FILONE (Φιλων; Philo) di Alessandria
Detto il Platone ebraico, nato intorno al 30 a. C. (di stirpe sacerdotale secondo S. Gerolamo), ambasciatore nel 40 d. C. a Caligola, per chiedere la cessazione delle persecuzioni contro gli Ebrei, fu il massimo rappresentante della filosofia giudaico-alessandrina, con cui già dal III e II sec. a. C. il misticismo ebraico - ascetico negli Esseni e Terapeuti, messianico nel popolo - aveva iniziato la forma speculativa del sincretismo o fusione conciliatrice degli elementi elaborati dal platonismo, aristotelismo e stoicismo con quelli religiosi della Bibbia (Bibbia dei Settanta, Pseudo-Aristea, Aristobulo, ecc.). Ma con un atteggiamento non nuovo nella storia (cfr. i sacerdoti egizî già in Erodoto), il giudaismo alessandrino, nell'atto che si assimila i prodotti della filosofia greca, non vuole riconoscere un debito, ma rivendicare un credito verso di essa, affermando che essa ha attinto l'ispirazione alle Scritture, a Mosè, a Salomone, ai profeti. Tale tesi, la cui dimostrazione già Aristobulo e poi F. nelle sue numerose opere affidano a un'interpretazione allegorica delle Scritture, sull'esempio di quella stoica dei miti, non è per gli ebrei - né per i cristiani, come Giustino - vanteria utilitaria quale era nei sacerdoti egiziani, ma conseguenza necessaria del convincimento che solo la rivelazione apra alla mente umana la visione della verità.
Il filosofo. - Nella filosofia di F., che è una teologia dominata dal principio della trascendenza di Dio, la mente umana per sé stessa è riconosciuta impotente a cogliere la verità: tutti gli argomenti dello scetticismo ritornano, associati a quelli del misticismo, a dimostrare la fallacia e relatività della conoscenza sensibile e l'insufficienza della ragione discorsiva; per cui dinanzi a una scienza, che è ricerca e disputa senza fine, si dovrebbe conchiudere con la sospensione del giudizio, se non intervenisse la luce della rivelazione, consegnata alle allegorie delle Scritture. Data la trascendenza di Dio, la rivelazione potrebbe darci solo l'esistenza e non l'essenza di lui: ma ecco che dalle limitazioni umane tralucono per antitesi le perfezioni e potenze divine. E queste, suggerite a F. da dottrine platoniche, aristoteliche e stoiche, tendono per il forte senso di personalità proprio del giudaismo a personificarsi: e così il Dio Padre con la sua Bontà e il suo Potere è unità che diventa trinità (Colui che è, Dio e il Signore); e l'attività creatrice di Dio diventa il Figlio - Verbo o Logos - che, riunendo i caratteri del Dio platonico, aristotelico e stoico, è idea delle idee e modello ideale del mondo; e le idee, che il Verbo ha in sé, diventano potenze ministre o angeli. Tutta una serie di personificazioni, mediatrici fra Dio e il mondo, s'introduce così, sia a spiegare l'origine dell'imperfezione e del male, sia a mantenere la trascendenza di Dio. Ma d'altra parte c'è in F. un'oscillazione fra trascendenza e immanenza, in quanto il Verbo è per lui l'attività stessa di Dio e la sua natura intrinseca; e l'inseparabilità da Dio, attribuita all'attività creatrice, si ripercuote sul mondo delle creature, ricondotto alla creazione diretta in ogni suo momento particolare e dichiarato nella sua totalità indistruttibile, appunto perché attaccato e sospeso alla continuità dell'azione divina.
E un altro distacco dalla trascendenza è nella dottrina dell'anima, "impronta e raggio" di Dio, da cui non si fa "distacco per divisione, ma solo emanazione per estensione". Per tale unità con Dio l'anima aspira ad esso; ma bisogna per ciò che si affranchi da tutto ciò che ne la distacca e tiene lontana: il corpo (che F. platonicamente dice tomba dell'anima, pur dicendo altre volte anche la materia creata da Dio), la sensazione, il pensiero discorsivo e soprattutto la propria individualità, la cui affermazione è orgoglio ed empietà, che va negata nell'umile dedizione a Dio. Ma per quanto talora F. parli dello sforzo e dell'ascesi, quali condizioni dell'ascensione a Dio, questa non è per lui conquista dell'uomo, bensi solo grazia di Dio; che sola può far entrare l'uomo nella realtà estratemporale e concedergli la visione suprema. Lo splendore di Dio arriva alla mente come apparizione che si offre e non come conquista dell'anima; la quale anzi si abbandona e si perde nel rapimento dell'estasi, come nell'incoscienza di un'ebbrezza colma di beatitudine. Così al processo di discesa della creazione da Dio non corrisponde un processo di ascesa della creatura verso lui, ma una seconda discesa nella rivelazione: Dio è il principio ma non è il temiine; il circolo non si salda in lui. Questo sarà il compito ulteriore del neoplatonismo.
Lo storico. - Già si è accennato all'ambasceria a cui F. partecipò nel 38 d. C. per ottenere da Caligola la revoca del culto imperiale imposto agli Ebrei come a tutti gli altri sudditi dell'Impero (v. caligola). L'episodio ha importanza soprattutto perché da questa difesa del monoteismo ebraico furono ispirati alcuni opuscoli di grande importanza storica. Subito dopo la morte di Caligola F. scrisse i suoi due libri Sull'ambasceria a Gaio (di cui il primo solo ci è rimasto) nei quali l'assassinio di Caligola è interpretato come la punizione della sua persecuzione contro gli Ebrei. Più tardi F., considerando l'analoga fine del prefetto antisemita d'Egitto Avillio Flacco e dei ginnasiarchi alessandrini di uguale tendenza, fu tratto a inserire quell'opuscolo in una più ampia costruzione storica, di cui ci resta anche un'altra parte, il Contro Flacco, nella quale la persecuzione contro gli Ebrei è ormai assunta a criterio della comprensione di molte vicende storiche, se non proprio della vicenda storica. È noto che tale concezione ha avuto larga eco nell'apoogetica cristiana e ha ispirato il De Mortibus persecutorum di Lattanzio.
Edizioni: Th. Mangey, Londra 1742 (con traduzione latina); C. E. Richter, Lipsia 1828-30 e 1851-53; L. Cohn e P. Wendel, ed. maior e ed. minor, Berlino 1896 segg.
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