FILOLOGIA
(XV, p. 338)
Filologia classica. - Nell'ultimo sessantennio la f. classica − intesa come disciplina rivolta allo studio dei testi greci e latini antichi con particolare attenzione alla loro trasmissione, alla loro esegesi e alla loro comprensione storica − ha compiuto indubbi progressi, anche se all'aumentata mole della produzione, specialmente dopo la seconda guerra mondiale, non si può dire che abbia corrisposto un'adeguata elevazione del livello scientifico.
Alcuni progressi sono dovuti a motivi per così dire occasionali. Le scoperte papirologiche hanno procurato materiale di grande importanza letteraria e storico-culturale, soprattutto, come al solito, in campo greco: ricordiamo, fra le molte, il Πεϱὶ ϕυγῆϚ di Favorino (1931), le ΔιηγήσειϚ callimachee di Tebtunis (1934), i frammenti dei Διϰτυουλϰοί di Eschilo (1935, 1941), l'ode di Saffo dell'ostrakon fiorentino (1937), il ΔύσϰολοϚ di Menandro (1958) con altre cose menandree, il commentario orfico di Derveni (1962), l'epodo di Archiloco di Colonia (1974); in campo latino, gli epigrammi di Cornelio Gallo di Qaṣr Ibrîm (1979) e il poemetto Alcesti di Barcellona (1982). Altre scoperte latine di rilievo, da codici di note biblioteche, sono quelle degli Epigrammata Bobiensia compiuta da A. Campana (ed. F. Munari 1955), di numerose lettere dell'epistolario agostiniano (J. Divjak, 1981), di un trattato metrico di Marziano Capella (M. De Nonno, 1990). Fra le nuove epigrafi − per lo più d'interesse storico e antiquario − ci limitiamo a citare i testi metrici della ''coppa di Nestore'' (1955), rilevante per la storia della più antica poesia greca, e della laminetta orfica di Hipponion (1974). Una scoperta di diversa natura è la decifrazione della scrittura lineare B, che fu dovuta all'acume di un dilettante inglese, M. Ventris, e da lui resa nota nel 1953 in collaborazione con J. Chadwick: essa ha dimostrato la grecità del dialetto miceneo (che si ritiene imparentato col gruppo arcadico-cipriota) e ha dato origine a una disciplina speciale, la ''filologia micenea'', in cui hanno gran parte, insieme con la linguistica, la storia e l'archeologia.
Da un punto di vista metodico generale, la f. classica ha proseguito sulla via indicata dalla f. tedesca dell'Ottocento e del primo Novecento. Segno esteriore di questa continuità è la prosecuzione o il compimento, con più larga partecipazione internazionale, delle grandi opere collettive iniziate in Germania nel secolo scorso, quali la Realencyclopädie di Pauly-Wissowa, il Thesaurus linguae Latinae o, nel campo attiguo dell'epigrafia, il Corpus inscriptionum Latinarum e le Inscriptiones Graecae. Ma più importa la sostanziale adesione alla visione storicistica dell'antichità già largamente affermatasi agli inizi del secolo soprattutto per opera di U. Wilamowitz, erede e continuatore della f. ''reale'' di A. Boeckh e K. O. Müller, ritenuta non più in contrasto, ma in necessaria simbiosi, con la f. ''formale'' di G. Hermann.
Questa visione è rimasta predominante nel periodo qui considerato, anche se negli ultimi decenni hanno fatto sentire più o meno fortemente la loro influenza tendenze critiche già da tempo rappresentate negli studi classici, come l'antropologia e la sociologia, o d'importazione più recente, dallo strutturalismo alla semiologia alla psicanalisi. Per quel che riguarda l'antropologia, hanno variamente esercitato il loro influsso storici della religione e antropologi esperti di f. come lo svedese M. P. Nilsson, lo svizzero K. Meuli, il tedesco W. Burkert (dal 1969 professore a Zurigo), mentre valoroso editore ed esegeta di testi greci e insieme antropologo è stato l'inglese E. R. Dodds (The Greeks and the irrational, 1951); più lontana dalla f. la scuola parigina di J.-P. Vernant. Da ricordare in Italia gli studi di B. Gentili (specialmente su lirica greca arcaica) e di altri più giovani. Né, com'era facile attendersi, sono mancati contributi filologicamente significativi da parte di studiosi di discipline antichistiche legate alla f. classica in stretto rapporto scientifico, come la storia antica, l'archeologia, l'epigrafia: basterà ricordare − sulla linea di illustri predecessori quali E. Schwartz e G. De Sanctis − l'opera dello storico e prosopografo inglese R. Syme (Sallustio, Tacito, Historia Augusta).
Malgrado la suaccennata validità della tradizione filologica tedesca, la Germania non ha conservato il predominio che deteneva dalla fine del 18° secolo. Negli anni Trenta l'avvento al potere del nazionalsocialismo, la persecuzione antiebraica e poi la guerra hanno allontanato dalla Germania e dalle università tedesche, per lo più in direzione di Inghilterra e Stati Uniti, gran parte dei migliori classicisti, da Ed. Fraenkel a F. Jacoby, da P. Maas a R. Pfeiffer a O. Skutsch, da W. Jaeger a H. Fränkel a P. Friedländer a F. Solmsen − senza dimenticare l'esilio svizzero dell'anziano E. Norden e la morte in campo di concentramento dello storico F. Münzer (furono esonerati dall'insegnamento K. Ziegler e K. Latte; per la persecuzione razziale, peraltro, lasciarono l'Italia lo storico della filosofia greca R. Mondolfo e lo storico antico A. Momigliano). Il grave indebolimento della scienza e della scuola filologica tedesca ha contribuito a spostare altrove il centro di gravità della disciplina, in particolare in un paese di già alta tradizione filologica come l'Inghilterra. Ciononostante la Germania, malgrado le difficoltà rappresentate dalla divisione politica del paese, è andata riacquistando nel dopoguerra una posizione ragguardevole nel campo della f. classica, con una diminuita produzione di studi testuali, edizioni critiche, commenti (area, questa, ormai di prevalenza anglosassone), ma con una vivace propensione per l'indagine storico-letteraria e storico-filosofica (anche, in campo latino, su concetti etico-sociali).
Comunque, per quanto si vada manifestando una crescente comunità d'interessi e di problemi fra i vari paesi, sono tuttora ben riconoscibili in alcuni di essi certe inclinazioni caratteristiche della loro tradizione filologica. Così per es. in Francia si constata una più spiccata sensibilità per l'analisi letteraria e per la ricerca linguistica, anche in senso terminologico-concettuale (per gli interessi linguistici sono da ricordare i latinisti A. Ernout e J. Marouzeau), in Svizzera è tuttora ben rappresentata la tradizione storico-linguistica a sfondo glottologico, ecc. In Inghilterra si è passati, anche per influenza della già ricordata emigrazione di dotti tedeschi, da un periodo di preponderanza di studi letterari in parte di alta divulgazione (G. Murray, C.M. Bowra) a uno più incline a studi tecnici, edizioni critiche, con propensione per le implicazioni storiche, archeologiche, antiquarie della filologia. Gli Stati Uniti hanno continuato a ricevere influssi della f. tedesca e di quella inglese. Per quanto concerne l'Italia, essa si è mantenuta complessivamente al livello della migliore f. europea, facendo capo dapprima all'alto insegnamento storicistico di G. Pasquali, all'esperienza filologica di G. Funaioli, L. Castiglioni, V. De Falco, e a posizioni in cui al fondamento filologico si univano in modi diversi tendenze storico-letterarie o critico-estetiche o storico-filosofiche come quelle di A. Rostagni, M. Valgimigli, C. Marchesi, E. Bignone; e già allora e in tempi più recenti l'influenza di questi studiosi si è esercitata sui loro allievi e continuatori, anche quando questi, sia per diverso temperamento critico, sia per la sollecitazione di nuove correnti epistemologiche, se ne sono più o meno sensibilmente allontanati.
Orientata in senso storicistico, la f. classica ha confermato e accentuato il distacco dalla vecchia ideologia classicistica, che tendeva a privilegiare alcune epoche della civiltà letteraria greca e latina.
Non, naturalmente, che nel periodo qui trattato siano state prese in minor considerazione − oltre a Omero − la letteratura greca del 5° secolo o quella latina del 1° a.C.: fra le tante opere d'insieme su generi o autori determinati si possono citare, per es., quelle sulla tragedia greca di M. Pohlenz, di G. Perrotta, di A. Lesky, o il Sophokles di K. Reinhardt, il Varrone di F. della Corte, i libri virgiliani di E. Paratore, V. Pöschl, B. Otis, F. Klingner, l'Horace di Ed. Fraenkel, e il volume oraziano di A. La Penna. Ma già all'inizio del secolo si era fatta strada una sensibilità nuova per autori non ''classici'', in particolare, con la Hellenistische Dichtung di Wilamowitz, per i valori raffinati e riflessi della letteratura ellenistica (verso cui in Italia hanno rivolto le loro cure Pasquali, Rostagni, Perrotta), e in generale si è cercato d'intendere sempre meglio e di apprezzare nella loro specificità i caratteri delle età non ''classiche'', in particolare di quelle arcaiche e tarde. Per la più antica letteratura greca si è insistito su aspetti antropologici, riproponendo la questione dell'inesistenza della scrittura fino all'epoca stessa dei poemi omerici sulla base di importanti studi dell'americano M. Parry (allievo di A. Meillet) sulla tecnica formulare omerica ed estendendo, non senza eccessi, la teoria dell'''oralità'' a epoche posteriori (E.A. Havelock); per quanto riguarda Omero, si ripropongono tuttavia, anche se su basi in parte diverse, i problemi dei vari elementi compositivi rappresentati nei poemi. Inoltre si è cercato di penetrare per nuove vie nelle forme di pensiero e di espressione proprie della grecità arcaica (H. Fränkel, B. Snell). Per la letteratura latina più antica, si è proceduto oltre, sulla strada di F. Leo, nella reazione al concetto di ''rozzezza'' delle prime manifestazioni letterarie, riconoscendo aspetti dello spirito ellenistico già nei poeti del 3° secolo a.C. Si è guardato anche con maggior favore al momento ''manieristico'' della letteratura del 1° secolo d.C. (qui ha influito il noto articolo di Ed. Fraenkel su Lucano, del 1924, oltre alla generale tendenza alla rivalutazione dell'arte ''manieristica''). Così pure si è dedicata sempre maggiore attenzione agli autori tardi e cristiani, anche questi ultimi entrati ormai da tempo nell'ambito degli studi di f. classica (E. Schwartz, R. Reitzenstein), il che ha favorito una migliore integrazione della letteratura e del pensiero dell'antico cristianesimo nello studio della cultura tardoantica: parimenti esperti di pensiero pagano e cristiano sono stati il francese A. J. Festugière, lo svizzero W. Theiler, il tedesco Wolfg. Schmid (dal 1950 si pubblica a Stoccarda un Reallexikon für Antike und Christentum). Sui rapporti fra religioni orientali e mondo greco l'antica collaborazione tra J. Bidez e F. Cumont produceva, ancora nel 1938, l'importante opera su Les mages hellénisés.
In un'avanzata concezione dell'originalità letteraria s'iscrive l'aumentata attenzione per le personalità di imitatori e ''traduttori''. Esemplare in questo senso è stato il Plautinisches im Plautus di Ed. Fraenkel, aggiornato dall'autore nell'edizione italiana del 1960 (su una via analoga il Plautinisches und Attisches di G. Jachmann del 1931; sul rapporto fra Plauto e i suoi modelli ha portato altra luce un frammento papiraceo del Δὶψ ἐσαπατῶν di Menandro edito nel 1968). Nel 1935 l'Euripides und Diphilos di W.-H. Friedrich metteva in luce l'originale ripresa e trasformazione di motivi drammatici nel passaggio da un genere all'altro. Tra i procedimenti imitativi rientra la tecnica dotta, di gusto alessandrino, dell'''arte allusiva'', come venne definita da Pasquali in un fortunato articolo del 1942.
Lo storicismo ha fatto osservare con sguardo diverso la trasmissione dei testi antichi, nell'antichità stessa, nel medioevo bizantino e latino, nell'umanesimo. Secondo un indirizzo risalente a Wilamowitz, papiri, codici, tradizione indiretta non sono considerati solo come depositari di testi e di varianti, ma come momenti di una Textgeschichte profondamente inserita nella storia della cultura e capace anche così di contribuire a una più sicura e accorta critica testuale. Fondamentale opera di sintesi in tal senso è la Storia della tradizione e critica del testo di Pasquali (1934), che si pone come necessaria integrazione della matematizzante Textkritik di P. Maas (19602) e segna in modo definitivo la crisi del metodo di K. Lachmann (così impropriamente detto, come ha dimostrato S. Timpanaro, i cui scritti su teoria e critica testuale proseguono l'opera di Pasquali).
Tutto ciò naturalmente ha influenzato anche le edizioni critiche, che costituiscono un aspetto fra i più rilevanti dell'attività filologica.
In questo settore hanno dimostrato piena vitalità le maggiori collane sorte nell'Ottocento (la Bibliotheca Teubneriana e la Bibliotheca Oxoniensis; per la latinità cristiana, il viennese Corpus scriptorum ecclesiasticorum Latinorum) o nel primo Novecento (la Collection des Universités de France, la cosiddetta ''Collection Budé''), affiancate da altre di diverso carattere (in America e Inghilterra la Loeb Classical Library, in Italia il Corpus Paravianum, quasi esclusivamente latino, la collana dell'Accademia dei Lincei, ecc.). In generale, gli editori hanno cercato di estendere il più possibile la conoscenza dei testimoni anche in tradizioni molto ampie (per es. U. Knoche per Giovenale), da un lato favoriti dagli avanzamenti della tecnica (microfilm, mezzi di comunicazione più agevoli, ecc.; dal 1937 funziona a Parigi l'efficiente Institut de recherche et d'histoire des textes), dall'altro sollecitati ora dalla convinzione che testimoni tardi e un tempo meno apprezzati possano conservare buona tradizione, secondo il principio di Pasquali − non sempre ben applicato − "recentiores, non deteriores", ora dalla consapevolezza dell'importanza storico-culturale che possono rivestire anche testimoni inutili per la costituzione del testo. Per altro, con l'esigenza di disporre di una larga base documentaria si è manifestata in vario modo quella di non appesantire l'apparato critico: ricordiamo gli espedienti usati da P. Von der Mühll nell'edizione dell'Odissea (1946) e da R. A. B. Mynors nell'edizione di Catullo (1958).
I progressi della critica testuale sono andati insieme con quelli, cospicui, di paleografia e papirologia, nella prima delle quali si sono segnalati − dopo i tempi di L. Traube e di W.M. Lindsay − specialisti come E. A. Lowe (Codices Latini antiquiores), A. Dain, E. G. Turner, B. Bischoff e altri più giovani, nella seconda − dopo B.P. Grenfell e A.S. Hunt, G. Vitelli, U. Wilcken − W. Schubart, E. Lobel, ancora Turner, nonché la continuatrice di Vitelli, M. Norsa.
Passando ai criteri della costituzione del testo, la diminuita fiducia in meccaniche ricostruzioni genealogiche ha dato, in linea generale, più spazio al giudizio dell'editore nella scelta delle varianti, mentre in caso di tradizione unanime ci si è mantenuti per lo più, almeno fino alla metà del secolo, su posizioni di ragionevole conservatorismo, analogamente alla maggior prudenza nella valutazione di fonti e notizie storiche antiche rispetto a certa ipercritica del secondo Ottocento. Tuttavia non sono mancati esempi di esagerato conservatorismo, come nella difesa di false attribuzioni di opere letterarie (per es., al risveglio di vecchie polemiche sull'autenticità dell'Appendix Vergiliana ha dato luogo, negli anni Trenta e oltre, il Virgilio minore di Rostagni), così nella critica del testo, fino a estremi sconcertanti quali quelli di J. Bollack e della sua scuola in recenti edizioni di testi filosofici e drammatici greci. I diritti della divinatio come manifestazione d'intelligenza critica hanno trovato il loro campione nel geniale latinista (e poeta inglese) di mentalità ''bentleiana'' A. E. Housman (vivo e attivo fino al 1936), splendido conoscitore di lingua poetica latina; del suo gusto per la congettura si sente tuttora l'influenza, soprattutto nel mondo anglosassone, dove pure non mancano eccessi che fanno ripensare a epoche ormai superate (ma eccessi ci sono stati anche altrove, e da parte di filologi di alta levatura, con l'interpolazionismo di G. Jachmann e con le audaci ricostruzioni testuali di H. Fuchs, ecc.).
Fra le numerose edizioni critiche pubblicate in questi decenni citiamo solo pochi esempi: il Virgilio di R. Sabbadini (1930), poi riveduto da L. Castiglioni (1945) e da M. Geymonat (1973), l'Orazio di F. Klingner (1939), il Teocrito di C. Gallavotti (1946), il Plotino di P. Henry e H. R. Schwyzer (1951-73), l'Ovidio amatorio di E.J. Kenney (1961), la Poetica e la Retorica aristoteliche di R. Kassel (1965, 1976), le Epistole e i Dialoghi senecani di L.D. Reynolds (1965, 1977), il Silio Italico di J. Delz (1987). Notevole l'interesse per scolii (quelli all'Iliade sono stati pubblicati da W. Erbse fra il 1969 e il 1988), lessici (la Suda edita da A. Adler fra il 1928 e il 1938; importante anche l'incompiuto Esichio di K. Latte, 1953-66), frammenti. Tra questi ultimi, i frammenti degli oratori romani di E. Malcovati (1930, 19764), i Poetae melici Graeci di D.L. Page (1962), i frammenti esiodei di R. Merkelbach e M.L. West (1967), il Supplementum Hellenisticum (ai Collectanea di J.U. Powell) curato da H. Lloyd-Jones e P. Parsons (1983), le nuove sillogi dei frammenti tragici e comici greci (questi ultimi insieme con le commedie integre) iniziate rispettivamente da B. Snell nel 1971, al quale si sono aggiunti S. Radt e R. Kannicht, e da R. Kassel e R.G. Austin nel 1983.
Si è sentita sempre più vivamente l'esigenza di commenti scientifici che, specialmente per testi difficili, accompagnassero o presupponessero l'edizione critica (precedenti illustri l'Herakles di Wilamowitz e il 6° dell'Eneide di E. Norden). Di particolare rilievo, in area greca, il Teocrito di A.S.F. Gow (1950), l'Agamennone di Ed. Fraenkel (1950), l'Ippolito di W.S. Barrett (1964), gli epigrammi dell'Antologia di A.S.F. Gow-D.L. Page (1965, 1968; aggiunte di Page, 1981), le Nuvole di K.J. Dover (1968), il Menandro di A.W. GommeF.H. Sandbach (1973), inoltre il Tucidide di A.W. Gomme-A. Andrewes-K.J. Dover (1945-81) e il Polibio di F.W. Walbank (1957-79); in area latina, l'Arte poetica oraziana di A. Rostagni (1930), il De anima tertullianeo di J.H. Waszink (1947), le lettere ciceroniane ad Attico e ai familiari di D.R. Shackleton Bailey (1965-70, 1977-80). Sempre utili, spesso indispensabili, i commenti a testi frammentari: prezioso nella sua essenzialità quello ai frammenti nel primo volume dell'insigne edizione di Callimaco a opera di R. Pfeiffer (1949); F. Jacoby ha proseguito fino alla morte (1959) la poderosa edizione commentata dei Fragmente der griechischen Historiker cominciata nel 1923. Dei frammenti di Ennio sono stati editi con commento quelli tragici da H. D. Jocelyn (1967), quelli degli Annali da O. Skutsch (1985).
Fondamentali anche per la costituzione dei testi sono gli studi di storia della lingua, in cui, accanto all'attenzione prima rivolta prevalentemente ai fatti lessicali e morfologici, viene dato ormai da tempo il giusto peso alla sintassi e allo stile. Scomparsi negli anni Trenta J. Wackernagel e W. Schulze, che avevano unito in sé fecondamente al momento indeuropeistico il momento filologico, si possono ricordare − a parte i grandi trattati grammaticali (E. Schwyzer-A. Debrunner, M. Leumann-J.B. Hofmann-A. Szantyr) e i lessici etimologici (H. Frisk, P. Chantraine, A. Walde-J. B. Hofmann, A. Ernout-A. Meillet) − il libro di J. D. Denniston sulle particelle greche (1934), in ambito latino gli Unpoetische Wörter di B. Axelson (1945) e altre importanti opere di studiosi svedesi, primo fra tutti E. Löfstedt (col quale occorre nominare almeno J. Svennung e D. Norberg), che hanno dato contributi sostanziali per la storia del latino, soprattutto tardo, anche in rapporto al romanzo, con notevoli conseguenze sulla critica del testo. La conoscenza del latino cristiano ha fatto considerevoli progressi per merito della scuola olandese (J. Schrijnen, Ch. Mohrmann), che ha sostenuto l'esistenza − per altro non da tutti condivisa − di una Sondersprache cristiana.
Quanto alla metrica, ha continuato a tenere il campo, anche per il metodo, la Griechische Metrik di P. Maas − ora nella traduzione inglese con aggiornamenti di H. Lloyd-Jones (1962, 1966) − a cui si sono affiancati i trattati di B. Snell (1955) e, con un tentativo d'impianto più ''storico'', di M.L. West (1982). In Inghilterra una specialista, A. M. Dale, ha lavorato in profondità sulle parti liriche del dramma greco; vari contributi hanno dato in Francia J. Irigoin, in Italia B. Gentili. Per la metrica latina, ha avuto grande risonanza la teoria avanzata da Pasquali nella Preistoria della poesia romana (1936) sull'origine greca del saturnio, da lui considerato quantitativo sulla scorta di F. Leo.
Anche a prescindere dal loro ovvio interesse per la tradizione dei testi antichi, i filologi classici hanno continuato a intervenire in questi decenni col loro bagaglio tecnico e la loro esperienza metodica in discipline confinanti di più recente autonomia scientifica come la f. bizantina, la f. latina medievale e (ormai distinta da questa) la f. umanistica. Per la prima valgano i rilevanti apporti di P. Maas, che fanno di lui a buon diritto anche un bizantinista; per la seconda le edizioni di F. Munari (Marco Valerio, 1955; Matteo di Vendôme, 1977-88); per la filologia umanistica, basti ricordare che essa ha avuto tra i suoi padri un filologo classico, R. Sabbadini, attivo in ambedue i campi fino alla metà degli anni Trenta. Nello studio dell'uso moderno del latino (si parla, senza timore di confusione, di ''neolatino'') si è segnalato, fra altri classicisti, A. Traina col libro sul latino di Pascoli (1961). Sul Fortleben degli antichi non ci sono state opere d'insieme comparabili per importanza al Virgilio nel medio evo di D. Comparetti e al volume su Cicerone di T. Zielinski, ma contributi e studi numerosi: ricordiamo The classical tradition di G. Highet (1949). Di fronte a tendenze, ricorrenti nella società contemporanea, a sminuire il rilievo dell'eredità greco-latina, specialisti di letterature antiche sono scesi in campo per rivendicarne l'importanza: fra gli anni Trenta e i Quaranta ha avuto grande seguito, anche in Italia, il ''neoumanesimo'' di W. Jaeger (in particolare con l'opera Paideia). E anche lo scopo di difendere i valori della civiltà classica si sono spesso proposti quei filologi che si sono dedicati a scritti divulgativi, traduzioni, adattamenti di opere teatrali antiche: ciò è avvenuto un po' dovunque, fra l'altro, nell'ultimo dopoguerra, nei paesi dell'Europa orientale.
Suscita crescente interesse la storia della f., a partire dall'antichità stessa. Vi si sono dedicati, fra gli altri, R. Pfeiffer nella History of classical scholarship (1968-76), interrotta dalla morte, F. della Corte nel libro sulla f. latina fino a Varrone (1937), S. Timpanaro nel volume sulla f. di Leopardi (1955; 1978) e in vari altri studi, A. Momigliano in saggi compresi nei suoi Contributi alla storia degli studi classici e del mondo antico (1955-87), C. O. Brink nella English classical scholarship (R. Bentley, R. Porson, A.E. Housman, 1986), L. Canfora in scritti sul classicismo fra Otto e Novecento, W. M. Calder iii in diversi lavori su filologia americana ed europea.
Bibl.: Il maggior repertorio bibliografico, di periodicità annuale, è l'Année philologique, Parigi (dal 1924); buoni resoconti bibliografici ragionati fino al 1955 in Jahresbericht über die Fortschritte der klass. Altertumswissenschaft, Lipsia (poi Gottinga), dal 1956 in Lustrum, Gottinga; rassegne su argomenti storici e filologici romani nell'opera (tuttora in corso) Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, Berlino 1972 ss.; dedicati esclusivamente a recensioni e informazioni bibliografiche i periodici Gnomon, Monaco (dal 1928), e Anzeiger für die Altertumswissenschaft, Innsbruck; resoconti sistematici (dal 1941 al 1977) nella rivista Eranos, Göteborg; recensioni e notizie prevalgono nel Bollettino di studi latini, Napoli (dal 1971). Un ampio quadro degli studi di f. classica nel Novecento, diviso per nazioni, in La filologia greca e latina nel secolo XX, Atti del Congresso internaz. (Roma, sett. 1984), Pisa 1989, 3 voll.; su temi particolari, Les études classiques aux XIXe et XXe siècles: leur place dans l'histoire des idées, Vandoeuvres-Ginevra 1980 (Entretiens sur l'antiquité classique, 26); sulle figure di alcuni filologi, Classical scholarship. A biographical Encyclopedia, New York-Londra 1990; su alcuni filologi italiani, I critici, Milano 1969 (Letteratura italiana).
Sulla f. classica in periodi o paesi determinati: A. Rostagni, Gli studi di letteratura greca, in Cinquant'anni di vita intellettuale italiana (1896-1946), Napoli 19662, pp. 435-57, ed E. Paratore, Gli studi di latino negli ultimi cinquant'anni, ibid., pp. 458-93; W.M. Calder iii, Die Geschichte der klassischen Philologie in den Vereinigten Staaten, in Jahrbuch für Amerikastudien, 11(1966), pp. 213-40; AA.VV., Fifty years (and twelve) of classical scholarship, Oxford 1968; C. J. Classen, La filologia classica tedesca 1918-1988, in Atti delle Giornate delle Nationes dedicate ai paesi di lingua tedesca (4-5 nov. 1988), Bologna 1989, pp. 165-89. Indicazioni generali sugli studi greci: M. Fantuzzi, Bibliografia della letteratura greca antica, in Letteratura greca antica, bizantina e neoellenica, Milano 1989 (Strumenti di studio: Guide bibliogr.), pp. 29-370. Sugli studi latini: Mémorial des études latines ... offert à J. Marouzeau, Parigi 1943 (per gli anni 1923-43); H. Fuchs, Rückschau und Ausblick im Arbeitsbereich der lat. Philologie, in Museum Helveticum, 4 (1947), pp. 147-98 (di alto livello); A. Ronconi, Introd. a Pagine critiche di letteratura latina, a cura di A. Ronconi-F. Bornmann, Firenze 1964, pp. 1-23.
Sulla crisi degli studi classici nella Germania degli anni Trenta: W. Ludwig, Amtsenthebungen und Emigration klassischer Philologen, in Würzburger Jahrbücher, n.s. 12 (1986), pp. 217-39; v. anche A. Bertini Malgarini, I classicisti tedeschi in America fra il 1933 e il 1942: aspetti storici e metodologici, in La cultura, 27 (1989), pp. 155-66.
Sull'attività ecdotica e critico-testuale: S. Mariotti, Qua ratione quave via huius saeculi philologi veterum opera edenda curaverint, in Acta ... Conventus Latinis litteris linguaeque fovendis a. MCMLVI Romae habiti, Roma 1969, pp. 233-39 (trad. it. in Le strade del testo, a cura di G. Cavallo, Bari 1987, pp. 139-48); E. J. Kenney, The classical text, Berkeley 1974, cap. vi (Method and methods in the twentieth century); La critica testuale greco-latina, oggi, Atti del Convegno internaz. (Napoli 29-31 ott. 1979), a cura di E. Flores, Roma 1981.
Filologia mediolatina. - S'intende con questo termine la f. che ha per oggetto d'indagine i testi latini del Medioevo (da cui la dizione, che è meno specifica e tecnica, di f. medievale), non solo i testi letterari ma in generale anche quelli filosofici, scientifici e documentari, per il loro rilevante interesse linguistico, soprattutto lessicale. La f. mediolatina è ora una disciplina universitaria, sotto varie dizioni, in alcuni paesi europei e americani, ma è arrivata molto tardi a questa sua collocazione accademica.
È stata per altro coltivata, a partire dal secolo 16°, per impulso di singoli studiosi e di istituzioni non universitarie. La Curia vaticana è così all'origine degli atti dei concili ecumenici (Concilia generalia Ecclesiae catholicae, Romae 1608-12) e la Società dei Bollandisti, che opera tuttora, ha promosso l'edizione degli Acta sanctorum quotquot toto orbe coluntur, a partire dal 1643.
Oltre a queste imprese, per altro relative a testi anche antichi oltre che medievali, molti altri nomi si dovrebbero ricordare, come le numerose raccolte di J. Mabillon, dove la scoperta di nuovi testi si accompagna stabilmente all'intento critico, quali gli Acta sanctorum Ordinis s. Benedicti, curati con L. d'Achery tra il 1668 e il 1701, gli Annales Ordinis s. Benedicti, conclusi da E. Martène (1703-39), e ancora i Vetera analecta in quattro volumi, dal 1675 al 1685 (nuova e più ampia edizione nel 1723).
La preferenza delle fonti legate al mondo monastico benedettino si spiega con il fatto che Mabillon faceva parte di una congregazione di monaci, celebri per la loro erudizione e le loro imprese filologiche, quella di St-Maur, avviata nel 1618 e presto trasferitasi nel monastero di St-Germain-des-Prés. L'opera dei Maurini − che erano dediti anche a studi scritturistici e patristici (celebre la loro edizione delle opere di s. Agostino) − è stata determinante per gli studi mediolatini, ben più dei circoli romani o di quelli bollandisti. Infatti con essi, un collegio di parecchie decine di monaci studiosi (fino a un massimo di circa 200), si ebbe un'applicazione ai testi cristiani, antichi e medievali, di rigorosi criteri filologici ed eruditi, un'applicazione su vasta scala delle conquiste dell'umanesimo italiano alla scienza ecclesiastica. A loro si deve, tra l'altro, anche l'avvio dell'Histoire littéraire de la France (in gran parte dedicata al Medioevo), che è uno dei modelli della storia letteraria moderna.
Poco dopo Mabillon, L. A. Muratori iniziava l'edizione dei suoi Rerum Italicarum scriptores dall'anno 500 al 1500 (25 volumi tra il 1723 e il 1751), che sono tuttora la maggiore raccolta di fonti sull'Italia medievale. Erano stati del resto sempre i Maurini ad avviare le raccolte di fonti nazionali, con il Recueil des historiens des Gaules et de la France.
Dopo la rivoluzione francese, non più risorta dopo la sua violenta dispersione la congregazione di St-Maur, il primato dell'erudizione e della f. mediolatina va a una nuova istituzione, quella dei Monumenta Germaniae historica, fondati nel 1819 dal libero barone K. von Stein e diretti fino al 1875 da G. H. Pertz. Un primato che non è venuto meno in quasi due secoli, anche se altre istituzioni si sono affiancate ai Monumenta, e che si deve, oltre che al rigore dell'erudizione tedesca, al fatto di aver concepito il lavoro storicofilologico come un'impresa scientifica, libera da compiti didattici, di collaboratori riuniti in una società di ricerca, una sorta di versione laica dei Maurini.
È dall'incontro tra due tradizioni che si arriva alla prima cattedra universitaria di f. mediolatina: la tradizione della f. classica, madre di tutte le moderne f., e quella dei Monumenta. L. Traube (1861-1907) aveva infatti una formazione pienamente classicista, ma trovò un posto tra i collaboratori dei Monumenta quando gli fu affidata l'edizione del terzo volume (in due tomi) dei Poëtae Latini aevi Carolini (1882-96), dopo che aveva già collaborato con E. Dümmler alla preparazione dei primi due. Nel 1902 egli ebbe a Monaco di Baviera la prima cattedra da ordinario di ''lateinische Philologie des Mittelalters''.
Nel 1904 ebbe una cattedra di professore straordinario per la stessa disciplina, all'università di Berlino, P. von Winterfeld, amico di Traube e suo collaboratore ai Monumenta; ma Winterfeld morì giovanissimo dopo pochi mesi (1872-1905). Intanto una cattedra di latino medievale otteneva a Gottinga W. Meyer (morto nel 1917 senza successori). In questo modo la tradizione mediolatina in Germania rimase legata allo scolaro di Traube, P. Lehmann (1884-1964), che ebbe più tardi la cattedra di Monaco, continuata poi in modo novatore e illustre da B. Bischoff (1906-1991), e alla cattedra di Berlino, tenuta da un altro monumentista, K. Strecker (1861-1945), che pubblicò tra l'altro, nel 1928, una Einführung in das Mittellatein.
In altri paesi europei e nell'America del Nord la disciplina mediolatina ebbe cittadinanza solo alcuni decenni più tardi. In Italia ebbe la prima cattedra, nel 1939, a Milano (Università Cattolica) E. Franceschini (1906-1983), mentre in Francia e in Inghilterra è necessario attendere altri cinquant'anni per la cattedra di F. Dolbeau a Parigi e di P. Dronke a Cambridge; in Spagna, M. Díaz y Díaz (a Santiago di Compostela) e J. Bastardas (a Barcellona), pur avendo insegnato soprattutto il latino medievale, hanno ufficialmente ricoperto cattedre di latino classico. In Germania invece, e soprattutto in Italia, si è verificato nel dopoguerra un considerevole aumento di cattedre nelle università anche periferiche, e il latino medievale comincia a figurare come disciplina obbligatoria per gli studenti di alcuni curricula. In Italia, il primo dottorato di ricerca in f. mediolatina è stato istituito a Firenze nel 1983.
Questa imponente crescita della disciplina filologica mediolatina in ambito universitario non ha impedito che si continuasse un'importante e per alcuni aspetti più significativa attività di ricerca extrauniversitaria. Il manuale ancora di uso corrente della disciplina è quello di uno studioso non universitario, M. Manitius (Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters, 1911-31, in tre volumi); come sempre di comune e non sostituibile lettura sono le due opere sintetiche del gesuita J. de Ghellinck, neppure lui universitario: Littérature latine au Moyen Age (1939), e L'essor de la littérature latine au XIIe siècle (1946). Negli ultimi cinquant'anni, tra le altre, vanno ricordate, accanto ai Monumenta Germaniae historica (che continuano la loro vita come un ente di ricerca dello stato di Baviera), altre due istituzioni che hanno come compito statutario soprattutto il Medioevo, in particolare latino. L'Institut de Recherche et d'Histoire des Textes (IRHT) di Parigi, operante dal 1937, e la Società internazionale per lo studio del Medioevo latino (SISMEL), operante a Firenze dal 1978 e giuridicamente costituita come ente di ricerca nel 1984.
Il primo è sorto soprattutto con l'intento di fornire ogni dato relativo alla tradizione manoscritta dei testi dell'antichità greca e latina, ma ben presto − anche se meno sistematicamente − la ricerca si è spostata al Medioevo (non solo ma soprattutto latino), anche perché le testimonianze sui codici degli autori antichi, salvo poche eccezioni, sono medievali nella loro totalità. In tal modo l'IRHT è diventato un luogo necessario per molti problemi della f. mediolatina, in particolare sui manoscritti. La SISMEL si è invece dedicata innanzitutto alla bibliografia, producendo a partire dal 1980 uno strumento fondamentale di orientamento qual è Medioevo latino. Bollettino bibliografico della cultura europea dal secolo VI al XIII, rassegna annuale della produzione mediolatina e più generalmente medievistica del mondo intero.
Questa in sintesi la storia della disciplina, mentre si sono determinate con sufficienza le sue caratteristiche generali. I limiti cronologici vanno dal secolo 6° al 16°, secondo una dizione ampia di Medioevo; nei paesi europei non è infatti accolta una distinzione tra f. mediolatina e f. umanistica, e una supposta autonomia disciplinare di quest'ultima, che in Italia alcuni sostengono, oppure tra f. tardo-antica (fino al secolo 8°) e f. mediolatina, che altri, pur affermandola, non vedono tuttavia in contrapposizione ma in continuità con la medievale.
Più che problemi di periodizzamento, la f. mediolatina ha avuto e ha problemi di metodo. Il primo elemento che la caratterizza è l'enorme quantità di testi che ha come suo oggetto d'indagine; via via che si passa dai primi secoli medievali (quando il dominio germanico a prevalente cultura orale limita molto lo scritto) agli ultimi, la produzione di testi si moltiplica, molti sono ancora inediti e molti male editi. Questa è una condizione esterna della mediolatinistica, che finisce per segnare la prima delle sue stesse ragioni scientifiche e la distingue di fatto sia dalla f. classica, sia, almeno dal secolo 19° in poi, dalla f. romanza, che si occupava e si occupa in particolare delle origini della letteratura nazionale nelle nuove lingue nate dal latino, e dunque opera anch'essa in area medievale.
Sul piano della trasmissione dei testi è possibile una distinzione, ormai giunta pienamente alla coscienza culturale, tra f. classica e mediolatina che non è più esteriore ma riguardava la natura del lavoro filologico. I testi classici sono trasmessi da copie, anche molto antiche (seppur raramente), ma sempre molto distanti cronologicamente dagli originali; i testi medievali, invece, sono piuttosto spesso trasmessi dagli autografi o da copie vicinissime, nel tempo e nello spazio, all'autore e/o all'ambiente in cui un'opera si è originata. Questa condizione ha portato la f. mediolatina a prestare una singolare attenzione all'opera dei copisti, alle loro abitudini scrittorie, all'incidenza del loro lavoro sulle condizioni di trasmissione dei testi (e si è così sviluppato un capitolo di una nuova scienza, la codicologia [v. in questa Appendice]), come a uno studio non tanto paleografico quanto filologico degli autografi (in questo senso è annunciata dalla Fondazione Ezio Franceschini di Firenze la collana Autographa Medii Aevi presso l'editore belga Brepols di Turnhout). Questa condizione impone per principio al mediolatinista di pensare la critica testuale unita strettamente alla storia del testo, secondo il celebre binomio del libro di G. Pasquali, anche se i due termini non sono sempre visti, di fatto, come componenti di una stessa operazione.
Un altro fattore distingue la produzione mediolatina: la moltitudine dei manoscritti che trasmettono un singolo testo, fatto che è comune solo con gli autori classici che il Medioevo ha più usato − ancora più comune con i grandi Padri della Chiesa (Agostino innanzitutto) e con Gregorio Magno −, distanzia nettamente i testi mediolatini da quelli volgari. Questi infatti sono per lo più trasmessi in pochi esemplari, molto spesso sottoposti a modifiche linguistiche, a seconda del copista e del co-autore, che su un testo inserisce varianti e rifacimenti: condizione che suggerisce ai filologi romanzi soluzioni ecdotiche diverse, in cui la storia della tradizione si riduce alla localizzazione e la critica testuale si concentra sul codex unicus. Il mediolatinista lavora invece più spesso su testi con tradizioni relativamente più stabili, redatti in una lingua latina, che dopo la mobilità cui viene sottoposta tra i secoli 6° e 8° (il latino volgare), tende a stabilizzarsi, anche se non su un solo paradigma ma in generi disciplinari.
Non è dunque un caso che la tradizione scientifica mediolatina abbia avuto nel 20° secolo, come suo problema diretto, quello di distinguersi dalla tradizione classica e da quella romanza per trovare una sua specificità. Questo processo appare ora concluso.
Dal punto di vista filologico la tradizione classica proponeva un metodo già consolidato nel nome di K. Lachmann (1793-1851), per stabilire un rapporto tra i testimoni (manoscritti ed edizioni) onde arrivare all'archetipo di un testo e da questo all'originale, a un autore. Un'alternativa a questo metodo fu espressa compiutamente da J. Bédier (1864-1938), non a caso filologo romanzo: un metodo per cui si cerca non un autore ma un testo, dove per principio ogni singolo testimone è un testo di per sé, dove il copista tende a prendere il posto dell'autore. Senza dubbio la f. romanza ha esercitato, più di altre, nel secolo 20°, una funzione di avanguardia anche in f.; si pensi a G. Contini (1912-1990), e anche − su un piano diverso, di tecniche critiche più che filologiche − a E. R. Curtius (1886-1956) ed E. Auerbach (1893-1957).
In questo quadro i mediolatinisti hanno o possono avere la loro specificità come filologi dietro l'esempio di L. Traube, per cui l'edizione dei testi si basa sulla recensio dei testimoni, secondo la tradizione lachmanniana, ma in cui l'insegnamento di Pasquali circa la storia della tradizione gioca un ruolo egualmente importante: specificità che li distingue appunto dai filologi classici, dove il divario cronologico tra origine del testo e suoi testimoni non può portare di norma a una storia della tradizione significativa per il testo, e li distingue dai filologi romanzi, che tendono a trascurare la recensio (ma questo contro l'insegnamento di Contini). Per uno stato della questione si vedano, per il latino medievale, gli interventi di G. Orlandi ed E. Menestò in La cultura in Italia tra tardo antico e alto Medioevo (1981).
Di fatto nessuna f. ha dato soluzione al problema di fondo, alla scelta cioè tra il testo prodotto da un copista, che ha una sua storicità tutta immediata (nel senso che con gli eventuali errori di trascrizione porta anche i segni di una persona, di una lingua e di un ambiente che può in teoria essere identificato) e il testo ricostruibile di un autore, che ha una storicità mediata, che è possibile raggiungere, a determinate condizioni, e che meglio permette d'identificare un messaggio di poesia o di pensiero.
Tra questi poli una varietà di operazioni, se non legittime, sono esercitate, spesso con positivi risultati. Non è tuttavia da sottovalutare il problema linguistico. Traube, pur convinto di dover distinguere la f. mediolatina da quella classica, sosteneva che non esiste una lingua latina medievale; questa convinzione è stata, al suo tempo, in grado di superare la frattura prodotta dall'epoca romantica, che riteneva grande la poesia medievale delle letterature in volgare, nate dalla rottura della tradizione romana, ma generava l'equivoco di considerare il latino medievale come una lingua decadente, da normalizzare su quello classico. Invece non solo le componenti cristiane (presenti anche nel latino tardo), ma i mutamenti sociali e politici, il formarsi di una diversa cultura e di un diverso immaginario, venuto soprattutto dall'incontro con la germanità, il continuo anche se inconscio, anzi tanto più se inconscio, confronto con le lingue germaniche e romanze, hanno fatto del latino medievale una lingua a sé, certo latina, ma con tali modificazioni nella pronuncia, nella grammatica, nella sintassi e nel lessico, da avere sue proprie caratteristiche.
Questo fatto è messo in rilievo dai dizionari del latino medievale, che si sono avviati per iniziativa, in particolare, dell'Union académique internationale a partire dagli anni Venti del 20° secolo, in Italia, Spagna, Inghilterra, Polonia, Belgio, Paesi Bassi, Svezia, Iugoslavia e Germania (ma il Mittellateinisches Wörterbuch, elaborato a Monaco di Baviera e giunto alla lettera C, è il più ricco di documentazione non solo nazionale). Ad essi si aggiunga il Mediae latinitatis lexicon minus di J. F. Niermeyer (1976) e il Novum glossarium mediae latinitatis (dall'800 al 1200) avviato da F. Blatt (per ora lettere L-P). Non va dimenticata l'attività che anche al latino medievale ha dato e dà il Lessico intellettuale europeo diretto da T. Gregory (con studi lessicografici, tra gli altri, di G. Spinosa), che prepara un Thesaurus Mediae et Recentioris Latinitatis (per i vocaboli non attestati nei lessici correnti), e l'opera del CETEDOC (Centre de Traitement Electronique des Documents) di Louvain-la-Neuve, che con la direzione di P. Tombeur ha pubblicato ormai un numero considerevole di analisi lessicali di grande importanza (Instrumenta lexicologica latina; Thesaurus Patrum Latinorum).
Sulla spinta dell'egemonia classicistica si erano per altro affermate ricerche sulla fortuna degli scrittori e delle opere dell'antichità nel Medioevo (e particolarmente frequentate quelle sulla fortuna in epoca umanistica). L'esempio più illustre è forse quello del Virgilio nel Medio Evo di D. Comparetti, già del 1872, a cui molti altri hanno fatto seguito: di particolare rilievo i lavori promossi dal Warburg Institute a Londra, e dalla scuola di G. Billanovich a Milano, e che hanno ora trovato una grande sistemazione con le ricerche del danese B. Munk Olsen. Meno rilevanti e frequenti le ricerche sulla fortuna degli scrittori della patristica, di cui sono modello gli studi di de Ghellinck (1872-1950), risalenti agli anni 1946-49 (ma si veda ora la ripresa di tale problematica, anche dal punto di vista del metodo, nei due tomi di S. Cantelli su Angelomo e la scuola esegetica di Luxeuil, 1990).
Oltre alle grandi collezioni patristiche che accolgono anche testi medievali (la maggiore è la Continuatio Mediaevalis del Corpus Christianorum) e le tradizionali collane dei Monumenta Germaniae historica, ora dirette da H. Fuhrmann, sono poche le collane dedicate ai testi mediolatini; tra esse si devono segnalare gli Oxford Medieval Texts, di cui ha la direzione M. Lapidge, e i Mittellateinische Studien und Texte, affidati a P. G. Schmidt.
Due fenomeni hanno caratterizzato gli ultimissimi decenni degli studi mediolatini: quelli sui generi letterari e quelli sulla poesia. Approfondendo infatti le ricerche sui testi mediolatini nelle loro specificità, si sono rintracciate caratteristiche peculiari della versificazione e dei vari generi poetici (si devono ricordare le raccolte di studi di W. Meyer, i manuali di D. Norberg, gli studi di D. Schaller), delle grammatiche (gli studi di L. Holtz), dell'agiografia (W. von den Steinen e C. Leonardi), dell'epigrafia (R.M. Kloos) e di molti altri generi (come i vari settori della liturgia). Accanto a peculiarità di contenuto e di forme, si sono anche individuate particolarità ecdotiche o condizionamenti tali da suggerire soluzioni testuali apparentemente eterodosse (e questo soprattutto nella metrica). Speciale attenzione è stata così data anche alle concezioni retoriche e poetiche (a partire già dai pionieristici lavori di E. Faral).
La piena autonomia della disciplina non poteva che venire confermata dagli studi di critica letteraria su testi mediolatini, proprio perché si è così riconosciuta una serie di personalità poetiche di qualità diversa ma non potenzialmente meno interessante di quelle classiche e volgari. Più che gli studi di P. Zumthor, sono importanti a questo proposito i penetranti saggi di G. Vinay (di cui si vedano le due raccolte Alto Medioevo latino, 1978, e Peccato che non conoscessero Lucrezio, 1989), e gli studi di gusto comparatistico di P. Dronke (di cui si ricorderà almeno l'ampia raccolta in 2 voll. di Medieval latin and the rise of European love-lyric, 1965-66).
Bibl.: La bibliografia corrente, con brevi indicazioni orientative e recensioni del contenuto, si ha ora in Medioevo Latino. Bollettino bibliografico della cultura europea dal secolo VI al XIII, a cura di C. Leonardi (a altri), Spoleto 1980 ss. (un volume ogni anno).
Sempre utili appaiono in particolare le bibliografie ragionate che, a cominciare dal 1856, si devono alla tradizione di studi tedesca, legata soprattutto ai Monumenta Germaniae historica, e sono note ora con il nome di Wattembach-Levison = Deutschlands Geschichtsquellen im Mittelalter, Vorzeit und Karolinger, 5 voll., a cura di H. Löwe, Weimar 1952-90. La prima edizione di W. Wattembach (la cui 7ª edizione era stata curata da E. Dümmler e L. Traube) era stata riprogettata su nuove basi da W. Levison.
Una serie di recensioni pubblica due volte l'anno l'équipe dei Monumenta Germaniae historica nella propria rivista Deutsches Archiv für die Erforschung des Mittelalters. Devono essere consultate, a questo fine, anche le riviste Analecta Bollandiana, Bulletin de théologie ancienne et médiévale, Cahiers de civilisation médiévale, Scriptorium; una bibliografia corrente è anche l'International Medieval Bibliography. Dei dati presenti in tutti questi periodici tiene conto, riprendendoli, il già citato Medioevo Latino.
Le enciclopedie utili ai medievisti e ai mediolatinisti sono più d'una, ma due sono quelle maggiormente pertinenti, ancora in corso di pubblicazione: Die deutsche Literatur des Mittelalters. Verfasserlexikon, di W. Stammler e K. Langosch, ora in 2ª edizione, a cura di K. Ruh, Berlino 1878 ss.; Lexikon des Mittelalters, Monaco-Zurigo, 3 voll. usciti, a fascicoli, a partire dal 1977 (giunta al 4° volume).
Molti dati circa la storia della disciplina mediolatina si possono trovare in H. Bresslau, Geschichte der Monumenta Germaniae historica im Aufträge ihrer Zentraldirektion, Hannover 1921; e ora nei contributi di P.G. Schmidt, C. Leonardi e G. Orlandi, in A cinquant'anni dalla prima cattedra di storia della letteratura latina medievale (Padova, 25 novembre 1988), Fondazione Ezio Franceschini, Firenze 1990. In particolare per la situazione italiana v. E. Franceschini, Filippo Ermini o della preistoria degli studi mediolatini in Italia, in Novità e tradizione nel secondo Ottocento italiano, Milano 1974, pp. 3-14, e C. Leonardi, L'AMUL e gli studi in Italia sulla latinità medievale e umanistica, in Aspetti della letteratura latina nel secolo XIII, Atti del Convegno internazionale di studi dell'AMUL (Perugia, 3-5 ottobre 1983), a cura di C. Leonardi e G. Orlandi), Firenze 1986, pp. ix-xvii.
Per la scuola di Monaco di Baviera, v. in particolare la raccolta dei lavori di L. Traube, Vorlesungen und Abhandlungen, 3 voll., Monaco 1909-20 (la bibliografia del Traube è nel vol. i, pp. xlix-lx); P. Lehmann, Erforschung des Mittelalters. Ausgewählte Abhandlungen und Aufsätze, Stoccarda 1959-62 (5 voll., il primo già uscito nel 1941); B. Bischoff, Mittelalterliche Studien. Ausgewählte Aufsätze zur Schriftkund und Literaturgeschichte, 3 voll., ivi 1966-81.
Dall'ispirazione del Traube si sono avviate alcune imprese, come i Codices Latini antiquiores, di E.A. Lowe, 11 voll. e un Supplemento, Oxford 1934-71, molti con la collaborazione determinante di B. Bischoff; nei volumi sono segnalati tutti i codici latini databili entro l'anno 800. Ha proseguito l'impresa B. Bischoff per i codici in scrittura carolina del secolo 9°-inizio secolo 10°, non ancora in stampa. Premessa importante a questa impresa sono, dello stesso, i due volumi di Die südostdeutsche Schreibschulen und Bibliotheken in der Karolingerzeit: i, Die Bayerischen Diözesen; ii, Die vorwiegend österreichischen Diözesen, Wiesbaden 1974 e 1980. Altra impresa è quella del Mittelalterliche Bibliothekskataloge Deutschlands uns der Schweiz, di cui sono usciti alcuni volumi a cura di T. Gotthlieb e P. Lehmann.
Una raccolta di studi sulla lingua mediolatina si ha (nonostante il titolo) in Mittelalterliche Philologie. Beiträge zur Erforschung der mittelalterlichen Latinität, a cura di A. Önnerfors, Darmstadt 1975 (con 15 saggi di varia portata e una bibliografia, pp. 425-62, a cura dell'Önnerfors). Ora, per i primissimi secoli, v. A De Prisco, Il latino tardoantico e altomedievale, Roma 1991 (la bibliografia è alle pp. 227-67). Ma si dovranno consultare i manuali di latino volgare e di latino tardo (v. filologia romanza: Bibliografia, in questa Appendice). Un gruppo di saggi sulla lingua altomedievale è in La cultura in Italia fra tardo antico e alto Medioevo, Atti del Convegno tenuto a Roma (CNR, 12-16 novembre 1979), i, Roma 1981, pp. 183-320. Si veda anche, per un settore particolare, G. Serra, Contributo toponomastico alla teoria della continuità nel Medioevo delle comunità rurali romane e preromane dell'Italia superiore, Cluj 1931 (ed. anast., Spoleto 1991). Un manuale in più volumi sulla lingua mediolatina è ora annunciato da P. Stotz (Zurigo) nella stessa collana dove è edito il Manitius (v. oltre).
Tra le storie letterarie devono essere ricordate: A. Ebert, Allgemeine Geschichte der Literatur des Mittelalters im Abendlande bis zum Beginne des XI. Jahrhunderts, 3 voll., Lipsia 1880-89 (ancora da usare; si veda anche in trad. francese: Histoire générale de la littérature du Moyen Age en Occident, 3 voll., Parigi 1883-89); M. Manitius, Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters, 3 voll., Monaco 1911-31 (la trattazione giunge sino alla fine del secolo xii); J. de Ghellinck, Littérature latine au Moyen Age, 2 voll., Bruxelles 1939 (sino a metà del sec. xi, poco oltre l'Ebert); Id., L'essor de la littérature latine au XIIe siècle, 2 voll., Bruxelles-Parigi 1946; F. Brunhölzl, Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters, i, Von Cassiodor bis zum Ausklang der karolingischen Erneuerung, Monaco 1975 (trad. francese: Histoire de la littérature latine du Moyen Age, i, De Cassiodore à la fine de la renaissance carolingienne, 1, L'époque mérovingienne, traduit par H. Rochais, Compléments bibliographiques pour l'édition française par J.-P. Bouhot, Turnhout 1990).
Tutte queste storie letterarie non vanno oltre il secolo 12°. Per ovviare a questo inconveniente, si tenne a Perugia nel 1983 un convegno sulla letteratura del secolo 13°, Aspetti della letteratura latina nel secolo XIII, cit.
Molto schematiche, e in questo senso poco discorsive, le storie di V. Paladini, M. De Marco, Lingua e letteratura mediolatina, Bologna 1970 (19802), e di L. Alfonsi, La letteratura latina medievale, Firenze-Milano 1972. Relative solo ad alcuni secoli altomedievali F. Ermini, Storia della letteratura latina medievale, Spoleto 1960; M. Simonetti, La produzione letteraria latina tra romani e barbari (sec. V-VIII), Roma 1986; G. Polara, Letteratura latina tardoantica e altomedievale, ivi 1987.
La sola storia letteraria, anche se schematica e invecchiata, che vada oltre il 12° secolo, e raggiunga la metà del 14° secolo, è di G. Gröber, Grundriss der romanischen Philologie, 2 voll., Strasburgo 1888-1902.
Storie letterarie relative a una sola nazione sono, tra le altre: Histoire littéraire de la France, Parigi 1733-1981 (ancora in corso; i primi 12 volumi a cura dei Maurini, poi a cura dell'Institut de France, fino all'attuale vol. 41, del 1981, che arriva al secolo 14°); F. Novati, A. Monteverdi, Le origini, Milano 1926; A. Viscardi, Le origini, Milano 19644; più schematico il compendio di F. Bertini, Letteratura latina medievale in Italia (secoli V-XIII), Busto Arsizio 1988.
Un orientamento nella complessa strumentazione del filologo mediolatinista può essere fornito da volumi introduttivi alla disciplina. Per i suoi aspetti più generali v. Wesen und Bedeutung der mittellateinischen Literatur und die Aufgabe ihrer Wissenschaft, in Mittellateinische Dichtung, a cura di K. Langosch, Darmstadt 1969, pp. 3-54. Per gli aspetti più filologici, v. la sezione ''Filologia e lessicografia'' nel volume La cultura in Italia, già cit., i, pp. 321-489 (tra cui i lavori di G. Orlandi ed E. Menestò).
Non esiste alcun manuale di filologia in senso stretto che consideri i testi mediolatini, come quello di P. Maas (per i classici), o quello di d'A.S. Avalle (per le lingue romanze). Tuttavia, oltre a numerosi interventi singoli, si ricorderanno gli atti di alcuni congressi: Probleme der Edition mittel- und neulateinischen Texte. Kolloquium der deutschen Forschungsgemeinschaft (Bonn, 26-28 Februar 1973), a cura di L. Hödl e D. Wutke, Boppard 1978; la critica dei testi latini medievali e umanistici, a cura di A. D'Agostino, Roma 1984; Il libro e il testo. Atti del Convegno internazionale (Urbino, 20-23 settembre 1982), Urbino 1984; The editing of theological and philosophical texts from the Middle Ages (Stockholm, 29-31 August 1984), a cura di M. Asztalos, Stoccolma 1986; The role of the book in medieval culture, a cura di P. Ganz, Turnhout 1986. Un convegno dedicato esplicitamente all'ecdotica mediolatina è stato organizzato dalla SISMEL (Società Internazionale per lo Studio del Medioevo Latino) a Firenze, nei giorni 6-9 dicembre 1990; gli Atti sono in preparazione e appariranno nella "Biblioteca di Medioevo Latino" presso il CISAM (Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo) di Spoleto.
Altri incontri hanno affrontato temi più specifici e particolari come: Grafia e interpunzione del latino nel Medioevo (Roma 27-29 settembre 1984), a cura di A. Maierù, Roma 1987 ("Lessico intellettuale europeo, 41"); La Lexicographie du latin médiéval et les rapports avec les recherches actuelles sur la civilisation du Moyen Age (Paris, 18-21 octobre 1978), Parigi 1980; La pratique des ordinateurs dans la critique des textes, ivi 1979.
Ma si vedano anche, oltre alla Einleitung del Traube (vol. ii delle sue opere, già citate), K. Strecker, Einführung in das Mittellatein, Berlino 19393 (trad. francese, Introduction à l'étude du latin médiéval, a cura di P. Van de Woestijne, LillaGinevra 1948; trad inglese, Introduction to Medieval Latin, a cura di R.B. Palmer, Londra 1957); G. Pepe, Introduzione allo studio sul Medio Evo latino, Napoli 1942 (19502); G. Cremaschi, Guida allo studio del latino medievale, Padova 1959; D. Norberg, Manuel pratique du latin médiéval, Parigi 1968 (trad. it., Manuale di latino medievale, a cura di M. Oldoni, Firenze 1974); E. Franceschini, Limiti e compiti di una nuova disciplina (1938), ora in Ezio Franceschini (1906-83), a cura di C. Leonardi, Bologna 1986, pp. 75-91.
Uno strumento sempre più indispensabile sono i repertori ragionati sugli autori mediolatini e le loro opere. Per gli scritti sino al 735, alla morte del Venerabile Beda, si ha E. Dekkers, Clavis Patrum latinorum, in Sacris erudiri, 3 (1952); Steenbrugge 19612. È in preparazione una Clavis scriptorum Latinorum Italiae Medii Aevi, a cura di B. Valtorta, con la direzione di G. Cremascoli e C. Leonardi; e una Clavis scriptorum Latinorum Galliae Medii Aevi, a cura di F. Perelman, con la direzione di F. Dolbeau e L. Holtz. Esiste una clavis per la Spagna: M.C. Díaz y Díaz, Index scriptorum Latinorum Medii Aevi Hispanorum, 3 voll., Salamanca 1958-59; e una per il Belgio, Index scriptorum operumque Latino-Belgicorum Medii Aevii. Nouveau répertoire des oeuvres médiolatines belges, a cura di L. Genicot e P. Tombeur, Bruxelles 1973-79 (3 voll. in più tomi).
Per la tradizione dei classici, v. L.D. Reynolds, N.G. Wilson, D'Homère à Erasme. La transmission des classiques grecs et latins, Parigi 1984. La tradizione di A. Warburg e del suo Istituto (prima ad Amburgo, poi a Londra) è documentata dalle pubblicazioni: Studien der Bibliothek Warburg, 24 voll., Berlino 1922-33, e, dal 1936, dagli Studies of the Warburg Institute, come pure dalla rivista Journal of the Warburg and Courtauld Institutes. Per i lavori di G. Billanovich, v. il volume in qualche modo programmatico, I primi umanisti e le tradizioni dei classici latini, Friburgo (Svizzera) 1953, e il più recente La tradizione del testo di Livio e le origini dell'Umanesimo, i, Tradizione e fortuna di Livio tra Medioevo e Umanesimo, Padova 1981 (in due parti, di cui una è un facsimile), su cui v. le recensioni di M. Reeve, in Rivista di filologia e di istruzione classica, 114 (1986), pp. 129-72; 115 (1987), pp. 129-64 e 405-40. Per un panorama più composito, v. Classical influences on European culture. A.D. 500-1500, a cura di R.R. Bolgar, Cambridge 1971. Il grande repertorio di B. Munk Olsen si intitola L'étude des auteurs classiques latins aux XIe et XIIe siècles, Parigi 1982-89; v. ora la sua sintesi in I classici nel canone scolastico altomedievale, Spoleto 1991 (Fondazione Ezio Franceschini, "Quaderni di cultura mediolatina", 1).
La fortuna dei Padri della Chiesa è un capitolo della cultura mediolatina ancora in gran parte scoperto. Si vedano i lavori di J. de Ghellinck, di cui si ricordano in particolare, Patristique et Moyen Age, 3 voll., Bruxelles-Parigi 1946-49, e Le mouvement théologique du XIIe siècle, Parigi-Bruges 1948.
Legata alla presenza patristica nel Medioevo è, almeno per un aspetto, la fortuna della Bibbia; per cui si veda H. de Lubac, Exégèse médiévale. Les quatre sens de l'Ecriture, 4 voll., Parigi 1959-64. Prima di questo grande quadro d'insieme, v. C. Spicq, Esquisse d'une histoire de l'exégèse latine au Moyen Age, ivi 1944; B. Smalley, The study of the Bible in the Middle Ages, Oxford 1952 (19833); si basa sulla seconda edizione (London 1962) la trad. it., Lo studio della Bibbia nel Medioevo, Bologna 1972 (Introduzione di C. Leonardi, pp. vii-xxvi). Dopo il volume di de Lubac si veda, oltre ai numerosi lavori particolari (per cui è da consultare A. Vernet, A.-M. Genevois, La Bible au Moyen Age. Bibliographie, Parigi 1989), Le Moyen Age et la Bible, a cura di P. Riché e G. Lobrichon, Parigi 1984; è in preparazione presso le edizioni Dehoniane di Bologna, La Bibbia nella storia, iii, Il Medioevo, a cura di G. Cremascoli e C. Leonardi. Una ricerca, in cui la tradizione esegetica della Bibbia tende a coincidere con la presenza patristica nel Medioevo, è stata avviata da S. Cantelli, che ha pubblicato due tomi su Angelomo e la scuola esegetica di Lexeuil, Spoleto 1990 ("Biblioteca di Medioevo latino"), e ora svolge un progetto di ricerca, patrocinata dalla Fondazione Ezio Franceschini e dalla SISMEL, per la realizzazione di un catalogo di tutti i codici che tramandano opere esegetiche prodotte tra il 7° e il 9° secolo.
Non è qui possibile elencare le maggiori raccolte di fonti e antologie di testi, né indicare i lavori di maggiore rilievo nei vari settori della ricerca e per i numerosi generi letterari: dopo un secolo di studi mediolatini, e senza una rassegna stabile come a partire dal 1980 è divenuta Medioevo Latino, su un millennio di storia letteraria la critica è talmente abbondante da non poter essere qui selezionata.
Filologia romanza. - La f. romanza, come indicato dal nome, fa parte delle discipline volte allo studio della lingua e dei testi scritti, letterari e non, appartenenti a una data collettività. Il qualificativo ''romanza'' definisce, a sua volta, il terreno di pertinenza della disciplina corrispondente grosso modo alla fase più avanzata della cultura latina, trasformatasi in ''romana'' sin dal Medioevo, specifica delle regioni collocate fra l'Oceano Atlantico e il Mar Nero, ma poi diffusasi in altri continenti, primo fra tutti l'America centromeridionale. Il campo d'indagine, come è facilmente intuibile, è in tale prospettiva assai vasto. Esso comprende, oltre alla fase primitiva, anche il periodo successivo sino al giorno d'oggi e non solo per quel che riguarda le varietà linguistiche delle singole unità nazionali dal Portogallo alla Romania, ma anche le relative letterature. Questa prospettiva ha avuto largo seguito soprattutto in Germania, dove la disciplina è stata fondata. In pratica il filologo romanzo, per es. in Francia e in Italia, è soprattutto un medievista, senza con questo escludere in linea di principio la possibilità, come di fatto spesso avviene in Italia, di più o meno sistematiche escursioni nel mondo moderno e contemporaneo.
La decisione di privilegiare il periodo delle origini dipende in sostanza da due opposte esigenze. Prima di tutto dalla necessità di non rompere i ponti con la f. maggiore, quella delle lingue cosiddette classiche, intesa e assunta come modello metodologico di base e, nello stesso tempo, come disciplina rivolta fra l'altro allo studio di una sezione della storia della lingua e della letteratura latina rivelatasi ben presto d'interesse primario per quel che riguarda la storia delle nuove lingue e letterature romanze (o neo-latine). In secondo luogo, dall'attenzione portata dal pensiero europeo verso la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento al problema delle origini di una civiltà medievale, in questo caso alternativa al mondo classico, ma, per l'uso fattone, forse più immaginaria che reale. A questo riguardo non sarà forse del tutto superfluo ricordare come la f. romanza si sia affermata nel quadro dell'ideologia romantica e di conseguenza non abbia potuto che ripeterne le pregiudiziali.
Fra le due f. (la classica e la romanza) s'instaura dunque sin dall'inizio un rapporto ambiguo di dipendenza riconosciuta e di antagonismo ideologico. Ma questo non basta perché, una volta fatta salva la considerazione puramente tecnica, soprattutto nel campo della critica testuale, il conflitto si ripresenterà all'interno stesso della f. romanza nel senso che la nuova disciplina si vedrà più di una volta incerta e titubante nei confronti dell'alternativa fra le due prospettive, quella strettamente letteraria di una cultura per così dire grammaticalizzata e quella, invece, cosiddetta libera e spontanea espressa dalla tradizione nazional-popolare.
In altri termini la querelle des anciens et des modernes si perpetua ancora nell'Ottocento, trovando nella f. romanza un terreno quanto mai fertile per riflessioni di vario genere sui diversi modi dell'attività artistica. Tale funzione è ora da molti riconosciuta come assai ricca di prospettive, nel senso che la linguistica e la critica letteraria vi appaiono finalmente integrate in una sintesi più ampia, quella cioè basata sullo studio dei sistemi culturali.
Il fondatore della nuova disciplina è, per riconoscimento unanime degli storici dell'Ottocento come del nostro secolo, F. Diez (1794-1876). Studioso di statura eccezionale e autore di opere ancor oggi esemplari per il rigore e la modernità dell'impianto, egli ha fra l'altro contribuito in modo decisivo alla rapida affermazione della nuova disciplina (denominata per la prima volta f. romanza da F. Mahn nel 1863) non solo sul piano scientifico, ma anche per quel che riguarda la sua collocazione nell'ambito degli ordinamenti universitari in Germania e altrove.
Questa vicenda, che ha quasi del miracoloso, ha favorito il diffondersi di leggende e di aneddoti sul suo conto, fra cui notissimo quello dell'incontro con Goethe nel 1818 e dell'incoraggiamento venutogli da quest'ultimo a occuparsi della lirica trobadorica, sorta di cifra araldica atta a degnamente coronare la nascita della f. romanza. La nuova disciplina ovviamente non poteva vantare precedenti gloriosi come la scuola alessandrina o la f. biblica dei classicisti; in compenso il caso l'avrebbe collocata sotto il patronato di Goethe, di uno degli eroi più celebrati della letteratura mondiale. "J'ai lu quelque part que c'était Goethe qui vous aurait indiqué la voie que vous avez si glorieusement suivie; pourrais-je vous demander de me dire ce qui en est?" chiede G. Paris a Diez in una lettera dell'8 settembre 1862. Della risposta, se mai (conoscendo le abitudini di Diez) ce ne fu una, non si sa nulla. Tuttavia poco dopo nella préface Paris conferma l'informazione in termini che, se non apparsi convincenti ad A. Tobler, hanno anche lasciato senz'altro scettico E.R. Curtius. Di questo nuovo Paolo miracolato sulla via di Damasco è forse lecito dubitare, ma l'episodio la dice lunga sull'ammirazione concordemente e giustamente tributatagli dai contemporanei e sull'esigenza di riconoscimenti idonei a convalidare l'importanza della nuova disciplina.
F. Diez, diversamente dalla maggioranza dei colleghi, non sembra toccato da particolare interesse per l'immagine che della cultura medievale vien data dal romanticismo. I suoi lavori vertono quasi esclusivamente su temi di carattere linguistico e storico-erudito, campo questo in cui eccelle su buona parte dei suoi contemporanei. Valendosi di un numero sterminato di dati documentari tutti di prima mano, egli non solo getta le fondamenta della f. romanza, ma traccia anche la strada di un abito scientifico-sperimentale che sarà destinato a soppiantare definitivamente la bonaria f. settecentesca e l'endemico impressionismo della critica letteraria.
Parallelamente all'opera di Diez agisce nel profondo della f. romanza l'ideologia romantica che fa di questa disciplina un capitolo a parte della medievistica; di una medievistica, aggiungeremo, rivolta non tanto alla cultura ufficiale mediolatina, quanto piuttosto allo studio delle nascenti realtà nazionali, insomma al folclore. Dell'entroterra di tali realtà non si adducono documenti esterni diretti, ma solo elementi documentari interni ricavati dall'analisi della più antica produzione letteraria in lingua volgare. La pratica non deve meravigliare se si pensa al coevo genealogismo empirico dell'indoeuropeistica e al parallelo ricostruttivismo messo in atto dalla linguistica e in particolare dalla glottologia ottocentesche. Qui sono bastati alcuni elementi per mettere in moto tutta una serie di ipotesi e di teorie destinate a coonestare le pregiudiziali ideologiche dell'epoca e più in particolare del post-humboldtismo. La documentazione interna tocca vari tasti, in genere impressionistici o sostanzialmente riduttivi. E così della produzione letteraria medievale in lingua volgare sono messe in rilievo le pratiche meno regolari, almeno in rapporto agli standard posteriori, intese come prova diretta di una più antica fase indipendente dall'imitazione dei classici; oppure taluni generi letterari, come la lirica o la poesia epica, da intendersi in alcune delle loro manifestazioni come prodotti della musa popolare, oppure, nell'ipotesi meno benevola, come una sorta d'imitazione/parodia della stessa.
Verso la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento il movimento del pendolo si sposta decisamente verso la seconda delle due prospettive, quella cioè strettamente letteraria di una cultura più spesso influenzata dall'imitazione dei classici. Le ragioni di questo spostamento vanno ricercate, fra l'altro, nell'antipositivismo dell'epoca e, nei paesi di area neolatina, come la Francia o l'Italia, anche in una sorta di nazionalismo inconfessato, in una reazione insomma nei confronti di correnti di pensiero portate a sopravvalutare l'elemento nazional-popolare germanico. Naturalmente in tali termini non va ignorato il contributo ancora una volta fornito dagli studiosi tedeschi più sensibili ai pericoli derivanti da forme irrazionali d'interpretazione storica, fiorenti soprattutto in non pochi settori della parallela f. germanica. La constatazione appare doverosa soprattutto in presenza di un'opera come la Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter (1948) di E.R. Curtius, che a chiusura del secondo conflitto mondiale segna lo spostamento dello sguardo della cultura renana da un Oriente rivelatosi filologicamente fallimentare all'Occidente di una cultura il cui europeismo sembrerebbe garantito dalla tradizione latina.
Circa una trentina d'anni dopo l'opera di Curtius il pendolo si è rimesso in moto, nel senso che a un certo punto ci si è visti costretti a chiederci se l'eredità latina fosse veramente tanto ingombrante da cancellare la specificità del Medioevo stesso. Non bisogna dimenticare che il revival della latinità è stato anche determinato, oltre alle ragioni qui sopra addotte, dal desiderio di dare alla precaria sopravvivenza dei valori della latinità nel Medioevo la funzione di esorcizzare autorevolmente i fantasmi della decadenza e della caduta della civiltà antica. Il Medioevo latino assurge pertanto nella prospettiva dei medio-latinisti a categoria privilegiata intesa a rimuovere, quando necessario, il primo elemento (''Medioevo'') di cui si predica la latinità, al punto che ci si potrebbe addirittura chiedere (sia pure sollecitando i termini della questione) se sia mai esistito un vero medium aevum incuneato ex negativo fra l'Antichità classica e il rinascere di tale Antichità fra il 14° e il 15° secolo.
Ora l'oggetto del contendere è nuovamente mutato. La nuova f. romanza non nega che i prodotti della letteratura religiosa, cronachistica e filosofica in lingua volgare (siano essi fiori, come tesori, conviti, giardini e così via) risentano fortemente della cultura latina. Tuttavia essa è anche particolarmente sensibile ai fenomeni derivanti dall'immagine che della latinità viene sistematicamente offerta dal Medioevo soprattutto nel campo dell'arte figurativa. Basti qui ricordare per la loro immediata evidenza non solo i moduli iconografici, svarianti da un incontinente astrattismo all'abuso di formule geometriche, ma anche le varie forme di travestimento degli eroi antichi, il turbante di Virgilio mago, e così via. Di qui l'attuale viva propensione a individuare le ragioni di questo modo di leggere il mondo antico, nella presenza di due diversi tipi culturali spesso dialetticamente opposti fra di loro. L'avvio a questo genere di considerazioni viene dalla storia dell'arte, molto più attrezzata, per ragioni quasi esclusivamente artigianali, della f. testuale nel campo dell'analisi dei singoli manufatti, e più in particolare dall'opera di J. von Schlosser oltre che della scuola viennese nel suo complesso. L'impressione che può essere ricavata da un più attento esame delle manipolazioni tardo-antiche e medievali del mondo greco-romano, è che qualcosa si agiti al di sotto dei loro prodotti indipendentemente dalle ben note questioni di abilità manuale.
Quando si parla di diverse culture, la tendenza è di disporle sull'asse diacronico in un continuo e lentissimo processo di evoluzione formale. Inoltre non si è alieni dal ritenere che le singole culture facciano capo a specifici centri d'irradiazione, siano essi geografico-etnici oppure sociali. E così, per quel che riguarda la cultura classica, si parla della Grecia o, nella prospettiva dell'ideologia romantica, di un ipotetico sostrato popolare in quanto portatore di nuovi valori socio-culturali. Oggi a questa impostazione del problema, d'ispirazione sostanzialmente storicistica, se ne oppone un'altra di natura, questa volta, tipologica, e i vantaggi che ne sono derivati sono apparsi subito evidenti soprattutto dal punto di vista descrittivo. Prima di tutto, come è d'altronde pacifico, non ci sono culture che riempiano di sé tutta un'epoca. Fattori anomali sono sempre presenti anche quando vengono meno i presupposti di un vero e proprio pluralismo culturale. Nel nostro caso l'opposizione fra il mondo medievale, da indicarsi col termine di tipo1, e quello antico, da indicarsi come tipo2, è apparsa sin dall'inizio stranamente semplificatoria. In effetti i due tipi possono anche coesistere a diverso tasso di rilevanza statistica sotto forma di portati nucleari oppure di arcaismi o neologismi. Elementi di tipo1 sono reperibili facilmente nell'epoca precedente, caratterizzata per definizione da una cultura di tipo2; basti ricordare il fenomeno dell'arte cosiddetta ''provinciale'' contenente elementi che avranno occasione di affermarsi più tardi nel mondo medievale. Viceversa risulta del tutto innegabile la sopravvivenza di moduli appartenenti al tipo2 accanto alla cultura medievale di tipo1. Quando, dunque, si parla di diverse culture si deve intenderle come dei tipi alternativi, grammatiche o lingue, forse di diversa origine storica, comunque risalenti a momenti etnici unitari. Constatazione questa che non ignora la frequenza delle manipolazioni separatiste endemicamente presenti nella media dei manuali scolastici.
In linea di massima l'attuale tendenza è di scavare nel profondo non solo dei testi rustici di gusto ''romanico'' e di intenti divulgativi, ma anche di quelli appartenenti alla cultura mediolatina, per meglio identificarne gli elementi di tipo1. I testi appartenenti alla prima delle due categorie non presentano problemi di sorta. La cultura mediolatina, invece, è di più difficile e incerta definizione; in alcuni casi coltiva propensioni di carattere antiquario, in altri sembra disposta a sfruttare i modi della rusticitas (si veda il dettato del Concilio di Tours [813]). Comunque sia, la tesi della ''derivazione'' quanto meno linguistica del primo tipo, quello rustico o provinciale, dal latino cosiddetto volgare, viene ora rivalutata nel segno di una vera e propria continuità. Quanto, infine, ai rapporti fra i due tipi, si è avuto modo di constatare un confronto serrato, tale, insomma, da giustificare estesi fenomeni di bilinguismo (si veda a titolo di esempio la compresenza in uno stesso codice di miniature appartenenti un po' al primo e un po' al secondo tipo) e la conseguente necessità, quando si passa dall'uno all'altro dei due tipi, di una traduzione.
Per meglio chiarire i termini della discussione, fra i vari argomenti esemplare risulta quello dei rapporti fra la ritmica mediolatina, notoriamente ispirata ai modelli della tradizione classica, e la versificazione romanza. Il tema, strettamente tecnico, ha il vantaggio di portare elementi di riflessione forse più concreti e persuasivi di quelli ricavabili da una qualsiasi trattazione di carattere puramente teorico. Senza contare che il confronto fra le due tecniche viene già proposto dagli artigrafi del 12° e 13° secolo nella convinzione che quella della versificazione romanza sia una tecnica totalmente diversa, per non dire addirittura antitetica, nei confronti delle tecniche impiegate nell'ambito della tradizione latina e mediolatina.
Verso la metà del 12° secolo, che è l'epoca dei primi esperimenti modalistici e mensuralistici, Pietro Elia definisce nel modo seguente l'accentus: "Accentus est modulatio vocis in communi sermone usuque loquendi", e aggiunge subito dopo: "Hoc autem dicitur propter cantilenas ubi accentum non servamus". Una prima interpretazione di questo testo sembrerebbe invogliarci a collocare la non-congruenza fra le due linee, quella naturale (l'"usus loquendi") e quella prosodico-musicale (come nelle "cantilenae" generalmente intese col valore di poesie per musica in lingua volgare), in un ambito più propriamente ritmico-accentuativo. Non tiene conto, insomma, della posizione degli accenti naturali come, invece, impongono le nuove leggi del modalismo. La non-congruenza o divorzio delle due linee è fenomeno antico che risale all'epoca in cui all'ictus pedis (la battuta) si sostituisce l'ictus vocis (l'accento dinamico) e, nello stesso tempo, l'accentus da cromatico-musicale che era si trasforma in dinamico o espiratorio. I due fenomeni portano, com'è noto, alla fusione organica di ictus e accentus e parallelamente all'esclusione di una loro necessaria sovrapponibilità in sede prosodica, come già osservato nei secoli alti dal grammatico Sacerdote. Qui sembra che l'eventuale noncongruenza non interessi più che le "cantilenae", i componimenti, come s'è detto, in lingua volgare o, comunque, volgareggianti, uniche superstiti dell'epoca più antica, mentre sotto l'influenza del modalismo assistiamo alla cosiddetta ''rinascita dell'accento'' nel senso di una ritrovata e conclamata identificazione dell'ictus vocis con l'accentus naturale e di una, questa volta necessaria, congruenza dei due tipi di percussiones.
Una seconda spiegazione di carattere esclusivamente musicale potrebbe venire da una lettura più tecnica del termine accentus. Non bisogna, infatti, dimenticare che l'accentus comporta due varianti, l'accentus acutus che riguarda le sillabe toniche e l'accentus gravis che concerne le sillabe atone. Ora, noi sappiamo che nel canto gregoriano l'altezza delle note sulla scala diatonica (tetragramma o pentagramma che sia) viene per lo più calcolata in funzione dei due tipi di accentus. In altre parole il profilo musicale dipende in linea di principio dall'accentus del testo verbale, nel senso che la o le note poste sulle sillabe acute (toniche) sono di norma più alte di quelle poste in corrispondenza delle sillabe gravi (atone): tecnica, questa, che sembra riflettere, ancora a grande distanza di tempo, la natura cromatico-musicale dell'accentus classico. La seconda spiegazione rifletterebbe dunque una tecnica compositiva diversa da quella della tradizione liturgica e para-liturgica senza che se ne possa ricavare una qualsiasi certezza, o tutt'al più una qualche indicazione quanto alla sua collocazione storica: fase avanzata (svincolamento della linea melodica dal testo verbale) nell'evoluzione della musica occidentale, oppure tecnica risalente ad altra tradizione non meglio definita? Quale delle due spiegazioni sia la più corretta è problema rimasto sinora irrisolto. Indipendentemente da ogni valutazione di merito, esse hanno in comune la tendenza a interpretare l'ininfluenza dell'accento naturale quanto alla struttura prosodico-musicale delle "cantilenae" in base a criteri, via via, ritmico-accentuativi (che sembrano portarci indietro nel tempo) oppure melodici (che sembrano postulare, invece, una fase avanzata); contraddizione, questa, che potrebbe essere sanata forse alla luce, come si diceva, di altre tradizioni ancora da definirsi.
Un secolo dopo Giovanni di Garlandia sottolinea altre differenze fra le due tecniche: "Conpar in numero sillabarum ponit pares sillabas in numero, in latino sermone precipue, quia qui componunt cenographa romana componunt rithmos ita ut paritas esse videatur in sillabis, licet non sit" ("L'isosillabismo consiste nel porre un numero eguale di sillabe nel verso, e questo soprattutto nella lingua latina, poiché coloro che compongono le comuni scritture versificate romanze compongono i versi in modo tale che sembri esservi uguaglianza numerica nelle sillabe [di ciascun verso], sebbene di fatto non vi sia"). Questa apparente paritas sillabarum dipende, com'è noto, dal fatto che nella versificazione romanza ("romana") a differenza di quella latina ("latino sermone") si contano unicamente le sillabe sino all'ultima accentata dell'emistichio e/o del verso, e che dopo tale sillaba sono ammesse un'atona soprannumeraria nei "cenographa" in lingua volgare e addirittura due per es. nei "cenographa" italiani con evidenti conseguenze sul piano della paritas. Nei testi mediolatini, invece, la paritas sillabarum investe tutte le sillabe del verso, quelle poste prima come quelle poste dopo l'ultima sillaba accentata. La necessità che, una volta adottata una certa misura sillabica, non se ne introducano altre di diversa consistenza numerica, come avviene nei "cenographa romana", caratterizza dunque specificamente la sola tradizione latina.
L'accento naturale, infine, di cui non si tiene conto nel quadro di un qualsiasi schema regolare all'interno del verso (è il caso di Pietro Elia), ricompare, invece, come elemento fondamentale della rima in non pochi trattati della rethorica litteralis come in quelli della rethorica vulgaris. Perché si abbia rima è, insomma, necessario che l'inizio dell'omofonia coincida con l'ultimo accento tonico del verso (o dell'emistichio nel caso di rima interna). Ancora una volta, però, andrà osservato che l'interesse teorico-pratico per la clausola in quanto prodotto della combinazione di cadenza e omofonia, pur investendo parimenti le due tradizioni, porta alla luce differenze sostanziali. Prima di tutto nei testi latini le atone finali della cadenza rientrano come al solito nel computo delle sillabe del verso; nella poesia in lingua volgare fanno, invece, parte a sé, sono, insomma, soprannumerarie. Secondariamente la tecnica delle rime in ambito romanzo non attende per affermarsi il 12°/13° secolo, l'epoca cioè in cui si elaborano le leggi fondamentali della polifonia, ma compare già perfetta in se stessa sin dal più antico testo (il primo giunto sino a noi) in lingua volgare, la Sequenza di Santa Eulalia (circa 881-882). Nella lirica basso- e mediolatina essa vi appare solo saltuariamente in un continuo processo di adeguamento alle tecniche della versificazione in lingua volgare. Inversamente nella produzione lirica italiana del 13° secolo (si pensi al caso di Monte Andrea) l'uso non congruente dell'accento con l'inizio della serie omofonica, uso già lamentato da Brunetto Latini e da Francesco da Barberino, può costituire un difetto tecnico, anche se non ci sentiamo di escludere l'altra ipotesi che si tratti di un relitto (prestito) della più arcaica poesia basso- e medio-latina.
Gli elementi qui raccolti raccomandano una certa prudenza prima di parlare, almeno a livello puramente tecnico, di ''derivazione'' della versificazione romanza dalla ritmica mediolatina. Una volta constatato l'uso dei modelli classici e mediolatini nell'ambito dell'esperienza volgare, è un fatto che il travaso dei primi nella seconda assume sistematicamente l'aspetto di una traduzione, di una reinterpretazione imposta dal nuovo ambiente in cui quei modelli vengono a trovarsi. Tutto succede come se il traduttore ''fosse parlato'' da un diverso tipo di cultura e ad essa cercasse di adattare il testo prodotto nel mondo latino. Nessuno nega l'influenza di questo mondo, la ''derivazione'', per es., da fonti classiche e mediolatine di talune strutture metriche (versi, strofe e generi poetici) affermatesi nelle nuove letterature romanze. La continuità è infatti garantita in questo caso dalla conservazione dei modelli del passato. Tuttavia essa porta anche alla luce l'esistenza di universi alternativi non previsti dal tipo culturale di origine. Come al solito succede, è da un'operazione di retroguardia che si prende coscienza del nuovo e soprattutto del diverso.
Uno splendido esempio di discrezione filologica a correzione degli eccessi di filologismo e d'incontinente intertestualità, è stato fornito da G. Contini nelle note ai testi da lui pubblicati, sin dall'edizione delle Rime di Dante (1939). L'esercizio nel suo caso è consistito essenzialmente nello scremare e selezionare, a volte impietosamente, le cosiddette fonti in rapporto alla loro sola rilevanza contestuale. L'avvio per considerazioni del genere è dato dalla presenza nella produzione letteraria medievale in lingua volgare (normalmente intesa come una sorta di cultura subalterna) di materiali topici della tradizione classica (a sua volta dichiarata cultura egemone). Molti di questi materiali non sono però appannaggio di un solo tipo culturale, ma si trovano equamente ripartiti fra i tipi culturali coesistenti in una data collettività, indipendentemente da ogni valutazione di merito. Ora, la pratica continiana è risultata sotto questo rispetto determinante nel senso che ha dissuaso non pochi dal perseverare sulla strada di quanti, sia pure meritoriamente, ritengono opportuno di raccogliere nutrite bibliografie di antecedenti mediolatini e classici assunti al ruolo di fonte di questo o quel testo in lingua volgare, spesso senza chiedersi se l'autore, che di tali fonti si sarebbe servito, le abbia mai realmente frequentate e in che modo o, se si vuole, in quali termini ne abbia manipolato il contenuto.
Sempre a proposito di tali regesti, la critica mostra da tempo una certa propensione a considerarne i materiali come una sorta di riserva culturale sprofondata (gesunkenes Kulturgut). La nuova prospettiva viene pertanto a ulteriormente confermare l'esistenza di un diverso tipo culturale. Oltre a ciò non vanno sottaciuti i sospetti, fatti propri fra l'altro anche dalla nuova f. romanza, che questo o quel prodotto della cultura mediolatina inteso col valore di fonte non sia del tutto originale, che, insomma, rispecchi a sua volta una qualsiasi delle tendenze di fondo della tradizione volgare coeva e precedente (cfr. F.J.E. Raby). Indicativi al riguardo appaiono il De amore di Andrea Cappellano, opera mediolatina, ma esplicitamente ispirata alle tematiche più attuali della morale laica, trobadorica e cortese, e a fortiori l'esempio di Abelardo, filosofo fedele ai modelli della cultura mediolatina, ma anche poeta d'amore in lingua volgare, e, a quanto si dice, riconoscibile in filigrana nel Tristan del suo allievo Gottfried von Strassburg.
In questo medesimo ordine d'idee viene ora considerata la propensione a ricercare nella produzione volgare echi della letteratura classica e mediolatina per lo più affidati a microenunciati, senza chiarire preliminarmente da quali contesti i loro autori li abbiano mai ricavati, da una lettura capillare degli originali, oppure da excerpta, centoni, florilegi, summae o, addirittura, reportationes. In questo caso, si argomenta, le vere fonti non sarebbero più gli autori citati, ma queste miscellanee dove dell'Antichità si salvano solo frammenti sotto forma di auctoritates, sententiae, similitudines, exempla e così via, per lo più selezionate in base ai modelli di comportamento previsti dalla sapienza popolare e quindi già tradotti nel nuovo linguaggio. Parlare di continuità o, addirittura, di ''derivazione'' in tali condizioni appare ancor più problematico.
Se i procedimenti tipologici hanno sinora sollecitato l'attenzione della nuova f. romanza per i fenomeni connessi con la presenza di sistemi stilistici, linguaggi o grammatiche, alternativi, insomma per le questioni di forma, una più puntuale analisi dei loro contenuti l'ha, invece, portata a ristabilire l'unità di tali culture, tradizionalmente negata in base ai due principi opposti della subalternità e dell'egemonia. Fra i vari settori interessati da questo nuovo punto di vista i più importanti riguardano la ricerca letteraria. Notevoli, infine, le ricadute della pregiudiziale culturale nel campo della critica del testo.
Quanto al primo dei due campi, è un fatto che la nuova f. romanza tende a spostare le sue attenzioni dall'apprezzamento storicoartistico delle singole opere secondo moduli genericamente formali o, nel peggiore dei casi, psicologistici, alla definizione e al censimento delle ''figure'' letterarie che ne stanno alla base. L'enfasi, in altre parole, cade ora di preferenza sul tema dei ''modelli culturali'' di applicazione letteraria, qui denominati col termine di ''motivo'', al doppio fine di ricostruire la genesi di importanti settori dell'opera d'arte, e di favorire la fondazione di un'enciclopedia degli elementi che rientrano nel quadro dell'imaginaire collectif. Più che di antropologia culturale sarebbe forse meglio parlare di culturologia, e non tanto nel senso assegnatole dai semiotici della scuola di Tartu, quanto piuttosto alla luce degli sforzi compiuti dalla ricerca applicata alle culture di tipo1 (esemplari al riguardo i lavori della scuola finlandese e di S. Thompson) al fine di sistemarne il patrimonio in strutture enciclopediche comprensive dei vari tipi (soprattutto 1 e 2) di cultura. È in questo campo che la nuova f. romanza ha contratto un notevole debito di gratitudine con l'etnografia (e la folcloristica) otto- e novecentesca, e con un settore non secondario della f. romanza della stessa epoca. Qui basterà ricordare l'opera di studiosi come E. B. Tylor, J. G. Frazer, oppure ancora A. N. Veselovskij, P. Rajna, F. de Saussure e, sia pure su di un altro piano e in un secondo momento, come R. M. Pidal. Di queste correnti di pensiero si è salvato il solo contributo documentario e metodologico, ma non quello ideologico, nel senso che il patrimonio letterario dei motivi non è più visto alle sue origini come un prodotto di gruppi storicamente arretrati, ma come un bene comune e più precisamente come un condensato di formule espressive spesso assai arcaiche, trasmesse assieme al linguaggio e pertanto omologabili al concetto saussuriano di ''segno''.
Lo spostarsi dell'attenzione dal fatto individuale ai più vasti anche se a volte generici fenomeni di carattere culturale, è riscontrabile, per quel che riguarda la nuova f. romanza, anche nella tendenza a privilegiare l'edizione integrale dei codici, soprattutto canzonieri, contenenti testi di più autori, in concorrenza con lo studio della tradizione manoscritta della o delle opere di un solo autore. L'analisi concreta e l'edizione dei codici vengono infatti considerate in tale prospettiva come uno strumento atto a permettere la ricostruzione delle strategie editoriali e pertanto degli orientamenti culturali dei loro menanti oltre che più in generale dell'epoca in cui essi furono compilati. Un'edizione critica su base stemmatica costituisce l'unica ipotesi di lavoro scientificamente valida quanto alla restitutio textus dell'originale. Essa, però, presenta inconvenienti di vario genere soprattutto nel momento in cui si procede a operazioni intese a supplire le manchevolezze degli archetipi. Di qui la necessità di ripensare la filosofia del restauro, di trattare i testi della tradizione manoscritta con le stesse precauzioni che presiedono alla conservazione dei prodotti, per es., delle arti figurative. L'originale, di norma inattingibile quando invidiatoci da un archetipo, ha ovviamente un'importanza primaria nel campo più propriamente critico-letterario. Con questo, però, non si deve pensare che il trasferimento (temporaneo) del centro di interessi dai sistemi di derivazione testuale dei singoli manoscritti al mondo culturale dell'epoca in cui essi videro la luce costituisca un alibi al sia pur parziale fallimento della stemmatica. In effetti, se gli originali ci fanno difetto, non è escluso che quegli stessi stemmi possano permetterci caso mai di ricostruire i vari modi della ricezione, areale e culturale, di una certa opera, questa volta nell'epoca più alta, quella cioè anteriore ai codici pervenuti sino a noi.
È già stato messo in rilievo (nel Grundriss der romanischen Literaturen des Mittelalters, 1972) che uno dei limiti più gravi di non poche edizioni critiche consiste nel trattare i singoli codici, compresi quelli miscellanei, che ci hanno trasmesso un'opera, come delle pure astrazioni, senza legami concreti con la cultura che li ha prodotti. L'incoraggiamento a tale pratica viene forse dalla suggestione esercitata dall'impiego di sigle, che, se facilitano la formalizzazione dei procedimenti stemmatici, favoriscono anche molto spesso un appiattimento storico delle singole testimonianze.
Una cultura non è fatta dunque solo di originali d'autore, ma anche di tutte quelle attività sussidiarie che comprendono l'editoria, la divulgazione spicciola, l'imitazione, la parodia e anche il plagio. Ora, l'edizione critica di un'opera singola rappresenta l'ultima fase del processo di avvicinamento all'originale d'autore. Tuttavia essa è gravemente incompleta quando non è preceduta da una più approfondita conoscenza del carattere e del significato storico delle compilazioni (testi unici o miscellanee) che ce l'hanno trasmessa, e questo non solo per quel che riguarda la lirica, ma anche per altri generi come la poesia epica (basti pensare alle grandi raccolte trecentesche di chansons de geste), la poesia didattico-religiosa, la poesia satirica e burlesca, oltre che la trattatistica in prosa.
La soluzione, dal punto di vista della nuova f. romanza, viene ora da progetti più generali di edizione (non diplomatica ma critica) di singoli codici. L'impresa è relativamente nuova, dato che in questo caso il concetto di originale non si applica più a una realtà sfuggente da ricostruirsi pezzo per pezzo con paziente opera filologica, ma al codice stesso a prescindere dagli autori e dalle opere in esso contenuti.
Sempre secondo la nuova f. romanza l'edizione critica dei singoli codici offre la possibilità di riconoscere con maggiore precisione, oltre alle tecniche editoriali dell'epoca, l'esistenza di eventuali scriptoria, i rapporti di filiazione fra i vari manoscritti, e così via; con evidente profitto per le edizioni critiche di singoli autori. Dato che le opere letterarie in lingua volgare presentano, a differenza di quelle latine e tranne per alcune tradizioni linguisticamente formalizzate come quella occitanica, un'estrema varietà di forme e di usi lessicali, è ovvio che l'editore non potrebbe che trarre vantaggi notevoli dall'opportunità offertagli da tale genere di pratica di approfondire l'assetto linguistico dei singoli codici. Non più quindi ricostruzione della lingua che si presuppone dell'originale d'autore, ma riproduzione esatta e consapevole della lingua reale del manoscritto.
Queste ultime e nuove linee di sviluppo della f. romanza comportano un accresciuto interesse per la collaborazione con la codicologia, scienza anche questa in via di rapida espansione sul piano dei contenuti e soprattutto con la lessicografia applicata ai libri manoscritti. Il vantaggio di lavorare su testi linguisticamente autentici e non problematici come quelli delle edizioni critiche di singoli autori, è, a parte tutto, indiscutibile. Anche in questo settore si conferma la generale tendenza a privilegiare l'interesse per il versante culturologico, da anni oramai maggioritario nel campo di talune discipline di confine come la linguistica e la semiologia, la sociologia, l'antropologia e l'etnografia. La constatazione ha una sua precisa importanza, visto che in tali condizioni la nuova f. romanza, almeno in Italia e soprattutto sotto l'impulso di G. Contini, è diventata una scienza d'avanguardia.
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Riviste: Computers and the Humanities, 1966 ss.; Computers and Medieval Data Processing, 1971 ss.; Le médiéviste et l'ordinateur, 1979 ss.