Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il problema della possibilità di una forma di federalismo europeo viene definitivamente posta al centro del dibattito della Resistenza, durante la prima metà degli anni Quaranta del secolo scorso, con la composizione del Manifesto di Ventotene. Il breve trattato, scritto dai tre confinati antifascisti Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, non rappresenta però soltanto un progetto teso a evitare il ripetersi di catastrofi come i due conflitti mondiali; esso cerca di sviluppare anche una originale argomentazione volta a rimettere in questione alcune fondamentali categorie interpretative del pensiero filosofico-politico tradizionale.
La tradizione dell’europeismo federalista e il Manifesto di Ventotene
La meditazione filosofico-politica novecentesca sulla possibilità di una federazione europea come occasione per pacificare le tensioni fra i diversi stati trova il punto di svolta nella stesura del Manifesto di Ventotene. Esso viene elaborato nei primi anni Quaranta durante il confino sull’isola tirrenica dai militanti antifascisti Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni. Il nucleo centrale del Manifesto, il cui titolo è Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto, risale al 1941 e ha una prima diffusione clandestina in forma ciclostilata; l’edizione definitiva, quella cioè riconosciuta come tale da Spinelli, è tuttavia del 1944, ed esce per la cura di Colorni in un volume intitolato Problemi della federazione europea, con un’importante Prefazione dello stesso Colorni e due ulteriori scritti spinelliani (Gli Stati Uniti d’Europa e le varie tendenze politiche e Politica marxista e politica federalista).
In un discorso del 1973 per il trentesimo anniversario della fondazione del Movimento federalista europeo (Il federalismo nel dibattito politico e culturale della Resistenza), Norberto Bobbio individua nel Manifesto l’espressione del passaggio da un’idea di “pacifismo passivo” a una forma di vero e proprio “pacifismo attivo”. Il primo tipo di pacifismo è caratterizzato da una visione, al fondo illuministica ed evoluzionistica, di un più o meno spontaneo progresso dell’umanità verso sempre migliori forme di società. Il “pacifismo attivo”, significativamente sorto in concomitanza con la catastrofe delle due guerre mondiali e con il tragico collasso del sistema statuale europeo, sostituisce all’ottimismo dei Lumi e all’idea romantica di una possibile fratellanza fra i popoli, una prospettiva dialettica e militante della storia, ossia una concezione volta ad analizzare il travagliato cammino delle nazioni per incidere attivamente sul loro andamento.
Muovendo dal concetto hobbesiano di bellum omnium contra omnes (guerra di tutti contro tutti), si può dire che Kant imposti filosoficamente quello che sarebbe poi divenuto uno dei punti di partenza teorici anche del Manifesto. Secondo il concetto di Hobbes, lo stato originario dell’uomo, vale a dire lo stato nel quale egli si trova in natura, implica una lotta potenzialmente mortale di ciascun individuo per la supremazia sull’altro e la conseguente necessità d’istituire un patto di legalità che vincoli e protegga i singoli all’interno di una entità statale superiore. Allo stesso modo, per Kant, “I popoli, in quanto Stati, possono essere considerati come singoli individui che, vivendo nello stato di natura (cioè nell’indipendenza da leggi esterne), si ledono a vicenda già per il solo fatto della loro vicinanza e ognuno dei quali, per la propria sicurezza, può e deve esigere dall’altro di entrare con lui in una costituzione analoga alla civile, nella quale può venire garantito ad ognuno il proprio diritto. Questa sarebbe una federazione di popoli” (Immanuel Kant, Per la pace perpetua, introduzione di Norberto Bobbio, a cura di N. Merker, Roma 1985).
Quasi venti anni dopo il testo kantiano, il filosofo Claude-Henri de Saint-Simon e lo storico Augustin Thierry pubblicano un libretto sulla Riorganizzazione della società Europea (1814). In esso è approfondito quel modello d’una società sovranazionale destinato a ripresentarsi, in forme diverse e con differenti sfumature e finalità, nell’azione e nelle riflessioni di quanti si sarebbero occupati dell’argomento. Per gli italiani, vale la pena di ricordare almeno i nomi di Giuseppe Mazzini e della sua Giovine Europa, e di Carlo Cattaneo, il quale ultimo è senz’altro un importante punto di riferimento per gli estensori del Manifesto.
È tuttavia nella prima metà del secolo scorso, con la novità rappresentata dalla radicale mondializzazione dei conflitti, che il tema di una unità europea e, più in generale, di una società universale dei popoli, diviene un elemento di stringente attualità nel dibattito filosofico-culturale del continente, anche se solo per una élite di intellettuali e uomini politici. Nel 1929, il Ministro degli esteri francese Aristide Briand, già premio Nobel per la pace, avanza, durante un celebre discorso dalla tribuna della Società delle Nazioni, l’idea di una federazione europea; il conte di origini austriache Richard Coudenhove-Kalergi (1894-1972) fonda, nei primi anni Venti, l’Unione paneuropea, un movimento di orientamento sostanzialmente conservatore. In Italia, Carlo Rosselli, animatore del gruppo Giustizia e Libertà – nel quale militarono sia Ernesto Rossi, sia un giovanissimo Eugenio Colorni –, suggerisce fin dagli anni Trenta una sua personale proposta europeistica. È però soprattutto la lettura dei federalisti inglesi e di alcuni articoli di Luigi Einaudi che ispira l’elaborazione delle idee presenti nel Manifesto di Ventotene.
Il Manifesto di Ventotene: protagonisti, idee e novità
È lo stesso Spinelli a riconoscere esplicitamente il debito verso gli articoli che Einaudi aveva pubblicato nel 1918 sul “Corriere della sera” e che i confinati possono studiare attentamente, raccolti in volume, nel 1939; tali articoli, dedicati “alla critica dell’idea della Società delle nazioni” e alla “difesa dell’idea di un federalismo europeo” (Sonia Schmidt, Intervista con Altiero Spinelli, in Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Il Manifesto di Ventotene, con un saggio di Norberto Bobbio, Napoli, 1982), sono un’occasione per tematizzare e al contempo cercare di chiarire il senso di taluni aspetti della grande crisi del mondo occidentale: “È ormai dimostrata”, sarà così esplicitamente affermato nel secondo capitolo del Manifesto, “l’inutilità, anzi la dannosità di organismi sul tipo della Società delle Nazioni, che pretendeva di garantire un diritto internazionale senza una forza militare capace di imporre le sue decisioni, e rispettando la sovranità assoluta degli stati partecipanti. Assurdo è risultato il principio del non intervento […], quasi che la costituzione interna di ogni singolo stato non costituisse un interesse vitale per tutti gli altri stati europei” (Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Il Manifesto di Ventotene, cit.).
Su richiesta di Ernesto Rossi, è poi di nuovo Einaudi a procurare ai confinati “saggi vari di federalisti inglesi” (Sonia Schmidt, Intervista con Altiero Spinelli, cit.) fra cui, in particolare, The economic causes of war dell’economista Lionel Robbins (1898-1984), testo che, insieme con altri scritti dello stesso autore, confluisce nella riflessione politica sottesa al Manifesto.
Di personalità e formazione diverse, Colorni, Rossi e Spinelli si incontrano al confino nel 1939. Spinelli era stato arrestato nel 1927 e dieci anni dopo, nel 1937, era stato inviato prima a Ponza e poi a Ventotene, maturando il suo distacco dal comunismo; Rossi era stato trasferito al confino sull’isola dopo essere stato a sua volta nelle prigioni fasciste per quasi due lustri; Colorni, di formazione prettamente filosofica, studioso di Croce e di Leibniz, si stava ormai indirizzando, fra i primi in Italia, allo studio dell’epistemologia, della psicoanalisi e della metodologia scientifica; socialista, di famiglia ebraica, era stato arrestato a Trieste per la sua infaticabile e intransigente attività antifascista nel 1938, in concomitanza con la durissima campagna antisemita suscitata dall’entrata in vigore delle leggi razziali. I Dialoghi di Commodo, scritti talvolta a più mani ma attribuibili in gran parte a Colorni, testimoniano delle discussioni condotte sull’isola dai tre sodali e da altri, pochi, amici, fra i quali occorre ricordare i nomi di Ursula Hirschmann (1913-1991) e di Manlio Rossi-Doria (1905-1988). Di argomento per lo più filosofico, essi spaziano fra i soggetti intellettuali e culturali più disparati, dalla critica allo storicismo crociano – che ha senza dubbio rappresentato un ingombrante quanto essenziale punto di riferimento per ogni forma di pensiero antifascista –, alla teoria della relatività; dal significato dell’impegno politico, ai fondamenti teorici della scienza economica (con espliciti riferimenti a Lionel Robbins), al significato, infine, da attribuirsi alla eventualità della morte da parte di un uomo d’azione e di pensiero. Quale che sia il tema o l’autore delle singole parti dei dialoghi, da tutti traspare comunque quella critica corrosiva degli abiti mentali correnti che giova a comprendere anche lo spirito di novità del Manifesto.
Per un’Europa libera e unita muove dall’analisi della “crisi della civiltà moderna” e dell’involuzione nazionalistica dei valori che pure hanno positivamente sostenuto la formazione dello stato moderno. Tale analisi è però e soprattutto l’occasione per proporre una soluzione quanto più originale possibile della situazione istituzionale coeva: “Preparandosi a combattere con efficienza la grande battaglia che si profilava per il prossimo avvenire”, è scritto nella Prefazione colorniana del ’44, “si sentiva il bisogno non semplicemente di correggere gli errori del passato, ma di rienunciare i termini dei problemi politici con mente sgombra da preconcetti dottrinari o da miti di partito”. La premessa dell’argomentazione dei tre confinati è fornita da quello stato di guerra di tutti gli stati contro gli altri stati che, come si è visto, già Kant aveva chiaramente enunciato. Tramutatasi però la moderna guerra contro il nemico esterno in una gigantesca, drammatica guerra civile, coinvolgente senza regole la semplice popolazione al pari degli eserciti professionisti, la soluzione è cercata in una radicale inversione della prospettiva concettuale: “Fu così”, spiega ancora Colorni, “che si fece strada, nella mente di alcuni, l’idea centrale che la contraddizione essenziale, responsabile delle crisi, delle guerre, delle miserie e degli sfruttamenti che travagliano la nostra società, è l’esistenza di stati sovrani, geograficamente, economicamente, militarmente individuati, consideranti gli altri stati come concorrenti e potenzialmente nemici”.
Messo in questione il principio della sovranità nazionale assoluta, seguono due conclusioni fondamentali. In primo luogo l’esigenza di definire un nuovo modello di politica progressista, non più legato alle scelte conservatrici o meno dei singoli partiti, ma dipanantesi “lungo la sostanziale nuovissima linea che separa quelli che concepiscono come fine essenziale della lotta […] la conquista del potere politico nazionale […] e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale”. In secondo luogo, e proprio al fine di porre al centro della riflessione e della pratica politica il problema dell’ordine internazionale piuttosto che il motivo dell’assetto interno ai singoli stati, la necessità di “gettare le fondamenta di un movimento che sappia mobilitare tutte le forze […] per costituire un saldo stato federale, il quale disponga di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali; spezzi decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari; abbia gli organi e i mezzi sufficienti per far eseguire nei singoli stati federali le sue deliberazioni dirette a mantenere un ordine comune, pur lasciando agli stati stessi l’autonomia che consenta una plastica articolazione e lo sviluppo di una vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli”.
Non tutti gli assunti formulati nel Manifesto sono risultati effettivamente adeguati alla comprensione e al perseguimento degli obiettivi indicati. Gli stessi autori hanno quasi subito avvertito l’esigenza di riprecisarne variamente i contenuti, e alla riunione clandestina che nell’agosto del 1943 segna a Milano la nascita del Movimento federalista europeo, il libretto non costituisce la base unica e primaria per stabilire i termini dell’attività federalista.
Il Manifesto, d’altra parte, risente ampiamente del clima e della situazione storica della sua elaborazione. Spinelli, Rossi e Colorni cercano di gettare una qualche luce su di uno scenario i cui contorni sono, in quei giorni, per forza di cose agitati e confusi: non solo non può essere concretamente previsto l’equilibrio dei futuri assetti europei, ma appare del tutto impossibile anche soltanto inquadrare il ruolo che in essi avrebbero svolto l’intervento degli Stati Uniti d’America e i rapporti di forza con il regime sovietico. Il difficile e travagliato processo d’integrazione europea avrebbe così fatto leva, volta per volta, su altre, diverse e più complesse condizioni. Pur nei limiti connessi con le modalità della sua stessa genesi, tuttavia, è indubbio che il Manifesto abbia contribuito a interpretare con inedita finezza i problemi della lotta contro ogni forma degenerazione totalitaristica della vita associata; proponendo schemi interpretativi e orizzonti d’intervento estranei alla consueta prospettiva nazionale, inoltre, esso ha saputo rivedere le tradizionali categorie del pensiero politico, imponendosi da ultimo come un riconosciuto elemento cardine nel dibattito sulla fondazione di una compiuta unità europea.