Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il saggio On Denoting di Bertrand Russell del 1905 è un testo epocale. Sia per il metodo sia per il contenuto ha esercitato una grande influenza su tutta la filosofia analitica che lo ha considerato – nelle parole di un altro filosofo analitico, Frank Ramsey – “un paradigma per la filosofia”. È trascorso oltre un secolo e la filosofia analitica ha conosciuto uno sviluppo impetuoso in tutti i settori tradizionali – dalla metafisica all’etica, dalla gnoseologia all’estetica, dalla filosofia del linguaggio alla filosofia politica. Per dare un’idea dei metodi della filosofia analitica (ma non dei suoi contenuti, troppo ricchi e vari per una breve presentazione) è utile rifarsi a quel saggio che continua ad avere un valore paradigmatico.
La formalizzazione del linguaggio
Gottlob Frege, Bertrand Russell, George Edward Moore, Ludwig Wittgenstein sono i fondatori della filosofia analitica. Poiché le loro idee sono vive ancor oggi e un enorme numero di filosofi – soprattutto nei Paesi di lingua inglese, ma anche altrove – le ha assorbite, per criticarle o svilupparle in molti modi e in direzioni molto diverse, è difficile caratterizzare i contenuti della filosofia analitica. Tuttavia nessuno ha mai dubitato che il saggio di Bertrand Russell On denoting (1905) rappresenti questa filosofia nel modo migliore per il tema, il metodo, lo stile e l’influenza esercitata. Vediamo in breve che cosa contiene quel saggio e avremo un’idea dei contenuti della filosofia analitica.
Sembra che le espressioni come “Socrate”, “Platone”, “Pegaso”, “qualcuno”, “un filosofo”, “un cavallo alato”, “nulla”, “nessuno” e così via abbiano tutte la stessa forma grammaticale, perché possono occorrere indifferentemente in posizione di soggetto e in quella di complemento. Diciamo infatti “Socrate corre” e “Un filosofo corre”, “Socrate cavalca Pegaso” e “Socrate cavalca un cavallo alato”. Tuttavia ci sono grandi differenze nel modo in cui queste espressioni si comportano nelle inferenze. Ad esempio, queste inferenze sono corrette:
1a. Socrate corre
Dunque, qualcuno corre
2a. Il sapone di Marsiglia lava più bianco del detersivo in polvere
Dunque, qualcosa lava più bianco del detersivo in polvere
3a. Pietro ama Maria e Paolo ama Maria
Dunque, esiste una donna che è amata da Pietro e da Paolo
Queste altre invece non lo sono:
1b. Nessuno corre
Dunque (?) qualcuno corre
2b. Nulla lava più bianco del sapone di Marsiglia
Dunque (?) qualcosa lava più bianco del sapone di Marsiglia
3b. Pietro ama una donna e Paolo ama una donna
Dunque (?) esiste una donna che è amata da Pietro e da Paolo
Dunque dal punto di vista logico, anche se non da quello grammaticale, c’è una differenza tra i nomi propri come “Socrate” da un lato e “qualcosa”, “niente”, “un cavallo alato”, “una donna” ecc., dall’altro (oggi i grammatici non ignorano più questa differenza, ma nel 1905 Russell poteva sostenere che le analisi della logica fossero più profonde di quelle superficiali della grammatica). Mentre ogni nome proprio si riferisce a un individuo – l’individuo che lo porta – le espressioni del secondo gruppo non si riferiscono a un individuo. Se si riferissero a un individuo, le inferenze (1b)-(3b) sarebbero corrette. Ma non lo sono.
La logica moderna, e in particolare la teoria della quantificazione di Frege, dice che l’enunciato “Un filosofo corre” ha lo stesso significato di quest’altro: “Esiste qualcosa (o qualcuno) che è filosofo e corre”. L’espressione “avere lo stesso significato” in realtà è imprecisa. Ad esempio, la spigola è lo stesso pesce del branzino. Ma si può dire che la parola “spigola” abbia lo stesso significato di “branzino” e che abbiano lo stesso significato “Eva non sa che una spigola è un branzino” ed “Eva non sa che una spigola è una spigola”? Finché non precisiamo che cosa si intende per “significato”, non si può dire né sì né no. Tuttavia si può dire che i due enunciati “Un filosofo corre” ed “Esiste qualcosa (o qualcuno) che è un filosofo e corre” sono in tutti i casi o entrambi veri o entrambi falsi. Hanno cioè le stesse condizioni di verità. Questo per noi è sufficiente: quando diremo che due enunciati hanno lo stesso significato, intenderemo dire che hanno le stesse condizioni di verità. Ma la tesi per cui il significato si esaurisce nelle condizioni di verità è una tesi filosofica sostanziale, che si deve a Frege e a Wittgenstein.
I seguenti enunciati hanno tutti lo stesso significato:
a. Un filosofo corre
b. Esiste qualcosa (o qualcuno) che è filosofo e corre
c. Esiste almeno un x, tale che x è filosofo e x corre
d. ∃x (Filosofo(x) e Corre(x))
(d) è scritto nel linguaggio della logica e si pronuncia come (c).
Consideriamo ora le espressioni come “il filosofo avvelenato con la cicuta”, “l’attuale re di Francia”, “il figlio di Adamo ed Eva” e così via. L’unica differenza tra queste espressioni e quelle come “un filosofo”, è l’articolo determinativo al posto di quello indeterminativo. Si potrebbe pensare di classificarli per questo insieme ai nomi propri, perché dopo tutto esiste un individuo a cui “il filosofo avvelenato con la cicuta” (ad esempio) dovrebbe riferirsi: Socrate, appunto. Ma è sufficiente considerare “l’attuale re di Francia” e “il figlio di Adamo ed Eva” per renderci conto che è meglio non farlo: oggi la Francia è una repubblica e non esiste nessun re di Francia, e Adamo e Eva hanno avuto molti figli, non uno solo. Nelle inferenze come (1)-(3) queste espressioni non si comportano in generale come i nomi propri. Classifichiamo dunque queste espressioni, che si chiamano descrizioni definite, insieme alle descrizioni indefinite come “un filosofo”, “un re di Francia” e così via.
I seguenti enunciati hanno tutti lo stesso significato:
e. L’attuale re di Francia è calvo
f. Esiste esattamente un x, tale che x è attuale_re_di_Francia e x è calvo
g. ∃!x (Attuale_re_di_Francia(x) e Calvo(x))
h. ∃x (Attuale_re_di_Francia (x) e ∀ y (se Attuale_re_di_Francia (y) allora y=x) e Calvo(x))
i. Esiste almeno un x, tale che x è attuale re di Francia e per ogni y, se y è attuale re di Francia allora y è x, e x è calvo
(g) e (h) sono scritti nel linguaggio della logica. Poiché il loro significato è lo stesso di (e) e poiché sono più chiari e mettono in evidenza la differenza tra la forma logica di (e) e quella di “Socrate corre”, diciamo che essi sono una analisi logica e filosofica di (e).
Hanno lo stesso significato anche (p) e (q):
p. L’attuale re di Francia esiste
q. ∃x (Attuale_re_di_Francia(x) e ∀y (se Attuale_re_di_Francia(y) allora y=x)).
Perché tutto ciò è filosoficamente, e non solo logicamente, interessante? Sembrava che i due enunciati “Socrate corre” e “Il filosofo avvelenato con la cicuta corre” parlassero entrambi di Socrate e di lui dicessero che corre. Ma ora vediamo che esistono due analisi molto diverse e il primo enunciato ne richiede una, mentre il secondo enunciato richiede l’altra. Il primo parla di un individuo e dice che questo individuo corre. Il secondo è invece un enunciato generale, il quale dice che una certa proprietà – quella di essere filosofo avvelenato dalla cicuta – è esemplificata da un unico individuo, che corre.
Il problema del non-essere
Il problema del non-essere è stato formulato chiaramente da Parmenide nel V secolo a.C. e da allora ha sempre sfidato i filosofi. Il problema consiste nel capire come si possa sensatamente predicare qualcosa di ciò che non esiste, ovvero come possa aver senso (ed essere o vero o falso) un enunciato che sembra attribuire una proprietà a qualcosa che non esiste – Pegaso, l’attuale re di Francia, il nulla e così via. Gli enunciati di questo tipo non mancano. Ne abbiamo già incontrati un certo numero e possiamo aggiungere che alcuni di essi, come “Pegaso non esiste” e “L’attuale re di Francia non esiste”, sono veri.
Qualche filosofo – come Alexius Meinong – ha cercato di risolvere il problema dicendo che, contrariamente alle apparenze, anche i termini come “Pegaso” e “l’attuale re di Francia”, che possono occorrere come soggetto o come complemento in un enunciato (e anche nell’enunciato subordinato di una attribuzione di intenzionalità: ad esempio in “Pierino desidera cavalcare Pegaso” e in “Una certa ragazza pensa che l’attuale re di Francia sia un buon partito”), si riferiscono a qualcosa che ha un tipo speciale di esistenza. Pegaso e l’attuale re di Francia non sarebbero oggetti materiali, ma esisterebbero in qualche mondo di forme o entità astratte o costrutti culturali.
Russell ha dimostrato che esiste una soluzione migliore, almeno per quanto riguarda le descrizioni definite: dobbiamo solo renderci conto che anche se le descrizioni definite si comportano per certi versi come termini singolari e possono occorrere come soggetti di un enunciato, in realtà non sono termini singolari come “Socrate” e “Platone”. Una volta che l’enunciato sia stato analizzato e riscritto in modo da evidenziare la sua forma logica, quei presunti termini singolari spariscono. Al posto di “l’attuale re di Francia”, troviamo il predicato “essere attuale re di Francia” e un quantificatore (così si chiama “∃”). Il problema di trovare un riferimento (che non c’è) per quei presunti termini non si pone neppure. Il problema si è dissolto.
La teoria di Russell delle descrizioni definite con la sua dissoluzione del problema del non-essere è stata chiamata – da Frank Ramsey, e tutti i filosofi analitici concordano – “un paradigma per la filosofia”. Essa contiene tutte le principali idee che formano il nucleo della filosofia analitica. Un problema millenario è stato dissolto attraverso l’analisi logica del linguaggio. L’obiettivo dell’analisi è di far emergere la struttura logica profonda degli enunciati di un linguaggio naturale come l’italiano, oppure (in una prospettiva un po’ diversa) di sostituire semplicemente quegli enunciati con altri che appartengono al linguaggio formale della logica moderna, molto più potente e completa di quella aristotelica (Russell, che come Frege non aveva una grande opinione del linguaggio naturale, propendeva per la seconda prospettiva. Altri filosofi analitici avranno un atteggiamento più rispettoso). L’analisi non ha messo capo a un sapere specificamente filosofico, paragonabile a quello del fisico o dello storico: ha invece mostrato che un problema filosofico era dovuto solo a una incomprensione del nostro stesso linguaggio. Wittgenstein ne ha concluso che l’analisi è una sorta di terapia. Ovviamente lo stile degli argomenti deve molto all’esempio dei logici matematici e del loro modo di argomentare.
Dopo Russel
Il saggio di Russell del 1905 suscitò la speranza che altri tradizionali problemi filosofici – forse tutti – potessero essere risolti o dissolti nello stesso modo. Per questo da allora i filosofi analitici hanno approfondito l’analisi del linguaggio lungo le linee tracciate da Russell (che ovviamente riconosceva i suoi debiti nei confronti di Frege). Nella filosofia del linguaggio e nella teoria del significato, Wittgenstein è stato forse il più creativo, ma sono importanti anche i contributi di Rudolf Carnap, Willard Quine, Hilary Putnam, Saul Kripke, David Kaplan, Richard Montague, Donald Davidson, Dummett. Sull’epistemologia vanno menzionati almeno i filosofi del Circolo di Vienna e in particolare Carnap e Quine; sui problemi ontologici sono classici i contributi di Quine e David Lewis (1941-2001); sulla filosofia della matematica Carnap, Quine e Dummett. Ma in ciascuno di questi settori, come pure nella filosofia delle diverse discipline scientifiche, nell’estetica e nella filosofia della mente sono innumerevoli i ricercatori che hanno dato contributi significativi. Sempre di più la ricerca filosofica è divenuta un’impresa collettiva, i cui partecipanti si tengono in stretto contatto tra loro e beneficiano di costanti scambi di idee. Dai lavori di Russell e soprattutto dal suo metodo hanno tratto insegnamento tutti i settori della filosofia analitica – anche quelli che non fanno dell’analisi del linguaggio né l’oggetto principale di indagine né uno strumento di chiarificazione. C’è quindi un senso in cui si può dire che anche i filosofi analitici morali, quelli della politica, gli epistemologi delle scienze particolari, i filosofi della religione, dell’estetica e così via sono debitori di Russell e del suo saggio del 1905. Questo non toglie che nei contenuti non esista probabilmente nessun nucleo di tesi che sia comune a tutti i filosofi analitici. Anche un compito semplicissimo, come quello di proseguire nello stesso modo la serie di questi numeri: 2, 4, 6, 8, 10, ammette un’infinità di esecuzioni diverse (Wittgenstein ne trae conseguenze sorprendenti). Non c’è da stupirsi se, dopo un certo numero di anni, i filosofi che riconoscono la grandezza di quel saggio di Russell (e degli altri testi classici suoi, di Frege e di Wittgenstein) presentano ormai ben poche somiglianze tra loro.
Per dare un’idea del modo in cui si è sviluppata la filosofia analitica dopo Russell, presentiamo ora le critiche a cui è stata sottoposta la sua teoria dei nomi e delle descrizioni definite a partire dagli anni Sessanta del Novecento. Dopo aver nettamente distinto la forma logica dei nomi da quella delle descrizioni definite, Russell aveva (sorprendentemente) ristretto l’ambito dei primi. I “veri” nomi propri sono per Russell solo quelli di cui non si possa dubitare che hanno un riferimento, con il quale abbiamo un rapporto di conoscenza diretta (acquaintance). Il pronome “io” è il prototipo di tali nomi. Quelli invece che sono comunemente detti “nomi propri”, come “Giulio Cesare” e “Bismarck”, possono, ma non devono, fare riferimento a un individuo ed è comunque sempre possibile chiedersi se tale individuo sia mai esistito. In questo, tali nomi si comportano esattamente come le descrizioni definite. Sappiamo quale sia la forma logica di un enunciato come “L’attuale re di Francia non esiste”. Ma qual è quella di “Giulio Cesare non esiste”? Se fosse Non Esiste(x), allora il problema del non essere si ripresenterebbe tale e quale. Russell ne conclude in primo luogo che l’esistenza non è un predicato, proprio come aveva già sostenuto Kant, e in secondo luogo che il nome “Giulio Cesare” non è un vero nome, bensì una descrizione camuffata o abbreviata – ad esempio “l’uomo politico e generale romano che sottomise la Gallia e fu pugnalato da Bruto”. In generale, un nome “N” abbrevia la descrizione che forniremmo a chi ci chiedesse “Chi è N?”. In precedenza, Frege aveva sostenuto che ogni nome proprio deve possedere, oltre a un riferimento, anche un senso (Sinn), che è il modo in cui il nome “presenta” il suo riferimento. Poiché appunto il senso di un nome può essere espresso da una descrizione definita, Frege e Russell si trovano a convergere, sia pure per ragioni molto diverse, su questo punto: i nomi propri si riferiscono al loro riferimento (se esiste) in quanto tale riferimento possiede la proprietà contenuta nella descrizione che al nome è associata (o in quanto esprime il senso del nome, come vuole Frege, o in quanto il nome la abbrevia). Ad esempio, il nome “Giulio Cesare” si riferisce a una certa persona e non a un’altra, perché solo la prima è l’uomo politico e generale romano che sottomise la Gallia e fu pugnalato da Bruto. In altre parole, per Frege e per Russell, i nomi hanno un contenuto descrittivo che spiega il loro riferirsi a un oggetto (se esiste qualcosa cui si riferiscono).
Non si pensi che questa discussione sui nomi sia una questione di dettaglio, che riguarda solo il comportamento di una trascurabile categoria grammaticale. Si tratta invece di capire quale sia la natura della relazione di riferimento, che è la relazione fondamentale che intercorre tra le parole e le cose – il linguaggio e il mondo. Il rapporto tra i nomi propri e i loro portatori è il prototipo di tale relazione. Frege e Russell pensano che i nomi si riferiscano alle cose in quanto hanno un contenuto descrittivo, palese o nascosto: un nome si riferisce a quell’unica cosa che è descritta correttamente dal nome.
Dopo il 1960, un ristretto gruppo di filosofi – Saul Kripke, Hillary Putnam, David Kaplan e Keith Donnellan – ha attaccato questa tesi descrittivista con vari argomenti. In primo luogo, ci sono nomi cui non sappiamo associare nessuna descrizione definita. La maggior parte dei parlanti può usare con tutta competenza il nome “Cicerone”, ma alla domanda “Chi era Cicerone?” risponderebbe tutt’al più “Un oratore romano”, che è una descrizione che non identifica un unico individuo. A volte invece sappiamo associare a un nome una descrizione definita, ma non la descrizione “giusta”. Molti, ad esempio, alla domanda “Chi era Einstein?” risponderebbero “L’inventore della bomba atomica”. Ciononostante, quando usano il nome “Einstein” costoro si riferiscono a Einstein e non a Robert Oppenheimer e agli scienziati del suo gruppo, a cui va la paternità della bomba. In secondo luogo, anche se il riferimento di un nome fosse determinato da una descrizione definita, il comportamento del nome e quello della descrizione definita rimarrebbero molto diversi, soprattutto negli enunciati modali, che dicono come le cose potrebbero essere o sono necessariamente. Non si può quindi dire né che un nome abbrevi una descrizione né che questa dia il senso del nome. Questi argomenti e altri ancora si sono dimostrati molto convincenti contro il descrittivismo.
L’immagine generale dei nomi e di molte altre espressioni che ne emerge è molto diversa da quella di Frege e Russell. Può darsi che tali espressioni abbiano un contenuto descrittivo, ma esso non svolge nessun ruolo nel fissare il loro riferimento. Quelle espressioni si riferiscono invece direttamente, senza la mediazione di un senso o di una descrizione e quindi non perché descrivano correttamente qualcosa, ma solo perché sono state originariamente collegate al loro riferimento, ad esempio da un atto di battesimo. In seguito esse si diffondono nella comunità linguistica, anche tra quei parlanti che non si sono mai trovati in un rapporto di acquaintance con il loro riferimento. Si pensi alla diffusione di un testo o di un’immagine che si può fotocopiare (eventualmente con deformazioni, fino a renderla irriconoscibile) senza che essi perdano il rapporto con la loro origine storica.
Anche il trattamento di Russell delle descrizioni definite è stato messo in discussione e continua ancora oggi a suscitare controversie. Certo, esistono usi delle descrizioni per cui l’analisi di Russell sembra adeguata. Ma il linguaggio naturale presenta una varietà di forme e di usi per i quali i fondatori della filosofia analitica avevano scarsa sensibilità e rispetto. Spesso usiamo una descrizione non tanto per parlare dell’individuo, qualunque sia, che risponde alla descrizione, quanto per parlare di uno che abbiamo in mente e su cui vogliamo attrarre l’attenzione degli interlocutori. La descrizione assolve il suo compito anche se in realtà l’individuo che abbiamo in mente non ne è descritto correttamente: possiamo ugualmente riuscire a dire qualcosa di vero di quel particolare individuo. Ad esempio, come ha osservato Donnellan, assistendo a un processo contro qualcuno che è imputato dell’assassinio di un certo Smith, un parlante può dire “L’assassino di Smith si comporta in modo strano”. Anche se il processo accertasse che l’imputato è innocente e non è quindi l’assassino di Smith, il parlante sarebbe riuscito a dire qualcosa di vero della persona che ha in mente e la comunicazione avrebbe successo, purché l’ascoltatore capisca di chi si parla. Secondo l’analisi di Russell, invece, il proferimento dovrebbe riguardare colui che è correttamente descritto dalla descrizione usata, e cioè il vero assassino di Smith, il quale probabilmente non si sta affatto comportando in modo strano. Questi usi delle descrizioni si dicono referenziali e Russell non ne rende conto adeguatamente. Quali sono gli usi più fondamentali? Quelli referenziali o quelli, molto diversi, su cui si è concentrato Russell e che si dicono attributivi?
Anche in questo caso è in gioco molto di più della semantica di una ristretta categoria di espressioni. Si tratta di sapere se il contenuto di un proferimento linguistico e la sua comprensione dipendano in primo luogo dal significato letterale delle espressioni usate, che è fissato dalle convenzioni linguistiche anteriori agli usi individuali, o se invece dipendano essenzialmente da quello che i parlanti hanno in mente e che riescono a far venire in mente ai loro ascoltatori. In un caso la comprensione di un particolare proferimento si dovrebbe basare interamente sui significati attribuiti alle espressioni dalla comunità linguistica (in qualche modo, che non è qui in discussione); nell’altro si dovrebbe considerare in primo luogo quello che verosimilmente il parlante ha in mente. Anche nella seconda prospettiva il significato letterale e convenzionale delle espressioni usate dal parlante è importante, ma serve soprattutto come evidenza del suo stato psicologico: perché ha usato quelle particolari espressioni? Che cosa aveva in mente? Sono queste le domande che si deve porre l’ascoltatore, poiché è quello che ha in mente il parlante che determina il contenuto del suo proferimento. Questa contrapposizione tra due modi diversi di intendere il contenuto di un proferimento linguistico – uno che privilegia la dimensione sociale del linguaggio, l’altro quella individuale – è oggi al centro del dibattito nella filosofia del linguaggio.
La filosofia del linguaggio, invece, che con Frege e Russell è stata al centro di tutta la filosofia nella prospettiva analitica, non lo è più. Dummett ha cercato di caratterizzare la filosofia analitica attribuendole tre tesi principali, la cui paternità risale a Frege: in primo luogo, la filosofia si occuperebbe soprattutto di studiare il pensiero; in secondo luogo, il pensiero dovrebbe essere distinto dal processo psicologico individuale del pensare e dovrebbe intendersi invece come il suo contenuto, che può essere comune agli stati mentali di molti individui; in terzo luogo, il pensiero dovrebbe essere studiato laddove si manifesta e cioè nel linguaggio, la cui analisi costituisce il principale e più sicuro strumento della filosofia. Di fatto, queste tre tesi non sono più condivise dalla totalità dei filosofi analitici (se mai lo sono state) e probabilmente neppure da una maggioranza. Oggi la filosofia analitica non si lascia più caratterizzare in base ai contenuti: l’intersezione delle tesi comuni a tutti i suoi rappresentanti è verosimilmente vuota. Esiste invece una comunità intellettuale analitica, ben definita dagli scambi intellettuali vivaci e molto professionali che la percorrono e dal rispetto di uno standard di rigore e di chiarezza insolitamente alto nella storia della filosofia. Questo standard è stato fissato dal saggio del 1905 di Russell e dai lavori dei filosofi citati.