Filosofia a Bisanzio
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Quello della speculazione filosofica bizantina è un campo relativamente poco esplorato, ma ricco di motivi di straordinario interesse. Se nel periodo protobizantino si pongono le basi della rielaborazione del pensiero platonico che prende il nome di "neoplatonismo", nell’epoca medio-bizantina si assiste alla sovrapposizione fra filosofia e teologia. A partire dal XIII secolo Bisanzio entra in contatto diretto con la scolastica, dando vita a una riflessione originale che mescola elementi della tradizione filosofica occidentale al metodo aristotelico.
Plotino
Le anime
Enneadi, V, 1
Qual è mai la causa che ha reso le anime – le quali pur sono parti staccate di lassù e appartengono anzi completamente al mondo superno – dimentiche del loro padre Iddio e ignare di se stesse e di Lui? Ebbene, prima radice del male, per esse, fu la temerarietà, e poi il nascere e l’alterità primitiva e la voglia di appartenere a se stesse. Così, ebbre, visibilmente, di quella loro autodeterminazione, poi ch’ebbero fatto il più largo uso di quel loro spontaneo movimento, dopo quella gran corsa sulla via contraria, distanziate che furono per sì gran tratto, finirono alfine per ignorare se stesse e la loro origine: quasi fanciulli che, strappati troppo presto ai genitori ed allevati lungo tempo lontano, non riconoscono più né se stessi né i loro genitori.
Le anime, dunque, non scorgendo più né Lui né se stesse, disistimandosi, per ignoranza della loro stirpe, ed apprezzando invece le altre cose, ammirando, anzi, tutte le cose più che se stesse, trasalirono, attonite, di fronte a loro e ne furono avvinte; e si strapparono, a tutto potere, dalle cose donde avevano già volto le spalle, sprezzantemente. Così risulta che di quella totale ignoranza di Dio unica causa è il dar pregio alle cose terrene e disprezzo al proprio essere […]. Perciò occorre che si svolga su due direzioni il ragionamento contro coloro che così si atteggiano, se uno voglia davvero volgerli alla via opposta e alle prime cose e farli risalire alla vetta più alta: l’Uno e il Primo.
Plotino, Enneadi
Giorgio Gemisto Pletone
Il secondo assioma supremo
Traité des Lois
Dei tre assiomi supremi, il secondo è che le essenze hanno un rapporto necessario con le loro generazioni, e le generazioni un rapporto necessario con le essenze. Questo principio rende chiara la costituzione delle cose divine. Perché l’essenza di tutte le cose si divide in tre ordini: per prima cosa la natura che è sempre la stessa e essenzialmente immutabile; poi quella che è perpetua, ma sottomessa al cambiamento nel tempo; infine la natura mortale. Noi attribuiamo la prima creazione al principio di tutte le cose: Zeus; il secondo ordine di creazione a Poseidone, che è il primo nel primo ordine di sostanze; infine il terzo ordine di creazione al primo dei figli illegittimi di Zeus, Crono, e al Sole, il più potente dei figli legittimi di Poseidone. Crono sarà assistito in quest’opera dai suoi fratelli, illegittimi come lui; il Sole da tutti i suoi fratelli legittimi, chiamati Pianeti.
Giorgio Gemisto Pletone, Traité des Lois, Paris, C. Alexandre, 1858
Giovanni Malala
La chiusura della scuola filosofica neoplatonica
Cronache, cronaca XVIII, 187
L’ostilità dell’imperatore Giustiniano (527-565) verso Atene diviene esplicita nel 529, anno del celebre editto relativo alla chiusura della scuola neoplatonica ateniese. Com’è noto, l’unica testimonianza diretta sul provvedimento è costituita da un brevissimo passo del cronista antiocheno Giovanni Malala:
"Sempre durante il consolato di Decio (529 d.C.), l’imperatore emise un decreto e lo notificò in Atene, prescrivendo che nessuno si desse all’insegnamento della filosofia né all’esegesi del diritto né al gioco d’azzardo in alcuna città dell’impero, giacché a Bisanzio dei giocatori, sorpresi a commettere tali terribili blasfemie, erano stati puniti con il taglio della mano ed esibiti sul dorso di cammelli".
Giovanni Malala, Cronache, VI sec.
Luciano Canfora ha scritto giustamente che “se si pone mente al caso dei filosofi greci (per lo meno di alcuni), il motto celebre, e celebrato, di Marx, secondo cui i filosofi si sarebbero sino ad allora limitati a ’interpretare il mondo’ astenendosi dall’imperativo inderogabile di ’cambiarlo’, non sembra corrispondere al vero. Giacché quegli antichi inventori del filosofare, in verità, operarono” (L. Canfora, Un mestiere pericoloso. La vita quotidiana dei filosofi greci, 2000). In epoca tardoantica e protobizantina ciò è più che mai evidente, al punto che si può senz’altro affermare che i contrasti fra le due grandi scuole filosofiche del periodo, quella neoplatonica di Atene e quella aristotelica di Alessandria, furono originati da problematiche di tipo politico e religioso più che da motivazioni scientifiche e dottrinali.
La filosofia tardoantica è dominata dalla nuova interpretazione del pensiero di Platone proposta da Plotino e rielaborata e sviluppata da autori quali Porfirio e Giamblico. Una tappa ulteriore e decisiva nella fissazione del curriculum degli studi filosofici dell’epoca in oggetto è rappresentata dalla fondazione, all’inizio del V secolo, della Scuola neoplatonica di Atene. Partendo dalla riflessione sulle dottrine dei maestri sopracitati, gli scolarchi ateniesi (Plutarco, Siriano, Proclo, Marino, Isidoro, Egia e Damascio) propongono un piano di studi che comprende tutte le parti della filosofia, studiate secondo una progressione che conduce da Aristotele a Platone, e da Platone alle fonti stesse della teologia: le rivelazioni degli dèi (tra le quali i cosiddetti Oracoli caldaici). In particolare, il grande scolarca di origine licia Proclo, facendo riferimento a concetti derivanti dal Parmenide, da lui considerato il più importante dialogo teologico di Platone, concepisce e realizza il progetto di un’esposizione sistematica della scienza teologica. Ma anche Proclo, come Platone, non vuol essere un uomo capace solo di parole: accanto all’attività teorica – che culminerà nel grande commento alla Repubblica platonica, nel quale l’autore non nasconde la propria polemica nei confronti dell’ordine costituito e ricorda il detto di Socrate secondo cui massimo dovere del filosofo è occuparsi del governo della città – egli estrinseca le sue "virtù politiche" nell’evergetismo, nella partecipazione diretta alle riunioni pubbliche sugli affari della città e nel rapporto epistolare con le classi dirigenti delle città-stato greche. L’autorità politica bizantina, come del resto in precedenza quella romana, si era sempre mostrata particolarmente attenta al potenziale sovversivo dei filosofi. Essa tenta dunque di mettere sotto controllo l’insegnamento della filosofia, prima istituendo ad Atene delle cattedre finanziate direttamente dall’imperatore, poi creando un unico polo d’eccellenza – la cosiddetta Università di Costantinopoli, fondata da Teodosio II nel 425 – allo scopo di oscurare gli antichi centri di insegnamento delle discipline retoriche, giuridiche e filosofiche: Beirut, la stessa Atene e Alessandria. Le ultime due città, fra V e VI secolo, mantengono comunque intatto tutto il loro prestigio di centri di didattica e di ricerca filosofica: il legame fra le scuole ateniesi e alessandrine, che non di rado sono state considerate come divise da un indirizzo filosofico diverso o addirittura contrapposto, è peraltro stabilito dal fatto che in questo periodo vi sono scambi costanti di docenti: ad esempio Damascio, il successore di Proclo alla guida della Scuola di Atene, aveva ricevuto la sua prima educazione filosofica proprio ad Alessandria.
La vera differenza fra le due scuole sta piuttosto in un diverso atteggiamento nei confronti dei problemi politici e religiosi: meno ostili al cristianesimo e addirittura, con Giovanni Filopono e più tardi con Davide, Elia e Stefano, apertamente cristiani, gli esponenti della Scuola alessandrina si mostrano dal punto di vista politico più prudenti e concilianti nei confronti del potere centrale rispetto ai loro colleghi ateniesi, pagani pervicacissimi e propugnatori di una società diversa, basata sull’exemplum della Repubblica platonica.
Non è un caso che se i filosofi alessandrini possono continuare a svolgere pressoché indisturbati le proprie riflessioni, la Scuola di Atene viene invece chiusa da Giustiniano con il celebre editto del 529 d.C. Sul carattere di questo provvedimento molto è stato scritto, accentuandone di volta in volta gli aspetti religiosi, culturali e politici. In effetti ognuno di questi elementi sembra giocare un ruolo rilevante, ma non v’è dubbio che ancora una volta l’aspetto fondamentale sia quello politico, e nella fattispecie la tutela dell’ordine pubblico, tant’è che lo storico Giovanni Malala menziona l’editto che proibisce l’insegnamento della filosofia e lo studio dei nomima (le "leggi") ad Atene accanto a quello che interdice il gioco d’azzardo in tutte le città dell’impero. Emerge qui il tema, cruciale per la comprensione del reale significato dell’editto di Giustiniano, del rapporto fra la riflessione giuridico-politica dei neoplatonici ateniesi e quella delle correnti riformatrici interne all’impero sasanide: è proprio l’esistenza di questo rapporto a costituire un problema per l’autorità imperiale, preoccupata del diffondersi nei territori a essa sottomessi di modelli ed esperienze messe in atto dalla monarchia persiana e rivelatesi altamente destabilizzanti.
Nella parallela elaborazione dei Padri della Chiesa, è invece la vita cristiana nella sua interezza a essere intesa come "vera" filosofia: l’attributo di "filosofi" veniva infatti riconosciuto di preferenza a gruppi che realizzavano concretamente, in modo esemplare, tale ideale: i martiri e, dopo che questi ultimi passarono in secondo piano per la sopravvenuta pace della Chiesa, i monaci. Importantissime fonti di tale definizione, formulata soprattutto dai grandi Padri cappadoci Basilio di Cesarea e Gregorio di Nissa, sono i testi agiografici; il significato qualitativo e quantitativo di questa accezione diviene talmente predominante all’interno della letteratura bizantina, che la "disciplina linguistica", divenuta routine, può fare della parola filosofia addirittura il sinonimo di "amore della quiete", elemento caratteristico della vita monastica. Accanto a ciò comunque, fra gli stessi scrittori di cose spirituali, continuano anche a tramandarsi le definizioni di filosofia tratte dall’antichità classica.
Se il concetto di filosofia, negli apologeti e negli autori di epoca successiva, comprendeva il complesso della verità cristiana, e dunque anche quello sviluppo di speculazione dogmatica che noi oggi indicheremmo come teologia, presto comunque si costituisce, proprio in seguito a tale sviluppo, anche un concetto di teologia squisitamente cristiano. Mentre Origene ed Eusebio di Cesarea intendono per teologia la dottrina del vero Dio trasmessa da Cristo, i Padri cappadoci, discutendo del suo nucleo contenutistico, pongono più decisamente l’accento sulla Trinità. A questo proposito, un tema fondamentale è costituito dal tentativo di un recupero cristiano della saggezza pagana: alcuni pensatori cristiani individuano infatti nelle riflessioni dei saggi greci i prodromi della rivelazione divina. Tale processo non avviene senza contrasti; è anzi osteggiato e condannato da numerosi esponenti dell’élite intellettuale legata agli ambienti ecclesiastici. E tuttavia, proprio nel milieu più tradizionalista – i cui esponenti, a difesa della cristologia di Calcedonia, rivolgono continuamente feroci attacchi contro Omero, Pitagora, Aristotele e la sapienza greca – viene a formarsi la leggenda secondo la quale Platone, nell’Ade, avrebbe per primo creduto alla predicazione di Cristo. Nonostante la grande profusione di mezzi retorici dispiegata contro la filosofia – in ciò si distingue particolarmente Giovanni Crisostomo – non sono pochi gli ambiti (come ad esempio quello riguardante la dottrina della creazione) in cui, nonostante controverse convinzioni di fondo, ci si richiama apertamente all’autorità di Platone e di Aristotele. A un avvicinamento formale alla dialettica, se non a una conciliazione con essa, si perviene tuttavia soltanto nel corso del conflitto con il neoplatonismo, sulla base dell’armamentario logico e terminologico che un altro grande Padre della Chiesa, Giovanni Damasceno, aveva selezionato nella sua Dialettica sulla base di raccolte precedenti, rendendone disponibile l’applicazione alla sfera teologica.
La predilezione per Aristotele continua – o si rianima – nel cosiddetto primo umanesimo bizantino del IX secolo. In particolare, il patriarca Fozio non lascia adito a dubbi su quale filosofia egli prediliga nel complesso. Negli epigrammi di Giovanni il Geometra, per converso, si può nuovamente avvertire la tendenza non già a contrapporre, bensì a collocare l’uno accanto all’altro i due grandi filosofi, le loro dottrine e i loro particolari talenti. Con Michele Psello l’alternativa Platone/Aristotele perde di intensità, in quanto la sua massima ammirazione è rivolta ai neoplatonici: Proclo, Giamblico e gli Oracoli caldaici. Ciò tuttavia implica, ed esprime con enfasi, la previa opzione a favore di Platone, il quale non soltanto sarebbe stato in accordo con la sapienza dell’Oriente pre-greco, ma anche con dogmi essenziali del cristianesimo. Per contro, la dottrina aristotelica secondo cui il mondo non ha un inizio viene condannata, in quanto inconciliabile con il dogma cristiano. L’atteggiamento che sta alla base della valutazione di Psello, implica insomma la sua scelta di Platone quale guida nella sfera più propriamente filosofica e teologica rispetto a un Aristotele il cui ambito di indagine e di dimostrazione si limitava alla logica e alla fisica. Psello non approva la condanna indifferenziata della filosofia platonica e aristotelica operata dalla sinodo patriarcale di Michele Cerulario, ma d’altra parte afferma di voler preservare la dottrina della Chiesa dagli errori della filosofia pagana.
Sebbene il suo successore, Giovanni Italo, abbia mostrato di cercare una conciliazione di Aristotele con Platone e con il neoplatonismo, sarebbe stato ricordato dai posteri come ostinato aristotelico. Da ciò potrebbe anche derivare la sostanziale mescolanza di singole dottrine platoniche e aristoteliche nella condanna che di lui fa il Synodikon dell’ortodossia, uno dei più importanti documenti liturgici della Chiesa bizantina.
In ogni caso, nonostante diverse oscillazioni, né l’indirizzo radicalmente anticlassico né quello filosofico-razionale possono rivendicare fino in fondo il dominio dell’intero campo teologico-filosofico bizantino. Per giunta, in molti autori l’atteggiamento monastico-radicale e quello più ricettivo verso la cultura antica si intersecano, anche quando essi (come per esempio Evagrio Pontico) a parole rifiutano ogni contaminazione con i “classici”. In fondo, la stessa raffinatissima costruzione teologica sviluppata dallo Pseudo Dionigi Areopagita non è altro che un’immagine speculare della filosofia neoplatonica.
Con la fondazione del regno latino a Costantinopoli (1204-1261), compiuta in seguito alla famigerata quarta crociata, il mondo bizantino entra in contatto diretto con la filosofia scolastica occidentale: a Bisanzio si comincia così a interessarsi alla teologia latina, che fino ad allora era stata nota solo a una piccola cerchia di teologi di corte attraverso le dispute ufficiali, cioè senza una reale conoscenza delle opere fondamentali.
Ai monasteri greci in Italia meridionale, soprattutto nel XIV secolo, tocca il particolare ruolo di mediatori nella tradizione profana e nella cultura ecclesiastica tra Bisanzio e l’umanesimo italiano, così come le sedi domenicane nell’impero bizantino compiono una missione simile in senso opposto: ai membri di questo ordine mendicante, fondato per la conversione degli eretici, si devono infatti i primi tentativi di diffondere in Oriente gli scritti di Tommaso d’Aquino attraverso traduzioni greche realizzate per l’occasione. In questo stesso periodo, il segretario imperiale Demetrio Cidone prende la decisione di imparare il latino allo scopo di leggere la Summa contra gentiles di Tommaso: questa lettura sfocia in una traduzione completa dell’opera, che è portata a compimento il 24 dicembre 1354. Sostenuto da un entusiasmo crescente, Cidone fa seguire a questa prima versione ulteriori traduzioni di Tommaso d’Aquino, Agostino e altri teologi latini.
All’interesse per Tommaso si accompagna anche una più intesa attività su Aristotele, che con il patriarca teologo Gennadio II Scolario trova espressione nella traduzione del commentario aristotelico di Tommaso, che egli celebra come il più illustre fra tutti gli esegeti del filosofo greco, mentre molti umanisti bizantini in Italia si dedicano a nuove versioni latine di opere aristoteliche. La riflessione che scaturisce da tale fervore "filolatino" ha una notevole importanza, che non si limita alla sfera culturale: da essa derivano infatti in gran parte le basi teologico-filosofiche su cui fu condotto il concilio di Ferrara-Firenze (1438-39), nel corso del quale si assiste all’estremo tentativo di unione delle Chiese d’Oriente e d’Occidente.
Dal punto di vista filosofico, il "millennio bizantino" si chiude con la grande controversia sul primato delle due principali autorità filosofiche antiche, cioè Platone e Aristotele, che vede protagonisti il già menzionato patriarca Scolario e Giorgio Gemisto Pletone. Quest’ultimo, dalla cittadella fortificata di Mistrà, nel sud del Peloponneso, proporrà ai despoti bizantini e ai suoi concittadini una grande utopia umanistica di rinnovamento dello spirito ellenico, fondata sull’idea di una vera e propria rifondazione della Repubblica platonica. Se la posizione platonica di Pletone ha ottenuto un grande successo nei circoli umanistici italiani (in particolare in quello che fa riferimento alla figura di Marsilio Ficino), l’aristotelismo di Scolario ha contribuito in larga parte a formare l’ideologia ufficiale della Chiesa ortodossa postbizantina, particolarmente sospettosa nei confronti di ogni tipo di dottrina che faccia riferimento al magistero di Platone.