cinese, filosofia
Verso la fine del 19° sec., per rendere il termine filosofia si adottò in Cina l’espressione zhexue, mutuata dalla lingua giapponese; espressione che letteralmente significa «conoscenza per diventare una persona saggia» e che, nella prospettiva confuciana, va intesa come la capacità del saggio di trattare questioni che ineriscono alla condizione umana. In tal senso, la filosofia è un conoscere, un sapere pratico, non teoretico o speculativo: se però si volesse ritrovare in Cina quella stessa tensione a costruire imponenti sistemi di pensiero, tipica della tradizione dell’Occidente, l’idea di una filosofia c. risulterebbe non solo problematica, ma assai inadeguata, giacché in Cina si trattò di tutt’altra esperienza, non riducibile o assimilabile a pensieri e sistemi già noti. Così, l’idea di una ‘storia della filosofia c. è un evidente prestito linguistico dall’Occidente, essendo di fatto problematico, se non impossibile, scriverne o trattarne nel senso ricorrente o più familiare. Ciononostante, la necessità, avvertita nel corso del 20° sec., di scrivere comunque una storia del pensiero o della filosofia c. non si originò in Cina, ma giunse, come altro, dall’Occidente; si ricorse così a concetti e dottrine filosofiche occidentali per interpretare il senso dei classici c. e quindi il pensiero delle scuole. Infatti, quegli eruditi e filosofi cinesi che scrissero di storia della filosofia potevano vantare anche una solida conoscenza della filosofia occidentale, spesso maturata all’estero e considerata essenziale strumento analitico. I tre più autorevoli es. di tale tendenza sono Hu Shi (1891-1962), Feng Youlan (➔) e Lao Sze-kwang (propr. Lao Siguang, n. 1927).
La riflessione cosmologica. Sebbene in alcune mitiche rappresentazioni cinesi del mondo si possano rintracciare elementi germinali della successiva riflessione filosofico-cosmologica, fu solo nella primissima percezione dell’Universo che i Cinesi fissarono un sistema ordinato di corrispondenze, armoniche e necessarie, fra corpo umano, corpo politico e corpi celesti o, più in generale, fra entità naturali, Terra e Cielo. È una corrispondenza che investe il tutto, dal piccolo al grande, spesso rappresentata in numeri, in parti articolate di un tutto, in specie, ecc.; essa ricorre nei testi classici della tradizione c., dove viene non di rado riferita anche a momenti ordinari della vita umana e continuamente richiamata per orientare, quasi fosse un imperativo, l’azione dell’uomo, specie quella del sovrano: «Chi governa – disse Confucio – tramite l’eccellenza morale può essere paragonato alla stella polare, fissa al suo posto e tutte le stelle attorno che le rendono omaggio» (Lunyu; trad. it. Dialoghi, II, 1). Inoltre, la corrispondenza fra uomo ed elementi dell’ordine naturale fu tema di ampia trattazione in alcune opere di epoca Han (secc. 3° a.C. - 3° d.C.), come per es., per menzionarne solo due, nello Huainanzi (➔) («Libro del maestro di Huainan») e nel Chunqiu fanlu («Rugiada lussureggiante degli Annali delle Primavere e Autunni»), attribuito a Dong Zhongshu (➔). Impressiona, infatti, la dettagliata corrispondenza, sviluppata nello Huainanzi, fra le quattro stagioni, le cinque fasi, le nove sezioni e i 366 giorni del cielo, da una parte, e i quattro arti, i cinque organi, i nove orifizi e le 366 giunture del corpo umano, dall’altra. È proprio questa profonda corrispondenza tra cosmo e uomo che spinse Dong Zhongshu a considerare l’uomo come l’essere superiore per an- tonomasia. Non solo l’uomo in sé e per sé è un microcosmo, ma ogni forma ordinata del suo agire reca la stessa disposizione, manifesta la stessa natura. Così, lo Stato in genere, forma di vita regolata e organizzata dell’uomo, e in partic. lo Stato e l’amministrazione imperiali, sono essi stessi microcosmo e quindi in diretta corrispondenza con il cosmo. Anche questa concezione ebbe antecedenti in epoca Shang (secc. 18°-11° a.C.), ma raggiunse la piena formulazione solo durante la dinastia Han, proprio per legittimarne il sistema e le funzioni amministrative. Uffici e funzioni trovarono una corrispondenza con le cinque direzioni dello spazio, come si legge nello Huainanzi, e più in generale con la struttura dello spazio e del tempo cosmici. Un’ulteriore estensione di tale corrispondenza, che offriva modelli fissi di relazione, fu quella che correlava i territori della Terra con quelli celesti e poi anche con le unità dell’amministrazione celeste. E in effetti, a partire dalla dinastia Ming (1368-1644), quasi ogni città o unità amministrativa ebbe la sua divinità protettrice, le cui funzioni nell’amministrazione celeste corrispondevano esattamente a quelle svolte dal magistrato terrestre. È dunque evidente che in questo cosmo tutte le parti sono, senza alcuna prescrizione e in modo del tutto naturale, disposte alla mutua reazione, permanendo in uno stato di spontaneità e di immediata simpatia. E nell’armonia musicale i Cinesi trovavano la dimostrazione empirica più convincente del profondo registro cosmico. Non stupisce, pertanto, né che alcune serie di numeri (cinque, otto e dodici) ricorrenti nelle dottrine cosmologiche in parte rinviino a simili serie numeriche proprie della musica (cinque note, otto voci, ecc.), né che esse siano state pure applicate ad altri ambiti, come la meteorologia e la medicina e l’arte del buon governo; sicché ogni entità o fenomeno dell’ordine naturale reagisce con favore o avversità al modo in cui essa viene esercitata. Analogamente, il carattere cinese qi (➔) fu usato anche per indicare la sostanza primordiale del cosmo, che forma i corpi solidi, aggregandosi, e quelli leggerissimi, disgregandosi. Il qi può anche differenziarsi e divenire yin, yang o una delle «cinque fasi» (wu xing), agevolando così ovunque legami e mutue azioni, perché esso può essere sia il fondamento materiale di un’azione sia l’azione stessa. Ogni processo si sviluppa secondo un movimento attivo (yang) e latente (yin) di fasi, come appare nel lento ma costante susseguirsi delle stagioni dell’anno. Finanche nella condizione di massima potenza di yang si preserva il germoglio di yin, e viceversa. Così, per es., un vecchio uomo può essere yang rispetto a una donna, ma al contempo yin, in relazione a un giovane uomo. Una dualità, quella di yin-yang, che presto fu assunta come principio di classificazione, e applicata tanto alla filosofia quanto alle relazioni sociali, alla medicina, e altro ancora. Tuttavia, essa servì soprattutto per rappresentare e spiegare la dinamicità di taluni processi ricorrenti: il succedersi delle stagioni, il ciclo naturale della vita dell’uomo, l’ascesa e il declino delle dinastie. Il cambiamento nel mondo e del mondo è un complesso di mutamenti, meglio inteso e descritto in dettaglio come «cinque fasi». Fasi che sono un processo di vicendevole produzione: il legno (mu) produce il fuoco (huo), il fuoco la terra (tu), la terra il metallo (jin), il metallo l’acqua (shui), l’acqua il legno, ecc. L’identificazione, inoltre, di ogni fase, non è tanto con l’elemento naturale materialmente dato, o con la sua sostanza, quanto piuttosto con una sua qualità o con un certo suo genere di azione o attività. Questa filosofia o pensiero della corrispondenza ha fornito per secoli idee e concetti essenziali allo sviluppo di alcuni saperi, anche proto scientifici, come l’astronomia, la medicina, la divinazione, l’alchimia, la geomanzia, ecc. La dottrina c. dell’alchimia, per es., fu generalmente basata su idee di corrispondenza fra macrocosmo e microcosmo, sicché i praticanti erano soliti considerare le materie, gli attrezzi, e persino le singole operazioni, come l’espressione vivida e percepibile del microcosmo, dove ogni entità, ogni mutamento e quindi ogni reazione era per l’appunto simile al lavoro o ai processi quotidiani della natura.
L’analisi della natura umana. L’interesse cinese per la natura umana derivò dalla necessità di comprendere l’intima costituzione dell’uomo, sia per meglio orientarne la condotta etico-politica nel mondo, sia per specificarne il ruolo e la funzione nell’ordine dell’Universo. Il termine c. xing, spesso tradotto con «natura», deriva da sheng (che significa «vita; nascere; far nascere; produrre»); il termine ren equivale invece a «essere umano» (o «esseri umani»), donde l’uso di riferirsi alla «natura umana» con l’espressione renxing o, più semplicemente, xing. La natura umana può essere intesa in senso biologico, come fa Yang Zhu (➔) nel 4° sec. a.C., quando parla di «mantenere integra la propria vita» (quan sheng) o «la propria natura» (quan xing), riferendosi alla sanità e alla longevità umana. Analogamente, Gaozi, contemporaneo di Mencio (➔), sembra riferirsi a xing tenendo in considerazione solo sheng, ossia ciò che forse dà vita agli esseri umani; per lui la natura umana è preservata nell’individuo grazie all’istinto di nutrirsi, e nel tempo grazie all’innata tendenza a riprodursi. Nel Guanzi (➔), opera il cui nucleo principale si formò intorno al 250 a.C., sheng è l’attività corporea dell’uomo, vale a dire la vita sensitiva ed emotiva. Ma la natura umana può anche essere intesa in senso più limitato, con riferimento ai soli desideri dell’uomo. Così, nel 5° sec. a.C. Mozi (➔), nel trattare la basilare costituzione umana, spesso si sofferma solo su alcuni desideri, quelli della vita, del benessere materiale e degli onori. Ricevuta la vita in dono dal Cielo, gli uomini nel loro stato naturale sono mossi esclusivamente dai propri desideri, senza curarsi né dei propri simili né dei membri della propria famiglia. Un uso simile si riscontra, nel 4°-3° sec. a.C., in Xunzi (➔), che però sembra a volte riconoscere all’uomo, considerato nello stato naturale, una benevola disposizione per gli esseri della sua stessa specie. Nelle inclinazioni etiche condivise da tutti gli uomini si può anche vedere la peculiarità della natura umana; così Mencio argomenta sottilmente sulla rettitudine, il senso di giustizia (yi) che il cuore (xin) umano ha in sé, anteponendo ciò all’istinto di nutrirsi e di riprodursi, invece rimarcato da Gaozi. In tal modo, egli avversa qualsiasi idea di beneficio, di vantaggio (li), in quanto effetto dell’impulso egoistico, sia nel senso di Yang Zhu, ossia di ciò che è utile alla sola conservazione della propria vita o natura, sia nel senso di Mozi, ossia di ciò che è legittimo solo dopo aver beneficato gli altri. Anche Mencio considera la natura umana come una condizione, uno stato bisognevole di essere costantemente coltivato e quindi sviluppato. In alcuni testi, inoltre, per es. nello Zhuangzi (➔), opera taoista del 3°-2° sec. a.C., la natura umana, pur non recando alcuna particolare connotazione o specificità, rivela una disposizione dell’uomo, ossia la sua spontaneità. A ogni circostanza, o evento, o fatto, l’uomo deve reagire spontaneamente, sebbene dottrine o principi etici non manchino di esercitare la loro influenza. Il cuore vuoto (xu), privo di qualsiasi preconcetto, sarà allora come lo specchio terso o l’acqua che riflette ogni cosa senza la minima distorsione. Così l’uomo può restaurare il proprio originario stato naturale. Da Mencio trae ovviamente origine l’idea di natura umana professata dai confuciani di epoca Song-Ming (secc. 10°-17° d.C.), come Zhu Xi (➔) e Wang Yangming (➔), che pensano al cuore come alla fonte di inclinazioni e disposizioni etiche; se però nella dottrina di Mencio le inclinazioni dovevano essere continuamente coltivate per svilupparsi in principi etici, questi confuciani considerano tali principi come già attivi nel cuore umano. Allora, l’agire dell’uomo deve tendere a restaurare l’originario stato del cuore, affinché tanto i principi etici quanto il suo comportamento in genere possano manifestarsi con naturalezza e senza impedimento alcuno. Varie altre e più eclettiche concezioni della natura umana si ebbero nel corso dei secoli. Vi fu, per es., quella di alcuni filosofi di epoca Han che, ben consapevoli delle dottrine di Mencio e Xunzi, asserirono, rispettivamente, l’originaria bontà e malvagità della natura umana. Dong Zhongshu crede che nella natura dell’uomo vi siano semi sia di bontà sia di malvagità e che l’uomo, come il Cielo che opera per mezzo di yang e yin, subordinando questo a quello, deve pertanto sottomettere il male al bene. Yang Xiong (attivo tra i secc. 1° a.C. - 1° d.C.) stima la natura umana come una mistura di bontà e malvagità; e Wang Chong, nel 1° sec. d.C., conclude che la diversità degli uomini esprime una diversità di natura e che la differente idea di natura umana di Mencio, Xunzi e Yang Xiong rivela proprio la varietà della specie umana. E di vari gradi di natura umana parlano anche altri pensatori confuciani d’epoca Tang (secc. 7°-10°) e Song (secc. 10°-13°). D’altra parte, ogni concezione della natura umana è più o meno intimamente connessa con la percezione dell’Universo. Mencio considera tian (il «Cielo») come un’entità suprema, che in origine donò all’uomo una peculiare natura, già eticamente predisposta ed orientata. Così l’uomo null’altro deve compiere se non seguire quell’orientamento, segno visibile della volontà celeste: l’uomo serve il Cielo, manifestando una fedeltà in tutto e per tutto naturale. Inoltre, tian, quale fonte superna di ogni ricchezza e regolarità dell’ordine naturale, affida all’uomo, secondo Xunzi, la continuazione e l’ultimazione della sua opera creatrice e vivificatrice. Un’opera che investe anche la vita sociale dell’uomo, giacché le norme che ne ordinano e regolano la condotta sono in verità anch’esse un completamento umano dell’opera celeste. Sia Cheng Yi (➔) sia Zhu Xi, confuciani di epoca Song, intendono a loro volta la natura umana muovendo proprio dalla metafisica del li («principio») e del qi («energia vitale» o «energia materiale»). Infatti, la natura dell’uomo è buona in quanto natura morale ed è tale per la sola azione del li, ma come mescolanza di li e qi può essere tanto buona che cattiva, giacché l’azione del qi può differenziarsi qualitativamente da uomo a uomo.
La dottrina della conoscenza. Il termine c. xin può essere tradotto con «mente» o «cuore»: è la guida dell’uomo, nel senso che guida la sua azione. Essendo nel mondo, xin riceve dal mondo sollecitazioni e orienta così l’azione dell’uomo, proprio muovendo da quelle sollecitazioni. Gli organi sensoriali operano nel mondo e, distinguendo, offrono a xin un mondo distinto: dolce e amaro, bianco o nero, o rosso, ecc. Ciò che importa è che il soggetto, l’uomo, sia nel mondo e non nella mente e che la facoltà dei sensi o di xin sia la capacità di discriminare o discernere una cosa da un’altra, l’essere umano da un altro essere, il bene dal male. In definitiva, xin esiste nel mondo e agisce in esso con la peculiare disposizione a distinguere, a dividere appropriatamente le realtà del mondo e così a guidare l’azione dell’uomo. In Cina, come nella stessa filosofia c., vi è sempre stato un profondo senso della realtà del mondo, che ha portato quasi a rifuggire, nel corso dei secoli, dall’inclinazione allo scetticismo; anche quando si sono sollevati dubbi sulla realtà della conoscenza, non si è mai giunti a rifiutarne in toto la validità, se non per la necessità di esprimere e affermare gradi di conoscenza più elevati. Mai, inoltre, si è intesa la dottrina della conoscenza come separata, distinta da quella della realtà e da un certo più comune pragmatismo. Anzi, la conoscenza è parte della stessa realtà e dunque la sua dottrina non è nient’altro che una parte della dottrina della realtà. Si è così affermata un’idea di conoscenza significativamente olistica, in cui pure l’investigazione del particolare non si riduce mai alla conoscenza del particolare in sé, ma serve, al pari dell’intera attività conoscitiva, a rivelare il complesso sistema di relazioni, fittamente tessute, dell’Universo. Pertanto, non è solo conoscenza di cose, fatti, processi, ecc. della natura, ma similmente di valori, virtù e soprattutto della realtà ultima. Né mai la dottrina della conoscenza è stata direttamente o esclusivamente legata allo sviluppo della scienza e della tecnica, né considerata una modalità per giustificare l’attuale scienza, o una delle sue espressioni. È noto che la Cina sviluppò nel tempo una straordinaria scienza empirica e tecniche spesso prodigiose, che però non ebbero mai effetti dirompenti sulla dottrina o sulla filosofia della conoscenza, come invece fu dato constatare in Occidente; e ciò anche perché tale filosofia è solo una parte, e di certo non la più importante, del complesso filosofare cinese. Non avendo postulato procedure sistematiche, né un metodo universale per conoscere, la filosofia c. ha riconosciuto una varietà dei modi di verificare la conoscenza empirica delle cose e di classificare ciò che da essa si ricava. Nell’Yijing (➔) e in alcuni commentari (zhuan) a questo testo classico – che già verso la fine della dinastia dei Zhou occidentali (secc. 11° - 8° a.C.), o nel periodo della dinastia dei Zhou orientali (8° - 3° a.C.), raggiunse una forma assai simile a quella poi accolta – si trova la prima formulazione della dottrina o filosofia c. della conoscenza, fondata su una completa esperienza e osservazione della realtà, sia essa l’Universo o il piccolo mondo dell’uomo. Tale conoscenza fa sì che l’uomo agisca correttamente e che soprattutto decida conformemente a essa. Conoscere significa osservare ogni cosa nella sua interezza ed è un’attività espressa dal termine c. guan, ventesimo esagramma dell’Yijing: si tratta di un’osservazione che vede le cose come sono in natura (grandi e piccole, lontane e vicine, ecc.) e in partic. le loro reciproche relazioni nel sistema totale della realtà. È attraverso i sensi che la vera natura delle cose si rivela all’uomo; la conoscenza delle «diecimila cose» (wanwu) matura proprio dall’osservazione delle molteplici loro peculiarità. Le modalità di osservazione sono molte, e tutte possibili, giacché la mente è naturalmente in uno stato di «grande pura illuminazione» (da qingming). La mente è in origine dotata di un potere conoscitivo, tanto da ordinare e organizzare l’esperienza sensibile in conoscenza delle cose, donde idee, concetti e nomi delle cose stesse. Che la conoscenza del mondo sia quella giusta, è accertato dalla correttezza delle azioni dell’uomo. In virtù di ciò, qualsivoglia conoscenza può essere rettificata, muovendo dagli effetti di azioni non rette. Ma la correttezza della conoscenza è verificata anche dal fatto che a manifestarsi e a farsi conoscere sono le cose stesse, grazie soprattutto a una naturale interazione fra esse e la mente e il corpo dell’uomo. Il termine c. xian, trentunesimo esagramma dell’Yijing, esprime questa condizione di vicendevole azione, di interazione, di conoscenza reciproca. L’osservazione completa delle cose e la naturale e spontanea interazione con esse sono per l’uomo fonte di riflessione e quindi di conoscenza della propria natura e della propria mente. Si tratta di una conoscenza diretta e di esperienza più profonda delle cose e della natura, che non si limita alla semplice esperienza sensoriale. Realtà ed essere sono inseparabili, necessariamente interrelati, tanto che mai la conoscenza è innalzata a pura astrazione. Dall’epoca di Confucio (➔) il mondo della realtà è concepito come formato da Cielo, Terra, esseri umani, molteplicità delle cose: tutti conoscibili in base ai loro mutamenti e alle loro naturali interazioni. Tutti gli esseri recano in potenza il mutamento e tale mutamento reca a sua volta un’intrinseca regolarità. Ebbene, l’uomo può giungere a comprendere tale divenire, può interagire attivamente nel mondo della realtà, e quindi della società umana, e contribuire al suo mantenimento e alla sua armonia. In tale contesto, Confucio approfondisce il tema della conoscenza: conoscere gli altri (zhiren), conoscere il mandato del Cielo (zhi tianming), ecc. Si tratta di un conoscere che interessa sia le cose nella loro concretezza – e quindi persone, norme sociali e regole di condotta – sia la natura profonda e le ragioni d’essere della vita e della realtà. L’uomo può allora conoscere, avere diretta esperienza, agire rettamente per la perfezione della propria natura e per l’armonia del mondo. Osservare e investigare la natura delle cose, e soprattutto gli affari umani e gli effetti prodotti sul piano politico-sociale, è per l’uomo un’esperienza sia morale sia storica. Infatti, ciò che l’uomo osserva, investiga e quindi conosce non è qualcosa di astratto, di indipendente, di avulso dalla realtà, ma sono cose, esseri umani, fatti storici, eventi del mondo correlati e interagenti con l’uomo medesimo. Se l’originaria bontà della natura dell’uomo discende dal Cielo, ossia è un suo dono, come Mencio professa, l’uomo deve allora dedicarsi alla coltivazione e sviluppo di tale dono, vivendo eticamente. Conoscere significa dunque investigare e riflettere sulla natura umana, al fine di rivelarne l’intima e potenziale disposizione morale. L’uomo conosce così anche il Cielo, vera e unica fonte della propria natura morale. Ed è questa, in definitiva, la più profonda conoscenza della realtà. La mente, la natura e il corpo dell’uomo sono, secondo Mencio, manifestazioni del qi («energia vitale»), sebbene distinte; come, d’altra parte, qi è l’energia che crea e anima tutto ciò che esiste fra Cielo e Terra ed è la natura vitale e morale dell’ultima realtà. Si comprende, allora, perché la natura e la mente dell’uomo siano pieni di qi, e perché la disposizione morale inerisca alla natura umana. Vi è, dunque, un’intima comunanza fra la mente dell’uomo e la natura del Cielo, tanto che il suo essere e quello dell’Universo sono quasi scambiabili. Questa è la vera armonia, la vera unità fra uomo e Cielo e pertanto fra gli uomini medesimi, esperita attraverso la conoscenza e l’identificazione con il Cielo. In un’altra prospettiva, Xunzi considera il Cielo come una realtà governata da una propria regolarità e da proprie leggi, che agisce indipendentemente dalla volontà e dalle intenzioni umane; sicché il saggio non deve conoscere il Cielo, ma rivelare la sua regolarità e i principi più profondi, soprattutto per conservare e sostenere l’attività e lo sviluppo dell’uomo e della società. Ciò implica una conoscenza del succedersi delle stagioni e dell’azione delle forze naturali yin e yang. Non c’è dunque alcun legame tra l’agire umano e il Cielo, semmai si avverte una radicale separazione. La mente dell’uomo, secondo Xunzi, è capace di osservare ed esperire le cose del mondo e, al tempo stesso, di usare le loro specificità per ordinare e fissare le regole di una lingua, sempre al fine di imprimere un vantaggioso sviluppo della vita politico-sociale. Ciò emerge molto bene dalla sua dottrina della «rettificazione dei nomi» (zhengming) e della «rimozione dell’obnubilamento» (jie bi). La mente umana conosce le cose e stabilisce i concetti, le idee, sia per descriverle sia per identificarle. Questo processo non è arbitrario o aprioristico, ma deriva dalla stessa esperienza umana delle cose nel mondo e dall’abilità, sempre umana, di organizzare, classificare e ordinare tale esperienza. La scelta, poi, dei nomi è un atto convenzionale, necessario per identificare, significare e indicare le cose del mondo. Ciononostante, esso non preclude la conoscenza all’uomo, sebbene il nominare, l’uso della lingua e il conoscere accadano nello stesso momento. L’esortazione di Xunzi alla rimozione di ogni offuscamento dalla mente rivela quanto importante sia conoscere la verità nella sua interezza. Spesso, a suo dire, l’uomo è dominato da una sola idea, o da un pensiero univoco, e smarrisce così la totalità e l’ampiezza della verità. Conoscere tutta la verità non equivale dunque alla formulazione di una dottrina, ma alla rimozione dalla mente di ogni parzialità di vedute, dottrine, o idee. Infine, hanno certamente contribuito a definire la dottrina o filosofia della conoscenza, come si è sviluppata nella tradizione del confucianesimo classico, anche il Daxue (➔) («Il grande studio») e lo Zhongyong (➔) («Il giusto mezzo»), due capitoli del Liji («Libro dei riti»), uno dei testi canonici. Infatti, il Daxue si limita a rimarcare laconicamente quanto la perfezione della propria natura dipenda dall’investigazione delle cose, e pertanto dall’accrescimento della conoscenza, mentre lo Zhongyong, a sua volta, indica semplicemente all’uomo la via che porta dalla percezione della realtà e dal sentimento di sincerità (cheng) fino alla realtà ultima, dal momento che la sincerità è la natura del vero, della realtà, e quindi la via del Cielo che si manifesta nella natura del saggio, come inclinazione al bene e come intenzione morale.