Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il Novecento è caratterizzato dall’ingresso delle masse sulla scena della storia. Nel campo della filosofia politica, si avverte l’esigenza di maturare nuove categorie per comprendere e spiegare modalità finora sconosciute di dominio politico e di mobilitazione su larga scala. La categoria del “totalitarismo” è, in tal senso, tra le più significative. Un tentativo di chiarire la natura del nuovo “Stato totale” è quello formulato dal decisionismo di Carl Schmitt in senso antiliberale e autoritario. Una classica formulazione del concetto di “totalitarismo” si deve alla studiosa Hannah Arendt, che lo definisce come un regime caratterizzato dalla presenza di un partito unico di massa, dalla penetrazione onnicomprensiva del terrore tramite la polizia segreta e dalla legittimazione del potere fornita dalla ideologia. La fine del Novecento è caratterizzata dal riaffermarsi delle dottrine liberali (a lungo marginalizzate nel secolo delle ideologie) e dal riemergere della riflessione sulla giustizia (sollecitata in primo luogo dalla pubblicazione del libro di John Rawls, Una teoria della giustizia, 1971).
Il secolo delle masse
Carl Schmitt
Amico e nemico
La specifica distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici è la distinzione di amico e nemico. Essa offre una definizione concettuale, cioè un criterio, non una definizione esaustiva o una spiegazione del contenuto. Nella misura in cui non è derivabile da altri criteri essa corrisponde, per la politica, ai criteri relativamente autonomi delle altre contrapposizioni: buono e cattivo per la morale, bello e brutto per l’estetica e così via. In ogni caso essa è autonoma non nel senso che costituisce un nuovo settore concreto particolare, ma nel senso che non è fondata né su una né su alcune delle altre antitesi né è riconducibile ad esse. [...] Non v’è bisogno che il nemico politico sia moralmente cattivo, o esteticamente brutto; egli non deve necessariamente presentarsi come concorrente economico e forse può anche apparire vantaggioso concludere affari con lui. Egli è semplicemente l’altro, lo straniero e basta alla sua essenza che egli sia esistenzialmente, in un senso particolarmente intensivo, qualcosa d’altro e di straniero, per modo che, nel caso estremo, siano possibili con lui conflitti che non possono venir decisi né attraverso un sistema di norme prestabilite né mediante l’intervento di un terzo “disimpegnato” e perciò “imparziale”.
C. Schmitt, Le categorie del “politico”, a cura di G. Miglio e P. Schiera , Bologna, Il Mulino, 1984
Hannah Arendt
La banalità del male
Ma il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici, questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica -come già fu detto e ripetuto a Norimberga dagli imputati e dai loro patroni - che questo nuovo tipo di criminale, realmente hostis generis umani, commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male.
H. Arendt, La banalità del male, Milano, Feltrinelli, 1964
Lo scrittore Ernst Jünger, nel suo saggio La mobilitazione totale (1930), descrive in termini efficaci un cambiamento epocale che segna la storia del Novecento: la sempre maggiore incidenza delle masse nella vita politica e sociale. La Grande Guerra, spiega Jünger, ha avuto un impatto psicologico generalizzato fino ad allora mai sperimentato. Essa si è rivelata una guerra popolare, non solo per avere implicato l’arruolamento di intere generazioni, ma anche per aver comportato la massima sollecitazione delle economie e delle industrie dei paesi partecipanti. Un coinvolgimento analogo delle masse si verifica anche in tempo di pace: la “mobilitazione totale” è tipica dell’età delle macchine e delle metropoli in cui l’attività dell’uomo si presenta come un processo lavorativo gigantesco e capillarmente diffuso. Jünger poteva concludere: “È uno spettacolo grandioso e terribile vedere i movimenti delle masse sempre più omologate su cui lo spirito del mondo getta la sua rete”. L’ingresso delle masse sulla scena della storia comporta radicali cambiamenti nei costumi, nella morale, nell’immagine che l’uomo ha di sé, nelle forme di comunicazione, nelle manifestazioni artistiche e culturali, nell’economia (dove produzione e consumo industriali si razionalizzano e si pianificano) e, inevitabilmente, anche nella politica: da un lato, i nuovi soggetti premono per un riconoscimento che le vecchie istituzioni non possono garantire; dall’altro, si strutturano modalità finora sconosciute di dominio politico e di mobilitazione su larga scala, capaci di reggere, contenere e indirizzare le spinte delle formazioni collettive.
Per interpretare questi cambiamenti, la filosofia politica deve far ricorso a categorie capaci di comprendere i nuovi fenomeni. La categoria del totalitarismo è, in tal senso, tra le più significative. Come spiega il dizionario Treccani, il totalitarismo è “una forma politica caratterizzata da assenza di strutture e controlli parlamentari, dalla presenza di un partito unico, dalla soppressione delle garanzie di libertà e pluralismo proprie dello Stato di diritto”. Si indica con questo termine una forma di potere politico capace di penetrare in profondità nella società di massa attraverso il controllo dei mezzi di comunicazione e di determinare i comportamenti di uomini che perdono in questo modo qualsiasi qualità e prerogativa personale, divenendo semplici entità omologate e intercambiabili tra loro, condizionate non solo nei compiti che devono svolgere ma anche nei bisogni che devono soddisfare.
Va rimarcato come di questa categoria si sia spesso abusato; soprattutto, l’impulso a volere raccogliere i fenomeni politici del Novecento in un unico concetto ha fatto sì che sotto questa etichetta abbiano trovato posto manifestazioni assai differenti tra loro. Caratterizzare come totalitari il regime nazista e quelli di stampo comunista insieme permette certo di cogliere alcuni aspetti strutturali comuni, ma rischia anche di far perdere di vista profonde distinzioni ideologiche e storiche. Va precisato inoltre che i teorici politici non si sono accordati sull’estensione da dare a questo concetto: se si è generalmente inclini a non considerare totalitari i regimi autoritari di stampo classico come il franchismo in Spagna o le dittature militari sudamericane, non ci si trova spesso d’accordo nel riconoscere o meno come tali il fascismo italiano o il comunismo cinese.
Il decisionismo di Carl Schmitt
Un nuovo e originale tentativo di definizione delle categorie politiche che tenga conto dei profondi cambiamenti di inizio secolo è quello di Carl Schmitt. Il nome di questo filosofo del diritto risulta tra i più discussi della storia della filosofia novecentesca a causa della sua compromissione con il nazionalsocialismo. È oggetto di dibattito se le sue tesi politiche, maturate precedentemente all’ascesa di Hitler, siano effettivamente da considerare alla stregua di una ideologia del nazismo. Le teorie di Schmitt risultano assai suggestive ed efficaci per la loro essenzialità e per i loro presupposti fondamentalmente drammatici. La dottrina politica di Schmitt è comunemente indicata con il termine decisionismo. Il fondamento di ciò che ha valore giuridico sta nella volontà del sovrano. La decisione in quanto tale crea il diritto: “auctoritas, non veritas facit legem”, dice Schmitt citando Hobbes (I tre tipi di pensiero giuridico, 1934). La decisione finale del sovrano crea il diritto, che dunque si dimostra slegato da qualsiasi vincolo: non è tenuto a essere dipendente da norme di bontà e giustizia o da valori tradizionali. Convinto che “tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati” (Teologia politica, 1922), Schmitt indica alcune dottrine teologiche come esempio delle sue teorie: come in taluni concetti “assolutistici” di Dio una cosa è giusta non perché risponde a un modello o a un valore, ma semplicemente perché Dio la comanda, così anche la validità giuridica riposa solo sulla volontà del sovrano.
Su questi presupposti – che implicano, secondo Schmitt, che nel mondo contemporaneo Stato e società non rappresentino più sfere distinte come in passato – Schmitt tenta una definizione dell’essenza di “politico”. Il Novecento presenta come fenomeno peculiare lo Stato totale in cui “tutto è politico, almeno virtualmente” (Il concetto di “politico”, 1927). La specifica distinzione che caratterizza ciò che è politico è quella tra amico e nemico: “Il fenomeno del ‘politico’ può essere compreso solo mediante il riferimento alla possibilità reale del raggruppamento amico-nemico”. Nella sfera pubblica, l’altro è lo straniero; il conflitto è caratterizzato da una intensità tutta particolare e può, almeno potenzialmente, spingersi fino alla guerra, essendo impossibile in linea di principio che esso venga risolto grazie al giudizio di un terzo soggetto imparziale o un sistema prestabilito di norme: “nel concetto di nemico rientra l’eventualità, in termini reali, di una lotta”. Dunque, secondo questo autore, “la guerra non è lo scopo e meta o anche solo il contenuto della politica, ma ne è il presupposto, sempre presente come possibilità reale”. Là dove vi è politica, dove vi sono raggruppamenti di uomini, è inevitabile che venga a stabilirsi la “distinzione fatale”. Le teorie di Schmitt sembrano riportare la riflessione sulla politica a un grado zero, facendo piazza pulita di qualsiasi presupposto che il sovrano debba rispettare e ponendo le basi perché tutto possa, in linea di principio, rientrare nella dimensione politica.
Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt
Una classica delineazione del concetto di totalitarismo si deve ad Hannah Arendt, una teorica della politica di formazione filosofica, ebrea nata in Germania e fuggita negli Stati Uniti per sottrarsi alle persecuzioni naziste. Allieva degli esistenzialisti Karl Jaspers e Martin Heidegger, a differenza di quest’ultimo la Arendt esercitò il proprio pensiero non nell’indagine delle vertiginose profondità dell’essere, ma nel tentativo di comprendere i caratteri essenziali degli accadimenti del proprio secolo. Nel suo libro più noto, Le origini del totalitarismo (1951), la Arendt parte dal presupposto che una rottura è sopravvenuta nel mondo contemporaneo: l’inizio del Novecento ha portato strutturali cambiamenti nella morale, nella politica, nei costumi, cambiamenti che avrebbero conosciuto l’apice negli anni Trenta e Quaranta del secolo, con il “totale collasso dell’‘ordine’ morale” (Responsabilità e giudizio). Questa cesura drastica rispetto al passato rende inutilizzabili le tradizionali categorie della filosofia politica per comprendere i fenomeni politici della contemporaneità. Nel suo aspetto più originale, gli atti del totalitarismo costituiscono “una rottura con l’insieme delle nostre tradizioni; essi hanno mandato chiaramente in frantumi le nostre categorie politiche e i nostri criteri di giudizio morali”. Fenomeni radicalmente nuovi andavano spiegati con categorie altrettanto nuove.
Sarebbe dunque erroneo e fuorviante considerare i regimi totalitari del XX secolo (la Arendt si riferisce al nazismo e al comunismo staliniano) come forme di dittatura o di autoritarismo analoghe a quelle dei secoli passati. La presenza di un partito unico di massa al cui vertice è posta la volontà del capo fa cadere la tradizionale distinzione tra Stato e società, e consente la penetrazione onnicomprensiva di terrore (diffuso attraverso il capillare controllo delegato alla polizia segreta) e ideologia (forma superiore di legittimazione del potere totalitario derivante dalla “pretesa di conoscere i misteri dell’intero processo storico – i segreti del passato, l’intrico del presente, le incertezze del futuro – in virtù della logica inerente alla sua idea”). La riduzione degli uomini ad automi obbedienti e intercambiabili comporta il loro isolamento reciproco, la perdita della dimensione nobilmente e genuinamente politica. In gioco, chiarirà ulteriormente la Arendt nel successivo libro Vita activa (1958), vi è “la sola attività che metta in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali”, attività che “corrisponde alla condizione umana della pluralità, al fatto che gli uomini, e non l’Uomo, vivono sulla terra e abitano il mondo”. Il totalitarismo mette in atto la soppressione del lato più elevato, autonomo, libero e veramente umano dell’agire, quello che riguarda la dimensione interpersonale; cancellata la sfera politica, gli uomini si riducono a “illimitate ripetizioni riproducibili dello stesso modello”. Di qui lo sforzo della Arendt di ridefinire le categorie morali, la nozione di “male” e il concetto di responsabilità personale nell’epoca delle masse: esemplare di questa preoccupazione della Arendt è il concetto di “banalità del male”, spesso frainteso, con il quale la filosofa si preoccupa di mostrare come, nel Novecento, delle azioni mostruose possano essere state compiute da persone apparentemente normali – banali, appunto – non mosse da odio o perversità, ma semmai dalla passiva e macchinale accettazione ed esecuzione di ordini.
Libertà e giustizia
Nel corso del Novecento, la tradizione liberale si trova stretta nella morsa delle ideologie, sottoposta a serrate critiche provenienti sia dagli studiosi conservatori, sia dalle posizioni ideologiche marxistiche. Dalla critica alla visione liberale fatta da Schmitt prende per esempio le mosse il filosofo Leo Strauss, formatosi in un ambiente ebraico ortodosso e poi emigrato negli Stati Uniti con l’avvento del nazismo. Secondo Strauss, il liberalismo moderno è l’esito di un processo di decadenza e di svuotamento di contenuti politici. La difesa della sfera privata è dettata da paura e si sviluppa solo in un contesto relativistico, non essendo volta al perseguimento di valori comuni e unificanti. Da parte marxista, il rimprovero più ricorrente mosso al liberalismo è quello di essere un semplice riflesso ideologico del capitalismo, e dunque una teoria che di fatto giustifica lo sfruttamento del proletariato da parte delle classi economicamente egemoni. Più raffinate sono le osservazioni riconducibili agli esponenti della Scuola di Francoforte, secondo i quali il liberalismo è una forma di dominio borghese destinata a sfociare in totalitarismo. Secondo Herbert Marcuse, per esempio, le stesse società industriali di massa capitalistiche e consumistiche (gli Stati Uniti in primo luogo) presentano aspetti totalitari. “Il termine ‘totalitario’, infatti, non si applica soltanto ad una organizzazione politica terroristica della società, ma anche ad una organizzazione politico-tecnica, non terroristica, che opera mediante la manipolazione dei bisogni da parte di interessi costituiti” (L’uomo a una dimensione, 1964). Si verifica anche in questo caso il completo assoggettamento degli uomini alle logiche del consumo e di una produzione fine a se stessa, nonché la manipolazione dei loro bisogni attraverso i condizionamenti che vengono dai mezzi di comunicazione sempre più potenti.
Con la fine del Novecento, la caduta della contrapposizione tra blocco occidentale e blocco comunista comporta la crisi delle dottrine politiche di matrice marxista, riaffermando per contro la vitalità del liberalismo. Tornano in voga le teorie di autori che già nel corso del secolo si erano fatti critici, da un punto di vista liberale, dei totalitarismi sia di destra che di sinistra. L’epistemologo Karl Raymund Popper pubblica nel 1945 la sua opera politica più nota, La società aperta e i suoi nemici. La filosofia della scienza di Popper sostiene un razionalismo critico e metodologico che si distacca dal razionalismo dogmatico della tradizione positivista: le ipotesi scientifiche – spiega Popper – hanno una validità soltanto provvisoria e possono sempre essere contraddette, e dunque controllate, dai fatti che possono falsificarle. Così, in politica, la libertà degli individui all’interno della società aperta deve essere garantita rigettando le pretese di pianificazione razionale e di conoscenza delle leggi che reggono la storia. Argomentazioni analoghe si ritrovano nell’opera dello studioso israeliano Jacob Talmon (1916-1980), che ha contrapposto la “democrazia totalitaria” alla “democrazia liberale”. La prima denominazione è riservata da Talmon a quelle forme di messianismo politico (originatesi nel corso del Settecento) che postulano “un insieme di cose preordinato, armonioso e perfetto, verso il quale gli uomini sono irrimediabilmente spinti e al quale devono necessariamente giungere”; in nome di questo fine assoluto e unicamente valido, che ci si sente autorizzati ad imporre anche con la forza, viene sacrificata la libertà individuale. Vicino alle tesi di Popper, l’economista Friedrich August Von Hayek assume senza condizioni i presupposti del liberalismo e conduce una lotta teorica serrata contro le ingerenze dello Stato nella vita degli individui. Avversario acerrimo di ogni forma di pianificazione e centralizzazione in economia (dai piani quinquennali sovietici fino al welfare state), le sue proposte teoriche sono sistematicamente indirizzate a moderare e ostacolare il potere statale e a difendere la libertà individuale, l’iniziativa del singolo e la proprietà privata. Lo Stato non deve intervenire se non nelle funzioni di “guardiano notturno”, per proteggere la vita e i beni dei cittadini, lasciando che la società e il mercato si strutturino spontaneamente in virtù della libera iniziativa dei singoli.
Se negli autori appena ricordati il criterio con cui valutare la bontà di un ordinamento politico è dato dal rispetto della libertà individuale, nel caso di John Rawls a questo criterio viene accostato quello della giustizia. Una teoria della giustizia (1971) è appunto il titolo dell’opera più celebre di questo autore, che – anche a giudizio dei suoi critici – ha il merito di rivitalizzare il dibattito di fine secolo. L’obiettivo auspicato da Rawls è la realizzazione della maggior equità sociale possibile: “La giustizia è la prima virtù delle istituzioni sociali, così come la verità lo è dei sistemi di pensiero”. Rawls tiene conto del tipico presupposto liberale, secondo il quale a ciascun individuo deve essere riconosciuta la più estesa libertà possibile, compatibilmente con una equivalente libertà negli altri individui. Oltre a ciò, la realizzazione dello Stato giusto implica che vi sia un intervento che possa riequilibrare le disparità che inevitabilmente vengono a generarsi. Per fare ciò, Rawls si rifà – attualizzandola e generalizzandola – alla classica teoria del contratto sociale, collocando gli individui in una condizione precedente alla società, a partire dalla quale decidere i criteri di giustizia che reggeranno la stessa. Essendo l’individuo, in questa “posizione originaria”, ignaro di quella che sarà la sua posizione sociale, sarà portato, secondo Rawls, a scegliere le soluzioni più eque. I critici di Rawls hanno imputato alle sue teorie una eccessiva astrattezza. Robert Nozick, per esempio, da una posizione libertaria, rimprovera a Rawls di non aver tenuto in debito conto come la ripartizione giusta dei beni non sia possibile senza considerare i reali, storici comportamenti degli individui nel processo produttivo.