Filologia
di Gianfranco Contini
Filologia
sommario: 1. La filologia nella storia della cultura. 2. Critica testuale. □ Bibliografia.
1. La filologia nella storia della cultura
Chi nella prima infanzia ha letto Pinocchio, amandolo e imprimendoselo nella memoria, stupirà, se gli accada di rileggerlo, di non essersi accorto, allora, che era scritto, o poco meno, in vernacolo toscano. Chi un po' più tardi si inizierà a Dante, tolte le aree pentacolari riservate all'oscurità, da lambire e oltrepassare in convenzionale reverenza, comprende senza ostacolo, ed è destinato a rendersi conto in tempo più maturo come gli fosse sfuggito, più ancora che il deposito d'una memoria sapientissima, il fatto elementare (che naturalmente non capiterebbe ai suoi coetanei lettori della Chanson de Roland o del Nibelungenlied) che la Commedia è scritta in italiano antico. Coi Promessi sposi può anche avvenire che non si percepisca nessuna differenzialità; e la differenzialità non è affatto detto che riesca gradevole, come una lente d'ingrandimento svela più verità, ma dà degli oggetti un'immagine inconsueta e intercala loro innanzi un corpo estraneo. La filologia è dunque, anche a un modesto grado di cultura, almeno nelle civiltà che hanno fruito d'una buona attrezzatura grammaticale, un evento quotidiano, se pur scalare; la filologia in senso tecnico è diversamente distribuita nei momenti culturali e gode di un prestigio variabile.
Benché si sia sempre fatto filologia, nel periodo romantico (e soprattutto nella nazione romantica per eccellenza, la Germania) essa toccò una tale intensità e raffinatezza, sia approfondendo gli scavi preceduti da millenni di studi, e cioè nell'ambito classico, sia allargando verso ogni direzione possibile il campo di applicazione (inclusa la costituzione delle filologie nazionali), che parve nata allora, ciò che per certi metodi era la verità. La sua valutazione seguitò a essere alta, e magari fiduciaria, in epoca positivistica, meno come interpretazione che come dilatazione di accertamenti, erudizione fine a se stessa, soddisfacimento della libido sciendi, ma interviene una limitazione molto degna di nota, di cui non è miglior documento che in una proposizione di A. Schleicher, il paleontologo della glottologia. Da un suo libro (Die Deutsche Sprache, 1859) il Timpanaro ha speculato le seguenti definizioni: ‟Die Philologie ist eine historische Disziplin [...]. Die Sprachwissenschaft dagegen ist keine historische, sondern eine naturhistorische Disziplin" (S. Timpanaro, La genesi del metodo del Lachmann, Firenze 1963, p. 76, n. 1). La filologia (e va bene che qui il tedesco Philologie avrà la sua generica accezione universitaria di complesso di studi sulla letteratura) non può quindi aspirare all'assetto legislativo, rispecchiatore di necessità, che pertiene (o si riteneva pertenere) alle scienze della natura, fra le quali lo Schleicher e i neogrammatici suoi prosecutori annoveravano la linguistica.
Dai movimenti correttori o eversivi del positivismo non poteva ovviamente uscire che una considerazione meramente funzionale e ancillare della filologia. Ciò è forse vero dell'intuizionismo, vista la connessione epistemologica che si credette di scorgere fra le innovazioni del Bédier e la dottrina bergsoniana, mentre notoriamente il Bédier in persona confessava di essersi postumamente ritrovato in talune pagine del Bergson, da lui letto assai tardi. Ma certo è vero dell'idealismo crociano, come si può vedere nel Croce stesso editore perlomeno non superstizioso (così del De Sanctis) e promotore d'una illustre collezione di classici dalla quale procurò di tener lontana più che gli fosse possibile ogni accusata filologicità di presentazione. Ma è istruttivo come, in un famoso scritto (Per un catalogo, in un Quaderno della ‟Voce", 1910), più insigne per sensibilità che per logos, un neoumanista, per così dire, quale il Serra giudicasse del programma crociano appunto degli ‛Scrittori d'Italia': vi trovava incluso ‟il rinnovamento degli studi positivi" (aspetto per cui l'antipositivista Croce poté giustamente sembrare il più grande dei positivisti) e arrivava a temere ‟edizioni critiche" con ‟la nuova lettura di un e in un manoscritto", dove accettava della Bibliotheca Teubneriana, poiché il litigio verteva sul canone dei classici, l'‟ideale - che del resto è una parte della stessa antichità - della migliore lezione". Di lì a poco un umanesimo nazionalistico da dozzina poteva coinvolgere nella germanofobia (dovette combatterlo anche un grecista del calibro del Vitelli) il rigore della filologia classica elaborata nelle scuole tedesche. Ma per ciò che riguarda il Croce bisogna confrontare l'irruzione filologica avvenuta dopo la sua morte nella sua stessa collezione, come del resto, gradualmente, nelle sillogi compagne, e non solamente in Italia. Ciò era conforme a un abito mentale che si può qualificare di nuovo positivismo e che in Italia, dove avevano contribuito a fare il ‛ponte' con l'antico personalità come quelle del Pasquali e del Barbi, si configurò, qui al pari che nella critica stricto sensu, in forma piuttosto post- che anticrociana. La moda filologica tuttora vigente, particolarmente appunto in Italia, obbedisce a un impulso forse già più di ieri che dell'oggi, come parrebbe mostrare certo filologismo parodistico che attesta il trapasso della maturità. In una mappa ideale una nuova limitazione alla filologia parrebbe infatti sorgere dallo strutturalismo in quanto studio di sincronie pure, mentre, come historische Disziplin, la filologia si collocherebbe, a primo sguardo, nella diacronia. Particolarmente nel linguaggio della scuola parigina, una ricerca ‛puramente filologica' si oppone a una ricerca condotta a norma di linguistica generale e dunque secondo parametri interni alla lingua (così per la definizione, ovviamente oppositiva, di una funzione o di un lessema). Tuttavia la punta della linguistica, per dire solo della linguistica, strutturalistica travalica l'opposizione di linguistica sincronica e linguistica diacronica in indagini come quelle che il Jakobson, con brillantissima contradictio in adiecto, chiama di ‟fonologia diacronica", e di cui si trovano suggestive realizzazioni in vari autori (Kurylowicz, Haudricourt, Juilland, ecc.), ma che in fondo era stata anticipata in fase presaussuriana da storie della lingua alternate come fin dal Jespersen.
La filologia come disciplina storica si rivela sempre più acutamente involta, non si dirà nell'aporia, ma nella contraddizione costitutiva di ogni disciplina storica. Per un lato essa è ricostruzione o costruzione di un ‛passato' e sancisce, anzi introduce, una distanza fra l'osservatore e l'oggetto; per altro verso, conforme alla sentenza crociana che ogni storia sia storia contemporanea, essa ripropone o propone la ‛presenza' dell'oggetto. La filologia moderna vive, non di necessità inconsciamente, questo problematismo esistenziale.
2. Critica testuale
La filologia culmina nella critica testuale, che perciò qui si procura di compendiare in forma aforistica.
La denominazione universalmente ammessa è quella che traduce il tedesco Textkritik: obsoleto è critique verbale, da cui s'intitola un manuale un tempo molto frequentato dell'Havet; assai comodo sarebbe ‛ecdotica' (ecdotique), invenzione di dom H. Quentin, da tenere in pronto quale sinonimo di preziosa sinteticità e aspetto specialistico; con intenzione deprezzativa (dal Pagliaro) è stato usato ‛stemmatica' (del Maas), per di più riferibile a un solo aspetto particolare, per quanto importante. Di che momento essa sia il prodotto, cioè del romanticismo anzitutto, come di norma, germanico, solitamente condensato nel nome di K. Lachmann, è constatazione che parrebbe da revocare in dubbio da quando, particolarmente per opera del Pasquali e con singolare acribia di S. Timpanaro, i principi ne sono stati meglio indagati e in parte retrodatati. Si potrebbe allora essere tentati di sospettare che, come filologia si è fatta sempre, così filologia testuale esista ‛da sempre'. E in realtà le grandi epoche filologiche sono caratterizzate da intensa attività editoriale, si tratti dell'età alessandrina, che elaborò la vulgata dei classici greci, o della Rinascenza, anzi delle varie Rinascenze gemmate per metafora da quella propriamente detta nel linguaggio dei medievalisti (carolingia, del sec. XII, ecc.), alle quali si devono vari assetti vulgati dei classici latini, o del momento istituzionale della Riforma e della Controriforma, attuato nella philologia sacra (anche cattolica, per la Vulgata Sisto-Clementina) e nei corpora dell'antiquaria ecclesiastica (incluso il Muratori). C'è anzi oggi chi ravvisa nell'ecdotica il principale acquisto mentale dell'umanesimo, col Valla e col Poliziano, anzi già col Petrarca, la cui opera di editore è stata ricomposta dal Billanovich. Ma è giusto ricondurre la fondazione della critica testuale all'ambiente dove fu formulato l'assunto d'una sua consistenza scientifica, anche se si sa ormai che tale fondazione fu più graduale e meno puntuale della sua rappresentazione corrente. Che essa sia romantica importa che, attuata inizialmente in filologia classica, cioè dove si disponeva di un canone millenario di testi recepti la cui lezione era da verificare, era però atta a una filologia condenda sulla grande e insomma medita distesa appunto romantica del Medioevo e anzitutto del volgare (che press'a poco coincidevano, chiudendosi il Medioevo con l'invenzione bella stampa, la quale poneva o sembrava porre altri problemi). Simbolo della situazione, appunto, il Lachmann, estensore lui stesso del metodo alla filologia germanica; mentre di lì a poco colpisce l'equidistanza del pur meno rigoroso lachmanniano K. Bartsch dalla filologia germanica e dalla romanza (sua è, prima del lachmannismo dei O. Gròber e dei O. Paris, la prima edizione ‛scientifica' di un trovatore, Peire Vidal). Sui principi di quello che fu chiamato lachmannismo, antonomasticamente e magari più che altro emblematicamente, è seguitata a svolgersi nel secolo e mezzo successivo quell'opera di raffinamento, reazione e revisione per cui si può anche parlare di antilachmannismo (principalmente J. Bédier e dom H. Quentin), postlachmannismo (così O. Pasquali e in certo modo M. Barbi) e, perché no?, neolachmannismo parte della romanistica italiana).
Questa rimeditazione è andata abbastanza avanti perché, abbandonando la semplice esposizione storica o l'insegnamento precettistico della dottrina, si tenti di formulare quelle esperienze in enunciati il più possibile razionalizzati e organicamente seriati, in cui trovino il loro luogo anche gli agganci a rami di filologia in prima istanza non testuale grazie a una generalizzazione che corrisponde alla riduzione, al limite, della filologia alla critica testuale.
Unicità e plurivocità del testo. - La prima cautela da adottare consiste nel determinare se il testo che si tratta di riprodurre o ricostruire sia uno o più. Geometria e fisica muovono da definizioni intuitive e da convenzioni semplificanti (corpo senza dimensioni e senza massa, ecc.): qui conviene assumere solo a ragion veduta la puntualità dei testi e degli antigrafi nei vari stati. Non è lecito mescolare redazioni distinte: pericolo da cui vuoi preservare la dottrina bedieriana del manoscritto unico da seguire, la quale, con tutte le riserve che suscita, è pure un tentativo di salvaguardia contro le edizioni composite. Quando la recensione della tradizione manoscritta mette in luce solo opposizioni di varianti adiafore, sono da riconoscere più redazioni (di autore o no), che devono formare oggetto di altrettante edizioni (come fece precisamente Bédier aggiungendo nel 1928 un'edizione del Lai de l'ombre secondo il codice E alla propria del 1913 secondo A e all'antica del Jubinal secondo F). Che tali edizioni siano separate e integre o risultino da apparati, a rigore distinti, è irrilevante, poiché fin d'ora si può ripetere delle forme di edizione il famoso detto del Croce sulle forme di critica, che ognuna è buona quando è buona.
Corollari editoriali. - Se la recensione di una tradizione svela opposizioni non solo di varianti adiafore ma di veri e propri errori, s'intende di tipo monogenetico, l'edizione dovrà essere depurata di tali errori (sanati se si può, altrimenti contrassegnati dalla crux interpretum), mentre la scelta delle lezioni indifferenti prudenzialmente dovrà portare sempre, organicamente, verso la medesima fonte. In tale evenienza è meno urgente provvedere, restando ovviamente completo l'apparato, a separate edizioni, poiché si tratta di rifacimenti operati su un archetipo già corrotto. Che su questa copia abbia potuto lavorare l'autore stesso, e che di conseguenza l'abbia promossa a equivalente dell'originale, non si può naturalmente escludere, ma la probabilità di autorevolezza è fortemente diminuita. Un caso paradigmatico è costituito dal Libro de buen amor di J. Ruiz, di cui si sono ravvisate, e forse si ravvisano ancora pacificamente, due redazioni con date distinte, finché l'edizione di G. Chiarini non ha provato l'esistenza d'un archetipo sul fondamento di errori comuni e ha reso quindi perlomeno discutibile la presenza di redazioni d'autore.
Opere postume incompiute. - La maggior difficoltà editoriale oggettiva è proposta da opere postume incompiute, che presentano frammenti e redazioni sostitutive o alternative, magari accompagnate da abbozzi di sommari non esaurienti o contraddittori. Gli antenati dei capolavori postumi sono il De rerum natura e l'Eneide, a cui peraltro sembra esser mancata solo l'ultima mano, come rivelano forse per Lucrezio le numerose opportunità, avanzate dalla critica moderna, di spostamento di versi, per Virgilio i da lui chiamati ‟puntelli" (tibicines); difficile è comunque ritrovare la tecnica, probabilmente ispirata a pietas, di Cicerone o di Tucca e Vario editori. Sogliono invece essere oggetti di vituperio, o al minimo di serie riserve, i primi editori di capidopera moderni come le Grazie foscoliane, il libro linguistico manzoniano, i frammenti di Hölderlin o, più vicino a noi, certi inediti di Proust (Jean Santeuil, Contre Sainte-Beuve), i romanzi di Kafka, la gran summa narrativa di Musil. Certo si può fare, e spesso fortunatamente si è fatto, di meglio; ma è istruttivo, per tornare sul primo caso soltanto, che il saggio del Barbi (1934) non sia stato a tutt'oggi seguito da un'adeguata edizione delle Grazie. Sono problemi singoli, ognuno con i suoi particolari di struttura e di cronologia relativa, e passibili di altrettante, non si dice soluzioni, ma serie di soluzioni proporzionate a diverse teleologie. Le edizioni condannate sono mosse meno di quanto si affetti di credere da vili motivi, o d'insufficienza tecnica o peggio di speculazione commerciale: benché nemmeno a questa si dovrebbe negare ogni gratitudine, se fu il solo meccanismo atto a procurarci almeno una qualche conoscenza, sia pure imperfetta, di opere di tal livello. Per fare un esempio non bruciante, e del resto non incompiuto, è possibile che le Confessioni del Nievo, trattate con le forbici e alterate perfino nel titolo, solo a patto di queste manipolazioni siano state conosciute prima. Ma la preoccupazione di leggibilità, qui attuata così rozzamente, si può estrapolare in ben altra accezione: lo zelo, animato da devozione (quale non si potrebbe certo negare a M. Brod per Kafka o ad A. Frisé per Musil), di un'opera che sia un'opera, intorno alla quale poter girare. Un'edizione assolutamente scientifica, quale è ovviamente augurabile, non però sempre necessariamente in prima istanza, paga un pedaggio di ‛illeggibilità'. Leggibilità e illeggibilità, quasi in una sorta di principio d'indeterminazione, corrispondono a funzioni diverse della fruizione letteraria. È comprensibile che chi si preoccupa della ‛vita' di una scrittura, fino al punto di supplirvi, per incongrua generosità, con estratti dalla sua propria, respinga nel gelo del museo o nella polvere dell'archivio ciò che in qualche caso rischia di essere una caricatura della filologia.
Il testo nel tempo. - I freni pragmatici che possono intervenire innanzi a un testo non perfettamente eseguito, debbono cedere al rigore innanzi a un testo eseguito, di esistenza incontestabile, e già conosciuto in un modo che semmai solo retrospettivamente si potrà qualificare di provvisorio. La filologia, quando ne ha i mezzi, riapre questo testo chiuso e statico, lo fa aperto e dinamico, lo ripropone nel tempo. La riapertura si opera in direzioni opposte, dopo e prima del testo. La determinazione di quella che si prende per norma, cioè la redazione ultima, non è priva di difficoltà. Per rendersi conto di questa frequente aporia basterà rifarsi all'esperienza autobiografica di qualsiasi produttore di letteratura. Un medesimo manoscritto, o più verosimilmente dattiloscritto, venga usufruito in più occasioni similari, anche abbastanza ravvicinate, e la lezione sottoposta a lievi correzioni migliorative ogni volta in bozze senza che ne sia tenuto registro: correzioni, in pratica, dimenticate. Se di tali pagine l'interessato vorrà finalmente dare un testo definitivo, posto che pure si conceda per finire quello scrupolo che meglio si eroga altrui, si può tenere per certo che, poiché l'acuzie correttoria è discontinua, egli sceglierà, indipendentemente dal livello, le variazioni più approfondenti, senza inibirsene di nuove oltre questa mobile cresta. Un editore ‛terzo' non potrà certo seguire una tale procedura, ma, quando il miglioramento non sia documentariamente univoco, meglio lo rifugerà tutto in apparato, distinguendo le sedi (anche se riuscisse a individuare l'esemplare letteralmente licenziato alla data più bassa). Qualcosa di simile avviene quando qualche implacabile correttore di se stesso lascia suggerimenti su più copie di una sua stampa, oppure, anche se su una copia sola, ne lascia alcuni di stabili, altri di eventuali - come quelli dai medievali contrassegnati mediante al(iter) -, altri di alternativi pur non sussistendo dubbi sulla condanna dell'elemento da surrogare. Solo la porzione certa potrà essere ospitata a testo, pur dovendosi annotare (meglio se sinotticamente) ogni altra proposta più instabile, e specialmente le certezze negative che meriterebbero, se proprio la modalità della pubblicazione (che offra o simuli una resa compatta) non la renda esosa, un'apposita connotazione tipografica (altro carattere o corpo). S'intende che a fini editoriali risulta irrilevante un eventuale giudizio di involuzione correttoria (quale certo riesce di formulare per lo stesso Baudelaire, per non dire dei contemporanei che ci lasciano spaesati modificando ciò che era già patrimonio della nostra memoria), non potendo interferire criteri assiologici in un ambito oggettivamente formale.
Resa dell'elaborazione testuale. - La direzione opposta, e più vulgata, in cui si offre lo studio del testo-nel-tempo, è quella della sua elaborazione. Il perno attorno al quale il punto di vista sembra ribaltarsi è il testo come dato immobile. Questo postulato, implicito nell'ovvia lettura, è contraddetto meno dall'altrettanto ovvia pedagogia del testo come prodotto d'una ‛lunga pazienza' che dalla rappresentazione, inerente alla riflessione di Mallarmé e soprattutto di Valéry, del testo come prodotto d'un'infinitudine elaborativa di cui quello fissato è soltanto una sezione, al limite uno spaccato casuale. È ben probabile che lo stimolo pedagogico sia stato il più attivo nel promuovere la confezione di edizioni con varianti. La tramutazione del romanzo manzoniano in ideale metastorico di scrittura, anche dal più stretto punto di vista formale-grammaticale, spiega la larghissima diffusione nelle scuole d'un'edizione (quella di R. Folli, più tardi con una ‛chiave' di O. Boraschi) in cui I promessi sposi del 1840-1842 vengono raccostati alla falsariga del 1825-1827 mediante artifici tipografici il cui nucleo permane nell'impaginazione filologica del Caretti; fin dal 1842, del resto, un concittadino del Manzoni si affrettava a impostare la questione (O. B. De Capitani d'Arzago, Voci e maniere di dire più spesso mutate ...). Ma che la grandezza d'un poeta sia anche, orazianamente, nell'accanimento del suo lavoro, è uno spontaneo orientamento che porta il filologo, neutramente rispetto ai vantaggi didattici, a rappresentare fisicamente la genesi testuale d'un capolavoro. Quale musa, altro che tecnica, posto solo il giusto eccesso di ammirazione per l'oggetto poetico, poteva ispirare le sottigliezze tipografiche del Moroncini nel rendere l'elaborazione dei Canti e di altre opere leopardiane, la squisita ingegnosità del Debenedetti nel rendere quella dei frammenti autografi del Furioso? È significativo che la prima di simili operazioni filologiche abbia avuto per oggetto uno dei paradigmi della poesia: gli abbozzi autografi delle rime petrarchesche per cura di Federico Ubaldini (1642), due secoli e mezzo prima che vi si dedicasse un campione della filologia positivistica, Karl Appel. La coscienza del lavoro poetico inerente al momento del simbolismo, coscienza insieme di oggettualità e di attività, ha aumentato di responsabilità la posizione del critico anche innanzi a parecchi dei testi citati: la ‛critica delle varianti' conferma per via sperimentale, aumentandone la certezza e arricchendole di particolari altrimenti non o meno percettibili, le interpretazioni ottenute o da ottenersi per via intuitiva, interpretazioni che non sono necessariamente di segno positivo; nei processi che essa descrive occorre distinguere i passaggi dal ‛non essere' all'essere poetico, i compensi a distanza nell'area testuale e le vere e proprie sostituzioni (quali nei due, se non tre, Manzoni) di personalità espressive ugualmente valide. Una generalizzazione non può procedere oltre questa sommaria fenomenologia, ma torna opportuno rilevare un prolungamento che la critica delle varianti ha potuto avere sul comportamento dell'autore. Di uno dei migliori contemporanei, G. Ungaretti, un critico attento alle varianti, O. De Robertis, pubblicò (1945) una raccolta delle Poesie disperse ‟con l'apparato critico delle varianti di tutte le poesie" e un suo proprio studio.. Da questa pubblicazione il poeta dovette trarre incoraggiamento a lasciar stampare due suoi libri successivi, La terra promessa (sottointitolata, è vero, Frammenti) e Un grido e paesaggi, ugualmente con apparati e studi a cura di amici, e pochi mesi prima della sua morte, vera edizione postuma in vita, il volume di Tutte le poesie (Vita d'un uomo) con lo stesso allestimento critico. Questa restituzione fisica del testo alla sua condizione di caleidoscopica variabilità (ben altra cosa da semplici variazioni sullo stesso tema) rappresenta un caso-limite, probabilmente da non riprodursi, che è giusto sia legato all'ultimo, per quanto pare, dei poeti simbolisti. Un incoraggiamento alla considerazione poetica di questo materiale, non di rado assai più che semplicemente intermedio e preparatorio, viene dalle arti figurative, che negli ultimi decenni hanno aggiunto alle da sempre stimate serie di disegni o schizzi per un'opera l'esposizione delle sinopie accanto agli affreschi strappati, fonte (come al Camposanto di Pisa) di nuove sicure emozioni.
Varianti d'autore (excursus bibliografico). - Nessuna cultura dispone di una raccolta manualistica di correzioni d'autore fatta a uso scolastico come la francese, col ristampatissimo trattatello di A. Albalat (1856-1935). Le travail du style enseigné par les corrections manuscrites des grands écrivains (la cui 1a edizione è del 1903). Gli esempi, spesso stupendi, vorrebbero mostrare come si impara a scrivere (o anche a non scrivere, ciò che vale per Fénelon e Stendhal), ma per eterogenesi dei fini l'utilità sopravvive. Il commento di quell'ambiente al materiale radunato (particolarmente abbondante, spesso appassionante, è quello relativo ai grandi ottocentisti, segnatamente Chateaubriand e anche Hugo) è di regola aneddotico, generico e comunque didattico, anche sotto pregiate penne: P. Hazard, trattando degli Abencérages, parla (in ‟Journal des savants", nuova serie, 1935, XXIII, p. 214) dei ‟secrets de l'art d'écrire"; H. Guillemin, a proposito d'un poemetto di Lamartine, scrive (in ‟Trivium", I, f. 4) che peu importe le travail du style. Il ne s'agit plus de cela". Solo l'esperienza idealistica poteva avviare a un ‛uso critico di quei reperti, come accadde infatti nell'università tedesca: per Hugo ad esempio è pregevole la sistematicità di H. Heiss (sulle Odes et ballades, in ‟Zeitschrift für französische Sprache und Literatur", 1912-1913, XL, pp. 1-48). A una teorizzazione giunge addirittura A. Franz (Aus Victor Hugos Werkstatt. Auswertung der Manuskripte der Sammlung ‛Les Contemplations', in ‟Giessener Beiträge zur romanischen Philologie", 1929, Zusatzheffe V, e 1934, IX; singoli componimenti sono studiati anche in ‟Germanisch-Romanische Monatsschrift", 1925, XIII, pp. 471-486, e in ‟Archiv für das Studium der neueren Sprachen und Literaturen", 1929, CLV, pp. 211-228, e 1929, CLVI, pp. 53-65). Il Franz oppone una tipologia dinamica delle varianti alla considerazione ristrettamente stilistica e apologetica dei colleghi francesi (si oppone infatti a ogni valutazione: ‟Ho evitato al possibile giudizi di valore. Dagli eruditi la poesia non dev'essere lodata o biasimata, bensì riconosciuta"). L'analisi genetica non procede da un preesistente contenuto alla forma, ma al contrario: l'evoluzione della poesia è condizionata dal ‟tipo di formulazione poetico-linguistica". Lo studio dell'elaborazione testuale può fondarsi o sulla comparazione con elementi esterni o su un'analisi interna, e perciò considerare il testo o come funzione (biografica) o come potenza. Lo studio filologico e documentario delle varianti tratterebbe le redazioni primitive come potenza e l'ultima come funzione. Questa morfologia positivistica non oltrepassa dunque la soglia dell'interpretazione, varcata per esempio dal Heiss. Ci vuole qualcosa più della sistemazione del Franz perché nello studio delle varianti si trovi superato, come asserisce K. Wais nella sua bella raccoltina di Doppelfassungen französischer Lyrik von Marot bis Valéry (Halle 1936), il conflitto di filologia idealistica e di filologia positivistica. Anche il Wais oppone, sia pur discretamente, a un metodo francese di perfezione stilistica puntuale un altro metodo, per il quale cita a modelli, oltre il Franz, J. Petersen (sul Mondlied di Goethe) e I. Zimmermann (sulla Droste-Hülshoff), e inoltre, per quanto attiene alle doppie redazioni, E. Ermatinger (sul Meister goethiano e sugli Hymnen an die Nacht di Novalis). È significativo che una recente silloge di scritti su Texte und Varianten sia stata elaborata in ambito germanico (v. Martens e Zeller, 1971).
L'edizione nel tempo. - Posta l'esistenza di un autografo o altro documento autorizzato, anche la sua riproduzione è critica Ogni edizione è interpretativa: non esiste una edizione-tipo, poiché l'edizione è pure nel tempo, aprendosi nel pragma e facendo sottostare le sue decisioni a una teleologia variabile. All'ambizione di un testo-nel-tempo corrisponde altresì l'elasticità d'un'edizione-nel-tempo. La raffinatezza dei mezzi meccanici si può ormai caricare di ogni responsabilità nell'ottenimento di un equivalente del documento, liberando il valore totalmente mentale della riproduzione critica.
Rettifica degli autografi. - Se perfino la dottrina del manoscritto unico (Bédier) suggerisce la correzione degli errori detti ‛evidenti', nemmeno gli autografi si sottraggono a questa necessità. Ciò che è ambiguo è solo la definizione di ‛evidenza', che, come sempre che la si invochi, non può rispondere a un reale consensus omnium ed è smentita dalla sua plurivoca applicazione, e che pertanto si traduce nella conformità a un ragionamento di economia. Per esempio: se l'edizione del Teseida si conduce secondo l'autografo, non è detto che se ne debba accettare anche l'unico endecasillabo di tredici sillabe come frutto d'imperizia o come soluzione provvisoria, raccomandate entrambe a un indice statistico troppo vicino a zero. L'economia impone la rettifica di ciò che andrà predicato svista, così come sarebbe pusillanime l'eventuale editore di Paul Valéry il quale pretendesse mantenere un verso crescente (‟Comme l'ongle de l'orteil") che effettivamente esiste in una sua stampa, se essa fosse unica: questo implicherebbe una fisionomia dell'autore troppo alterata, l'ipotesi conservativa risulterebbe troppo onerosa rispetto alla (presunta) congettura ‟Comme ongle" ecc. (che naturalmente si trova invece sempre, prima e dopo), anche se tale congettura indubbiamente sforzi la sintassi (il che giustifica l'errore del tipografo). Altrettanto gravida d'implicazioni sarebbe l'ipotesi conservativa nel caso del Boccaccio, le cui copie di opere altrui o anche proprie, compreso il rivendicatogli manoscitto Hamilton del Decameron, sono infatti tutt'altro che ineccepibili. In tali casi è utile, poiché la serialità aumenta la certezza della correzione, procurare di descrivere una morfologia delle sviste. È facile constatare che quelle puramente grafiche si classificano sotto categorie (anticipo, ripetizione, omissione ecc.) che ordinatamente corrispondono a quelle, prima patologiche, poi fisiologiche (assimilazione o dissimilazione regressiva e progressiva, sincope ecc.), proprie dell'evoluzione linguistica, particolarmente fonetica. Se ne estrapola una cibernetica sola.
Edizione diplomatica. - Per l'indicata perfezione raggiunta dalla meccanica, l'edizione diplomatica, utilissima un giorno, ha una sfera d'applicazione in diritto, se non in fatto, sempre più limitata. Essa rappresenta un puro aumento di leggibilità, e in realtà viene spesso giustapposta, passibile com'è oltre al resto di misurazioni topografiche, al facsimile fototipico, spesso trasparente solo dopo una lunga assuefazione (un caso-limite può esser quello della Seconda Centuria polizianea). Una fattispecie degna di rilievo si ha nella traslitterazione (per esempio di testi arabo-ispanici o giudeo-romanzi). La sua minuzia o disinvoltura è in stretta proporzione con la confidenza acquisita in quel distretto scientifico, e dunque s'inscrive sotto l'epigrafe di edizione-nel-tempo. Solo tale confidenza può indurre a trascurare le ridondanze o le equivalenze, accettando il procedimento a senso unico per cui la sostanza del punto di arrivo è integra, ma non si potrebbe ricostruire univocamente la grafia del punto di partenza, in una sorta di ‛uguaglianza a destra'. Di tale confidenza ha dato un luminoso esempio il Cassuto nella trascrizione dell'Elegia giudeo-italiana, e ciò che può frenarne l'imitazione è solo la perdurante asimmetria nella competenza bilingue.
Edizione interpretativa. - Di un autografo (o suo equivalente) l'edizione interpretativa riproduce ciò che interessa e omette, intenzionalmente o spontaneamente, ciò che non interessa. In sostanza essa è la traduzione o adattamento di un sistema, storicamente individuato, in altro sistema; nulla di categoriale la distingue dalla traslitterazione, se non il fatto che per l'autore e per l'editore vige una stessa convenzione di base, non però assolutamente identica, ciò che rischia di sottrarre la coscienza delle differenze a un'assidua vigilanza. Elementi funzionali possono assumere una consistenza oggettiva, ma il limite fra funzionalità e oggettività, più spesso fissabile automaticamente, può risultare solo al termine d'uno scrutinio critico. Le opposizioni hanno luogo tra sostanza linguistica e rappresentazione (come tra fonetica e grafia) e tra rappresentazione e coscienza della rappresentazione. La distinzione di u e v come, dove occorra, di i e j si fa per accordo universale (a cui si vorrebbe partecipasse più costantemente la filologia spagnola, in cui edizioni famose arrivano a distinguere tra le varie forme di s o di r), ma distinzione e indistinzione possono essere inglobate nell'oggetto stesso dell'espressione, come accade al Manzoni per l'indistinzione di u e v e per gli altri antichi usi grafici nel presunto Anonimo della sua Introduzione, o al Gozzano per la forma ‛italica' della s nelle vecchie carte (‟Isola Sconosciuta", che nell'esecuzione vocale sarà stata prevista, conforme alla ‛semicultura' vulgata, come f o come la pronuncia blesa di s). D'altra parte un famoso acrostico di Dante (Purg. XII, 25 ss.), supponendo VOM ma uom, implicherebbe a tutto rigore che l'indistinzione (in forma diversa per la maiuscola e la minuscola) venisse estesa all'intera Commedia: il fatto che ciò non accada importa il giusto prevalere della funzione sul segno strumentale, ma il fatto che il problema si ponga indica che l'ambivalenza della lettera (o, a rigore, già dell'ideogramma) tra segno e oggetto - ambivalenza a cui, nella civiltà alfabetica, si devono esperimenti che vanno dagli Erotopaegnia di Levio alle Calligrammes di Apollinaire, al lettrisme, a Cummings ecc. - vige talvolta, ma virtualmente sempre, anche in critica testuale, e sollecita decisioni di natura problematica. Indipendentemente dai casi in cui la grafia viene usufruita, come negli ultimi ricordati, ad allotrio scopo figurativo, sia pure con un eventuale sottofondo vagamente semantico, essa può essere oggettivata per ragioni strettamente estetiche, sia innovanti sia tradizionalistiche: lo zelo grafico non è separabile da un certo tipo di stile e, per citare non scrittori del canone più largo, ma preziosi eccentrici, sarebbe impensabile stampare o ristampare Dossi, Imbriani o C. E. Gadda senza rispettare scrupolosamente le loro singolarità, l'uso di j, tré, aqua in Dossi, la punteggiatura separativa di Imbriani ecc. Ciò vale al massimo per i riformatori (tale era precisamente il predecessore grammaticale del Dossi, O. Gherardini), ad esempio il Trissino con le sue nuove lettere. Tuttavia nel caso del Trissino andrebbero rispettate le sole ‛novità qualificanti o anche i dati coevi normalmente correggibili (indistinzione di u e v, uso delle maiuscole, punteggiatura ecc.)? Il problema sorge perché si tratta di autore abbastanza antico, staccato dalla continuità con le attuali convenzioni e appartenente a un altro tipo di cultura grafica. È questo iato, superato normalmente da un'automatica trascrizione fatta d'ufficio, che pone decisioni drammatiche quando qualche elemento del sistema perento, già allora contestato, stesse a cuore all'autore del testo da pubblicarsi: il Debenedetti l'ha messo nel competente rilievo per il caso dell'h-ariostesca, d'un autore cioè per cui, diceva, togliere l'h all'huomo e all'honore tanto valeva quanto togliere all'uno umanità, all'altro onorabilità. Si crea cioè una discontinuità o rispetto alla coerenza passata o rispetto alla fisionomia presente oggi nella repubblica delle lettere. La commutazione del sistema, inevitabile per un autore mediamente antico, porta con sé alcune contraddizioni, che sono variabili in rapporto alla finalità che l'edizione si prefigge. Se si vuol dare un'edizione del Petrarca latino secondo gli autografi (o, mancando questi, secondo l'uso comune a lui e al suo tempo), nessun dubbio che vada scritto -e, nichil ecc., ma se si persegue uno scopo divulgativo, sarà lecito scrivere -ae, nihil ecc., secondo tavole di traslitterazione nel complesso meccaniche. Se però si vuol presentare a un pubblico anche non specializzato il Petrarca volgare secondo la sua grafia, come il primo nostro grande di cui si conosca la mano, sorgono situazioni della cui criticità anche quel pubblico dev'essere cosciente. In una riproduzione del Canzoniere secondo il manoscritto (Vaticano 3195) o autografo o, per le parti non autografe, vigilato dall'autore (avendo avvertenza di segnare i pochissimi trascorsi di patina padana inflitti dal copista ravennate, per evitare ogni ibridismo, qui almeno insopportabile, di sostanza fonica toscana e di settentrionale) sarà lecito mantenere h dovunque sia scritto, in particolare a inizio di parola, ma, separandosi le parole (e qui segnatamente le proclitiche elise) alla moderna, e seguendo il Petrarca come tutti la norma grafica scoperta dal Mussafia (esemplificabile con honore ma lonore = l'onore), si otterrà la soluzione contraddittoria d'ora in hora. Le frizioni consecutive al cambiamento di sistema sono soprattutto visibili nella punteggiatura, la cui inserzione in un testo antico è inserzione di dati di ‛esecuzione' affini a quelli introdotti dall'ecdotica musicale, ma che si trova a colluttare, per esempio proprio nel caso del Petrarca, con un sistema originale che adopera segni anche uguali (punto, punto interrogativo) o affini (comma = virgola) e che mescola del pari, ma ripartendole diversamente, funzioni semantiche, qualche volta convenzionali, e funzioni melodiche (oltre ad alcune diacritiche), talché riesce possibile solo in un numero di casi limitato mettere od omettere un segno, e lo stesso, nella stessa sede. Le principali difficoltà insorgono infatti per quegli adattamenti all'‛uso moderno' che oltrepassano i semplici mutamenti tabulari di grafemi e per i quali, di più, la moda e il gusto consentono di volta in volta una porzione fissa e una elastica. Così avviene per la ripartizione di iniziali minuscole e maiuscole, sempreché questa non sia fissata in modo ferreo, come nel tedesco moderno col suo costume di ascendenza barocca (benché non esente da contestazioni, valga St. George, le cui minuscole ai nomi comuni sono tanto sacre quanto l'h- all'Ariosto). Così, ancora, per la punteggiatura, verso cui assoluto dev'essere il rigore conservativo quando è assunta nell'espressione (come in Foscolo, Leopardi e soprattutto Manzoni) ed è razionalizzabile in saldi enunciati (seppure spesso ancora da studiare come modelli anche storici, la lineetta ‛foscoliana' di Mazzini, certe virgole ‛manzoniane'); mentre è ammissibile la libertà degli editori per autori che ‛non vedano' la punteggiatura, e s'intenda sempre dove non la vedono, come Porta o perfino De Sanctis. La conservazione è dunque scalare, e la coscienza dell'editore come del lettore risponde a un'analisi frazionaria. Per tornare a fatti propriamente grafici sempre esemplificabili nel Petrarca autografo: ç è una pura forma di z (indifferentemente semplice o doppia, come sottratta alla correlazione di lunghezza) e può esserne sostituita senza danno (ciò non sarebbe possibile in antico spagnolo, dove le due lettere erano - spesso nei codici e oggi di norma dagli editori - addette a una distinzione fra sorda e sonora non segnata dalla scrittura italiana); t (o c) più i innanzi a vocale risponde a un uso etimologico (gratia) serbabile qui senza inconvenienti (equivoco potrà sorgere più tardi quando la scrittura -antia/-entia sarà atta a rappresentare o la forma di astratto latineggiante, anzi umanisticheggiante, -anzia/-enzia o addirittura -anza/-enza); la conservazione di -ij per -ii (con la forma lunga di i non ignota in altre finali, ma normale a differenziare le aste) risponde invece non a una pietas umanistica (come verso et, nocte, extremo..., il primo dei quali d'interpretazione del resto ancipite davanti a vocale fra e e ed), bensì a una pietas medievalistica, quale sussiste per i numeri romani nella tipografia inglese (qui si pone solo il problema secondario di stabilire se in -ii fosse ancora semivocale più vocale o già vocale ‛lunga' da rendersi oggi meglio con -i che con -ii, o diacritico-etimologicamente con -î un tempo anche con -j); finalmente nesun, nul'altre, il tipo di composto adolcire (meno raro di addolcire) - composto con a- che si oppone a quello con ad-, addorno (oltre che adorno), analogo a inn-anzi, inn-alzare - presentano, con una probabilità che rasenta la certezza, un autentico abbreviamento protonico della lunga la cui alterazione dalla grafia rischierebbe di estendersi alla sostanza fonica. Se possedessimo un autografo di Dante, e un autografo volgare, possiamo congetturare che si conformerebbe al canzoniere Vaticano (lat. 3793), al Vaticano-) Chigiano (LVIII. 305), al codice del cosiddetto Fiore (a Montpellier), oltre che in particolari di minor interesse comuni a Petrarca, nella scrizione ridondante cie per ce (cierto, cienere), che tanto più saremmo costretti a correggere in quanto i rischierebbe di essere preso, cosa capitata e che seguita a capitare, anche a praticanti della professione editoriale, per segno di vocale.
Intermediazione tipografica ed editoriale. - Dopo l'invenzione della stampa anche gli autografi (o equivalenti) sono stati soliti passare attraverso l'intermediazione tipografica, ciò che importa (prescindendo dall'introduzione involontaria di errori, quasi sempre troppo flagranti per essere pericolosi) una forte probabilità di livellamento formale, nelle migliori tipografie assistite prima da letterati poi da appositi tecnici, tendenzialmente sistematico. Tali interventi, certo rischiosi quando praticati da gente che la sapeva più corta degli autori, sono da condannare assai meno che non si sia consueti fare. Questi letterati o proti sono stati per secoli i depositari della correttezza grafica e puntatoria, in particolare in paesi di grafia difficile come la Francia. I grandi del Settecento e del primo Ottocento, come sanno i loro editori moderni, principalmente quelli dei loro carteggi (e la cosa vale ancora per Proust), non davano l'ultima cura a questo aspetto del loro prodotto, destinato a esser rifinito da altre mani. E tutti sanno che anche in epoca più recente fini letterati non disdegnarono di limare dall'esterno le scritture di autori provvisti di forte personalità poetica ma non di robusta cultura alfabetica: scomparsi quei discreti curatori, duole che nessuna sorveglianza sia più esercitata sui medesimi autori, lasciati in balia di sgrammaticature non necessarie, e anzi seriamente riduttive. È un episodio del filologismo caricaturale, esercitato fuori del competente ambito, scotto di una recente ‛filologia di massa', che giunge a ingombrare pagine e pagine di libri non destinati a uso principalmente fabrile con varianti poco significative di autori terziari. Quei depositari della tradizione trovano un limite alla legittimità del loro operare quando infliggono retrospettivamente le loro norme ai prodotti d'una precedente tradizione incompresa. La filologia che in largo senso si può chiamare laurenziana, per esempio, con tutti i meriti che le vengono dall'aver voluto costituire una vulgata degli italiani (così nella Raccolta Aragonese) come già dei classici, eccedette senza dubbio in livellamenti melodici, timbrici e in genere formali.
Archetipo. - La ricostruzione testuale, come la riproduzione, ha per ovvio presupposto l'unicità del testo, ne sia l'attestazione unica o plurima. Si è discusso oziosamente se ciò che si ricostruisce sia l'originale o altra cosa. Ma sarebbe operazione inane quella che non mirasse all'originale, s'intende l'originale al limite (dell'attestazione documentaria e della critica interna). La constatazione che gli enti dell'ecdotica sono ambigui tra punti e segmenti vale anche per l'oggetto della ricostruzione, che si deve sempre assumere come equivalente dell'originale tranne prova in contrario: la prova consiste in ‛errori' (cioè in elementi di cui vicina a zero è la probabilità che appartengano al punto di partenza), errori di sostanza, siano essi sanabili o no (nel qual caso vengono contrassegnati da cruces interpretum), o anche errori di forma. È opportuno riservare il nome di archetipo all'oggetto ricostruito, cioè l'antenato comune all'intera tradizione, in quanto distinto dall'originale perché già corrotto: la sua consistenza va sempre dimostrata. Il Timpanaro ha mostrato che il nome archetypus col semplice valore di capostipite si trova già in Erasmo, dalla 2a edizione degli Adagia (1538); mentre di codex archetypus in accezione lachmanniana discorrono già alcuni contemporanei del Lachmann, in particolare il classicista danese J. N. Madvig; il Lachmann, nel commento a Lucrezio (1850), rivendica la definizione come sua: ‟id exemplar ceterorum archetypon (ita appellare soleo)". Ed eccone il contenuto: ‟Il Lachmann fondava il suo metodo sul presupposto che la tradizione di ogni autore risalisse sempre e in ogni caso a un unico esemplare già sfigurato di errori e lacune, quello ch'egli chiamava archetipo" (v. Pasquali, 19522, p. 15). Qui ‛autore', poiché la critica testuale nasce in filologia classica, vale autore greco o latino. E in astratto si può anche pensare che l'eccezione sistematica si fondi sopra precise ragioni culturali: per esempio, ‟che già prima del 900 tutti i classici greci oggi superstiti (si eccettuano naturalmente i testi ritrovati in papiri) furono tradotti dalla maiuscola in minuscola, e a un tempo corredati degli accenti e degli spiriti ormai obbligatori. Un lavoro di tal genere, lungo e fastidioso, non si fa due volte senza necessità" (ibid.); gli archetipi dei latini sarebbero stati elaborati in un periodo che dalla cosiddetta ‛Rinascita carolingia' porta, a ritroso, fino al Tardo Impero. In fatto, G. Pasquali ha dedicato un intero monumentale volume (Storia della tradizione e critica del testo, Firenze 1934), nato da una recensione al manualetto lachmanniano del Maas, a casi, tutto sommato squisiti, di tradizione che oltrepassi l'archetipo lachmanniano. Ma anche in linea di principio il sospetto prudenziale dell'interposizione di un archetipo lachmanniano non potrebbe esonerare dalla dimostrazione che l'oggetto ricostruito non sia un equivalente dell'originale, un (per usare il termine positivistico-pragmatistico) als ob.
Trasmissione verticale e orizzontale. - Nel caso più semplice, da servire come parametro per misurare i casi abnormi, la trasmissione è ‟verticale" (termine del Pasquali), cioè va senza deviazioni di copia in copia e ogni testimone risale a un solo genitore, ed è univoca, cioè riguarda un testo fissato senza alternative. Il Pasquali chiama ‟orizzontale" o ‟trasversale" una tradizione in cui intervenga più di un antigrafo, per contaminazione o collazione, totale o parziale. Il caso di gran lunga più frequente è quello della collazione parziale, che è sempre stato, e presumibilmente sarà sempre, praticato dagli editori speditivi, fedeli a un antigrafo salvo i punti insoddisfacenti, per cui si ricorre ad altro esemplare: questo comportamento antilachmanniano può essere proiettato a ritroso sugli antichi scribi, salva la meno facile disponibilità in quei tempi di altri esemplari, che spiega il prevalere, nei copisti (purtroppo spesso semicolti) che vogliano capire il loro testo, dell'emendamento congetturale sulla collazione. Ci può essere contravvenzione anche all'univocità, nel senso che l'esemplare può contenere, in interlineo o in margine, varianti redazionali (nei casi-limite, d'autore), offerte alla scelta dei copiatori.
Ricostruzione. - Dall'attestazione unica si risale verso l'equivalente dell'originale attraverso eventuali incoerenze e discontinuità di certezza avvertite nel suo interno. La critica interna, applicandosi a quella ‛proiezione sul piano' che è il manoscritto unico, ne ricava uno spazio e ricostruisce, detto con altra metafora, una ‛diacronia'. (È acquisito il parallelismo della critica testuale alla linguistica comparata ed è razionale proseguire il parallelismo fino alla linguistica strutturale, visto che la ricostruzione dell'originale è il rintracciamento di uno stato sincronico e che l'abbandono del manoscritto unico significa ricavare dati diacronici, a ritroso, dalle disuguaglianze, che sempre ci sono in lingua, di uno stato sincronico, per ricavare uno stato sincronico più arretrato. La ricostruzione dell'originale è formalmente assimilabile alla ricostruzione dell'indoeuropeo meno in Bopp che in de Saussure). Il ricostruito è più vero del documento. Questo principio non è scosso dalle scorrettezze di procedura che in fatto possono essere state commesse. Il divieto di Bédier agli interventi ha valore di semplice monito (storicamente preziosissimo) alla cautela verso gli arbitri che un'incomposta immaginazione si apre entro il legittimo campo d'azione della fantasia scientifica. I manoscritti esistenti e tangibili non sono, come diceva il maestro francese, ‟il nostro bene" se non sono criticati, cioè interiorizzati: anche la conservazione è una tuzioristica ipotesi di lavoro.
Critica interna. - La critica interna, quale si esercita sul manoscritto unico, ma naturalmente quale si esercita anche sugli archetipi e subarchetipi ricostruiti, si compone di fattispecie e perciò non può essere sottoposta a generalizzazioni esaurienti. Senza sollevare dubbi in casi singoli sulla divinatio (con cui peraltro si designa anche la folgorante rapidità e abbreviazione psicologica di un ragionamento), un maggior grado di certezza si riesce a misurare quando le proposte risultino seriali. Esse si riferiscono a elementi della struttura, e dunque iterabili, particolarmente metrici e ritmici per i testi in verso o in prosa numerosa. Formule che riflettano una realtà legislativa complessa consentono di evitare eccessi semplificatori di correzioni, talora denunciati dal loro stesso numero. Tali formule riescono a portare a uno stato soddisfacente solo una parte di certi testi, altri scalano secondo un grado di probabilità assai variabile: è allora materia di discrezione se intervenire tipograficamente in modo diretto, e fino a che limite, o serbare i risultati della critica a un apparato o altra sezione didascalica. Gettare la spugna e avvolgere tutto il testo di una crux iniziale si può a ragion veduta e con espressa giustificazione (salvo ovviamente i casi di ricerca riuscita sterile, poiché i tentativi riusciti sono solo, come avviene di ogni oggetto sperimentale, una parte di quelli esperiti, e in filologia una parola pronunciabile è a prezzo di molti silenzi sul proprio lavoro).
Excursus metrico. - Molte brillanti correzioni della filologia classica nel secolo scorso sono dovute a riconoscimenti metrici non elementari, nel campo specialmente della poesia drammatica, segnatamente nei comici dai ‛numeri innumeri'. Formule composte o alternative valgono anche per le chansons de geste francesi, dove il décasyllabe epico tollera già l'apparizione di qualche alessandrino, e il décasyllabe stesso presenta varie forme di cesura. La loro imitazione riesce tuttavia senza regola fuori di Francia, nel repertorio franco-italiano e anche in quello angio-normanno (dove però balenano complicate situazioni ‛continentali' in chansons a manoscritto unico, quali i cosiddetti Pèlerinage e Guillaume, oltre al Roland di Oxford, per non parlare del Gormond che è in octosyllabes). È dubbio che questa licenza vada estesa alla Spagna del Çid, dove il Menéndez Pidal ha creduto di portare al dover essere dall'essere l'alternanza del codice unico da dieci a venti sillabe con prevalere della sistemazione media, mentre è stata indicata, recentemente dal Chiarini, la strada di alcune sicure normalizzazioni (e all'accanita conservazione testuale si oppone nell'ultimo Pidal il frangimento in due mani del prima creduto autore unico). Nella Spagna medievale è stato ben dimostrato l'anisosillabismo di ciò che esorbita dallo stretto mester de clerecía (l'Henriquez Urena gli ha dedicato un libro meritorio), esempio luminoso il verso di arte mayor: compito di una filologia non rinunciataria, e che voglia foggiarsi uno strumento atto a sondare la sanità o corruzione ritmica dei testi, è misurare le escursioni, come ha fatto il Chiarini per la cuaderna vía di Juan Ruiz, opposta alla isosillabica della clerecía. Formule anisosillabiche sono state di recente studiate metodicamente nell'antica poesia italiana. Si va dall'escursione massima, e ben personale, di Iacopone, per il quale soccorre la pluralità dei manoscritti, all'alternanza di gran lunga più frequente, la quale si verifica nell'ottonarionovenario (adattamento dell'octosyllabe francese): non avervi posto mente costrinse il Salvioni a potare in Bescapè una quantità inverosimile di versi. Finora non si è ottenuto un adeguato coordinamento, in ordine a questo problema, di critica testuale e filologia musicale, incline quest'ultima piuttosto a coonestare la variabilità fin dal latino medievale (ma si oppone l'inconcutibile isosillabismo d'un fenomeno solidalmente letterario-melodico qual è la poesia trobadorica). Altri limiti da misurare sono quelli della rima e dell'assonanza, sia nei rapporti reciproci (possibilità di rime imperfette dal punto di vista consonantico) sia in quanto esse hanno di comune (registri vocalici sotto accento e dopo). Per la prosa va segnalata la possibilità di costituire in criterio correttorio le clausole della prosa d'arte greco-latina ed eventualmente le forme di cursus in quella latina medievale, coi suoi prolungamenti volgari. Pioniere di simile analisi, peraltro non ancora, ché sarebbe stato effettivamente prematuro, a scopo correttorio, è stato per il territorio italiano il Parodi, seguito dallo Schiaffini. Il fatto che nelle francescane Laudes creaturarum un solo stico sia sprovvisto di ogni possibile formula di cursus ha indotto a congetturare un supplemento, ‟per lo quale ennallúmini / [noi] la nócte‟ (o ‟[nóie] la nócte").
Parametri plurimi nell'attestazione unica. - Dall'attestazione plurima si risale per successive induzioni a una figura di identità testuale totale o a tratti solo probabile. Ad essa torna ad applicarsi la critica interna, la quale è dunque la sola costante della ricostruzione e fa sì che non ci sia una differenza qualitativa fra attestazione unica e attestazione plurima dopo sottoposta a recensio. C'è solo nell'attestazione unica una maggior probabilità di innovazioni (errori) non avvertibili, che una collazione con altri testimoni farebbe percepire facilmente. In qualche modo si può dire che la critica interna supplisca con la pluralità dei suoi parametri alla naturale pluralità e ‛voluminosità' dell'attestazione plurima. Inizialmente infatti essa non di rado è solo negativa, cioè consente la pura localizzazione del guasto e non il rimedio; e la localizzazione per di più può essere solo globale e approssimativa (per es. l'ipermetria o l'ipometria dove non si riesca a individuare esattamente la sillaba sospetta o il luogo di caduta della sillaba) o addirittura alternativa (per es. una stilisticamente inammissibile identità di parola-rima, come più volte nel Fiore, senza che sia palese se si tratti di ripetizione o di anticipo). Tutto lo sforzo del critico deve consistere allora nella ricerca di dati (per es. luoghi paralleli all'interno, luoghi paralleli in altre opere dell'autore, collazione con l'originale se si tratta, come nel caso del Fiore, di parafrasi pur non vincolante) per riempire la zona colpita di contenuto positivo e, in particolare, scegliere oggettivamente nei casi opzionali.
Riduzione nell'attestazione plurima. - L'attestazione plurima costituisce da sola uno spazio che consente di seriare in cronologia relativa ascendente, e di eliminare successivamente, le innovazioni subentrate nel testo. La riduzione fu attuata dapprima con mezzi bonari legittimati dal gran numero, benché riprovati dalla logica. Uno è la limitazione ai manoscritti più antichi, al quale il Pasquali (ma già il Semler) giustamente oppone il canone che enuncia in modo lapidario ‟recentiores, non deteriores": la sparizione dei loro antigrafi può doversi al caso, ma qualche volta proprio al fatto che ne esisteva una copia più leggibile o in migliore stato fisico di conservazione. Tuttavia, poiché la corruzione è per definizione progressiva nel tempo, è comprensibile che anche in epoca lachmanniana, e perciò presso editori convinti della necessità teorica d'una recensio esauriente, la presenza d'una tradizione così abbondante da render possibile, in una vita di editore, l'edizione solo a prezzo d'una decimazione abbia suggerito di mettere fra parentesi i manoscritti più recenti. Così ha fatto sistematicamente E. Langlois per la sua eccellente edizione del Roman de la Rose, l'opera del Medioevo volgare più diffusa dopo la Commedia (non si scordi che ai suoi tempi i viaggi erano ben più onerosi, e l'area va dalla California a Leningrado, da Stoccolma alla Città del Capo, nè erano stati ancora inventati i microfilms); del resto sondaggi effettuati nell'ampia sfera da lui trascurata, di codici più tardi del Trecento e di stampe incunabule o cinquecentesche, hanno rivelato una situazione molto interessante per quanto spetta alla storia della tradizione, e anche materiale, assente dall'apparato del Langlois, rinviabile al Duecento, ma nulla suscettibile di salire a testo. Quanto alla Commedia, l'edizione del Petrocchi si limita per ora alla prima generazione di manoscritti (con scelta registrazione di attestazioni più tarde), ma prevede espressamente un nuovo apparato per i codici recenziori. Col crescere della frequenza, specialmente con apertura a infiltrazioni ‛orizzontali', gli inconvenienti diminuiscono; ma il gran numero può essere stimolo ad artifizi non razionali, come quelli ispirati a dom Quentin dalla pletora statistica della Vulgata. Recisamente da riprovare è comunque l'altro strumento ingenuo di riduzione, consistente nell'affidarsi alla maggioranza dei testimoni, s'intenda la maggioranza semplice: basti riflettere che, se questo criterio fosse valido, la maggioranza potrebb'essere falsata copiando dei manoscritti presenti, una o più volte, separatamente o attraverso i derivati. Questa grottesca ipotesi già indica quale sia il solo criterio preliminare di decimazione lachmannianamente valido, e dunque obbligatorio: chiamandosi descripti i codici ‛figli', l'eliminatio codicum descriptorum. Una copia (o copia di copia) si confessa per tale quando contiene particolarità dichiarabili solo per errata interpretazione di un dato materiale del modello per es. lacuna corrispondente a un foglio caduto e non avvertito, oppure saltato), o anche quando contiene tutti gli errori dell'altro più alcuni specifici. In questo caso potrebbe a rigore trattarsi di derivazione da un manoscritto identico (manoscritto ‛fratello'), e pertanto di ciò che si potrebbe definire equivalente di descriptus; ma l'equivalente ha tutte le proprietà di quello assente a cui equivale e non è oggetto di calcolo separato. Un bell'esempio di eliminazione di descripti o loro equivalenti è negli Studi sul Canzoniere di Dante del Barbi, che ha consentito di semplificare drasticamente la tradizione dei nostri lirici antichi, sgombrando il regesto caotico per sovrabbondanza di cui è vitando paradigma il Cavalcanti dell'Arnone.
Metodo lachmanniano. - Il procedimento scientifico di riduzione dell'attestazione plurima, che porta alla probabilità di una maggioranza ‛qualificata' (su un numero di testimonianze non visibilmente riducibili), si suol chiamare lachmanniano dal nome di K. Lachmann, autore di molte edizioni critiche di classici latini, da Properzio (1816) a Lucrezio (1850) - e il riferimento teoretico è fatto specialmente ai Prolegomena a quest'ultimo autore -, ma altresì di un Nuovo Testamento greco (e poi anche latino) e di parecchi testi in mittelhochdeutsch cominciando dai Nibelungi. Che il Lachmann avesse avuto precursori metodologici nella philologia sacra tedesca e alemannica del Settecento (Wettstein, Bengel, Semler, Griesbach), aveva mostrato il Pasquali (v., 1934, cap. I). Ora sulle sue orme il Timpanaro (v., 1963), in un'indagine sistematica e accuratissima che corrisponde anche a un'esigenza formulata dal Bédier, ha fatto vedere come al Lachmann, espositore sovente vago e confusamente oracolare, si siano associati tanti filologi coevi e conterranei nell'elaborazione del metodo da lui intitolato che si può discorrere di metodo lachmanniano quasi solo simbolicamente. Valga dunque l'avvertimento.
Nozione di errore. - L'essenziale della riduzione lachmanniana consiste nel considerare come testimonianza unica quella di due o più codici coincidenti in errori comuni, purché verosimilmente non poligenetici. Il calcolo della maggioranza, della quale accettare la lezione, si effettua dunque non su individui presenti (esclusi i descripti), ma su famiglie (insiemi che possono contare anche un individuo solo). La genealogia delle testimonianze si suol rappresentare in un grafico o albero detto stemma codicum, in cui gli individui sono contrassegnati con sigle a iniziale maiuscola e le famiglie e sottofamiglie con lettere minuscole o greche, i rapporti genealogici con segmenti di verticale (il primo stemma codicum, e con questo nome, fu tracciato, secondo le ricerche del Timpanaro, da C. T. Zumpt per le Verrine di Cicerone, 1831, seguì F. Ritschl per l'umanista bizantino Tommaso Magistro, 1832, e - col nome di stemma - per Plauto, 1849, quindi il Madvig per due orazioni ciceroniane, 1833; concetti genealogici sono anticipati dai settecentisti Bengler, Semler ed Ernesti, il primo dei quali discorreva di tabula genealogica). Se si analizzano i singoli costituenti del processo, ‛errore' designa un'innovazione privilegiata di percettibilità dal suo stesso guasto; il concetto di errore va estrapolato in quello di innovazione comunque riconoscibile (non a solo lume di critica interna), tant'è vero che già il Lachmann stesso si valse per il Nuovo Testamento di criteri anche geografici, concludendo per la maggiore antichità - perché a tanto si riduce la bontà - delle lezioni attestate, per usare i termini invalsi nella linguistica geografica dei primi decenni di questo secolo, in ‛laterali' rispetto a quelle attestate in ‛aree centrali' (una carta di atlante linguistico rappresenta la proiezione orizzontale d'una stratificazione verticale, e analogamente si potrebbero moltiplicare gli esempi di cronologia relativa ricavabile dalla distribuzione geografica, così la redazione assonanzata del Roland conservata solo alla periferia, in Inghilterra col manoscritto di Oxford e in Italia con uno dei manoscritti franco-italiani di Venezia). La considerazione assiologica, cioè l'opposizione di ‛cattivo' e ‛buono', ha una parte abbastanza modesta, visto che non tutte le lezioni ‛cattive' sono in assoluto cattive e che le lezioni ‛buone' sono solo le non cattive. Per un circolo, che non ha nulla di vizioso, ma su cui è bene richiamare l'incuriosita attenzione dell'operatore, le lezioni ‛cattive' implicano che si predichino ‛buone' e ‛cattive' alcune lezioni per sé indifferenti. Si scartano le lezioni dei testimoni rimasti isolati (procedura lachmanniana, anche se non inaudita prima del Lachmann, che solo col Maas è stata battezzata eliminatio lectionum singularium) e più in generale dei raggruppamenti minoritari. Una certa struttura dell'albero non un diretto giudizio di valore, le condanna, anche se a fondamento del riconoscimento della figura strutturale sta un giudizio che può offrirsi come di valore, ma che sempre è di stima cronologica.
Diffrazione. - Il requisito che si chiede all'errore è di essere (probabilmente) monogenetico. Valore non sicuramente probatorio detengono gli errori per loro natura suscettibili di essere poligenetici, cioè praticabili da più scribi indipendenti. E sono proprio i casi in cui più palese appare l'eziologia dell'errore, e di conseguenza garantita l'erroneità: sia che si tratti di figure puntuali di ‛distrazione' attuate a livello individuale, come le assimilazioni specificabili in cadute per omeoteleuto od omeoarchia; sia che si tratti di figure strutturabili, a livello collettivo, in vere forme culturali quali l'usus scribendi e la lectio facilior (concetti, benché non termini, passabilmente antichi, il primo adoperato fin da Aristarco, l'altro di cui il Timpanaro trova una formulazione precisa da fine Seicento, nel biblista Jean Leclerc). Ognuno che trascriva da una forma desueta di scrittura è esposto a determinati equivoci, sempre gli stessi: tanto che spesso si riescono a ‛datare' trascrizioni e antigrafi. E una forma mal comprensibile rischia di essere o scambiata con una banale fisicamente vicina o surrogata con un sinonimo più corrente. Si avverta tuttavia che il criterio della lectio difficilior miete vittime fra gli apprendisti stregoni, inclini a riconoscere per tale più d'una insensata deformità. Ma la lectio difficilior può essere soggetta a sostituzioni non sempre univoche, bensì multiple. Si giunge allora a quella che qualcuno ha chiamato, traendo il termine dall'ottica, ‛diffrazione', e di cui si può tracciare sommariamente la tipologia. La lezione originaria è surrogata (irregolarmente rispetto allo ‛stemma') da varie lezioni per sé indifferenti, pur persistendo in parte della tradizione (diffrazione in presenza): così se nella Vita antico-francese di sant'Alessio, v. 40, acatet del codice L ‟procura", detto del padre in riferimento alla sposa cercata per Alessio, è sostituito dai banali ma divergenti aplaide (A), porchace (P), a quise (SM); proprio della diffrazione è che la presenza (della lezione originaria) sia di collocazione instabile. Tuttavia la lezione originaria, assente (qui comincia la diffrazione in assenza), può essere stata surrogata variamente con lezioni almeno in parte palesemente erronee: è merito del grande Adolf Tobler aver congetturato che in Alexis 155, dove i codici danno o seignor ipermetro (LP) o determinante, per caduta d'una preposizione monosillabica, errore contestuale (P2, allora ignoto) o sire in caso obliquo (solecismo) (A) o ami del verso precedente (S), bisognerà congetturare il raro per maschile ‟coniuge". Di qui è facile inferire che, anche dov'è una divergenza generale tra varianti per sé indifferenti, come in Alexis 39, che comincia con or (LM) o ja (A) o et (P) o sil (da ristabilire in si, S), si debba congetturare una lectio difficilior precedente, se ne possa poi, o no, proporre una soddisfacente (e forse qui si può, ruovet per volt ‟vuole"). È evidente però che col salto del Tobler si è bucato il tetto della mera recensio, rispetto alla quale la lectio difficilior (presente) rappresenta un ostacolo sulla via che ha per fine la scelta automatica, e si è saldata la lectio difficilior (assente) all'emendatio: la lectio difficilior, anche se eventualmente inafferrabile, seguita però ad avere il carattere di necessità, imposto da una certa struttura della tradizione, che ineriva alla scelta lachmanniana. Quella restituzione translachmanniana che è l'ultimo tipo di diffrazione in assenza (il tipo imposto dall'associazione di pluralità e banalità delle varianti) cerca di riempirsi di sostanza testuale, procurandosi un'oggettività nel reperimento di un elemento costante. Tale è il caso che si offre quando si constata che divergenze adafore, in V 440, 445 e 465, si verificano in presenza di merveille, che andrà dunque restituito nel primitivo mereveille. Qui lo spazio della tradizione plurima raggiunge lo spazio della critica interna, quale si può esercitare anzitutto sulla tradizione unica. Aumentandone la certezza con l'iterazione, il canone ricostruttivo della diffrazione si annuncia come particolarmente fecondo.
Morfologia dello stemma. - Il numero degli enti congetturali (contrassegnati infatti da minuscole), archetipi, subarchetipi, interpositi, è il minimo richiesto dalle necessità del ragionamento, non è un numero storicamente effettuale; quei simboli indicano piuttosto classi o insiemi di individui (contenenti almeno un individuo) che individui, piuttosto segmenti (verticali) che punti, o meglio è irrilevante che siano punti o segmenti. L'aumento arbitrario degli interpositi può essere antieconomico, ma è innocuo. Tutt'altro regime ha il più alto livello orizzontale, quello delle famiglie irriducibili, dal cui numero si può ricavare l'eventuale maggioranza che determina automaticamente la scelta. Esiste un'irrecusabile tendenza alla loro riduzione, tanto più che un numero non ristretto parrebbe suggerire presenza di redazioni ‛parallele'; ma, quanto è incomparabilmente più facile riunire i piani bassi, come si dice, dell'albero che i piani alti, è salutare lasciare agire il gioco sincero delle probabilità, se non si vuole vanificare lo sforzo lachmanniano di una ricerca di meccanicità, sottratta al gusto soggettivo (iudicium).
Recensione aperta. - Le considerazioni qui esposte presuppongono sempre la ‛verticalità' della tradizione. Una tradizione ‛trasversale', cioè che ha ereditato varianti alternative, o peggio che ha collazionato, puntualmente o sistematicamente, uno o più concorrenti del suo antigrafo, è una tradizione contaminata, assai più difficile da ricondurre alla ragione. I critici più ortodossamente lachmanniani, e in ispecie il Maas, non vedono rimedi contro la contaminazione; meglio negherebbero l'esistenza di rimedi generalizzati, poiché ogni realtà offre ostacoli particolari alla razionalizzazione, che possono imporre comportamenti diversi, fino alla rinuncia. L'Avalle per esempio ha teorizzato alcuni metodi di cura, proponendo una robusta ed economica semplificazione secondo esperienze suggeritegli da canzonieri occitanici e italiani. Ma è da confessare che la condotta di uno scriba il quale si avvicinasse al costume dei moderni editori del tipo composito, senza peraltro fornire apparati e indicazioni sulle fonti, riuscirebbe assai più difficoltosa da ricostruire. Tralasciando ciò che non può essere generalizzato (il che non significa affatto che si rinuncia o si esorta a rinunciare a fare), va espressamente sottolineato che un vivace fattore di ‛recensione aperta', per designarla col felice termine del Pasquali che l'opponeva alla ‛recensione chiusa' del modello lachmanniano semplificato, è la memoria. Nella trasmissione per copia, specialmente di opere (massimamente volgari) molto diffuse, conosciute almeno in parte a mente, interferisce, come elemento estraneo alla scrittura, la memoria, sia come intrusione di passi paralleli sia come ricordo di varianti: è il caso della Commedia, trasmessa non di rado con ripetizione o anticipo di luoghi più o meno vicini o con innovazioni testuali la cui diffusione si fa, come ha mostrato il Petrocchi, non verticalmente ma a macchia d'olio, e difficilmente potrebbe, se non per eccezione, attribuirsi a confronto con un esemplare più moderno o a scelta effettuata su un portatore di varianti. Se dalla tradizione scritta si distingue la tradizione mista di mnemonica, sarebbe errato opporle, come erano tentati di fare sommariamente studiosi romantico-positivisti, la tradizione orale. È il caso del Rajna, che, scoperto un nuovo antico testimone dell'Alexis, si sforza di tracciare uno stemma codicum, ma ne ottiene, per il tratto esaminato, tanti quanti sono i versi, concludendo che dunque nessuno è valido e che non si tratta di tradizione scritta ma orale. A parte gli errori di fatto, dovuti alla costituzione di alberi sul fondamento di lezioni comuni non erronee, e a parte anche l'inverosimiglianza stilistica, sembrerebbe che con tradizione orale s'indicasse uno stato caotico e aleatorio, una ‛casualità' sulla quale si potrebbe essere tentati di intervenire matematicamente applicando il calcolo delle probabilità (e come in realtà hanno procurato di proporre le ricerche distribuzionali e tassonomiche degli americani Hill e Dearing). Ma tradizione scritta e tradizione orale non possono obbedire a logiche formali diverse: la fenomenologia delle innovazioni in linea di principio è identica, salvo la maggior escursione nella tradizione orale (e presumibilmente la maggior interferenza della memoria). Le modalità editoriali diverse della ricostruzione, dove si tratta piuttosto di seriare i concorrenti (si vedano i testi popolari ricostruiti dal Barbi e dal Sàntoli), non dipendono solo dalla minor certezza paleontologica, ma dal fatto, così luminosamente illustrato dal Menéndez Pidal, che in fondo nessuna redazione è più ‛vera' e ‛autentica' delle altre.
Instabilita' dello stemma. - La maggioranza, per così dire, ‛qualificata' del Lachmann, se consente un automatismo di scoperta della verità, ha però anche la proprietà, pregio o vizio, di una virtuale instabilità. Essa è infatti, come fu rilevato acutamente dal Bédier (che peraltro ricorse, per il suo Lai de l'ombre, a un casus fictus), alla mercé della scoperta d'un nuovo testimone, suscettibile di alterare le costellazioni e quindi, in casi privilegiati, anche il numero delle famiglie. Naturalmente non tutti i nuovi acquisti, quali si hanno ogni giorno, esercitano un effetto dirompente, anzi: la maggior parte, com'è naturale, rivelano che quelle che erano fin qui le lectiones singulares di un altro testimone (chiamiamolo A) sono in tutto o in parte, conforme alla costante potenziale ambiguità fra individuo e gruppo (fra punto e segmento), caratteristiche non di A-individuo ma di A- gruppo; così il citato nuovo codice di Alexis studiato dal Rajna (V), per quanto assai interessante, si raggruppa con A. Ma è sempre aperta la possibilità che per il nuovo intervento muti il numero delle famiglie, o anche la loro struttura (per es., poste più famiglie a, b, c, può darsi che il nuovo testimone opponga alle loro lezioni comuni lezioni non congetturabili più autorevoli, costituendosi da solo in famiglia contro la famiglia unica a-b-c e determinando così stavolta una contrazione del numero). Se n è il numero dei codici (non descripti), il passaggio a n + 1 determina o può determinare altrettanti salti di qualità secondo che n = 1 (nel qual caso è anche il numero delle famiglie) o n = 2 (nel qual caso n è anche il numero delle famiglie, ma non lo sappiamo per n + 1) o n > 2 (nel qual caso non sappiamo delle famiglie). L'assenza eventuale di lezione stabile è un vizio per Bédier, della cui denuncia è questo un punto portante, non abbastanza rilevato; ma il continuo miglioramento dinamico non si vede come non sia una qualità positiva. Questa marcia di avvicinamento alla verità, una verità per così dire frazionaria in opposizione alla verità presuntamente organica dei singoli testimoni, una verità come diminuzione di errore, sembra un procedimento degno della scienza.
Questioni di ‛origini'. - Si è potuto rimproverare al metodo lachmanniano di cominciare ‛dai piedi' anziché ‛dalla testa'. Questo è semmai un titolo di gloria, se ciò significa muovere dalla storia verso la preistoria. Un'epistemologia parallela regge critica testuale e ricerca delle ‛origini' in storia letteraria, anche se storicamente accade che la vischiosità della tradizione possa generare qualche sfasamento secondo i campi dove è all'opera una stessa mente. Una fenomenologia romantica guida la filogenesi, si tratti di epos, dramma, lirica o novella. Il mirabile G. Paris razionalista che fonda con l'edizione di Alexis (1872) la critica testuale romanza, strenua applicazione pionieristica di logica formale, non collima con l'eloquente esemplificatore ancora faurieliano dell'a priori romantico nell'Histoire poétique de Charlemagne (1865), anche se un'erudizione poi divenuta norma si studia di colmare indiziariamente i vuoti della presunta continuità fra il Carlomagno storico e il Carlomagno delle chansons de geste. Più rigida coerenza stringe il vecchio Rajna - che nell'ultimo lemma (1930) della sua fluviale bibliografia risospinge in quell'equivalente di preistoria, com'egli crede, senza certa legge che è la tradizione orale la trasmissione di Alexis - all'erudito che nelle Origini dell'epopea francese (1884) si era adoperato a costruire una perduta fase addirittura precarolina scavando nella storiografia merovingica. Sono romantiche nostalgie di ‛assenza'; a cui si oppone lo zelo bédieriano di ‛presenza'. La formazione del Bédier era ovviamente parisiana e da tale ortodossia non si allontana l'articolo sulle feste di maggio, che verte sulle ‛origini' della lirica francese, ma all'oralità si oppone, nella bellissima edizione di sire Thomas, la ricostruzione del contenuto, nonché delle parti perdute di Thomas, dell'archetipo tristaniano (di Chrétien de Troyes?), alla cui fondatezza portò la controprova la quasi perfetta congruenza col tentativo esperito contemporaneamente da Wolfgang Golther. Ma già nella sua tesi su un argomento assegnatogli proprio dal Paris, Les fabliaux (1893), primo prodotto ante litteram dello strutturalismo letterario, il Bédier aveva infranto il mito orientalistico, che nella distanza geografica idoleggiava un equivalente della preistoria, anzi aveva vittoriosamente mostrato la poligenesi dei temi in astratto e indicato che il culmine della coerenza può essere un acquisto più tardo (come giacché si sta tracciando un parallelo fra ecdotica e filologia storico-letteraria - un manoscritto troppo ineccepibile può essere sospetto di correzione e levigamento). I fabliaux sono ‛presenze', opere del Millecento e Duecento rispecchianti gusti borghesi di quei secoli, e allo stesso modo al Bédier, che aveva intrapreso con intenzioni parisiane lo studio delle chansons de geste, queste apparvero, ben presto, nelle Légendes épiques (1908 ss.), ‛presenze' dei secoli di loro diffusione, conformi pure a interessi del tempo. Ciò si armonizza perfettamente con la sua teorizzata prassi ecdotica generale, specificata proprio nel più antico di quei testi, il Roland (edizione del 1927), per cui un manoscritto (il ‛miglior' manoscritto) costituisce un'intangibile ‛presenza'. Entrambi i postulati non sono rinnovabili come tali, ma presentano l'inestimabile vantaggio di essere correggibili partendo ‛dai piedi', cioè dal limite documentario (preso dal Bédier come limite stabile): base reale che la ragione si riserva di fare oltrepassare. Critica interna e parametri esterni aiutano a invecchiare' la redazione di Oxford, rimovendone innovazioni. La tesi storico-letteraria, indubbiamente valida per alcuni individui e per un certo periodo, che in quanto generalizzata trascende il limite della ‛presenza' (cioè la collaborazione fra monaci e giullari sulle strade dei grandi pellegrinaggi dalla prima crociata o, secondo una correzione, dalle pre-crociate di Spagna), dà adito a varchi cronologici di cui i più sicuri, adunati da un rilevantissimo impegno collettivo, sono puntuali: oltre al da molto tempo noto frammento dell'Aia, la glossa Emilianense ‛pubblicata da Dàmaso Alonso), la coppia onomastica Rolando-Olivieri ecc. Alla continuità presunta ma impalpabile del momento positivistico fu in particolare surrogata una continuità tutta letteraria nell'eredità culturale virgiliana dell'epoca carolingia e capetingia (dal Wilmotte al Chiri e al Curtius); ma qui il vero scatto fu il reperto di A. Burger, cioè la scoperta di frammenti metrici latini (di genere affine a quelli dell'Aia) fra i materiali d'impiego dello pseudo-Turpino, proprio nel Libro di San Giacomo, uno dei testi ecclesiastici più adoperati dal Bédier. Perfino il Menéndez Pidal nell'elaborazione del suo grande edificio antibédieriano (La Chanson de Roland' y el neotradicionalismo, 1959) è indotto a retrocedere passo passo nello stabilire la nuova continuità (fino, nella sua ricostruzione, a un paio di secoli da Roncisvalle). Il Bédier, questo irriducibile avversario delle soluzioni ‛senza continuità', permane dunque un pò' come la coscienza del momento prima postche anti-bédieriano.
Attestazione binaria. - Una posizione particolarmente delicata offre l'attestazione binaria, solo apparentemente intermedia fra l'unica e la plurima. Di fronte alla sicurezza forzosa della prima e alle probabilità di automatismo inerenti alla seconda, è in continua crisi di libertà, una crisi buridanea ‟intra due cibi distanti e moventi d'un modo". Essa appare un guadagno solo dinamicamente: dato un manoscritto unico, il sopravvenire d'una seconda testimonianza svela ‛errori' da sé non percepibili e comunque sana con la sua realtà mende mal rimediabili, a ogni modo mal rimediate. Una dilettazione dei tecnici consiste, in simili casi, nel constatare quantità e qualità delle divinazioni e degli insuccessi: si ha un criterio per misurare, addirittura in percentuale, la competenza d'un editore. Ma staticamente l'attestazione binaria non offre possibilità oggettive di scelta fra lezioni adiafore e sembrerebbe restaurare, benedizione o condanna che sia, un campo d'azione per il già esorcizzato iudicium. A evitare ogni arbitrio, e in particolare la cavillosità che suole regnare sovrana nello stabilire le difficiliores bisognerebbe dare una doppia edizione (almeno virtuale) depurata degli errori singoli, purché di erroneità inconcussa. Dell'‛evidenza' dell'errore la miglior fonte è dopo tutto la comparazione.
Alberi bipartiti. - Eppure il iudicium riesce a imporsi in un ingente numero di casi anche ad attestazione plurima grazie alla loro riduzione ad attestazione binaria, forzosa o sollecitata che sia. Il Bédier, nel preparare la sua 2a edizione del Lai de l'ombre (1913), poi più determinatamente nello scritto del 1928 (La tradition manuscrite du ‛Lai de l'ombre'), fu colpito per primo dalla singolarità del fatto che la stragrande maggioranza delle edizioni di testi antichi francesi, ma anche di buon numero di latini e di altre lingue volgari, si fonda su alberi a due rami, cominciando (ma il Bédier non ne rivela l'identità) dal primogenito, quello che G; Paris elaborò per Alexis. Dietro l'osservazione, riconosciuta sostanzialmente esatta anche per la filologia classica (nonostante gli alberi pluripartiti segnalati dal Pasquali), non stava una disposizione quasi metafisicamente metodologica, ma un'esperienza diretta: la 1a edizione bèdieriana (1890) si fondava anch'essa su un albero bifido, ma una recensione di G. Paris ne proponeva uno a tre rami, che salvaguardava, a suo dire, l'automatismo; entrato in aporia al momento della 2a edizione, il Bédier rinunciava a entrambi gli stemmata, il proprio e quello del maestro e recensore; nè avrebbe poi aderito, per eccellenti ragioni di merito, alle conseguenze testuali discendenti da un altro albero tripartito (inclusivo di una contaminazione) proposto da dom H. Quentin (v., 1926) sul fondamento d'un suo nuovo sconcertante metodo (questo metodo, che preannuncia gli esperimenti probabilistici prima dell'età dei calcolatori, prescindeva dalla distinzione di variante ed errore, definiva in terne di manoscritti la posizione dell'intermediario con argomenti statistici, ricavava lo stemma saldando le catene parziali). Ma qui non importa arbitrare il litigio specifico (benché importerebbe moltissimo per un nominalista qual era il Bédier): l'istruttoria non è stata riaperta da nessuno, e la ragione, che, per chi legga le argomentazioni del Bédier, sembra stare dalla parte del Paris, non gli è stata ancora attribuita in appello; è stato bensì riesaminato l'albero primogenito, quello di Alexis, con la conclusione che esso era non tripartito ma bipartito solo per errori d'informazione, non imputabili al Paris, e varrebbe la pena di rifare i calcoli per tutta quella che un diligente riscontro (Castellani) assicura permanere in complesso la collezione, l'erbario ecdotico, del Bédier. Importa invece, se la constatazione del Bédier individua realmente un comportamento degli editori (e non la davvero maggior probabilità che lo schema binario rifletta il modo della copiatura, o altra delle escogitazioni oppostele dalla bibliografia in argomento), trovare una terapia adatta alla patologia. Se questa, come il Bédier finirà per credere su insinuazione del Roques (capofila dei seguaci francesi, e non francesi soltanto, del manoscritto unico), dipende da un prolungamento indebito, fino all'estremo limite, dell'assillante ricerca delle fautes communes (che trasforma l'opposizione di innovazione e lezione non innovante in opposizione assiologica di lectio deterior e potior), occorrerà, non si dice ricercare artificiosamente la tripartizione o pluripartizione degli alberi, ma applicare una particolare cautela alla riunione dei piani alti - operazione dopotutto non irreversibile. Che se poi si trattasse di una malattia dell'inconscio rivendicante sovranità ultima di scelta (‛egotismo' anziché ‛moralismo' dell'editore), bisognerà ugualmente portarla, al modo freudiano, alla luce della coscienza. La formulazione del rimedio non ha, come pedagogica, alcun fulgore di eleganza, ma si tratta di rovesciare il percorso patologico. Il rimedio del manoscritto unico, proposto dal Bédier (ma proposto, giova precisare, per i soli testi letterari del Medioevo volgare dall'enorme libertà di condotta), non è del resto preservato da inconvenienti flagranti, a parte la stessa ammissione di errori la cui probabilità è certezza. La correzione delle sole sviste ‛evidenti' introduce un canone soggettivo dai confini variabili (come a posteriori mostrano le edizioni d'un testo, quale il Roland di Oxford, su cui è imperversato il metodo bédieriano ridotto da deposito di angoscia a pigra moda). Ma soprattutto la scelta del codice è tutta una difficoltà, data l'impraticabile attuazione generale di tante edizioni quanti i manoscritti. Il Bédier è primo a sapere che ‛il migliore' non è necessariamente il più antico, giusta il monito che sarà del Pasquali, nè il più corretto, che potrebbe dovere la sua levigatezza a uno scriba attento al senso a costo di interventi. Una definizione oggettiva, elaborata in ambito neo-lachmanniano, del miglior manoscritto come di quello tanto resistente alla banalizzazione da offrire la maggior percentuale di lectiones singulares da conservare, presuppone l'elaborazione d'un'edizione lachmanniana. E infatti il migliore, o anche solo un buon manoscritto, è solo quello che un editore lachmanniano, quale per un pezzo fu il Bédier, è in grado d'indicare.
Sostanza e forma testuale. - Il metodo lachmanniano è di validità insomma integrale per le scritture in latino, greco, ebraico ecc., cioè in una lingua invariabile e intangibile come la ‛gramatica' dantesca. Vale solo per la sostanza dei testi volgari, non per la forma, cioè per la fonetica e per la morfologia, soggette a un'illimitata, e nemmeno di necessità organica, variabilità geografica e cronologica. La distinzione è stata teorizzata da G. Paris, sempre nell'edizione di Alexis (1872), che è un adattamento del lachmannismo alla sostanza romanza, ma il primo codice della ricostruzione formale. È una distinzione culturale di ambiente, comprensibile solo in un'epoca stilisticamente bilingue (un medio evo) dove una fase linguistica è addetta alla sacertà, un'altra al perenne adattamento di strumenti utili e illimitatamente appropriabili, non protetti, come si suol dire, dalla proprietà letteraria (e non solo per l'anonimato, ancora più frequente che per l'altra fase). Naturalmente la variabilità della forma in largo senso medievale si prolunga, per quanto in misura inevitabilmente meno violenta, nella variabilità della sostanza, fondamento esplicitamente sottostante alla rinuncia di Bédier a un testo critico: la differenza essenziale sta nel fatto che la forma è sottoposta a una continua poligenesi dell'innovazione (e la sua inorganica proteiformità è tale che, al limite, ripetendo, per oggettiva iterazione testuale o per errore, la medesima formula magari a poche sillabe di distanza, lo scriba medievale, questo ininterrotto collaboratore e concorrente del più spesso ignoto autore, suole introdurre variazioni formali). La matrice bilingue della situazione è riscontrabile in parecchie modalità. Il latino medievale differisce formalmente dal classico nell'aspetto grafico, che può avere solo indirette implicazioni fonetiche (ancor più raramente morfologiche, come nel surrogato locativo-accusativale del tipo Parisius ‛a Parigi' stato in e moto a luogo): basti controllarne qualcuna delle più magistrali descrizioni, tra le quali ha probabilmente il primo luogo quella premessa dal Rajna alla sua editio maior (1896) del De vulgari eloquentia. Ciò presuppone la restaurazione grammaticale operata dalle varie rinascenze, prima la carolingia: così i più antichi manoscritti di Gregorio di Tours differiscono, anche se non con stretta organicità, dai postcarolini in ‛errori' morfologici che nel complesso sembrano riflettere un sincero stato flessivo, qual è (statisticamente) descritto da M. Bonnet (Le latin de Grégoire de Tours) e dai suoi continuatori, segnatamente la Vielliard e la scuola americana di H. F. Muller (Pei, Sas). All'opposto estremo cronologico la ‛classicizzazione' dei volgari torna a rendere, se non proprio intoccabile, stabile la forma non meno della sostanza, sicché a fine Quattrocento, per esempio nei paraggi della Raccolta Aragonese, innovazioni formali o addirittura grafiche ridiventano significative. Anche nei testi medievali la frontiera tra forma e sostanza può non esser sempre chiaramente tracciabile: che il futuro e il condizionale separati dell'antico lombardo (ò cantar, heve cantar) siano sostituiti dai sinonimi sintetici (cantarò, cantareve), è un fatto di mera morfologia o di sostanza contenutistica? In realtà quella di forma e di sostanza è più una polarizzazione che un'opposizione.
Ricostruzione formale. - La ricostruzione formale (in quanto distinta dalla sostanziale) assume nel suo primo codificatore, il Paris, un aspetto di oltranza che cresce con le convenzioni adottate nell'editio minor di Alexis. Il punto di partenza è rappresentato dagli elementi obbiettivi che, trattandosi d'un testo in versi (assonanzati), sono ricavati dalle distinzioni vocaliche in rima (oggi si direbbe che se ne può descrivere questa parte del sistema fonologico originario), e in minor misura da quanto è garantito dal novero sillabico. Poiché la critica interna fornisce un'ossatura, di solito non la totalità della forma, si procede a un'integrazione la quale, oltre a estendere i risultati precedenti fuori dell'ambito strettamente topico, è condotta secondo la verosimiglianza documentaria di luogo e di tempo. La ricostruzione linguistica del Paris ha, e sempre più assume, una fisionomia organica e funzionale che non solo trascende il dato d'archivio, ma è estranea al comportamento degli scribi medievali: così l'esito di 6 in sillaba libera è convenzionalmente rappresentato con ou (onour), un punto sottoscritto evoca il carattere fricativo di -T conservato dopo atona e della dentale intervocalica, ecc. L'Alexis del Paris inaugura, anche se con raro vigore intellettuale, la moda traduttoria della filologia positivistica, della quale si può citare, per la mole del corpus cui è applicata coerentemente la versione in antico champenois, l'edizione di Chrétien de Troyes allestita dal Förster. La funzionalità della forma, inclusa la grafia, si oppone alla sua storicità: sono queste le due contraddittorie componenti d'ogni ortografia alfabetica (inglese e francese sono paradigmi di tradizionalità, tedesco e spagnolo di economia), ma qui con storicità si vuole indicare la variabilità e incostanza della forma medievale. A tale razionalismo paleontologico, che va ben oltre la doverosa rimozione della patina, obiezioni di fatto sorsero nella stessa area positivistica. Si citi l'‛ibridismo' regionale dei nostri antichi testi (specialmente trecenteschi) additato dal Rajna. Ma fu la filologia dell'idealismo ad assestare i colpi più decisivi contro il costume indiscriminato della traduzione (specialmente di testi oitanici) a norma della localizzazione degli autori: ciò ad opera di H. Morf e della sua scuola (principalmente della decisiva tesi di G. Wacker, 1916, sulle koinài dell'antico francese), dei cui risultati non per nulla si affrettò a impadronirsi, divulgandoli ai propri fini, il Vossler. L'attenzione veniva richiamata sulle lingue chiamate con parola dantesca ‛illustri' (da cui per esempio in Italia ‛siciliano illustre') o, con richiamo all'antichità, koinài o finalmente (Gossen) scriptae. Come i dialetti letterari greci, di là dalla loro origine topografica, erano vincolati a singoli generi, giungendo a caratterizzarsi per interregionalismi e ipercorrezioni (è il caso del dialetto epico o omerico); e come in siciliano (da ricostruire) scrivevano poeti nativi delle più varie regioni d'Italia (l'aveva dimostrato il Cesareo, contro la tesi del Monaci e ancora del De Bartholomaeis, che la lingua degli antichi canzonieri mostrasse un ‛contemperamento' originario), e in galiziano-portoghese poeti delle più varie regioni iberiche: così la moda linguistica francese si articolava in varie fasi cronologicamente stratificate, di cui principalmente una conservativa ‛normanna' e una innovativa ‛piccarda', valide anche oltre i confini primitivi e atte a produrre pure risultati d'innesto. Erano così demistificati gli sforzi di tanti laureandi tedeschi tendenti a far nascere in Grenzgebiete (distretti di frontiera), magari contro loro non equivoche asserzioni, legioni di scrittori di un'epoca che inseriva tratti del loro (per es. del francien o parlare dell'Isola di Francia) in una cornice di altro dialetto letterario (per es. il piccardo); ed era giustificato il fenomeno degli Zwitterreime (rime incrociate), cioè di rime che facevano baciare parole obbedienti a norme fonetiche contraddittorie (così -che una volta da -CIA come nel Nord e una volta da -CA come più a sud). I sistemi linguistici puri si rivelavano come relativamente rari e a ogni modo come ipotesi di lavoro da maneggiare con la più grande prudenza.
Varia misura di restituzione formale. - Partendo dagli elementi obbiettivi, non sempre si è autorizzati a una restituzione totale. Se la rima per la sua flagranza viene a essere la regina delle prove, questa stessa evidenza la connota come sopravvivente a un'eventuale traduzione e la segnala come separatamente imitabile: essa si costituisce in parte di lingua speciale. D'altronde, anche dove non ostano prove specifiche alla liceità della restituzione, questa può presentarsi come non univoca, e il suo stato di lingua inquinato nell'astratta ineccepibilità delle corrispondenze da eccezioni alla norma. Entrambe queste condizioni si verificano a proposito della rima siciliana, e si verificavano anche prima che brani lirici siciliani (più antichi o almeno arcaici di qualunque delle numerosissime scritture siciliane) venissero alla luce (De Bartholomaeis, e poco importa che egli li prendesse per falsificazioni), e che ne fosse dimostrata la genuinità (Debenedetti). Lo studioso finlandese Tallgren (-Tuulio) ha mostrato le difficoltà di ritraduzione insite nelle liriche siciliane e ha formulato con chiarezza una tipologia di cinque edizioni possibili, dalla più integralmente ricostruita alla più conservativa rispetto alla tradizione, adottando per proprio conto una soluzione intermedia, siciliana al limite della documentazione. Anche le ricostruzioni prodotte successivamente da studiosi siciliani sono state esperimenti da collocare in appendice o in contropagina, come quelle degli unica continentali serbati in codici anglonormanni, cioè di un territorio che, in simbiosi con un senso sillabico diverso dal francese, non trovava freno alle innovazioni nella coscienza dello schema. Sennonché all'estremo opposto della in fatto non più attingibile restituzione perfetta (troppi punti del testo apparterrebbero a una zona neutra, da tingere in grigio secondo un'immagine inventata ad altro fine dal Croce) si situa un legittimo istituto elaborato gradualmente nella traduzione continua dei canzonieri toscani, qual è stata studiata dal Sanesi: la rima siciliana. Essendo la rima di é con é e di ó con ó tanto ineccepibile nei primi secoli toscani quanto quella (del resto dovuta a un altro meccanismo di ritraduzione dal siciliano) di é con é e di ó con ó (per non citare altri tipi più particolari di rime ammesse), che altrove, come nel provenzale classico, riuscirebbe un'intollerabile negligenza, correggerla, livellandola nella direzione del nui che s'infiltra fin nel Cinque maggio come nell'opposta del brutto lome che suole, o soleva, disonorare il canto di Farinata, è un ormai insopportabile anacronismo, non forse inventato, ma definitivamente lanciato, dalla nuova sensibilità armonica della filologia laurenziana, quanto dire del Poliziano, ma che un po' sorprende di ritrovare ammesso ancora negli studi diligentissimi del Parodi e nella prassi del Barbi. Ripristinare la rima siciliana non è supervacaneo archeologismo di specialisti addetti a componimenti di umbratile nozione, visto che ciò tocca a Dante, di cui, è vero, non sono sopravvissuti gli autografi, ma anche al Petrarca, che nell'edizione autorizzata del Canzoniere (benché in questo punto non autografa) lascia rimare voi con altrui (e per il copista, il Malpaghini, ravennate, sarebbe stato dialettalmente ricevibile vui). Il Barbi, così deciso in certe rimozioni (‟anche il pubblico deve abituarsi all'idea che faccendo sonava nel trecento così bene come faccenda, e bieci come magnifici, e amichi come ciechi"), e per tale opera meritoria sembrato lesivo della pietas (ricorda il Pasquali: ‟Uno studioso che ha fama di giudice sicuro [...] concepiva stranamente le alterazioni insinuatesi man mano nel testo, non so bene se di Dante o del Petrarca, quali ‛il contributo dei secoli alla bellezza dell'opera d'arte'"; v. Pasquali, 19522, p. XIV), aveva dunque una sua pietas verso la tradizione. Era probabilmente un eccesso di dissimilazione da chi credeva ‟che l'essenziale dell'edizioni critiche consista nelle h, negli u per v, nelle scrizioni latineggianti". O anche profeticamente si premuniva contro gli eccessi di conservatorismo, esemplificabili nell'accettare, per gli unica toscani trasmessi dal canzoniere ‛lombardo' di Niccolò de' Rossi, oltre a tutti gli endecasillabi di undici sbilenche sillabe come legali, gli e protonici non passati a i perché potrebbero anche essere senesi (nel caso di non fiorentini come Cecco Angiolieri); o nello spargere artificiosamente di polvere vernacola la poesia del Guinizzelli e degli altri antichi bolognesi, la cui cultura era filtrata attraverso Firenze e la Toscana. Né mancano le giuste palinodie: chi aveva pubblicato i versi milanesi di Bonvesin da la Riva espungendo puramente e semplicemente le vocali (soprattutto finali) caduche, ne ha poi ristampato un buon numero limitandosi a segnare le puntualmente labili di punto espuntorio sottoscritto. Per un verso, infatti, benché la cosa sia soltanto grafica, quelle vocali partecipano di una generale cultura italiana; per altro verso si verificano situazioni di rappresentazione consonantica legate alla presenza del segno vocalico (così fag per fagio ricorda incompletamente la convenzione del digramma gi per ã e ne introduce una nuova equivalente a un diacritico ç o â). Veramente l'edizione è-nel-tempo.
Apparati e descrizioni formali. - I due limiti opposti, della restituzione malcerta da non introdurre, lasciando a titolo di vicaria simbolica una rappresentazione tradizionale, e della correzione sicuramente erronea da non introdurre, definiscono la ricostruzione formale nella sua ordinaria amministrazione, il cui conservatorismo può sembrare in definitiva parallelo a quello sostanziale del Bédier. Il parallelismo va anche più innanzi: a parità di condizioni, si adotta costantemente la forma di un testimone, scelto (ma per solito apoditticamente) per ragioni o di antichità o di congruenza regionale o di sorvegliata organicità. L'apparato formale si tiene normalmente distinto da quello sostanziale (inclusivo delle forme-limite), e salvo casi in cui non sia d'inutile ingombro (o non sia di notevole interesse culturale, com'è per i primi copisti della Commedia) anche soppresso del tutto, segnati solo i casi di allontanamento dal codice adottato. Non ci si sottrae all'impressione che la forma passi in seconda linea innanzi alla sostanza, atteggiamento peraltro rispondente a una saggia economia della ricerca. Un'accurata descrizione della forma e della stessa grafia s'impone per i grandi delle cui opere possediamo autografi (Petrarca, Boccaccio), e anche per i non grandi del Medioevo per cui si dia questa ventura (da Francesco da Barberino al Sacchetti). Di casi sovrani merita altrettanto impegno la ricostruzione: così non appaiono certo supervacanee le cure adibite dal Casella al problema se la Commedia abbia usato forme dittongate (popolari e moderne) o monottongate (letterarie e arcaizzanti); la descrizione che l'edizione Barbi fa della lingua adottata per la Vita nuova, anche se non si può annoverare fra i capolavori del grande filologo, è diventata paradigmatica per i ‛testi di lingua' come già quelle dell'Ascoli e del Mussafia per l'antica dialettologia romanza. Anche sono oggetto di zelo formale i testi molto antichi, più o meno restituibili che siano sotto la crosta della subita ibridazione (come i poemetti oitanici di Clermont-Ferrand giunti patinati da mani meridionali), e in genere quelli di aspetto regionale peregrino. Ci si impegna più in un testo ‛mediano' che in uno toscano, più in uno toscano periferico che in uno fiorentino. Ma un'esigenza di totalità di pubblicazione e di spoglio è stata fatta valere anche per i centri che si presumono più noti, in particolare, e proprio irradiandosi da Firenze, dal Castellani: esigenza di totalità parallela a quella che, per la lingua degli autori, studiosi di lingua inglese per primi hanno fatto penetrare dall'ambito biblico e latino in quello dei classici italiani con l'allestimento di concordanze, studiosi francesi nel loro campo con la preparazione di glossario completi. L'esigenza di totalità si riverbera anche sulla qualità dell'oggetto esaminato, e sprona alla riproduzione, quando il tipo di tradizione lo suggerisca (Fiore, Angiolieri, ecc.), dei fenomeni osservati, che possono avere rilevanza fonica: raddoppiamento fonosintattico (naturalmente automatico per la gran parte dei toscani), assimilazione ugualmente in sandhi con eventuale successiva semplificazione in protonia, ecc. È peraltro sempre materia di discrezione la riproduzione delle ipercorrezioni (in Bonvesin, dei gruppi con L in esempi come abla e clera; nel laudario Urbinate, dei raddoppiamenti fonosintattici abnormi, ecc.); le quali informano dello sgretolamento d'uno stato più antico o della sua importazione. Non problematica appare la riproduzione degli ibridismi estemporanei, anche se multipli, come avviene per i testi, non per nulla a manoscritto di norma unico, della letteratura franco-italiana. (Se invece essi si strutturano grammaticalmente, come U. E. Paoli ha mostrato per la prosodia macaronica, insorgono possibilità correttorie).
Diacronia testuale. - La cultura occidentale comincia dal vasto tetto di Omero, che le varie soluzioni della questione omerica perforano, con diverse geometrie ma irrimediabilmente, in direzione di stati anteriori da congetturare in una sorta di proiezione all'inverso. La loro descrizione è nel complesso metatestuale e mal risolubile nella graficità di un'edizione, dove al massimo obeli, asterischi, varietà di parentesi e di corpi cristallizzano visibilmente qualche risultato della critica interna. Ogni filologia ha la sua o le sue ‛questioni omeriche', non di rado in esplicita analogia con l'antonomastica: la germanica i Nibelungi (che proprio il Lachmann prese a studiare, come studiava Omero), la francese il Roland, la spagnola il Çid e così via. Solo chi, come il Bédier, inchioda, poco meno, il proprio oggetto al tempo della sua prima apparizione poematica, ne accetta anche, come appena posteriore, la più antica fissazione testuale, spingendosi da una negativa cautela a un'ingegnosa, addirittura antieconomica, giustificazione di tutto il presente e mettendo in opera gli strumenti che la retorica delle scuole ha elaborato per celebrare l'unitarietà dei testi. Invece il Menéndez Pidal, di mentalità fedele (benché accuratamente evitando l'apriorismo) alla matrice wolfiana, a un assoluto conservatorismo testuale (pur coonestato dal paio di secoli che intercorrefra confezione e copia) accompagna la scissione da chürízon introdotta nei suoi tardi anni. Comunque, se l'equivalente-dell'originale è un'ipotesi di lavoro per lo più di certezza discontinua mal rappresentabile quantitativamente nel piano (e anche dell'originale si esegue un'interpretazione), lo stato dinamico del testo critico è omogeneo a quello di ogni indagine genetica anche costretta a un'espressione metatestuale. Questa dinamicità è tanto più da affermare in quanto è da riconoscere la necessità, in contraddizione o piuttosto composizione con essa, di piattaforme dove sostare lungo la linea evolutiva: sincronie intermedie che si oppongono alla sincronia originaria come limite di un processo diacronico. A quel modo che un'indagine etimologica non deve obliterare le fasi della storia d'una parola, così la mira d'una ricerca ecdotica non è sempre di necessità la ricostruzione del testo primitivo, ma quella di momenti della ‛fortuna' testuale. Il fondamento all'esortazione verso apparati (di sostanza) completi quanto fisicamente possibile (salvo al più le sviste servili in luogo di sincere innovazioni) ha lo scopo di salvaguardare non soltanto, euristicamente, quelle lectiones singulares che domani potranno, adottate come parametro per saggiare nuovi individui, rivelarsi lezioni di gruppo, ma il materiale che faccia conoscere la fisionomia del testo in ogni frazione della sua storia culturale. Se è facile ritrovare le fonti a stampa attraverso le quali, poniamo, Sainte-Beuve o De Sanctis hanno conosciuto i testi medievali o anche moderni (non è affatto indifferente sapere che il De Sanctis, volto com'era al contenuto, tenne presente tutta la vita la prima edizione - probabilmente mediata da qualche locale ristampa piratesca - e non mai la seconda dei Promessi sposi), le cose si fanno meno semplici per altre epoche. E per cominciare proprio dal sacro testo: per intendere una citazione o un riferimento biblico fatto da un autore medievale, può ben darsi che nella stragrande maggioranza dei casi sia lecito bonariamente condursi come se quello avesse avuto a mano, o piuttosto a mente, al pari di noi, la Vulgata Sisto-Clementina. Ma in occorrenze puntuali, e superlativamente quando siano da giudicare antichi volgarizzamenti, l'anacronismo è rigorosamente impraticabile: giova allora sperare che il luogo sia riscontrabile nell'edizione Vaticana promossa da Pio XI (inaugurata dalla Genesi di dom Quentin), e che a quel punto l'apparato sia sufficientemente ricco; altrimenti sarà remunerativa (poiché la natura del Libro per eccellenza frenava la molteplicità delle varianti) un'ispezione ai manoscritti che ne abbondano in ogni grande biblioteca. Peggio vanno le cose quando si tratta di classici profani. Supponiamo che occorra determinare in che lezione Dante abbia conosciuto il poema di Lucano. Qui gli strumenti di lavoro disponibili mancano del tutto, come in genere se si debba accertare la recensione nota ai tanti, e sempre meglio studiati, traduttori antichi dei classici: le edizioni disponibili, prodotto di scuole altamente raffinate, mirano esclusivamente al recupero della lezione originale e perciò sogliono trascurare le edizioni approntate a partire dal sec. XII, che sono quelle che farebbero all'uopo; solo un esame, nell'ipotesi che si lavori a Firenze, di quella trentina di copie della Pharsalia che vi sono conservate, serve a chiarire la situazione. Si apre perciò alla filologia latina, la primogenita delle filologie moderne, che ha ultimato nelle sue grandi linee l'elaborazione critica dei suoi testi di epoca classica, il compito, a prima impressione meno avvincente, di allestire il regesto della tradizione posteriore alla tarda antichità e all'Alto Medioevo. Un compito affine sta innanzi a chi voglia conoscere il testo del Roman de la Rose noto a quell'autore della sua parafrasi in fiorentino, detta Il Fiore, in cui a qualcuno è sempre parso di ravvisare Dante Alighieri: a questa domanda risponde molte volte a sufficienza l'edizione del Langlois (che peraltro, dietro alla communis opinio che lo credeva di un avanzato trecentista, ne sminuiva l'importanza anche cronologica), più esaurientemente la tradizione da lui scartata come seriore. È stata descritta l'importanza delle vere e proprie edizioni, anche se non lachmanniane (perché emendatorie e puntualmente collative), date di Livio dal Petrarca (Billanovich), più determinatamente di un largo corpus dantesco (Commedia e Vita nuova con una scelta di canzoni) dal Boccaccio, di una copiosa scelta dei nostri lirici antichi dal Magnifico o suoi collaboratori (Poliziano) nella cosiddetta Raccolta Aragonese. Un'occorrenza estrema s'incontra quando un gruppo di suoi discendenti, dal quale dipende la Giuntina di rime antiche (1527), altera meccanicamente, con assimilazione progressiva, in forosetta il foresetta cavalcantiano e lega al vocabolario italiano un lemma supposito, da cui a suo tempo Giovanni Faldella ricaverà lo pseudo-positivo forosa. Siamo abbastanza avanti perché non sia inopportuno registrare, col Favati, anche le più tenui variazioni formali, fino gli errori servili.
Poesia ‛popolare' e ‛tradizionale'. - In questo settore, dove sembra fermarsi la macchina innovatrice della storia, e dove sul punto di partenza viene a preponderare la tappa, quando non il suo responsabile, è come se si elaborassero degli apparati autonomi. E al limite, per arduità di ordinamento cronologico o per dignità di redazione, si può parlare di equivalenza delle varianti, gli errori si estrapolano in semplici innovazioni e queste in innovazioni redazionali, per cui diventa inoffensiva fin l'applicazione del iudicium, con la categoria antilachmanniana di variante (o almeno di organica redazione) ‛più bella'. I testi più soggetti a simile sorta di rifacimento sono, beninteso, i canti e altri componimenti ‛popolari', dove, in attesa della fase di razionalizzazione, è sempre aperta la fase della raccolta. Aperta in fatto, ma anche aperta in diritto, quando addirittura, rovesciandosi il movimento romantico dall'ignoto al noto, si conosce il punto di partenza, cosicché si credette di poter identificare quell'ignoto in altro noto. Le cose stavano all'inverso. Non i romances spagnoli, ‛cantilene' per privilegio collettivo sopravvissute, avevano generato, in obbedienza alla fenomenologia romantica, l'epica spagnola, e particolarmente il Cantar de myo Çid, ma al contrario, come ben videro il Milà y Fontanals e il Menéndez y Pelayo, anzi già A. Bello, i romances rappresentano un'evoluzione successiva dell'epos. Il Menéndez Pidal, magnanimo collettore di romances, definisce questa forma di poesia come proprietà collettiva, offerta all'usufrutto e alla partecipazione dell'intera comunità, dove ogni intervento, firmato o adespoto che sia, su un testo ereditario, o per analogia su un tema nuovo, ha valore autonomo, col termine tecnico di poesía tradicional, in opposizione a popular, che sarebbe quella diventata o ‛decaduta' a popolare. In proposito di questa distinzione va introdotto il suggerimento del Barbi, di grande attrattiva euristica, pur se riferito a un ramo di filologia ‛tuttora condendo: ricavare dallo studio della poesia che il Pidal chiama ‟tradicional" (in quanto svolta su temi extraletterari) norme valide per la trasmissione di quella che il Pidal chiama ‟popular". ‟Io [...] ho sempre preferito avere lezioni diverse d'un medesimo canto che non canti nuovi. [...] Quello che avviene ancora, in condizioni molto diverse di trasmissione, per la poesia popolare, può giovare per risolvere problemi spinosi circa la poesia dei primi secoli. Illuminerà, per esempio, la questione della trasmissione delle laudi di tipo più popolare, e di riflesso anche di quelle di Iacopone; e chiarirà il problema delle antiche stampe di canzonette e strambotti, particolarmente quello di Leonardo Giustinian su cui son così diversi i pareri" (v. Barbi, 1938, p. XXXIX). Da allora (1938) laudi e giustiniane si sono continuate largamente a studiare al modo in largo senso ‛lachmanniano', cosa legittimata dall'identità di logica che regge ogni teoria dell'innovazione. Può restare il rimpianto che a testi di tradizione così frantumata non sia stata ancora recata l'esperienza, non si dice di un tradicionalista (che per la verità si avverte un po' troppo nel Pidal editore di testi letterari, peraltro di tradizione ispanicamente molto semplice), ma di un filologo persuaso della singolarità dei problemi sui singoli testi, qual era il Barbi, è pur movente da esperienze letterarie e poi traversante esperienze folcloristiche. Impregnato di fantasia scientifica, egli ha tracciato il profilo d'un'area analogicamente disponibile a uno spirito d'invenzione.
Algebra e discorso in ecdotica. - Un ideale di presentazione testuale è altamente formalizzato, con una figurazione differenziata della discontinuità del reale rispetto alla razionalità e una frammentazione di apparati sia a scopo probatorio sia a fini d'informazione storica. Quest'ideale è man mano diluito secondo gli utenti a cui si destina l'edizione, tuttavia un'accentuata diffusione del costume filologico (che non è senza contropartite, ma di cui in questo punto si pongono in rilievo i vantaggi) fa sì che ormai non osti mevitabilmente alla fruizione dei testi la segnalazione dei dati presentabili (quando presentabili) con mezzi tipografici elementari, quali i luoghi incomprensibili della tradizione, le lacune, i supplementi, le altre lezioni congetturali, le interpolazioni già munite di un lungo prestigio, magari le varie misure di un testo anisosillabico; in un mondo che non ha più in vigore il canone di Policleto o altro legislatore estetico, ha dimesso le sue ultime resistenze - poiché esse venivano da lui ancor più che dall'immaginario lettore - perfino lo stampatore, giusto cultore di un'armonia che presupponeva l'inviolabile immobilità del testo. Ciò però che limita la ‛purezza' algebrica della rappresentazione è la necessità di discorso: meno ancora per l'impossibilità di descrivere altrimenti soluzioni probabilistiche, quando si avverta che un intervallo, peggio se di dimensioni variabili, separa dall'equivalente-dell'originale, che per la convenienza di giustapporre elementi dell'esegesi. La convenienza di inglobare dati esegetici alla stessa costituzione del testo è stata praticata dal Barbi (sotto forma di apposito apparato, non di appendice illustrativa, che non sarebbe davvero una novità, nell'edizione della Vita nuova, del resto ispirata alla rainiana del De vulgari), poi anche separatamente affermata. Egli reclamava la libertà (il discorso, fatto per le Rime dantesche, ha valore universale) ‟di tentare una critica totalitaria che servisse con ogni mezzo, compreso il commento, a dar piena ragione del testo, dell'ordinamento e della stessa autenticità" (v. Barbi, 1938, p. X). ‟[...] Per me l'ideale resta sempre un'edizione ove il testo sia giustificato da una precisa interpretazione e illustrazione. Senza giusta interpretazione non si può dar neppure un'interpunzione corretta [...]: anche per opere di cui s'ha la fortuna d'avere l'autografo, o l'edizione approvata dall'autore, la precisa intelligenza del testo è necessaria a voler fare un'edizione che serva ai bisogni dei lettori moderni, e insieme agli studiosi" (ibid., p. XXVII). È probabile che il Barbi intendesse opporsi a una pratica della recensio (o di materiali per la recensio) senza interpretatio quale non era impossibile trovare presso qualche cultore del metodo storico: benché l'affermazione di una recensio anche a patto di rinuncia all'interpretatio avesse una legittimità storica ben precisa quando l'avanzava un filologo del calibro del Lachmann, poiché si trattava d'impedire che una volontà umanistica di capire prevaricasse sulla medesima costituzione del testo. Parlando di ‟critica totalitaria", il Barbi intendeva saldare non viziosamente il circolo tra una recensio come base dell'interpretatio e un'interpretatio come fondamento della recensio, movimenti certamente distinti se non contrastanti (o prevale l'interesse per l'esegesi o prev4e l'interesse per la fissazione testuale), che un'alta periodicità negli interessi avvicina fino a un desiderio o illusione di fusione. Nonostante tutto, nell'ardito e fin qui unico propugnatore di una ‟critica totalitaria" il momento esegetico finì col prevalere sul momento recensorio, posto che precisamente dell'opera che gli ispirò questo ideale, le Rime di Dante, con poche eccezioni che probabilmente lo configurano (come il saggio sulla tenzone con Forese Donati), il Barbi finì per dare, postuma e con l'aiuto di ben governati collaboratori, la sola edizione commentata, svolta attorno all'immobile testo, non corredato da giustificazione, prodotto nella stampa del Centenario (testo migliore di ogni precedente, ma perfettibile e dichiaratamente provvisorio); e i saggi adunati nella Nuova filologia (titolo che vuol essere anche la definizione di un programma) vertono soprattutto su varianti d'autore, cioè accentuano il momento dell'elaborazione con un'intenzione, parallelamente al libro del Pasquali, translachmanniana; e finalmente uno scritto quasi testamentario prendeva in esame non più una tradizione manoscritta statica o una dinamica e tanto meno una popolare, oggetti fino allora delle sue mutabili e inquiete curiosità, ma una correttoria fino all'ultimo sulle bozze, quella manzoniana dei Promessi sposi, elaborando un'ulteriore inedita fenomenologia procedente per studio dei fogli di stampa. Né c'è bisogno di scendere tanto nel tempo: la pagina della Vita nuova si appaga di un primo apparato testuale ridottissimo, contenuto nei piani alti dell'albero e perciò in sostanza riserva di alternative discutibili, mentre altre sedi prefatorie sono deputate a ospitare con la debita microscopia i procedimenti lachmanniani e quelli della ricostruzione formale: quasi l'immenso tempo loro dedicato fosse adibito a un uso, non certo allotrio, ma puramente negativo e servile. La soppressione degli apparati nell'edizione dei soli testi danteschi, poi nella collezione delle opere commentate, risponde sicuramente a necessità pratiche, ma che devono essere state accolte senza sacrificio, se non con soddisfazione, da un temperamento interamente dedito all'istante della lettura; e ciò concomita con l'aspetto decisamente non specialistico, fuori di sostanziose innovazioni, della sua presentazione formale. Nonostante le innumerevoli tavole di varianti e descrizioni codicologiche (specialmente negli Studi, destinati a una straordinaria fortuna recente), il Barbi ha decisamente scelto la parte non del tecnico, ma dell'umanista.
Arte allusiva. - Una presentazione portatrice di esegesi tende naturalmente a dissociarsi da una presentazione formalizzata. Ciò che agevola il compito dell'avvicinamento è il fatto che quest'ultima; la cui ‛purezza' consisterebbe nel rappresentare meramente o l'approssimazione dell'autore o quella dello storico al testo, nella sua reale configurazione persegue più finalità (che a rigore possono esser trattate in edizioni separate) e raccoglie una somma di informazioni non omogenee: tale, rispetto all'oggettivazione del testo, la sua storia o ‛fortuna', tale e sarà magari lo stesso materiale da altri punti di vista - la raccolta dei dati provvisti di una virtualità che potrà anche non realizzarsi mai (se il caso non esibirà incrementi dell'inventario) o semplicemente offerti a un controllo. Il ‛genere' è già abbastanza composito da tollerare la presenza di altre informazioni, le quali ripropongano puntuali aspetti della cultura dell'autore (o del pubblico da lui immaginato), cultura esplicita o implicita o magari inconscia, tali da metterci nella distanza originaria. Un'estensione canonica, marginale o parentetica (come per i luoghi paralleli nelle edizioni ecclesiastiche della Scrittura, maestre involontarie di tanti artifici ecdotici) o invece riservata a un apparato apposito, si fa per le vere e proprie citazioni. Un problema rilevante suscita in cambio quella detta dal Pasquali (nel titolo del saggio poi messo ad apertura di Stravaganze quarte e supreme, Venezia 1951, p. 11) ‟arte allusiva", non reminiscenze ma allusioni, e volentieri direi evocazioni e in certi casi citazioni. Le reminiscenze possono essere inconsapevoli; le imitazioni, il poeta può desiderare che sfuggano al pubblico; le allusioni non producono l'effetto voluto se non su un lettore che si ricordi chiaramente del testo a cui si riferiscono". Nocciolo della comunicazione del Pasquali sono, sulle tracce degli antichi commentatori e dei più raffinati moderni (E. Norden), passi virgiliani che acquistano tutto il loro sapore quando traspaia la filigrana di Vario o di Ennio o di Varrone Atacino; una bell'aggiunta recente (G. B. Conte, Memoria dei poeti e arte allusiva, ora in Memoria dei poeti e sistema letterario, Torino 1974) fa scorgere Catullo dietro Virgilio entro un contesto emulativo omerico. In casi estremi, cioè in centoni dichiarati, quali ebbero cari la tarda antichità e l'Alto Medioevo, soprattutto attorno a Omero e a Virgilio, un apparato è tenuto a identificare gli ingredienti; ma anche di arte allusiva vi è un settore che giunge addirittura a essere segnalabile a testo, se il verso bucolico ‟Perdita nec serae meminit decedere nocti" è virgolettabile come, per indicazione di Macrobio, desunto da Vario, o, si può aggiungere, nella canzone petrarchesca Lasso me deve subire questo trattamento ogni verso finale di stanza come incipit di altrettante canzoni (Arnaut Daniel o chi per esso, Cavalcanti, Dante ecc.). Il procedimento è legittimo perché si tratta di un elemento dell'‛esecuzione' testuale, pronunciato appunto fra virgolette: perciò anche la chiave ne è essenziale, e appartiene idealmente a una fascia privilegiata di commento, distinguendosi dai subalterni sussidi di erudizione antiquaria; quella fascia o apparato speciale in cui andranno dichiarate per intero le variazioni , non segnalabili come le ‛desunzioni' (così Virgilio ‟aut bucula caelum Suscipiens patulis captavit naribus auras" da Varrone Atacino ‟Et bos suscipiens caelum - mirabile visu - Naribus aërium patulis decerpsit odorem"). Solo la proporzione di familiarità è atta a decidere della costituzione dell'apparato: se in D'Annunzio, per seguire sempre l'esemplificazione del Pasquali, si legge ‛O voce di colui che primamente /conosce il tremolar della marina", la reminiscenza dantesca appartiene a una memoria collettiva talmente ovvia che qualunque segnalazione è superflua, anzi romperebbe il clima di spicciola complicità culturale che il poeta ha voluto instaurare col suo lettore; se ne occuperebbe comunque una didascalia post factum, non una glossa all'attuosità del testo, qui tacita. La discrezione, giusta la finalità proposta e anche a misura della peregrinità del reperto, arbitrerà la presenza delle tessere, classiche o volgari ma canoniche, alluse (desunte o variate), di repertorio o perfino subconsce ad attestazione d'un trauma di memoria. (Questo è tanto più significativo quanto meno semanticità inerisce alla formalità timbrica o ritmica della reminiscenza, per esempio se dei tanti echi danteschi - di aspetto involontario - in Petrarca si considera lo schema iniziale ‟Al cader d'una pianta che si svelse" come derivato dall'ugualmente incipitario ‟Al tornar de la mente, che si chiuse"; se poi si risale agli echi di ugual natura entro uno stesso poeta, si esperisce tangibilmente la memorabilità sulla quale egli fonda Dante in modo supremo - il suo assunto di essere un classico). Qualunque campo ermeneutico, non solo quello dell'arte allusiva, si presta a una rappresentazione immediata solo parziale. La punteggiatura, dunque una fase ormai graficamente obbligatoria dell'‛esecuzione', è dirimente per l'interpretazione, nell'episodio di Cavalcante: ‟Come?/ dicesti ‛elli ebbe'" (Casella) contro la precedentemente vulgata ‟Come? dicesti? ‛elli ebbe'?"; all'apparato (apparato, e non separato commento, essendo afferente al testo) è riservata, se la si vuol dare, e si vorrà finché sarà controversa, la giustificazione; si aggiunga che questa, poiché è fondata su contesti paralleli (a interpretazione univoca), è suscettibile di citazione abbreviata da quando si dispone di tante concordanze, e che il crescere di spogli elettronici a stampa fino all'auspicata confluenza nel Tesoro della Crusca consentirà una qualche abbreviazione in tutti i casi dove s'impongano riscontri da più testi e dove non importi solo un lemma isolato, bensì, come di norma, un lemma in relazione contestuale. Ma nello stesso episodio, in ‟Colui [...] mi mena / forse cui Guido vostro ebbe a disdegno", la punteggiatura è parlante solo per la mancanza di virgola dopo mena, che importa riferimento e di forse e di cui come oggetto a mena (la virgola precedentemente vulgata importava riferimento di cui a colui e quindi di forse a ebbe), ma solo un discorso può illuminare l'identificazione del personaggio e anche precisar meglio il ductus grammaticale. Quanto agli ‛enigmi' (e Dante valga anche qui per antonomasia), essi possono essere intenzionali e qualche volta predicati come tali, e questi sonò editorialmente irrilevanti, talché il grigio crociano di cui è invogliato ad avvolgerli il lettore è testualmente innocuo; ma quelle che sono oscurità solo all'interprete per oltranza retorica o morale, cioè di brevitas o di expolitio oppure di tabù, se rischiarate poco o nulla, aprono incertezze o lacune nella comprensione della lettera parallele a quelle verificabili nella costituzione del testo. S'immagina che la voce recitante, arcanamente inflessa intorno agli enigmi oggettivi, avrà avuto la fermezza in qualche modo neutra di chi sa se il piè fermo sia il sinistro o il destro, se il digiuno di Ugolino l'abbia portato alla tecnofagia o alla morte, ecc., sicché le nostre risoluzioni o anche irresoluzioni a questo riguardo della partitura dovrebbero occupare un ‛luogo simile a quello dei dati spettanti al testo, cioè un apparato piuttosto che un commento. Come una nuova scoperta testuale rivela vizi (per solito banalizzazioni) altrimenti non avvertiti, così nuove scoperte esegetiche rivelano retrospettivamente conoscenze insufficienti nel quotidiano cui non è più possibile adattarsi: forse l'astensione involontaria più imponente s'è mostrata nella lettura dei Vangeli da quando uno specialista di diritto orientale (J.D.N. Derrett, Law in the New Testament, London 1970) ha messo in luce il significato giuridico, allora universalmente inteso, delle parabole di Gesù. Questa ricerca e sceveramento d'una sede esegetica più vicina al testo in atto non è oziosa se vuol significare e come allegorizzare la tendenza a una comprensione letterale tanto rigorosa quanto, per parte sua, la costituzione della lezione: una ‟cantica semantica", come la disse il Pagliaro, o ‟grammaticale" o come altrimenti la si chiami, che può anche riverberarsi su tale costituzione.
Attribuzionismo. - Ultimo vantaggio della ‟critica totalitaria", diceva il Barbi, quello d'intervenire nelle questioni di autenticità. La generalizzazione è massima quando nell'attribuzionismo letterario si discerne il fondo comune all'attribuzionismo per eccellenza, quello figurativo, così come il Pasquali aveva messo le mani avanti per precisare che l'allusività valeva non meno per le arti figurative e la musica che per la poesia. Le differenze fondamentali fra gli aspetti che hanno rivestito i due tipi di ricerca attributiva risalgono naturalmente al fatto che l'anonimato è, anche per il Medioevo, condizione meno ordinaria in letteratura che nelle arti figurative, e che il veicolo letterario si presta ancor meglio a ‛vischiosità' tecniche e a poetiche spersonalizzanti (nonostante l'imponenza di fenomeni ‛astorici' come la pittura bizantina e la scultura negra, o la tendenza all'identificazione anche di somme individualità come Giorgione e Tiziano giovane o gli impressionisti per certi momenti da cogliere ad annum). Tuttavia la questione non va posta in astratto, poiché la critica è come storicamente esiste, e la critica d'arte non solo si realizza in parte rilevante quale attribuzionismo, e non unicamente sotto le mani dei grandi ‛conoscitori', ma anche al difuori dello stretto attribuzionismo si assetta in forma attribuzionistica e congetturale, seriando le opere in un fitto reticolato di consecuzioni culturali: un libro di storia dell'arte assomiglia (ed è un inconsapevole merito della disciplina, che non stacca giudizio di valore da giudizio esistenziale) più a un libro di storia letteraria che a un libro di critica letteraria (in forma romantica e postromantica); la fisionomia prevalente della sua ricerca è filologica. Tale filologia ha solide basi ‛reali', archivistiche o artigianali che siano; ma il critico d'arte, che più spesso conferisce a ‛filologia' un significato limitativo quando non despettivo, dà pregio sopra quest'argomentazione esterna ai considerandi stilistici che costituiscono l'argomentazione interna. Una sua formulazione più elementare, consistente in una morfologia delle figurazioni (panneggi, mani, nuvole ecc.) che ricorda la sistematica linneana, fu proposta da G. Morelli, e come ‛morellismo' si designa un attribuzionismo stilematico che non tocca il livello di stilistico. L'attribuzionismo stilistico, che nelle sue manifestazioni supreme acquista dalla folgorante rapidità dei passaggi un aspetto quasi mistico, non s'intende bene, anche in analogia, vichianamente, se non per averlo praticato: e apparirà allora quello che, nell'atto stesso di collocare il nuovo incremento, illumina criticamente tutta la serie delle innovazioni individuali o collettive che determina. L'attribuzionismo letterario è in prima istanza ‛esterno' (ma anche il figurativo più raffinato ingloba, fosse pur tacitamente, le prime fasi) e arriva a cercare gli indizi iniziali addirittura attraverso le probabilità statistiche dei suoi stemmi. Le divergenze attributive che insorgono tra i canzonieri medievali, in numero straripante gli occitanici e gli oitanici, tanto più parco i tedeschi, gli italiani e gli iberici, si cercano anzitutto di dirimere a norma di maggioranza come ogni altra divergenza di lezione; in alcuni casi, come in particolare mostrano il Barbi e il Debenedetti, la comparazione degli ordinamenti, in cui intervennero salti o altre alterazioni, permette una risposta positiva, o anche negativa, ai quesiti. Ciò non involge che quest'ambito non sia suscettibile di finissime applicazioni di critica interna, come la dimostrazione del Monteverdi in ordine all'apocrifia della chansoneta nueva data a Guglielmo d'Aquitania; ma sembra non essere mai accaduto che i risultati ottenuti su questa base si siano poi ripercossi sulla classificazione dei manoscritti. Corrente è anche l'attribuzione su base stilematica, ma occorre una grande oculatezza nel determinare se un certo stilema o sistema di stilemi possa davvero esser considerato una firma interna. L'illusione di poter adoperare impunemente i calcolatori elettronici per una determinazione automatica di paternità su base lessicale o sintattica (presenza o assenza di vocaboli e locuzioni, loro proporzione numerica, rapporti fra le parti del discorso, misura media dei segmenti sintattici e, chi volesse, valori timbrici in percentuale), per esempio al fine di determinare quali lettere e quali dialoghi pseudo-platonici siano davvero spuri, non sopravvive che circondata di cautele e riserve presso gli operatori più accorti, coscienti del fatto che quegli indici, o una loro parte, individuano strutture di ‛genere', comuni a più personalità, mentre viceversa in uno stesso individuo convivono più strutture (ciò non toglie che quegli spogli possano costituire un sussidio rilevantissimo dacché la memoria, elettronica o fisiologica che sia, è lo strumento essenziale dell'attribuzionista). Implicitamente per questo, non per pigrizia, editori moderni si accontentano di costituire appendici di ‛dubbi' (per Cino, Cecco Angiolieri ecc.). Proprio dell'attribuzionista moderno è comunque di esplicitare gli istituti sui quali ragiona (così come lo Spitzer ha dettagliato la ‟klassische Dämpfung" di Racine, e ancor meglio gli ingredienti rabelaisiani dei Contes drôlatiques per dare un buon voto al Balzac pasticheur): il Foscolo poteva limitarsi a fiutare aria di falso antico in sonetti di Guittone (come Charles Dickens subodorò una mano femminile in George Eliot), ma dall'epoca positiva in qua il sospetto falso antico di documenti non antichi è oggetto di meno vago scrutinio, dalla controversia su Dante da Maiano allo smascheramento recente dell'impostore ferrarese Baruffaldi. Ma che posto ha l'attribuzionismo stilistico in sede letteraria, per esempio nella brillante dimostrazione proprio del Barbi in ordine alla legittimità d'uno di quei presunti falsi antichi, la tenzone fra Dante e Forese? Nullo, perché, se l'autorità dell'uomo ha (salvo forse che per particolari minori) messo a tacere l'opinione avversa, ciò avviene giustamente, sul fondamento del comunque previamente necessario ragionamento documentario e anche stilematico; ma il sobrio Barbi non corona il suo edificio dimostrativo col fastigio critico del riconoscimento che qui, o anche qui, nasce la sperimentazione ‛comica' di Dante; mentre si può aggiungere che, precisamente per questa dilatazione sperimentale verso intentati settori linguistici, il calcolatore non solo non avrebbe corroborato la tesi, ma l'avrebbe, maneggiato meccanicamente, semmai confutata. La stessa posizione occupa, più in grande, il cosiddetto Fiore, per la cui ascrizione a Dante furono recate prove ‛esterne' talmente robuste da far dire al Parodi, ormai non più convinto dell'attribuzione, che sarebbero largamente bastate se si fosse trattato di tutt'altri che di Dante; sono state poi ad- dotte, prima sparsamente, quindi sistematicamente, prove ‛interne' stilematiche; e finalmente l'emergere di riscontri via via meno strettamente semantici fino ai fonici e ritmici puri, attestanti la ‛memorabilità' del testo (e di nessun altro testo a quel modo) entro la Commedia, porge un dato ‛stilistico' che sembra omologo a quelli adoperati dai più alti attribuzionisti figurativi, come il Longhi. Quanto alla ‛certezza', pare conforme alla condizione storica della filologia letteraria che essa sia ancora, e forse per sempre, scaricata sulle fasi precedenti. L'attribuzionismo figurativo si fonda sulla ‛qualità', e ciò torna a verificarsi nell'attribuzionismo letterario. Sia il caso del laudario Urbinate, nel quale, fra i componimenti tutti adespoti, ne sono ospitati di iacoponici, in lezione che travalica i piani bassi dell'albero, peraltro con dilatazioni e interpolazioni pregevolissime, benché inferiori al livello di Iacopone. La presenza di un'alta qualità in alcuni unica e quasi unica dell'Urbinate fa legittimamente nascere il sospetto euristico che ci si trovi innanzi a Iacopone inedito, da sceverare meglio che si possa dalla secondaria mano (o mani?) manipolatrice. Se il problema è quello stesso che si pone sulle pareti dell'altra grande macchina francescana, il santuario di Assisi, questa sovrana esperienza storico-artistica, ancor più che da metafora (splendida metafora), servirà da leva mentale.
Critica stilistica. - Fin qui l'esegesi mira al testo come a suo punto d'arrivo. Se essa, per così dire, si ribalta sul testo, questo diviene il punto di partenza di un'esegesi, se non postuma e aliena, certo meno vicina alla letteralità del testo, perciò esorbitante dall'ambito della filologia. Esistono tuttavia due tipi di ricerca che presuppongono in progressiva vicinanza la lettera, la assumono come dato immutabile e in nessun modo varrebbero a modificarla. Se non di pertinenza della filologia, essi appartengono al territorio immediatamente limitrofo. Il primo tipo di queste ricerche di frontiera si denomina col suo fondatore, L. Spitzer, ‟cantica stilistica" (Stilkritik), l'altro, egualmente col suo fondatore, R. Jakobson, ‟grammatica della poesia" (grammar of poetry). Entrambi operano su prelievi della lettera adottati come campioni fuori d'ogni criterio a priori, e non agiscono con categorie a priori né empiricamente riadottabili (come quelle della descrizione linguistica) a priori.
La critica stilistica, quale si configura, per semplificarne l'esame, nel solo suo fondatore, e più esattamente nella sede della sua fondazione, il volume di Stilkritik dedicato alla lingua degli autori, Stilsprachen (1928), forma il proprio campionario su elementi linguistici dell'autore studiato (‟Individuum NON est ineffabile" è il motto di uno dei saggi, ma varrebbe per tutti) differenziali rispetto alla media circostante, li interpreta, e confronta l'interpretazione con quella che si ricava dalla globalità dell'autore con strumenti psicologici: questo rapporto circolare (immagine la cui dichiarata etimologia è nello Zirkel o circolo vitale dello Schleiermacher) collega il microcosmo col macrocosmo, più che per riprova o conferma, tanto meno per correzione, per illuminazione reciproca e integrazione. La stesa testuale si screzia dunque in fatto di porzioni più e meno significative, punti ‛pertinenti' o ‛rilevanti' (come poi dirà la fonologia) in un insieme i cui passaggi possono anche essere neutri, in corrispondenza al livello d'attenzione che al testo porta non solo il lettore (che almeno inizialmente deve accontentarsi, in fatto e in diritto, d'una comprensione discontinua e approssimativa) ma lo stesso autore. Il metodo in questa formulazione si applica alle individualità esaltate del postromantico mondo contemporaneo, o più largamente alle innovazioni stilistiche, dunque anche collettive (come nel saggio spitzeriano, considerevolmente anteriore alla Stilkritik, sugli acquisti sintattici del simbolismo); la sua evoluzione (almeno nelle più sicure estensioni dell'operatore, come nel saggio sul classicismo di Racine) sarà verso una differenzialità inerente al testo stesso, in rapporto a una poetica dell'assoluto. Le modalità della Stilkritik sono dunque funzione della poetica.
Grammatica della poesia. - La grammatica della poesia non conosce parti neutre del testo, ma si comporta come se tutto vi fosse significativo (in francese pertinent, in tedesco relevant), cosa che tanto più si nota in quanto la dottrina è stata elaborata esattamente nell'ambito strutturalistico che ha genialmente introdotto la categoria di pertinenza. I componimenti oggetto delle analisi del Jakobson sono delle unità poematiche concluse, e quindi tende a farsi ozioso il quesito sui moventi della scelta (per quanto la serie di saggi verta su autori delle più varie lingue, così da suscitare involontarie ipotesi di rappresentatività degli autori per le lingue, e specialmente dei testi per gli autori, negli incerti limiti però in cui sussiste il principio di individualità poetica). Le unità poematiche contengono proprietà del significante (non importa a che livello di coscienza) che vengono esplicitate e concorrono a un'interpretazione complessiva sul piano del significato: si può congetturare che la percettibilità di tale interpretazione (quasi ‛ispirazione' del critico) costituisca il criterio psicologico della scelta. Si possono riconoscere modalità ricorrenti di applicazione di un questionario più generale, in rapporto precisamente alla chiusura del testo, senza che ciò si trasformi in costituzione di categorie a priori: si studia fondamentalmente la distribuzione delle partes orationis (e loro funzioni), e in via subordinata dei registri fonematici, nei segmenti ritmici e sintattici, limitati da rime e pause, comparando i risultati diversi che si ottengono in distinte aree testuali come possono essere l'anteriore e la posteriore, le alterne (dispari e pari), le periferiche e le centrali. La realtà dei fatti così reperiti sarebbe tutta ugualmente reale: qui sorge la principale riserva sul metodo, che sembra restare aperto a una riforma la quale estenda a questa sede l'agnizione di traits pertinents. L'applicazione del metodo a specifici testi letterari sembra acquisita col saggio del Jakobson, in collaborazione col Lévi-Strauss (in ‟L'homme" del 1962), su Les chats di Baudelaire, pagine ormai celebri che possono costituire un opportuno riferimento anche per rilievi contenenti implicazioni generali, e che appunto hanno il solo torto di non ammettere gradualità nella certezza dei risultati, quasi fossero o da accettare o da respingere in blocco. Che gli chats siano da identificarsi nella muliebrità, risulta con sufficiente sicurezza per tralasciare il qui taciuto, certo come troppo plebeo, argomento che chat suscita dall'inconscio di ogni parlante del francese un'allusione gergale di femminilità) da un argomento filologico, il fatto, rilevato dagli esegeti, che il binomio puissants et doux, di origine sainte-beuviana, qui riferito ai gatti, in una poesia di A. Brizeux era detto delle donne: più che arte allusiva nel senso intenzionale del Pasquali, subliminale riflesso condizionato. Ma che l'eros sia androgino, la prova del Jakobson, che cioè, di contro alle rime cosiddette femminili (ossia parossitone, in fatto terminanti per consonante) riferite a nomi indifferentemente femminili o maschili, le maschili (ossia ossitone, in fatto terminanti per vocale) si riferiscano tutte a nomi femminili, è valida solo in quanto si assuma un armonica sessuale inerente al genere grammaticale. L'osservazione del Jakobson è peraltro un fatto che le proporzioni suggeriscono di considerare non aleatorio (questa categoria statistica è estranea alla grammatica della poesia). Il fatto può invece essere razionalizzato se inquadrato in uno studio delle rime, le quali sono tutte meno una ricche, fatto che, forse per essere banale, d'un'abbondanza medievale, in Baudelaire, non è mai menzionato dal Jakobson. Le rime sono insomma ‛in -tères, -aison, -té, -nèbres, -itudes (e non in -ères, -on ecc.); segue una rima ricca ma anche equivoca, monosillabica (fin), che è precisamente l'ultima delle citate rime maschili, e che compensa immediatamente a ritroso (SAns fin: SAble fin) la relativa povertà della rima (compagna solo a -té, come ha a altro effetto, ma in contesto meno persuasivo, il Jakobson); viene infine la sola rima non ricca, benché adeguatamente compensata a ritroso (étincELLES Magiques: prunELLES Mystiques), che è proprio la più esposta in quanto finale. Come non razionalizzare questa ‛eccezione', che dalle proporzioni è segnalata come ancor meno aleatoria; e come non razionalizzarla topicamente; quale segnale del culminante allontanamento nello spazio e nel tempo che si chiude e inverte (aiutando l'etimo di mystikós, certo presente al buon umanista Baudelaire) in lontananza interiore? Ciò consuona alle dimostrazioni magistrali del Jakobson sulla gradazione dalla ‟maison" dei gatti alla ‟non-maison" delle sfingi e alla vaga molteplicità che fa dei gatti ‟la maison de la non-maison"; dal reale all'irreale e al surreale; dalla ‟précision" all'‟imprécision". Solo che l'ambiguità ritrovata nel testo merita di essere discussa analiticamente per determinare quanto essa sia conciliabile con le necessità semantiche della lettera: posto il francescano ‟‛Laudato si', mi' Signore", il ‛per' successivo potrà ben avere o valore causale o valore d'agente o valore strumentale, ma uno solo per volta, non essere ambiguo fra più, come pure ha pensato qualcuno; sono funzioni alternative, non coesistenti. Il verso ‟Leurs reins féconds sont pleins d'étincelles magiques" (di cui il Jakobson scrive: ‟On est tenté de croire qu'il s'agit de la force procréatrice, mais l'oeuvre de Baudelaire accuellie volontiers les solutions ambiguës. S'agit-il d'une puissance propre aux reins, ou d'étincelles électriques dans le poil de l'animal?", v. Jakobson, 1973, p. 413) non contiene nulla che non sia compatibile con le norme della lettera: reins 'lombi' ha una latitudine metonimica abbastanza elastica da indicare la corporeità in genere (con cui le scintille) e la specificazione sessuale (con cui la fecondità); si può parafrasare ‟i loro corpi - quei loro corpi così fecondi - sono pieni ecc., questo allargamento già simbolistico concomita con la descritta dilatazione finale. Semplice esitazione, non già supposta ambiguità, si ha per l'apposizione ‟orgueil de la maison": ‟Faut-il entendre que les chats, fiers de leur domicile, sont l'incarnation de cet orgueil, ou bien est-ce la maison, orgueilleuse de ses habitants félins, qui [...] tient à les domestiquer?" (ibid., p. 411); la soluzione ‛vanto della casa' parrebbe difficilmente contestabile. Mal sostenibile è invece l'ipotesi di ambiguità (‟La signification de ce passage [...] reste à dessein ambiguë") per il passo ‟L'Érèbe les eût pris pour ses coursiers funèbres, S'ils pouvaient au servage incliner leur fierté" (ibid., p. 410): pris ‛scambiati' e pris ‛adottati' si escludono infatti reciprocamente. Qui un altro capitolo filologico, la critica delle varianti, interviene, sulla base della lezione delle prime stampe (‟pour DES coursiers"), ad arbitrare la controversia nel senso di ‛scambiati' (a meno che l'autore, che si sa non sempre felice nell'emendarsi, abbia corretto, ma per accidente servendosi di una forma equivoca, un certo ‛scambiati' in un intenzionale ‛adottati', congettura peraltro poco economica). Anche questo episodio istituisce un'ulteriore collaborazione della filologia con un capitolo tanto suggestivo dello strutturalismo, un cui prolungamento può leggersi in N. Ruwet.
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