento. Dalla profonda assimilazione e ricezione dei diversi aspetti della classicità prendono avvio molteplici forme della cultura e del pensiero rinascimentali.
Nel corso dei secoli XV e XVI si verificano, soprattutto in Italia ma anche nel resto dell’Europa, una circolazione e una fruizione più diffusa e capillare della lezione degli antichi, agevolata dall’attività di grandi officine tipografiche quale quella dei Manuzio a Venezia, che si avvale dell’opera dei più grandi filologi e umanisti italiani e stranieri. Tale profonda e rinnovata ricezione dei classici permea di sé molti aspetti della cultura rinascimentale, come la canonizzazione dei generi letterari, il gusto di un’erudizione raffinata ed enciclopedica, una nuova concezione pedagogica e comportamentale. Non si potrebbe infatti comprendere a fondo il dibattito sulla lingua italiana e sulla formazione di nuovi “canoni” senza pensare alle riflessioni sui “canoni” dell’antichità classica, come Cicerone e Virgilio; d’altra parte anche il dibattito sui generi letterari, centrale in tutto il Cinquecento, prende avvio proprio dalla lezione della Poetica di Aristotele. Inoltre, nella lettura di precisi autori classici, assunti a modello di stile e di vita, gli umanisti riconoscono i fondamenti della formazione culturale e del comportamento esemplare, oggetto di tanti dialoghi pedagogici del secolo XVI.
La capillare assimilazione della lezione degli antichi ha dunque molteplici e complesse implicazioni non solo nelle figure dei singoli letterati e umanisti, ma anche nelle sedi istituzionali e di potere culturale, quali le accademie e gli atenei universitari.
Il nuovo sapere filologicamente fondato dà origine a una ricca messe di commenti ed edizioni dei classici antichi e del loro sapere enciclopedico, letto, studiato e commentato con una nuova ottica rivolta alla formazione di “sistemi di sapere”: dalla retorica alla medicina, dalla storia alle scienze naturali, dalla musica alla matematica.
La fondazione della tipografia di Aldo Manuzio a Venezia nel 1490 segna un momento cruciale nella cultura dell’umanesimo italiano e mondiale. Da quel centro di cultura, espressione significativa dei gusti, delle tendenze, della circolazione dei classici e delle richieste di mercato, passano infatti tutti i più grandi filologi e umanisti del tempo, che assicurano l’attendibilità filologica dei testi emessi. La politica editoriale di Manuzio contempla le grandi edizioni di classici greci e latini, ma parallelamente promuove anche gli autori fondanti del canone volgare (come Dante e Petrarca) e le opere più vicine e contemporanee (come l’Arcadia di Sannazaro o gli Asolani del Bembo). Di particolare prestigio appaiono tuttavia le edizioni in greco, per le competenze messe in campo dai curatori che collaborano alle imprese di Aldo – non a caso amico di Agnolo Poliziano e di molti altri illustri esegeti. Nell’arco di nemmeno due decenni la tipografia di Manuzio può vantare molte prestigiose edizioni di autori greci talvolta stampati per la prima volta, come Teocrito ed Esiodo (1495), Aristotele (1495-98), Aristofane (1498), Tucidide, Erodoto e Sofocle (1502), Platone (1513) e molti altri. Del resto non solo i Manuzio (prima Aldo e poi il figlio Paolo) a Venezia, ma anche altre prestigiose officine tipografiche in Europa si configurano come centri ricchissimi di attività culturali, punti di incontro tra i più insigni letterati e filologi del tempo: si pensi alla stamperia di Giovanni Froben a Basilea, o a quella che nasce alla Sorbona di Parigi per pubblicare i testi universitari sotto il controllo dei professori. Nella Francia del Cinquecento si segnalano come eccelsi filologi dediti all’attività editoriale soprattutto Robert Estienne e suo figlio Henri, che pubblicano le edizioni più prestigiose e attendibili degli autori classici, come il testo di Anacreonte in greco con la traduzione latina del celebre poeta Ronsard (1554), o il Virgilio stampato nel 1577, che rappresenta il punto di arrivo di un secolo di studi filologici sul poeta latino. Le città iberiche più significative per la cultura editoriale cinquecentesca sono invece Salamanca e Siviglia, dove la tipografia fondata da Jakob Cromberger nel 1502 tiene a battesimo le prestigiose edizioni di Persio e di Prudenzio, con il commento del celebre umanista spagnolo Elio Antonio de Nebrija.
Aldo Manuzio
A Cesare d’Aragona
Lettere
Manuele Crisolora, che risiede all’Italia, primo tra i moderni, le lettere greche e, a quanto dicono, le insegnò per molti anni a Firenze, pubblicò una grammatica elementare della lingua greca da lui dottamente e concisamente composta. Di essa abbiamo ora curato la stampa su consiglio di Marco Musuro cretese, l’uomo eruditissimo che adesso è pubblico professore di lettere greche a Venezia, seguito sempre da un uditorio numeroso e autorevole. Aggiungiamo inoltre altri scritti che saranno di utilità a chi vuole apprendere il greco.
Mi è parso quindi doveroso, data la mia devozione verso la famiglia d’Aragona e verso di te in particolare, che queste opere, stampate coi nostri caratteri, uscissero sotto il tuo nome, e che io te le inviassi in dono, sicché, leggendole e imparandole a memoria, tu possa fare grandi progressi nello studio del greco, di cui sei molto appassionato; giacché nelle lettere latine sei già tanto avanzato, pur non avendo ancor compiuto i dodici anni, da esser in grado d’intendere ciò che leggi e in versi e in prosa. Orsù dunque, caro Cesare, prosegui lo studio delle buone lettere così come l’hai iniziato; apprendi tutte le qualità che si convengono a giovinetto di stirpe regale. Infatti, poiché tu “avanti l’età possiedi mente e cuore d’uomo adulto”, non dubito che sarai in tutto degno della tua insigne casata; giacché, sebbene “pochi figli siano eguali al padre, i più sian peggiori del padre e pochi migliori”, come dice Omero, tuttavia tu sei di tale indole, di tale ingegno, di tale modestia, di tali costumi in un’età così tenera, che mi sembri destinato non solo a eguagliare tuo padre, eccellente sovrano, ma perfino a superarlo: il che è concesso a pochissimi. Addio.
in Aldo Manuzio editore. Dediche, prefazioni, note ai testi, a cura di C. Dionisotti e G. Orlandi, Milano, Edizioni Il Polifilo, 1975
Nell’arco del Quattrocento i più geniali interpreti della filologia umanistica – come Lorenzo Valla e, sul finire del secolo, Agnolo Poliziano – avevano compreso che le competenze filologiche dell’umanista grammatico potevano essere applicate a ogni tipo di opera, a qualunque genere di testo di cui si volessero appurare l’attendibilità e l’autenticità. Tale lezione è accolta dai letterati ed esegeti di tutto il Cinquecento, che hanno in tal modo coscienza dell’estrema importanza del loro ruolo e della loro opera per la corretta trasmissione del sapere.
Non è dunque un caso che il “commento” diventi un genere letterario di grande rilievo nella letteratura dei secoli XV-XVI, soprattutto in sedi universitarie in cui i testi vengono letti e commentati agli studenti: si pensi, tra le altre sedi, a Bologna, che vanta la presenza di grandi maestri e autori di fondamentali opere di commento.
La più diffusa conoscenza del greco – già agevolata, nell’arco del secondo Quattrocento, dalla circolazione dei testi originali, dall’edizione di grammatiche greche (come quelle degli umanisti bizantini Costantino Lascaris e Manuele Crisolora) e dall’istituzione di specifiche cattedre universitarie – conduce fin dalla fine del secolo XVI alla pubblicazione di opere in greco, ma anche di traduzioni latine o di volgarizzamenti. Se nella seconda metà del Quattrocento erano circolati i testi in greco delle opere omeriche e le loro traduzioni latine, nel Cinquecento si affermano in tutta Europa volgarizzamenti nelle diverse lingue romanze, come la traduzione in francese dell’Iliade di Hugues Salel (1545) o la versione in italiano di Ludovico Dolce (1573). La più ampia diffusione dei testi omerici accentua inoltre una diatriba di antica memoria sulla superiorità fra i due grandi principi delle culture classiche, Omero e Virgilio, questione particolarmente sentita dai letterati del Cinquecento che dibattono sui canoni poetici e i generi letterari. Se gli umanisti della stagione precedente (da Cristoforo Landino ad Agnolo Poliziano) avevano ribadito il primato di Omero, nella cui opera si potevano leggere, in maniera allegorica, i principi di tutte le scienze e di tutti i saperi, il più maturo Rinascimento riconosce in Omero la più alta espressione della poesia greca, ma ne condanna l’eccessiva prolissità e la violazione dei principi di verosimiglianza e convenienza. Per tali ragioni Marco Girolamo Vida nella Poetica (1527) e Giulio Cesare Scaligero nei Poetices libri septem (1561) conferiscono la palma della vittoria a Virgilio, che ha la sua migliore edizione nella Francia dell’ultimo Cinquecento.
Ma al di fuori dei trattati di poetica in cui si disserta di eccellenze o primati, i testi omerici e quelli virgiliani sono macrotesti imprescindibili, sempre presenti nella formazione di poeti e umanisti, che ne disseminano le reminiscenze nelle loro opere, in Italia come in Europa.
Anche l’opera completa di Cicerone, grande maestro di retorica, additato da tutto l’umanesimo come modello della prosa latina e volgare, circola nella prima metà del Cinquecento in un’edizione filologicamente più attendibile, fondata sull’esame dei testimoni più antichi e sulla tradizione più valida alla costituzione del testo. Tale impresa (Venezia, 1537) si deve alla perizia filologica del fiorentino Vettori, promotore, fra le altre cose, della ripubblicazione delle opere dell’illustre amico Niccolò Machiavelli.
Anche in altre realtà europee la scienza filologica ha rappresentanti illustri e autorevoli, persuasi che l’attendibilità del testo debba essere preliminare a ogni conoscenza. In Francia Guillaume Budé, amico di Erasmo da Rotterdam, di Rabelais e di Thomas More, e uno dei più grandi grecisti del secolo, elabora un metodo critico rigoroso, fondato sulla minuziosa applicazione degli strumenti della filologia, materia a cui è intitolato anche un suo celebre dialogo (Filologia, 1532); in Spagna, Juan Luis Vives, nativo di Valencia, si mostra sensibile tanto alla ricostruzione delle verità testuali e alla corretta trasmissione della conoscenza, quanto alle potenzialità pedagogiche e formative del sapere, come mostrano opere quali il De disciplinis (1531) o la Rhetorica sive de ratione dicendi (1533). Budé e Vives incarnano, insieme a Erasmo, quella tensione alla riforma del sapere e quell’innovativo spirito pedagogico che sono propri dei più grandi letterati del Cinquecento.
Già Lorenzo Valla, applicando i criteri filologici e la profonda conoscenza stilistico-formale della lingua latina, aveva dimostrato la non autenticità di due importanti documenti religiosi: la cosiddetta Donatio Constantini su cui la Chiesa aveva fondato la legittimità del proprio potere temporale e l’epistolario attribuito a Seneca e san Paolo.
Oltre a ciò il celebre umanista aveva avuto l’ardire intellettuale di applicare gli strumenti della scienza filologica ai testi delle Sacre Scritture, considerate fino a quel momento fonti intoccabili di verità. Con le sue Adnotationes al Nuovo Testamento (1449) il Valla aveva corretto molti errori della Vulgata geronimiana, dando così inizio a quel lavoro esegetico sulla Bibbia che sarà continuato da una delle figure intellettuali più importanti di tutto il Cinquecento: Erasmo da Rotterdam. Amico di Aldo Manuzio e suo collaboratore in molte delle imprese culturali promosse dalla tipografia veneziana, Erasmo non solo cura un’edizione delle Adnotationes (1505), ma fa confluire i risultati di queste annotazioni critiche nel testo greco del Nuovo Testamento dato alle stampe nel 1516. D’altra parte la filologia non è per Erasmo la sterile disciplina di grammatici pedanti o di maestri puntigliosi, ma è l’occhio disincantato e spregiudicato con cui si deve ricercare il vero sapere, il parametro saldo e inoppugnabile con cui va verificata ogni conoscenza. Il dialogo di Erasmo con i classici è del resto profondo e capillare e permea ogni aspetto della sua opera, non solo quelle di carattere filologico e commentario.
Non si comprendono opere come gli Adagia, l’Encomium moriae, o gli Apophthegmata, ricche di insegnamenti morali e filosofici in cui riecheggiano le sentenze e le voci degli antichi, se non si pensa all’Erasmo commentatore e interprete dei classici greci e latini. Alcune “scelte” esegetiche di Erasmo contribuiscono del resto a rilanciare nel panorama europeo la fortuna di questo o quell’autore antico in una nuova prospettiva, nell’ambito della temperie culturale del tempo. Il commento di Erasmo a Seneca del 1527 agevola la diffusione, ad esempio, dello stoicismo che fin dal secondo Cinquecento ha ampia eco in tutta Europa.
Accanto a Erasmo, che rappresenta uno degli interpreti più geniali della cultura rinascimentale, ogni umanista è lettore ed esegeta che si accosta ai classici, alla loro sapienza enciclopedica, cercando di tesaurizzare la memoria dei loro insegnamenti.
Questo spiega la grande fortuna, nell’arco di tutto il Cinquecento, di opere compilatorie, di “quaderni” in cui si raccolgono, con diversi ordini classificatori, tutti i loci communes, ovvero i luoghi letterari, le citazioni più significative della cultura classica, che l’umanista deve memorizzare e di cui può giovarsi nelle sue opere. Non deve sorprendere dunque la composizione “a mosaico” di molti grandi capolavori umanistici, come gli Essais di Montaigne (1580), in cui la grande originalità creativa dell’autore gioca con molteplici citazioni e allusioni letterarie ai classici antichi.
Nella seconda metà del Cinquecento la filologia tende progressivamente a perdere la fertile forza polemica che spesso l’aveva contraddistinta nei dibattiti dei grandi umanisti e commentatori, e che spesse volte era stata strumento di opposizione e di rottura verso un sapere retrivo e inveterato, e si configura sempre più come disciplina autonoma nei mezzi, delimitata negli obiettivi, lontana da implicazioni culturali di tipo morale o filosofico: nel De arte sive ratione corrigendi antiquos libros disputatio (1557) Francesco Robortello asserisce che l’utilitas della filologia deve limitarsi a controllare l’esattezza delle parole (verba) e dei concetti (res).