Filone di Alessandria e la sintesi tra pensiero greco ed ebraico
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Filone rappresenta una felice sintesi tra tradizione ebraica e pensiero greco. Egli interpreta la Bibbia testo autoritativo che contiene sia la legge che regge il cosmo, sia la norma tra gli uomini. La sua esegesi è condotta con categorie filosofiche greche come greca è la lingua che utilizza e greca è la traduzione del testo biblico di riferimento.
Filone di Alessandria, autore ebreo vissuto in Egitto tra il 30 a.C. e il 40 d.C. ca., è interprete della Bibbia, che egli legge con categorie filosofiche. I principali riferimenti sono platonici, aristotelici, stoici. Pur facendo continuo riferimento alle correnti filosofiche greche, il suo pensiero si snoda e prende avvio dall’esegesi biblica: l’interpretazione non segue un’argomentazione autonoma bensì l’andamento del testo scritturistico, tanto che l’ordine del discorso è dato dal testo commentato, non da suoi fili indipendenti.
Nato ad Alessandria d’Egitto, membro di una eminente famiglia ebraica legata ai regnanti di Giudea e all’ambiente imperiale romano, Filone partecipa attivamente alla vita della comunità ebraica locale, tanto da prendere parte a una delegazione che si reca a Roma presso l’imperatore Caligola nel 38-39. Scopo di tale missione è la difesa della comunità, oggetto di aggressioni e violenze da parte degli abitanti egiziani.
Alessandria, città fondata da Alessandro Magno quale capitale del suo regno, divenuta con i diadochi sede della corte tolemaica, città ricca e potente, abitata da molte popolazioni, centro di molteplici attività, ha gradualmente perduto molto del suo potere e del suo splendore fino a divenire provincia romana, sede di un governatore incaricato di mantenere l’ordine in Egitto. La comunità ebraica d’Egitto ai tempi dei Tolemei è già numerosa: Flavio Giuseppe – certamente con esagerazione – parla di 120 mila membri. Ai tempi di Filone, gli ebrei d’Egitto sarebbero addirittura un milione. Sono dediti a vari lavori, godono di uno statuto intermedio tra popolazione egiziana soggetta e Greci che costituiscono il ceto dominante. La condizione degli ebrei è di molto peggiorata ai tempi di Filone rispetto al passato. I Romani tendono a considerarli a un livello sociale molto basso, analogo a quello degli Egiziani, il grado di integrazione è diminuito e sempre maggiore è l’ostilità della popolazione locale. Scoppiano rivolte anti-giudaiche.
La delegazione a Roma è finalizzata a trovare appoggio presso l’imperatore e a contrastare tali aggressioni. Chiede, inoltre, che la tradizione e il culto ebraico possano esplicarsi liberamente. La missione non ha gli effetti sperati: rischia anzi di finire malamente e solo la morte di Caligola risolve in qualche modo la situazione e dà un nuovo spazio – sia pur limitato – alla comunità alessandrina.
Filone, come i suoi concittadini ebrei, ha il problema di trovare forme di convivenza che concilino differenti identità e appartenenze. Egli è profondamente legato a Gerusalemme, città “madre”, riferimento per tutti gli ebrei della diaspora, meta di pellegrinaggi, luogo cui tendono le aspirazioni dei giudei, sede del Tempio, luogo santo, nucleo della tradizione ebraica cui Filone è saldamente ancorato. Parallelamente, l’autore è pienamente inserito nella cultura greca che costituisce il suo riferimento di base.
Il presupposto da cui l’Alessandrino muove è che il testo biblico, scritto da Mosè per ispirazione, contenga la legge di Dio. Questa non solamente governa le vicende degli uomini, corrisponde anche alla legge della natura secondo cui è organizzato il cosmo. Tale corrispondenza fa sì che il discorso esegetico sia il punto di partenza per ogni elaborazione teorica: il testo biblico costituisce una rappresentazione del reale e questo viene letto attraverso l’interpretazione testuale. La Bibbia, peraltro, è letta in ottica filosofica attraverso occhiali di stampo platonico o stoico.
La relazione tra pensiero di Filone e Bibbia è evidenziata in gran parte delle sue opere. Esse sono raggruppate sotto differenti sezioni: “Commentario allegorico”, “Esposizione della legge mosaica”, “Quaestiones et solutiones”, libri storici di intento apologetico, scritti filosofici.
Presupposto del discorso è che la Bibbia contiene solamente verità, non si inganna, non presenta contraddizioni, né miti. Quelli che appaiono tali vanno visti con una lettura molteplice: letterale, ma anche metaforica o allegorica. Non miti, non contraddizioni, ma allusioni a verità che vanno colte nel loro significato più profondo.
Una lettura di secondo livello del testo di riferimento è condotta anche da parte della tradizione greca che elabora commenti a Omero o a Platone; è particolarmente sviluppata tra gli stoici. Parallelamente, già Aristobulo – in ambito ebraico – ha elaborato una lettura allegorica del testo e il riferimento a significati nascosti è ampiamente diffusa presso vari gruppi giudaici, per esempio presso gli esseni. L’esegesi allusiva a sensi non solamente immediati e non solamente letterali è, anzi, un tratto distintivo del gruppo nella rappresentazione fornitane da Filone. Per definizione, un testo che proviene da Dio è inesauribile, contiene una ricchezza di letture e interpretazioni che non possono essere colte totalmente, ma che daranno luogo a momenti successivi di comprensione, a livelli esplicativi paralleli, a letture multiple. Tale articolazione dell’esegesi è presente nelle diverse opere filoniane, per esempio nell’interpretazione del serpente dell’Eden o della torre di Babele. Di fronte a racconti che potrebbero ricordare la mitologia greca, Filone mira a evidenziare il carattere non mitico di storie che rivestono significati profondi, alludono a sensi nascosti, contengono insegnamenti. Ancora, le storie di progenitori e patriarchi non riguardano solamente le vicende di Adamo ed Eva, di Abramo, di Giacobbe; i personaggi storici sono metafore o tipi e le loro storie introducono verità generali. Così Adamo rappresenta l’intelletto, Eva la sensazione, il serpente il piacere che li unisce. Prima di unirsi alla sensazione, l’intelletto è privo di contenuti, vuoto, manca di stimoli. Solamente l’unione con la sensazione gli procura pienezza di conoscenza, fonte di piacere. L’intelletto, inebriato dal conoscere, si riempie, però, di orgoglio e di autocompiacimento attribuendo a sé ciò che gli proviene da Dio. In questo consiste la trasgressione. Ancora, nell’opera di inganno perpetrata nei confronti di Eva, il serpente sembra utilizzi una voce umana; fa uso di un linguaggio ambiguo che confonde Eva. Inganno e astuzia caratterizzano il serpente-piacere. La seduzione del serpente si trasmette alla sensazione, dominata dal desiderio di raggiungere un frutto bello, dolce, foriero di forme superiori di conoscenza. L’errore deriva dal desiderio di sapere e di avere di più.
Un discorso parallelo è condotto a proposito della torre di Babele. Filone interpreta l’episodio in chiave allegorica. Nel racconto del Genesi, tutti gli uomini aveva-no una sola lingua, cioè – per Filone – una comunità di intenti che li ha spinti alla costruzione di una città e di una torre con cui raggiungere il cielo. I costruttori decidono di superare i loro limiti. Li guida il desiderio di conoscere più di quanto permesso. La torre costituisce anche un modo per essere conosciuti ed è una sfida. Per interrompere la costruzione, Dio confonde le lingue e impedisce la prosecuzione di progetti malvagi, porta, cioè confusione tra i costruttori.
Sia con Adamo ed Eva che con la torre di Babele il racconto si riferisce a una colpa di orgoglio e alla coscienza di avere acquisito nuove conoscenze o capacità. L’errore consiste nell’attribuire a sè ciò che è di Dio. Di qui la punizione. La lettura è allegorica. Così, nel caso della torre di Babele, il racconto non descrive un evento reale, allude invece alle forze dell’anima e al loro progetto unitario. L’intervento divino impedisce di portare a termine gli scopi comuni, impedisce, cioè il consolidamento del vizio. Questa esegesi è molto distante da una lettura della vicenda quale origine delle lingue. Filone non esclude totalmente che il racconto possa essere interpretato anche in maniera letterale e che esso descriva la differenziazione dei linguaggi. Vi è, però, a suo parere una lettura più profonda: il significato va ricercato al di là del velo del racconto. L’esegesi letterale richiede un superamento.
Se la Bibbia è lettura della realtà, rappresentazione del cosmo e della sua legge, indicazione divina, tutta la Bibbia è anche insegnamento, indicazione di un percorso. Lo si vede già a partire dalla creazione: in sei giorni Dio creò il mondo, il settimo riposò. Filone si interroga sul senso di un’espressione che allude a un tempo determinato per indicare l’attività divina. Sei e sette non debbono essere intesi secondo un ordine cronologico: sei è il numero legato alla formazione del mondo, sette rinvia all’immutabile: il reggitore del mondo. La scansione sei/sette indica un’alternanza, una variazione di attività. Il sabato Dio completa ciò che aveva iniziato nei giorni precedenti, contempla la propria opera, istituisce la conservazione dell’ordine impresso. L’opera divina, il settimo giorno, è una sorta di rielaborazione, di riflessione. Peraltro, è con il pensiero che Dio ha creato il mondo. Non si può, dunque, separare la formazione delle cose e il pensiero e non si può neppure parlare di un’interruzione dell’attività di pensiero di Dio. Formazione e governo del mondo non sono separabili dall’attività del settimo giorno. Vi sono, dunque, delle difficoltà nella determinazione dell’attività divina, difficoltà che si attenuano ove si riporti il discorso al riposo degli uomini e alla homoiosis theo, l’assimilazione a Dio. Questi è modello di vita attiva e contemplativa, costituisce un riferimento cui gli uomini progredienti sulla strada della virtù cercheranno di assimilarsi.
La nozione di modello, l’idea che abbia creato il mondo potrebbe indurre a un’immagine di Dio presente nel mondo, attivo in prima persona. Questa immagine si scontra con la trascendenza di un Dio che è inconoscibile, invisibile, innominabile. L’essere eterno è immutabile, immobile, privo di determinazioni e di qualità, è in uno stato di totale separatezza dacché ogni contatto con il cosmo inficerebbe la sua perfezione e la sua assolutezza. Siamo nell’ambito di una teologia negativa che nega ogni predicazione di Dio: se ne può parlare solamente per negazione, utilizzando, comunque, termini inadeguati. A lato dell’immagine di pura trascendenza vi è, però, in Filone anche la presentazione di un Dio provvidente, che cura il cosmo e veglia alla sua conservazione. La compresenza di questi due aspetti rinvia alla tradizione medioplatonica ove i due ruoli sono esplicati da un primo e un secondo principio. Nella Bibbia le due immagini convivono. Dio partecipa alle vicende del popolo, si manifesta a Mosè, parla con i patriarchi. Contemporaneamente, è il Dio inconoscibile e invisibile di cui neppure il nome può essere detto, ignoto perfino a Mosè. Filone riprende questi differenti aspetti, sostiene con decisione l’inconoscibilità divina e, parallelamente, dà conto degli interventi di Dio nel processo di creazione, nella conservazione del cosmo, in un agire provvidenziale.
L’azione divina si esplica attraverso le potenze, espressione della sua manifestazione, modi di agire di Dio, forme in cui gli uomini conoscono la divinità. In alcuni passi, sembra che Filone parli delle potenze in termini di entità autonome, quasi di ipostasi. In realtà, più che di figure ontologicamente separate, si tratta di modalità, di parametri di confronto, di regole. Tale status è indicato dal nome delle due prime potenze, la creatrice e la regale, dette theos e kurios, Dio e Signore, i nomi con cui è designato Dio. L’omonimia indica che non si tratta di esseri separati: le potenze sono in Dio. Egli, circondato da infinite potenze, è unico.
Se le potenze sono infinite, ve ne sono cinque principali: la potenza creatrice, la regale – già menzionate – la benefica, la legislativa, quella attraverso cui viene vietato ciò che non si deve fare. Al di sopra si colloca il logos, archetipo della realtà, strumento di cui Dio si serve nella creazione del mondo. Prima fra le potenze, il logos, luogo dei pensieri di Dio, è sua immagine invisibile, principio di Dio. È posto come spada fiammeggiante tra i due cherubini che custodiscono l’uscita del giardino dell’Eden e che rappresentano le due prime potenze.
La relazione intercorrente tra logos e potenze è complessa e la rappresentazione che Filone ne dà varia in differenti passi. Secondo alcune formulazioni non sembrano esservi intermediari tra Dio e potenze, in altri luoghi il logos costituisce un tramite, separa il creato dal creatore, ha un ruolo mediatore, svolge una funzione di coesione e di unificazione, sostegno e legame. Parallelamente, il logos è elemento di divisione e di separazione tra le cose dell’universo, momento determinante nel processo di distinzione che porta alla formazione del mondo.
Con la parola Dio creò il mondo. Creò prima il mondo intellegibile cui guardò quale modello per la formazione del mondo sensibile. Come un architetto che voglia costruire una città ne disegna prima il progetto ed edifica a partire dai suoi disegni, così Dio, al momento della formazione della grande città che è il mondo, disegnò un archetipo di cui il mondo empirico è copia: la Torah.
Si ha qui un’interessante rielaborazione del discorso platonico: nel Timeo le idee sono separate dal demiurgo e ingenerate, nel discorso filoniano, invece, le idee risiedono nella mente di Dio. Confluiscono qui – oltre ai già citati richiami al Timeo – anche echi del pittore della Repubblica che, disponendo di un modello divino, disegna uno stato felice. Compare poi la nozione stoica del mondo come grande città.
La lettura del mondo empirico come copia del mondo intellegibile trova per Filone una chiara indicazione nel racconto biblico. Ne è un esempio il doppio racconto della creazione dell’uomo: la creazione dell’uomo a immagine e somiglianza di Dio rinvia ad Adamo come modello, mentre la plasmazione dalla terra riguarda la formazione di Adamo e di Eva storici, maschio e femmina appartenenti al mondo sensibile.
L’influsso platonico si avverte anche nell’affermazione che alla base della creazione sta la bontà divina. Se ci si interroga, infatti sulle ragioni per cui il mondo è stato formato, non si può che concordare con Platone quando afferma che il Padre e Creatore del mondo è buono e in virtù di tale bontà ha impresso ordine e armonia a ciò che in precedenza ne era privo. Egli ha agito su una materia originaria, informe, disordinata, priva di determinazioni e di qualità. È problematico chiarire in che termini Filone parli di materia originaria. Difficoltà nascono sia nell’ipotesi di un’entità preesistente, quasi un secondo principio, sia nel caso si ipotizzi che la materia disordinata sia anch’essa opera di Dio che la avrebbe formata in un primo momento per poi, in un secondo momento, ordinarla.
Sempre in termini platonici è spiegata la presenza del male nel mondo: si ha un richiamo a esseri intermediari che Platone chiama divinità giovani. L’esistenza di queste divinità, che metterebbe in discussione l’unicità di Dio, è inaccettabile per Filone. Egli parla, dunque, di aiutanti, esseri creati ad hoc da Dio.
Già si è visto che una sola è la legge: di natura, tra gli uomini, nella Bibbia. La fonte è sempre Dio e vi è, perciò, piena corrispondenza tra legge della natura e legge di Mosè. Dopo la rivelazione sul monte Sinai, la legge mosaica si conforma alla norma che regola il cosmo, ma anche prima vi erano individui che seguivano la legge, o meglio, la incorporavano, erano essi stessi legge animata. Sono i patriarchi, legge dotata di ragione, che seguivano l’ordine istituito al momento della creazione. Impersonando la legge, essi erano modello di comportamento per coloro che li circondavano, i quali venivano guidati non con la forza, ma con la persuasione.
La nozione di uomo regio che incarna la norma in contrapposizione con le norme scritte è presente in Platone, nel Politico e nel Gorgia, mentre Aristotele parla di giudici “quali giusto animato”. Di leggi animate trattano anche un frammento attribuito ad Archita e autori pseudo pitagorici quali Stenida, Diotogene, Ecfanto. Parallelamente, per il Siracide Abramo custodiva la legge divina, mentre nel Libro dei Giubilei vi è l’idea di personaggi superiori che conoscono la legge e la tramandano prima della rivelazione sinaitica. In questi testi, però, a differenza che in Filone, i personaggi in questione non sono legge incorporata: hanno ricevuto una rivelazione personale.
Filone interpreta le vicende di Mosè e dei patriarchi in maniera letterale. Contemporaneamente, però, tali figure rappresentano dei tipi, significano delle tappe della conoscenza e dell’avvicinamento a Dio. I discendenti di Caino sono raggruppati in triadi che rappresentano differenti livelli di perfezione morale. La prima triade è costituita da Enos, Enoch e Noè. Enos, figlio di Set, indica l’uomo per eccellenza, Enoch rappresenta l’isolamento del sapiente volto alla vita immortale, Noè, amico della virtù, cura la vigna. Il suo nome significa riposo, è figura dell’uomo giusto che coltiva l’anima.
La seconda triade è composta da Abramo, Isacco e Giacobbe; preannuncia l’apprendimento attraverso l’insegnamento, la perfezione, l’esercizio. Abramo, simbolo dell’insegnamento, lascia il suo paese, la sua famiglia, la casa paterna che rappresentano i simboli rispettivamente del corpo, della sensazione e della parola proferita e migra verso l’intellegibile divenendo l’ebreo, cioè il migrante.
Il cambiamento del suo nome da Abramo in Abraamo (Genesi, XVII 5) indica il passaggio dallo studio dei fenomeni celesti alla ricerca della vera sapienza.
Isacco rappresenta l’autodidatta, simbolo della perfezione, genere della felicità, Giacobbe, l’asceta, ha combattuto con l’angelo (Genesi, XXXII 25-29). In seguito alla lotta è divenuto Israele, “colui che vede Dio”.
I tre personaggi rappresentano tre tipi di uomini e altrettanti modi di perseguire la virtù. La trattazione della virtù riprende molti temi della tradizione greca, dall’idea platonica dell’unità della virtù, alla esposizione delle quattro virtù tradizionali: prudenza, temperanza, coraggio, giustizia. Ripropone, inoltre, l’affermazione stoica che solo il sapiente è libero. Anche in ambito etico Filone rappresenta, dunque, una riuscita sintesi tra pensiero greco ed ebraico. I due poli si intrecciano al punto che spesso non si possono distinguere. La sintesi non è semplice giustapposizione, è piena intersezione.
Filone di Alessandria
Quod Deus sit immutabilis
Dio non è certo afferrabile neppure dall’intelletto, se non per quanto riguarda il Suo effettivo esistere. È la Sua esistenza, infatti, che noi comprendiamo, ma, al di fuori dell’esistenza, nient’altro.
Filone di Alessandria, “Le origini del male”, in I classici del pensiero, Sez. 1, Filosofia classica e tardoantica, trad. it. C. Mazzarelli, introduzione, prefazioni, note e apparati di R. Radice, Milano, Rusconi, 1986
Filone di Alessandria
Legatio ad Caium 5-7
Il sommo bene, la suprema bellezza, felicità e beatitudine, l’Essere che, a voler tener fede alla verità, è migliore del bene, più bello del bello, più beato della beatitudine, più felice della felicità stessa, più perfetto di ogni possibile perfezione, ammesso che ne esista una più compiuta di queste. Perché l’intelletto non può arrivare a Dio, che è assolutamente intangibile e inaccessibile, ma arretra e precipita, incapace di trovare termini atti a definire per gradi non dico l’Essere Supremo – neppure il cielo intero se si trasformasse in voce articolata troverebbe le espressioni adeguate – ma i poteri che di quell’Essere sono le guardie del corpo. Intendo dire il potere creativo, il potere regale, il potere provvidenziale e gli altri suoi poteri benefici e punitivi.
Filone di Alessandria, “L’uomo e Dio”, trad., prefazioni e note di C. Kraus Reggiani, presentazione di G. Reale, in I classici del pensiero, Sez. 1 Filosofia classica e tardoantica, Milano, Rusconi, 1986
Filone di Alessandria
De vita contemplativa, 78
L’interpretazione dei libri sacri avviene attraverso il metodo allegorico: tutti i libri della Legge infatti sembrano a questi uomini somigliare a un essere vivente, il cui corpo sono le prescrizioni scritte e la cui anima è una mente invisibile, nascosta sotto le parole. In essa, l’anima razionale comincia a contemplare ciò che le è eminentemente proprio: è come se, attraverso lo specchio dei nomi, osservasse la straordinaria bellezza dei concetti, fatta risalire all’evidenza; è come se svelasse e dispiegasse i simboli, portando alla luce ciò che è necessario perché, in virtù di un breve ricordo l’invisibile possa essere contemplato attraverso il visibile.
Filone di Alessandria, La vita contemplativa, a cura di P. Graffigna, Genova, Il Nuovo Melangolo, 1992
Filone di Alessandria
De Opificio, 1-3
Tra i legislatori, alcuni hanno codificato in maniera disadorna, senza alcuna ricercatezza, i principi ritenuti giusti presso i loro popoli; altri, al contrario, hanno avviluppato di grande ampollosità pensieri propri e gettato fumo negli occhi delle masse, nascondendo la verità sotto finzioni mitiche. Mosè non adottò nessuno dei due espedienti: [...] pose invece all’inizio del suo codice di leggi un esordio di bellezza e maestosità incomparabili, astenendosi da un lato dall’indicare subito quel che si deve fare o non fare, e dall’altro, dacché bisognava formare le menti dei futuri applicatori della legge, evitando di inventare dei miti o di consentire con quelli che altri avevano già inventato. Questo esordio, come ho precisato, è meraviglioso oltre ogni dire, perché comprende il racconto della creazione del mondo, in cui è implicito il concetto che il mondo è in armonia con la legge e la legge con il mondo, e che l’uomo osservante della legge diviene, in virtù di tale osservanza, cittadino del mondo, per il solo fatto che conforma le proprie azioni alla volontà della natura, secondo la quale è governato anche l’universo intero.
Filone di Alessandria, De opificio mundi, De Abrahamo, De Iosepho, a cura di C. Kraus Reggiani, Roma, Edizioni dell’Ateneo e Bizzarri, 1979
Filone di Alessandria
De Opificio, 16
Quando volle creare questo nostro mondo visibile, foggiò prima il mondo intellegibile per poter disporre di un modello incorporeo e in tutto simile al divino, ai fini di creare il mondo materiale, una replica più recente di un mondo più antico.
Filone di Alessandria, De opificio mundi, De Abrahamo, De Iosepho, a cura di C. Kraus Reggiani, Roma, Edizioni dell’Ateneo e Bizzarri, 1979
Filone di Alessandria
De Opificio, 19-22
Quando concepì il disegno di fondare “la grande città”, [Dio] in una prima fase ne strutturò nella propria mente i modelli secondo cui sarebbe stata creata, componendo i quali portò a compimento prima il mondo intellegibile e poi, servendosi di esso come di prototipo, quello sensibile. Dunque, come il progetto della città prefigurato nella mente dell’architetto non aveva alcuna collocazione all’esterno, ma era impresso come un marchio nell’anima dell’artefice, allo stesso modo neppure il mondo costituito dalle Idee potrebbe risiedere in altro luogo che non sia il Logos divino, autore di questo armonioso ordinamento. [...]
Se si volesse scrutare a fondo la causa per la quale tutto questo universo è stato creato, mi pare che coglierebbe nel segno chi dicesse quel che ha detto un filosofo antico: che il Padre e Creatore del mondo è buono. In virtù di tale bontà Egli non rifiutò di trasmettere l’eccellenza della Propria natura a una entitità che di per sé non aveva nulla di bello, ma che in potenza era predisposta a divenire qualsiasi cosa. Di per sé, infatti, essa era priva di ordine, di qualità, di vita, di omogeneità, e ricolma invece di eterogeneità, di disarmonia, di discordanza; ma divenne oggetto di un mutamento e di una trasformazione nella direzione opposta delle cose migliori e accolse in sé ordine, qualità, vitalità, omogeneità, identità, armonia, concordanza, tutto ciò che reca le caratteristiche del modello più elevato.
Filone di Alessandria, De opificio mundi, De Abrahamo, De Iosepho, a cura di C. Kraus Reggiani,, Roma, Edizioni dell’Ateneo e Bizzarri, 1979