Filosofia della pratica
La Filosofia della pratica. Economica ed etica (d’ora in poi Filosofia della pratica) uscì, per Laterza, nel 1909; ed ebbe, nel corso della vita dell’autore, sei edizioni, di cui l’ultima, del 1950, recava solo lievi revisioni stilistiche, «piccoli ritocchi di parole e correzione di qualche svista tipografica» (Filosofia della pratica, 1996, p. 7). Fin dalla prima edizione, l’opera si presentava come il terzo dei quattro volumi che verranno a comporre la Filosofia dello spirito, preceduta dalla pubblicazione, presso Sandron, dell’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale del 1902, e, negli «Atti dell’Accademia pontaniana» di Napoli, dei Lineamenti di una logica come scienza del concetto puro (d’ora in poi Lineamenti) del 1905: due opere che, pensate prima dello studio della filosofia di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, condotto tra il 1906 e il 1907, troveranno svolgimenti di rilievo con la terza edizione dell’Estetica, apparsa nel 1908, che presentava il completo rifacimento dei capitoli decimo e dodicesimo, e con la Logica come scienza del concetto puro (d’ora in poi Logica), pubblicata anch’essa nel 1909.
D’altronde, il concetto centrale della Filosofia della pratica, quello dell’utile o economico, era stato individuato da Croce già intorno al 1898, grazie agli studi giovanili su Karl Marx, che presto s’intrecciarono con le lezioni di altri suoi classici, come Niccolò Machiavelli e Francesco De Sanctis. Chiusa la stagione degli studi marxisti, e consacrandosi alle ricerche di estetica e, in generale, di filosofia, fin dal novembre 1898 poteva comunicare a Giovanni Gentile, nell’ambito di una vivace discussione sul contenuto dell’arte, la conseguita distinzione tra il teoretico e il pratico; e quindi, nel settembre 1899, la prima descrizione dell’articolazione dell’intera filosofia dello spirito: «Ho potuto fare curiosissimi e fecondi raffronti tra l’estetica e la logica; tra i rapporti che legano la prima con la seconda, e quelli che legano l’economica con l’etica» (B. Croce, G. Gentile, Carteggio, 1° vol., 1896-1900, a cura di C. Cassani, C. Castellani, 2014, p. 286). Con la prima delle due lettere che, nel maggio del 1900, indirizzò a Vilfredo Pareto, Sul principio economico, la scoperta dell’utile era ormai compiuta: «Il fatto economico è l’attività pratica dell’uomo in quanto si consideri per sé, indipendentemente da ogni determinazione morale o immorale» (Materialismo storico ed economia marxistica, 2001, p. 231).
La composizione della Filosofia della pratica, che si protrasse dal 10 giugno 1907 al 18 aprile 1908, può essere seguita, giorno per giorno, nel resoconto dei Taccuini di lavoro. L’elaborazione del libro fu il risultato di letture vaste, che spaziarono tra autori antichi e moderni, e di una giustificata inquietudine. Tra il 9 e l’11 ottobre 1907, Croce aveva concluso la traccia provvisoria dei primi otto capitoli: «È un lavoro intenso», scriveva il 9, «piacevole e tormentoso, nel quale sento talvolta che la vita fiammeggia, brucia e si strugge» (Taccuini di lavoro, 1° vol., 1906-1916, 1987, p. 72); e due giorni dopo dichiarava di avere terminato l’intera traccia dell’opera, descrivendone la suddivisione in capitoli, che sarà poi, almeno in parte, corretta nel lavoro di stesura. Un lavoro a cui si sovrapposero altre scritture, in particolare la faticosa revisione dell’Estetica per la terza edizione, avviata il 24 novembre 1907. Solo il 1° febbraio 1908 la stesura fu dunque effettivamente iniziata e venne portata a termine – tra molte difficoltà e dubbi – nell’aprile successivo. Soprattutto con la decisione, assunta il 17 aprile 1908, quando il libro era pressoché ultimato, di aggiungervi «un nuovo capitolo, da inserire alla fine della parte I della Filosofia della pratica, come brevissima sezione III»: si trattava di quella sezione su “L’unità del teoretico e del pratico” che, con la metafora geometrica del circolo, inseriva un chiarimento fondamentale per intendere la struttura dell’intera opera.
Fin dalla prima pagina della Filosofia della pratica, riaffermando la premessa sistematica dell’intera filosofia dello spirito, Croce stabiliva il principio della distinzione tra attività pratica e attività teoretica, e dunque l’indipendenza della volizione dalla forma logica del concetto puro: principio che escludeva che tra le due sfere, pratica e teoretica, potesse stabilirsi un rapporto di opposizione dialettica, con la conseguente posizione di un’Aufhebung, di un superamento, come un terzo concetto ulteriore e risolutivo rispetto alle loro rispettive peculiarità. Tale distinzione non poteva tuttavia essere provata con la semplice descrizione psicologica, limitandosi a osservare, nello spettacolo della vita, l’esistenza fisica di uomini consacrati al pensiero o all’azione: la prova doveva essere speculativa, appoggiandosi esclusivamente al «metodo filosofico», il quale «richiede astrazione completa dai dati empirici e dalle loro classi, e un ritrarsi nell’intimità della coscienza per volgere a essa sola l’occhio della mente» (Filosofia della pratica, cit., p. 26). Così come accadeva nell’Estetica e nella Logica, la dimostrazione della distinzione della forma (qui della volontà, lì dell’intuizione e del concetto) derivava da una confutazione dello scetticismo, dalla riduzione all’assurdo dei diversi tentativi di negare la sussistenza della «forma pratica come forma peculiare dello spirito» (p. 28): scetticismo che, nel caso della pratica, assumeva due aspetti, l’uno volto a rifiutare il «carattere specifico» (p. 28) della prassi (affermando che l’azione, in quanto incosciente, non è un’attività spirituale) e l’altro a negarne il «carattere generico» (p. 28), risolvendo la volontà nel pensiero e, dunque, il pratico nel teoretico. Obiezioni alle quali Croce rispose da un lato distinguendo la semplice coscienza, che accompagna ogni atto dello spirito, dalla coscienza «riflessa» (p. 29), che fa della prima un oggetto di analisi; e, d’altro lato, sottolineando il carattere libero e creativo del volere, irriducibile al quieto esercizio teoretico del pensiero.
Determinata la distinzione dell’attività pratica rispetto a quella teoretica, nel terzo capitolo Croce ne definì la reciproca «relazione», affermando «che l’attività pratica presuppone quella teoretica. Senza conoscenza non è possibile volontà; quale la conoscenza, tale la volontà» (p. 41). In questa prima formulazione l’accento batteva, oltre che sulla distinta autonomia del volere, sulla sua razionalità, sul fatto che la volontà elementare, economica e vitale, è sempre consapevole della situazione storica, quale si presenta, secondo le conclusioni della Logica, nella percezione e nel giudizio individuale, vertice e risultato di tutta la conoscenza teoretica. Tale dipendenza strutturale della volontà dalla conoscenza, espressa dalla necessità di «presupporre», da parte dell’agire, l’intero atto teoretico, segnava un limite invalicabile rispetto a quelle concezioni (da Arthur Schopenhauer a Friedrich Wilhelm Nietzsche) che coglievano bensì il carattere originario del volere, ma arrivavano poi a concepirlo «nella forma esagerata e inaccettabile della volontà cieca e inconsapevole» (p. 114). Da un lato, dunque, in virtù della sua indipendenza, l’attività pratica (la volizione, l’azione) si presentava come radice di tutta la realtà spirituale; ma, d’altro lato, per la relazione che, nell’unità dello spirito, la legava alla sfera teoretica, presupponeva il conoscere, restandone innervata e orientata nella propria specifica operazione. Volontà dunque non «cieca e inconsapevole» (p. 114), ma occhiuta e ben consapevole della situazione determinata a cui, in maniera adeguata, è chiamata a corrispondere: «Quale la conoscenza, tale la volontà» (p. 41). Inoltre, Croce metteva in guardia, in diversi luoghi dell’opera, dall’intendere questo rapporto come semplicemente, per così dire, spirituale, o meglio umano, sulla base della separazione astratta di spirito e natura, sottolineando che in nessuna parte della realtà (umana o animale o vegetale) possono mai darsi «impulsi, tendenze, appetizioni, ciechi affatto di ogni conoscenza» (p. 43): perché la volizione riguarda non gli uomini ma la realtà tutta, la quale è «in ciò democratica» e rifugge «ogni forma di aristocraticismo» (p. 44).
Una simile impostazione permetteva a Croce di negare alla radice tutte le duplicazioni che avevano segnato la storia dell’etica, assumendo la volontà, nel rapporto sistematico con la sfera teoretica, quale unico oggetto reale di una filosofia della pratica. In primo luogo, cadeva la separazione tra volizione e azione, la supposizione di un agire che segua al volere, di un atto naturale che succeda a una deliberazione spirituale: al contrario, scriveva, «volizione e azione sono tutt’uno, e non è concepibile né volizione senza azione né azione senza volizione» (p. 65). In maniera analoga veniva abbandonata ogni possibile distinzione tra intenzione e volizione (e azione), come se si potesse avere un’intenzione buona e agire male, volere il bene in astratto e non volerlo poi in concreto: «L’intenzione e la volizione coincidono in ogni punto», e ciò che rimane è «la volizione concreta, che è la vera e reale intenzione-volizione» (p. 53). Di conseguenza, Croce congedava anche la differenza tra mezzi e fini dell’azione, che di nuovo separava la conoscenza interna del fine dall’esecuzione materiale ed esterna nella prassi, riproponendo la divisione di volontà e azione: la volizione non esegue alcun disegno prestabilito, ma semplicemente agisce, perché «l’uomo opera caso per caso e d’istante in istante, attuando la sua volontà di ogni istante e non già quel concetto astratto, che si dice disegno» (p. 51). Già queste riduzioni a uno di tutti i dualismi della tradizione escludevano ogni connotazione di tipo normativo da questa filosofia e dall’etica che doveva conseguirne (p. 108): e giustificavano lo stesso titolo dell’opera, Filosofia della pratica – come volle chiarire – e non «filosofia pratica», perché, «tolti di mezzo i concetti e i giudizi pratici in quanto speciale categoria di concetti e giudizi, è tolta insieme l’idea stessa di una scienza pratica e normativa» (p. 52). Ma soprattutto, il superamento dei dualismi pratici (intenzioni, fini, concetti e giudizi di valore precedenti l’azione) ribadiva e fortificava un risultato già conseguito negli studi di estetica e di logica, ovvero la negazione della separazione di spirito e natura, che, ripensata nelle figure degli pseudoconcetti o finzioni concettuali, ora permetteva di criticare la visione kantiana e postkantiana della «doppia causalità pratica» («una che obbedisce alla causalità meccanica, l’altra che è iniziativa e creazione o ubbidisce alla causalità per libertà», p. 138) e quella, hegeliana, di una natura concepita come un «gradino inferiore dello Spirito o uno spirito alienato da sé» (p. 177): dualismi e duplicazioni rispondenti a quella scissione metafisica di spirito e natura, da essa derivati e sopra di essa fondati.
Nella relazione che così si determinava tra sfera teoretica e sfera pratica, Croce poteva individuare il carattere saliente della volizione, o meglio ciò che dell’azione costituisce, in senso proprio, l’elemento di realtà, ossia la libertà: «Poiché l’atto volitivo è libertà, la domanda se in un dato caso si sia stati o no liberi, vale esattamente quest’altra: se in quel caso si sia avuta in effetto una volizione (azione)» (p. 141). La libertà, dunque, non rappresentava un aspetto o predicato possibile dell’azione, ma la sua essenza ultima: in quanto si agisce, in quanto si vuole, già per questo si è liberi. Osservata nel nesso di teoria e pratica, però, questa nozione di libertà acquistava una complessità inedita e, potremmo dire, una centralità decisiva nella struttura dello spirito. Anzi tutto, Croce operava la critica delle due tendenze opposte nella visione del rapporto tra libertà e necessità, da un lato dei deterministi, «che concepiscono una volizione che sia quasi duplicazione, triplicazione, quadruplicazione, e via all’infinito, del fatto dato», e d’altro lato degli arbitraristi, che invece immaginano «una volizione che prorompa dal nulla o piova dall’alto, inserendosi poi, non si sa ben come, nel corso del reale» (p. 133). Se gli uni considerano l’atto volitivo come illusorio e subordinato alla sfera di necessità, gli altri ne fanno una sorta di vuoto miracolo, indipendente dalle condizioni storiche e dalle circostanze di fatto. Due tendenze, osservava Croce, che sorgono da due fallaci concezioni metafisiche e gnoseologiche: il materialismo e il misticismo. Ma tutta la dottrina della volontà, come si era ormai dispiegata nella prima sezione dell’opera, forniva gli strumenti più adeguati per sciogliere quell’opposizione e per pensare, in un solo nesso, la dialettica di necessità e libertà, corrispondente con quella di teoria e prassi. Se infatti l’azione, per sé libera, sempre presuppone un atto teoretico, una percezione e un giudizio storico individuale, proprio tale conoscere reale stabilisce la necessità dell’atto volitivo, il quale, come sappiamo, non può mai prescindere da questa base:
La volizione nasce non già nel vuoto ma in una situazione determinata, con dati storici e ineliminabili, sopra un accadimento o complesso di accadimenti, i quali, poiché sono accaduti, sono necessari. A quella situazione la volizione è correlativa, e staccarnela sarebbe impresa vana: variando la situazione, varia la volizione; tale la situazione, tale la volizione. E ciò importa che essa è necessitata, ossia condizionata sempre da una situazione, e da quella, appunto, sopra cui sorge (p. 131).
Ma di fronte alla «situazione determinata» da cui «nasce» (p. 131), la volizione non si limita, come vorrebbero i deterministi, a ripetere la necessità: al contrario è «iniziativa», «creazione» (p. 132) di nuova storia, energia capace di incrementare l’intero ordine della realtà, fornendo così al sapere teoretico nuova materia, generando uno stadio ulteriore e più concreto della stessa necessità. Nella visione di Croce, insomma, il rapporto tra necessità e libertà era lo stesso che, nella filosofia dello spirito, stringeva il nesso tra teoria e prassi: o, per dire meglio, questo nesso costituiva, nel suo eterno progredire, la struttura fondamentale dello spirito. Se la necessità si risolveva nell’atto teoretico del giudizio, la libertà indicava la realtà stessa del volere, cioè, alla maniera di Immanuel Kant, la sua spontaneità, la capacità di inserire, nel sistema della realtà, il novum di una creazione imprevedibile.
Come si è detto, fu solo il 17 aprile del 1908, un giorno prima di chiudere la revisione dell’opera e di scriverne la breve “Conclusione”, che Croce stabilì di aggiungere un «nuovo capitolo, da inserire alla fine della parte I della Filosofia della pratica, come brevissima sezione III» (Taccuini di lavoro, 1° vol., cit., p. 105): breve capitolo, dunque, della terza sezione, dedicata all’“Unità del teoretico e del pratico”. Queste pagine, composte quando il corpo del libro era ormai ultimato, si resero necessarie per sanare un’ambiguità, o almeno una rilevante lacuna, che la stesura della parte prima, sull’«attività pratica in generale», aveva via via generato, lasciando inespresso un aspetto essenziale del rapporto fra teoria e prassi. Fin dal capitolo terzo, infatti, Croce aveva stabilito la tesi «che l’attività pratica presuppone quella teoretica» (Filosofia della pratica, cit., p. 41), arrivando con ciò a rifiutare qualsiasi pretesa di concepire la volizione come cieca e incosciente, e svolgendo, nelle parti successive, tutte le conseguenze implicite in tale principio. Ma nel corso della trattazione, a mano a mano che la forma pratica aveva esplicato la propria dialettica, infine identificandosi con la libertà stessa nel gesto spontaneo di generare, in un perenne divenire, «qualcosa che prima non c’era» (p. 133), era apparso evidente che la sequenza unilaterale per cui la prassi presuppone la teoria si era andata rovesciando, o complicando, nella sequenza inversa: per la quale, senza l’attività pratica, costitutiva di un mondo di realtà, neanche la conoscenza teoretica potrebbe compiersi, non trovando di fronte a sé, e dentro di sé, una materia su cui esercitare il proprio giudizio. La questione, perciò, doveva essere ripresa e chiarita, fino ad affermare, a completamento del principio posto all’inizio, «la tesi inversa: che l’attività teoretica presuppone quella pratica, e che la volontà è precedente necessario della conoscenza» (p. 207). Senza l’azione pratica, infatti, «non si può avere poesia» né conoscenza, se «la conoscenza è conoscenza di qualcosa», perché «se non c’è un mondo di realtà che generi un mondo di rappresentazioni, non è concepibile la ricerca dell’universale, la Filosofia, né l’intelligenza dell’individuale, la Storia» (p. 208). Per questo, accanto alla critica di Friedrich Wilhelm Joseph Schelling e di Schopenhauer, che avevano escogitato «una Volontà cieca» (p. 208), che non presuppone il conoscere, ora Croce colpiva il teoreticismo di Hegel, che aveva postulato un pensiero in sé, un logo, capace di alienarsi, «di uscire da sé» (p. 208), di farsi natura e mondo, senza presupporre, prima di sé, l’opera pratica della volontà.
Il chiarimento era fondamentale, non solo per la struttura della Filosofia della pratica, ma in generale per la concezione del sistema, dell’intera filosofia dello spirito. Ripensando il rapporto tra sfera teoretica e sfera pratica alla luce di questa reciproca presupposizione, Croce tornava a escludere, in primo luogo, che le due forme della realtà intrattenessero un rapporto di opposizione, e non dunque di distinzione, richiamando la critica che aveva rivolto a Hegel: l’opposizione, spiegò, è bensì interna a ciascuna forma, come l’errore o il falso nella sfera teoretica e il male in quella pratica, ma non designa «il carattere di una forma rispetto all’altra: né quello del vero contro il bene, né quello del bene contro l’utile, e via dicendo» (p. 209). Allo stesso modo escludeva che il rapporto tra teoria e pratica equivalesse a quello che, all’interno di ciascuna sfera, distingue il finito e l’infinito, l’individuale e l’universale, come l’intuizione verso il concetto e l’utile verso il bene morale:
Questa relazione, che è propria della forma teoretica, non meno che di quella pratica, presa ciascuna per sé, non può essere trasferita senza incoerenza logica alla relazione delle due forme (p. 210).
Per quanto rappresentate secondo una perfetta analogia, la relazione delle due forme non doveva essere concepita come lo scorrere di due parallele che, procedendo all’infinito, non si incontrano mai; al contrario, le due linee si incontrano, tanto che «il capo dell’una si congiunge alla coda dell’altra»: come nel simbolo geometrico del circolo, in cui i due semicircoli (la teoria e la prassi) si presuppongono reciprocamente, inziando ciascuno dove l’altro termina.
Come in ogni metafora trasferita dalla geometria alla filosofia, anche in questo caso l’immagine restituiva solo una parte del concetto che Croce intendeva chiarire: correggeva la sequenza unilaterale per cui la volizione presuppone il giudizio teoretico, inserendovi la reciproca e corrispondente, per cui nessuna intuizione e nessun giudizio è possibile senza un precedente atto pratico; ma lasciava in ombra il punto sostanziale della relazione che qui si delineava tra le forme supreme e distinte della realtà, cioè il persistere dell’una nell’altra, il reciproco internarsi, in modo che l’azione pratica, presupponendo l’atto teoretico, acquista coscienza e razionalità, come il conoscere teoretico, presupponendo l’agire libero, conserva dentro di sé la concretezza che l’altro distinto gli conferisce. D’altronde, quella metafora geometrica proveniva, come si sa, da una vicenda illustre, e Hegel ne aveva fatto largo uso per delucidare il movimento interno delle sue opere principali (la Fenomenologia dello spirito e la Scienza della logica) e il nesso reciproco che le congiungeva l’una all’altra. Un precedente a cui, nel saggio hegeliano del 1906, Croce non aveva attribuito particolare valore, soffermandosi piuttosto sulla «teoria dei gradi» che «circola in tutti i suoi [di Hegel] libri» (Saggio sullo Hegel seguito da altri scritti di storia della filosofia, 2006, p. 64). Fu proprio qui, nella Filosofia della pratica, che la teoria del circolo fece la sua prima e più importante prova: una prova, bisogna aggiungere, che restò limitata alle due grandi sfere dello spirito, quella teoretica e quella pratica, configurando perciò «il circolo della realtà e della vita» (p. 211), del pensiero e dell’essere, del soggetto e dell’oggetto, come il ritmo profondo della storia o, come scrisse, dell’assoluto. Solo in seguito, soprattutto nel quinto capitolo della prima sezione della parte prima della Logica, Croce offrirà una spiegazione più ravvicinata del circolo o dell’«organismo», quale sequenza di tutte e quattro le forme spirituali,
storia ideale eterna, un eterno corso e ricorso, in cui da d risorge a, b, c, d, senza possibilità di arresto o di tregua, e in cui ciascuno, sia a, o b, o c, o d, pur non potendo cangiare ufficio o posto, è designabile, a volta a volta, come primo o come ultimo (Logica, 1996, p. 52).
Ma la metafora del circolo era servita, nella Filosofia della pratica, a ricomporre in un unico e più coerente quadro quel rapporto tra le due sfere che, nel corso dell’analisi, si era via via modificato. Nella conclusione della terza sezione, Croce poteva parlare, a proposito della sua filosofia, di «un “prammatismo” di nuova sorta», come «la dimostrazione apodittica della forma sempre storicamente condizionata di ogni pensiero», dell’arte come della filosofia, la quale «non può risolvere se non i problemi che la Vita gli propone» (Filosofia della pratica, cit., p. 214). Era una conclusione che, se non correggeva, certo complicava il giudizio su quella tendenza speculativa che aveva variamente definito come ‘pragmatismo’ («la scuola più confusionaria che sia mai sorta in filosofia»), intendendo con questo termine soprattutto la tesi che «il vero sia produzione della volontà» (p. 42), di una volontà, dunque, che non presupponga la razionalità del pensiero, alla maniera, ancora una volta, delle posizioni irrazionaliste di Schelling, Schopenhauer o Nietzsche. Ma un secondo riconoscimento al nucleo di verità del ‛pragmatismo’ derivò, come vedremo, dalla teoria dell’origine pratica dell’errore teoretico, nella quale riconobbe, appunto, «una delle forme giustificate di prammatismo» (p. 64).
L’analisi dell’attività pratica, nella sua relazione con la sfera teoretica (fino all’immagine geometrica del circolo), aveva condotto alla conclusione che l’azione presuppone un atto della conoscenza, una consapevolezza adeguata della situazione, nella forma logica del giudizio storico e percettivo: certo, la volontà non si risolveva in tale cognizione, ma, pur restandovi vincolata, la oltrepassava con la propria energia libera, non duplicando la necessità, ma sempre generando nuova realtà e così fornendo al sapere teoretico un ulteriore materiale. In tale delineazione della prassi, erano per altro cadute tutte le duplicazioni che la filosofia tradizionale aveva contemplato, a cominciare da quella tra l’azione e le intenzioni: nel quadro che Croce aveva prospettato, intenzione e azione si identificavano perfettamente, né poteva ammettersi un agire pratico che differisse, in tutto o in parte, da una precedente volizione. Da un lato, restava inammissibile che si potesse volere il bene in astratto e poi condursi male nell’agire concreto; d’altro lato era inconcepibile quel raddoppiarsi del volere in uno stato «solamente pensato o immaginato» (p. 54), quale si riteneva fosse l’intenzione, e in uno stato «reale» e «nascente dalla determinata situazione di fatto» (pp. 53-54), quale appunto l’azione volitiva. Nei confronti di quelle dottrine, tenere verso «gli uomini di buon cuore e di buone intenzioni» (p. 55), Croce adoperava parole forti, dichiarando che «quei pretesi uomini di buon cuore e di buone intenzioni non hanno in effetto né buon cuore né buone intenzioni e sono nient’altro che ipocriti» (p. 55).
Tuttavia in quelle dottrine, così nettamente respinte e persino derise, trovava una giustificazione, per quanto dubbia e insicura, la possibilità che l’intenzione divergesse dall’azione perché la conoscenza della situazione si rivelasse erronea, e dunque pervenisse a un’azione difforme dalle intenzioni: «Qui – scriveva Croce – daccapo, la volizione concreta si scinde dall’intenzione: la volizione è quella che può essere; l’intenzione si volge all’azione quale si vorrebbe che fosse» (p. 55). E spiegava questo caso con l’esempio del rocciatore che scenda una china pericolosa coperta di ghiaccio e che, dovendo procedere e rischiare, mette il piede sulla crosta di cui non conosce l’effettiva resistenza. In maniera più sottile, rispetto alle altre visioni dualiste, la distinzione tra intenzione e azione si fondava qui sul presupposto di un errore teoretico, di una falsa conoscenza della situazione di fatto. Ma proprio tale concetto dell’errore teoretico si rivelava impossibile, non tanto per lo specifico profilo della volontà, quanto per la relazione, che in questo punto entrava in gioco, con la dimensione logica. Nella sfera teoretica, come avevano mostrato l’Estetica del 1902 e i Lineamenti del 1905, non è infatti possibile l’errore vero e proprio, perché come l’artista coglierà sempre il bello (scivolando nel brutto solo quando smette di essere tale) così il filosofo mirerà sempre e soltanto al vero.
Era dunque impossibile che l’azione pratica riuscisse sbagliata per un errore teoretico, per la semplice ragione che, nella sola sfera teoretica, l’errore non può sorgere:
È un’impossibilità, perché contradice alla natura dell’errore teoretico, la quale, appunto perché si tratta di errore e non di verità, non può essere a sua volta teoretica, e dev’essere, com’è, pratica (p. 58).
Questo problema dell’errore acquistò dunque, nella considerazione della sfera pratica, un’importanza e una difficoltà del tutto particolari. Perché Croce aveva bensì mostrato, in particolare nell’Estetica, che l’errore teoretico deriva «dall’indebito trasferimento di una forma teoretica in un’altra, o di un prodotto teoretico in un altro diverso» (p. 59), come quando l’artista, «mescolando arte e filosofia» (p. 59), cade nel brutto, o come quando il filosofo, risolvendo un problema speculativo «con metodo fantastico e da artista» (p. 59), elabora un mito invece di un concetto, ma aveva lasciata irrisolta la questione dell’origine di quello scambio improprio. Questione che, solo accennata in sede estetica e logica, trovava, nella trattazione della pratica, il luogo adatto di considerazione: perché – si chiedeva Croce – «se in tal guisa nascono gli errori particolari e le forme degli errori teoretici, come poi nasce l’errore teoretico in generale?» (p. 59). Una domanda a cui poteva ora offrire una risposta ulteriore e più persuasiva, indicando proprio nella volontà, nell’azione pratica, la genesi dell’errore teoretico, come un’azione utilitaria capace di simulare, imitare, manipolare, il precedente atto conoscitivo, attraverso un abuso della comunicazione: affinché l’errore sorga, «deve intervenire qualcosa di estraneo allo spirito teoretico, e che perciò non può essere altro che un atto pratico, che simuli quello teoretico» (p. 60); un atto che lo simuli «col dar piglio al mezzo pratico della comunicazione, alla parola o all’espressione in quanto suono e fatto fisico, e volgerlo a significare ciò che, in quel caso, non può significare» (p. 60). E perciò concludeva, stringendo in un solo concetto la conseguita teoria dell’origine pratica dell’errore:
L’affermazione erronea è resa possibile, perché alla vera affermazione, che è puramente teoretica, succede qualcos’altro, che impropriamente si dice affermazione in senso pratico, laddove è soltanto comunicazione, la quale può sostituirsi in misura più o meno larga alla verità e mentirne l’esistenza. Cosicché l’errore teoretico in generale nasce, al pari delle sue forme e manifestazioni particolari, per lo scambio o per l’illegittimo connubio tra due forme dello spirito; le quali non possono essere entrambe teoretiche, ma devono essere la forma teoretica e quella pratica […]. S’ignora, dunque, perché ignorare bisogna e sentirsi ignoranti per giungere al vero; ma si erra non per altro se non perché si vuole errare (Filosofia della pratica, cit., p. 60).
La teoria dell’origine pratica dell’errore vantava precedenti illustri, che Croce in parte richiamò e in parte meditò nella fase di elaborazione dell’opera. Il precedente più antico era quello di Platone, che nel Teeteto (187b e segg.) aveva a lungo dissertato sull’opinione falsa e sull’errore, rappresentandoli come lo scambio di una cosa con l’altra e discutendoli con i celebri esempi della cera, della colombaia, del giudice. Una dottrina, quella di Platone, che Croce non richiamò esplicitamente, come solo incidentalmente menzionò la definizione di Giambattista Vico, nella Scienza nuova (libro III, capo VI) del 1725, per cui il falso «altro non è che sconcia combinazione d’idee» (G. Vico, Opere, a cura di A. Battistini, t. 2, 1990, p. 1109), e per cui «non si può dare tradizione, quantunque favolosa, che non abbia da prima avuto alcun motivo di vero» (p. 1109). Più diretto e impegnativo fu il confronto con René Descartes, che nella quarta delle Meditazioni metafisiche aveva svolto in maniera compiuta la dottrina dell’errore, riportandone l’origine all’attitudine della volontà a estendersi oltre i limiti dell’intelletto, il quale dunque, nei suoi confini, restava indenne dal falso. Senza dubbio Croce riprese la linea cartesiana, pur lasciandone cadere la premessa e l’impianto teologici, e soprattutto rivolgendo alla struttura della quarta meditazione alcune obiezioni di rilievo. In primo luogo osservò, conformemente al principio, stabilito nel capitolo terzo, per cui «quale la conoscenza, tale volontà» (Filosofia della pratica, cit., p. 41), che l’atto volitivo non si forma perché l’uomo possiede «tale portentosa capacità di estendere il volere fuori dei limiti dell’intelletto», ma, proprio al contrario, perché ha l’altra capacità «di circoscriversi, volta per volta, nei limiti del suo intelletto e volere su quella base e in quei limiti» (p. 58). Infine, nelle «annotazioni storiche» della prima sezione, riconoscendo che in Descartes si trovano «le più acute osservazioni intorno alla natura pratica dell’errore», disse che il filosofo francese era incorso nello «sbaglio» (ripetuto poi da Antonio Rosmini) di confondere «l’affermazione, che è teoretica, con la comunicazione, che è pratica», e di avere quindi confuso «la volontà generica che è nell’affermazione in forza dell’unità dello spirito, e quella particolare, che è nell’errore» (pp. 122-23). Espressioni, come si vede, che attestano una ripresa della teoria cartesiana, ma anche profonde correzioni, rese necessarie dalla fisionomia che la filosofia dello spirito veniva assumendo.
Quanto si legge sull’origine dell’errore nella Filosofia della pratica era per altro il risultato di un percorso travagliato, che proseguirà nelle opere successive, a cominciare dalla Logica. Un percorso sollecitato dal dialogo con la filosofia di Giovanni Gentile, al quale, nella successiva polemica del 1913, obietterà che, nel suo attualismo, l’esistenza dell’errore non trovava una spiegazione coerente, risolvendosi nell’astratto e nei prodotti dell’intelletto. D’altronde, come si diceva, la sua genesi non fu lineare, se è vero che nei Lineamenti, dove pure alla «teoria dell’errore» aveva dedicato un non breve capitolo, se ne scorgono con fatica i tratti salienti: in quel capitolo aveva bensì rilevato che la teoria dell’errore «supera» la considerazione logica, in quanto «presuppone quella della molteplicità delle forme speciali, di cui la logicità è una sola, e cioè presuppone l’intera filosofia dello spirito» (B. Croce, La prima forma della Estetica e della Logica, memorie accademiche del 1900 e del 1904-5, a cura di A. Attisani, 1924, p. 250); ma poi aveva risolto la natura dell’errore in quella della contraddizione implicita nel passaggio da una forma all’altra, come «possibilità stessa del divenire» (p. 252), o meglio nel «permanere», nell’«adagiarsi» (p. 254), nella situazione contraddittoria, come in uno stato intermedio dove si «resta a mezza strada», perché l’affermazione, nel passare da una figura all’altra, «non è né la prima né la seconda» (p. 253). Anche lo studio della filosofia di Hegel non aveva portato chiarimenti essenziali, pur trattandosi a lungo delle «metamorfosi degli errori» e di quelle dei concetti particolari «in errori filosofici», e nonostante il saggio, a tali studi collegato, che nel 1907 aveva dedicato all’Indole immorale dell’errore e la critica scientifica e letteraria (Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, 1993, pp. 87-92). La Filosofia della pratica segnò dunque la prima vera espressione di quella teoria, che di lì a poco, nella terza parte della Logica, troverà ulteriori sviluppi e precisazioni: tra le quali gioverà ricordare il rilievo assegnato all’«esistenza» dell’errore, come «qualcosa di positivo, un prodotto dello spirito» (Logica, cit., p. 276), che la teoria dell’origine pratica aveva avuto il merito di ristabilire; e, d’altra parte, il chiarimento, ancora assente nella Filosofia della pratica, per cui l’errore teoretico, pur avendo un’origine pratica, «è, in fondo, sempre errore logico», nel senso che deriva dall’affermazione pratica dell’esistenza di alcunché di vuoto, come quando, dicendo che 4 x 4 è uguale a 20, che «per sé preso è un flatus vocis» o uno scherzo innocente, si aggiunga che è il risultato di un’effettiva moltiplicazione (p. 279).
Con la teoria dell’errore Croce riteneva di avere offerto una seconda giustificazione di quel «“prammatismo” di nuova sorta», oltre quella, chiarita nella terza sezione, per cui, circolarmente, la sfera teoretica presuppone quella pratica: una giustificazione che era, al tempo stesso, una critica, perché l’opera del volere si manifestava costruttrice dell’errore (come, per altro verso, delle astrazioni pseudoconcettuali), ma non anche della verità, che Croce continuava a cogliere nella distinta autonomia dell’estetica e della logica, del bello e del vero.
Dalla stabilita identità di volizione e azione conseguiva un ulteriore e persino più grave problema, che Croce ereditava dai suoi stessi classici, da Vico (per l’idea di provvidenza) e soprattutto da Hegel, che nell’Einleitung alle lezioni sulla filosofia della storia aveva concepito gli individui come strumenti di un’«astuzia della ragione» (G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, a cura di G. Calogero, C. Fatta, 1981, p. 97), di una razionalità bensì immanente nel divenire, ma anche trascendente la consapevolezza degli attori storici. Determinata la libertà del volere come radice di ogni incremento della realtà, si trattava ora di misurarne il valore effettivo rispetto al risultato dell’azione stessa, alle sue conseguenze e al suo esito di successo o di insuccesso. Determinare il valore dell’agire pratico sulla base dell’accadimento avrebbe significato annullarne la spontaneità, ricadendo nel difetto di quelle filosofie che presupponevano l’essere al divenire, la totalità al concreto svolgimento della prassi. Perciò Croce distinse con ogni cura i due termini, la volizione e l’accadimento, considerando l’uno come l’indice dell’attività individuale, «il contributo ch’esso reca alle volizioni di tutti gli altri enti dell’universo», l’altro come «l’insieme di tutte le volizioni», «la risposta a tutte le proposte» (Filosofia della pratica, cit., p. 68). Non solo quei due termini non dovevano essere confusi, ma occorreva ribadire che il primo, la volizione, non è costituito dal secondo, l’accadimento, ma viceversa questo è costituito da quello, come il tutto è formato dal movimento delle parti attive:
Se dunque si volesse far dipendere la volizione dall’accadimento, l’azione dal successo, si verrebbe a far dipendere un fatto da un altro fatto di cui il primo è un costituente, ponendo tra gli antecedenti dell’azione ciò che ne è il conseguente, tra le cose date quelle da creare, nel conoscibile l’inconoscibile, nel passato il futuro (p. 69).
Il rapporto andava invertito, riconoscendo alla volizione l’energia di realizzare il proprio destino, senza lasciarsi annullare dalla realtà universale. Si trattava di un passaggio delicato, perché, nella divergenza tra volontà e accadimento, era in gioco il «valore intrinseco» dell’azione, come nel caso di qualcuno che centri un bersaglio sparando a occhi chiusi, e che perciò consegua bensì il successo, ma senza il pregio di colui che, pur mancando l’obiettivo, vi si approssimi in virtù delle sole forze proprie (p. 71).
Il discorso si complicò nel capitolo successivo, il sesto, dove Croce ne svolse il significato in senso logico, arrivando a distinguere due serie di giudizi, l’uno «pratico» e l’altro relativo all’accadimento. Fin dalle battute iniziali dell’opera, trattando la «relazione dell’attività pratica con la teoretica», aveva escluso la possibilità di «una forma speciale di concetti e giudizi», quelli pratici, che, mediando tra la sfera teoretica e quella pratica, al modo di «giudizi valutativi», orientassero la volontà: in quella stessa pagina, non aveva negato l’esistenza di tali giudizi, ma la loro errata collocazione e la loro autonomia, considerandoli successivi all’attività pratica e perciò risolvendoli nei concetti e giudizi teoretici (p. 47). Nel capitolo sesto la stessa posizione era ripresa e ribadita, ma con alcuni svolgimenti di rilievo. Distinti dal «gusto pratico» (p. 74), che si limita ad accompagnare l’azione senza alterarne la struttura, i «giudizi pratici» (p. 74) venivano ricondotti al «giudizio singolare o storico» (p. 76), nel quale, secondo la considerazione svolta nei Lineamenti, si distinguono realmente soggetto e predicato, operando la connessione tra un elemento intuitivo e un elemento intellettivo. Giudizio somigliante, bisogna aggiungere, a quello che nella successiva Logica verrà teorizzato come «giudizio individuale», ma da esso ancora diverso e, per più di un aspetto, distante: nei Lineamenti, a cui Croce si affidava nelle parti logiche della Filosofia della pratica, il giudizio individuale veniva anzi dichiarato «fuori dalla pura logica» (La prima forma della Estetica e della Logica, cit., p. 142), considerato come funzione non «primitiva» e non «puramente logica», a differenza di quanto accadrà nella Logica. Più in generale, Croce restava fermo a quella teoria che vedeva nella storia un’operazione estetica e narrativa, non cogliendone ancora, come avverrà qualche mese dopo, la natura logica, espressa dal giudizio individuale e dalla sua identità con il giudizio definitorio. Inoltre, la netta distinzione che aveva introdotto tra volontà e accadimento lo portava, in questo punto cruciale, a configurare il giudizio pratico come un giudizio relativo a un sostrato individuale ed empirico, a «Pietro» o a «Paolo», inserendovi una curvatura che, nella sua filosofia, si sarebbe piuttosto definita pseudoconcettuale: giacché, in altre parti dell’opera, parlando del progresso, arrivava a definire gli individui empirici come «manifestazioni e strumenti» dello spirito universale (Filosofia della pratica, cit., p. 182), secondo un accordo speculativo fortemente consolidato nel suo pensiero. Quei giudizi pratici, insomma, considerati quali giudizi storici e individuali, serbavano una trama logica instabile, che ben presto Croce avrebbe sottoposto a una radicale revisione.
La medesima incertezza logica toccava il «giudizio dell’accadimento», che rappresentava il solenne pacificarsi delle fatiche pratiche e volitive, lo sguardo universale gettato sul risultato totale, dove «il progresso coincide col fatto» (p. 80). Un giudizio nel quale, alla maniera della definizione, e dunque del concetto, descritti nei Lineamenti, il soggetto non riusciva davvero a distinguersi dal predicato, uscendo così dall’orizzonte della comprensione storica. Tutte questioni poi ripensate nella Logica, e ancora di più nelle opere seguenti sulla storia. Ma la distinzione tra volizione e accadimento aveva consentito a Croce di mettere al riparo la sua dottrina da ogni tentazione totalistica, per la quale l’azione libera sarebbe stata risucchiata nel gorgo del «successo o accadimento» (p. 68), e di ribadire il concetto dell’origine pratica della realtà.
La libertà costituiva, nel discorso di Croce, la realtà stessa dell’azione, nel senso che, come restava inconcepibile un’assoluta assenza di azione, una totale inerzia, altrettanto doveva dirsi per un’opera pratica non libera: «Anche le azioni che sembrano non volute e non libere perché abitudinarie, meccanizzate, istintive, sono volute e libere» (p. 142); se non altro perché furono, almeno per una volta, atti di volontà ed è questa, la volontà, che sempre le lascia liberamente operare. Ma nella libertà, che sola è reale e attuale, vi è sempre il momento della non-libertà, che costituisce l’opposto del volere, il suo termine negativo, o anche, come Croce precisava, ciò che generalmente si designa come «male» (p. 143): qualcosa di «irreale» (p. 145), dunque, non perché inesistente o di scarsa importanza, ma perché, secondo la regola generale della dialettica, sempre incluso nel bene dell’azione, vinto e dominato dalla positiva energia del volere, interno alla sua luce come l’ombra che ne segue il passo. Tanto, dunque, doveva essere definito «irreale» quanto, nello stesso tempo, ineliminabile e anzi costitutivo della struttura del bene: il male – spiegava – «è veramente il peccato originale della realtà, ineliminabile fintanto che la realtà è, e perciò, come categoria, assolutamente ineliminabile» (p. 178). Pur negando ogni valore alla ricorrente disputa tra ottimisti e pessimisti, perché ciascuno dei due atteggiamenti trova un luogo nella visione dialettica della prassi, senza dubbio l’analisi di Croce inclinava verso un sentimento pessimista, se non proprio tragico, della realtà. Ma la tesi dell’«irrealtà» del male costituiva comunque il fondamento della sua idea del progresso, del «continuo trionfare della Vita sulla Morte» (p. 179), dove non è concepibile la decadenza, il regresso, appunto perché il male, «essendo ciò che non è, è irreale, e ciò che è realmente, è sempre e solo bene» (p. 179): un’idea, vale aggiungere, che si conteneva alla forma del divenire, come accrescersi costante della realtà, e che non si configurava, alla maniera delle filosofie della storia, quale regola del contenuto, come legge del trapasso fra le epoche o tra i fatti naturali.
Definito il posto del male nella dialettica pratica, la questione del negativo acquistava tuttavia una complessità sconosciuta alle precedenti trattazioni di estetica e di logica. Un primo aspetto (alla base del rifacimento del decimo capitolo dell’Estetica per la terza edizione del 1908) riguardava la figura del sentimento, su cui Croce tornò a più riprese nel corso del libro. Nella prima sezione della parte prima aveva consacrato l’intero secondo capitolo per negare che il sentimento costituisse una «forma spirituale», una terza categoria inframezzata tra il pensiero e la volontà, e ne aveva ridotto il significato nell’«indeterminato» o «semideterminato», come un’«escogitazione provvisoria» capace di sollecitare la scoperta di nuovi concetti filosofici (la «determinazione», appunto), ma di per sé insussistente (pp. 34-36). Però la questione si riapriva a proposito della libertà e della non-libertà, del bene e del male, dove riteneva di dover riprendere «un filo che avevamo lasciato cadere nel trattare del sentimento» (p. 149): un filo che adesso mostrava ben altra difficoltà, perché il sentimento, negato come terza forma della realtà, arrivava a polarizzarsi nelle due figure del piacere e del dolore, capaci di rappresentare, al livello più elementare della prassi, l’opposizione del bene e del male. Non solo piacere e dolore diventavano «sinonimi del positivo e del negativo pratici» (p. 150), ma, nel complesso della filosofia dello spirito, configuravano l’unica opposizione «immediata», rispetto alla quale quelle teoretiche (il vero e il falso, il bello e il brutto) apparivano come mediate e perciò, in qualche modo, da essa costituite. Così scriveva in un passaggio decisivo:
L’attività teoretica pura, come si è veduto, considerata per sé, ossia astrattamente, non può polarizzarsi: coglierà sempre il bello, sempre il vero. Solo in quanto l’attività teoretica è, insieme, per la legge dell’unità dello spirito, attività pratica, anche per essa, se non proprio in essa, ha luogo la polarizzazione di bene e di male, che in quel caso si chiamano vero e falso, bello e brutto. Indirizzato invece il concetto di “sentimento” verso i fatti pratici e determinato dalla Filosofia della pratica come sinonimo dell’attività pratica (della quale il sentimento formerebbe, come si dice, il carattere spiccante e distintivo), è chiaro che ad esso spetta immediatamente, e non più soltanto mediatamente, quella polarità di bene e di male. Bene e male diventano in quel caso ciò che i teorici del sentimento chiamano piacere e dolore: termini identici coi precedenti, perché il sentimento, in quel caso, è stato reso identico con l’attività pratica genericamente considerata (Filosofia della pratica, cit., p. 150).
Nella parte seconda, dedicata alle «due forme pratiche», Croce tornava ancora sulla questione del sentimento, risolvendone infine il significato nell’attività economica, nell’utile, come figura elementare della prassi:
Piacere e dolore appartengono solo al sentimento, perché appartengono alla sola attività economica, cioè all’attività pratica nella sua forma generale, che avvolge di sé tutte le altre forme così particolari pratiche come teoretiche (p. 248).
Con la distinzione tra il carattere «immediato» e quello «mediato» o riflesso dell’opposizione, Croce inseriva una novità di rilievo nella filosofia dello spirito, destinata ad avere conseguenze dirompenti fino alle ultime meditazioni sulla vitalità e sull’origine della dialettica: in questo modo, come è stato osservato, l’utile «assumeva il volto dell’origine e spezzava perciò inesorabilmente il circolo nel quale, non senza fatica, era stato inserito» (Sasso 2007, p. 238). Non solo, dunque, la teoria era circolarmente preceduta dalla prassi, ma questa, in quanto vitalità (sentimento, piacere, dolore), assumeva il ruolo iniziale di un’opposizione immediata, polare, capace di generare il movimento dell’intera realtà.
Il male aveva così trovato una prima raffigurazione nell’immagine del dolore. Ma nei capitoli successivi Croce ne delineò uno svolgimento ulteriore, attraverso la teoria delle passioni o desideri. L’individuo, spiegò, non deve essere concepito come una sequenza di volizioni, come «se le volizioni si seguissero l’una l’altra», ma come un «microcosmo», in quanto sollecitato, «a un tempo», da «molteplici, o, per parlare più esattamente, da infinite volizioni» (Filosofia della pratica, cit., p. 155). Se l’individuo si abbandonasse a questo caotico convergere di spinte volitive, il risultato sarebbe la disgregazione, la moltiplicazione, la lacerazione, e ne uscirebbe «frantumato» e «distrutto»: ma l’atto volitivo rinuncia alla falsa ricchezza dell’infinito e si attiene, di volta in volta, «a una volizione sola, che è la volizione corrispettiva alla situazione data» (p. 156), manifestandosi così come libertà, bene, attualità dell’azione, «volizione che vince le volizioni» (p. 156). Tuttavia, se la realtà del volere consiste in questo emergere dell’unità dal molteplice, accade che le molteplici volizioni «ricacciate indietro» (p. 156) non siano annullate, ma permangano, come «passioni o desideri» (p. 156), come «volizioni possibili» (p. 157), escluse, ma pronte a diventare attuali quando la situazione di fatto sia mutata, come nell’esempio del lavoratore che, intento nella propria opera, rinvia il desiderio del cibo per poi realizzarlo successivamente. Come si vede, nella descrizione che Croce ne offriva, le passioni assumevano un doppio profilo, che si ricomponeva solo nella successione del tempo, del prima e del poi: da un lato apparivano con il volto negativo della forza disgregante, come il momento della contraddizione e del male; d’altro lato, però, conservandosi come volizioni possibili, acquistavano anche l’aspetto positivo di un bene futuro, non ancora realizzato, ma disponibile per le azioni ulteriori.
Questa teoria delle passioni – con la quale, per altro, Croce cercò di coniugare il rigorismo etico del vivere militare est delle Epistulae di Seneca con il valore attribuito ai desideri, per cui la volontà è «passione tra le passioni» (p. 158) – ebbe, al pari della dottrina del sentimento, ripercussioni capitali sulla struttura generale della filosofia dello spirito. Conseguenze rese esplicite nel piccolo e fondamentale capitolo sesto della seconda sezione della prima parte, dedicato ai “Due chiarimenti alla Istorica e all’Estetica”: dove affermò che, grazie alla differenza introdotta tra l’azione e i desideri, poteva finalmente essere lumeggiato il rapporto tra storia e arte, considerando l’una, la storia, come distinzione dei due termini e l’altra, l’arte, come indistinzione. Ma soprattutto, alla base di tale concetto, che di per sé rivoluzionava, o cominciava a rivoluzionare, quanto si leggeva nelle precedenti opere di estetica e di logica, stava il postulato secondo cui il «predicato di realtà o esistenzialità» (p. 187) consisteva proprio in quella distinzione tra volontà e passioni: con la conseguenza che (non diversamente da quanto era accaduto a proposito della polarità di piacere e dolore) l’esistenza veniva a costituirsi nella prassi, proiettandosi poi, mediatamente, nelle altre sfere, cioè nel conoscere teoretico, artistico e logico, dal momento che «per la determinazione del rapporto tra desiderio e azione, e soltanto per esso, non è necessario il criterio di esistenza, perché quel rapporto è, esso stesso, quel criterio» (p. 188). Affermazione di particolare rilievo, che di nuovo situava l’azione pratica alla radice di tutta la realtà.
Nella seconda parte dell’opera, dopo aver illustrato l’attività pratica in generale, Croce ne delineò la «sottodistinzione» nelle due forme interne, la «utilitaria o economica» e la «morale o etica» (p. 217), secondo una precisa analogia con la sfera teoretica, attraverso la distinzione tra estetica e logica, intuizione e concetto. Da un lato, l’attività economica persegue «fini individuali», ossia «vuole e attua ciò che è corrispettivo soltanto alle condizioni di fatto in cui l’individuo si trova»; d’altro lato, l’attività etica realizza «fini universali», cioè un volere che, «pur essendo corrispettivo a quelle condizioni, si riferisce insieme a qualcosa che le trascende» (p. 219): perché la «pallida Cura» genera «insoddisfazione», fin quando «non sapremo, nel contingente, inserire l’eterno, nell’individuale l’universale, nel libito il dovere», sino a scorgere che «nell’istante è l’eternità» (p. 222). L’aspetto più rilevante consisteva nella relazione di «doppio grado» (p. 242) che Croce stabiliva tra le due forme, per cui il primo grado, quello economico, può essere concepito nella sua indipendenza dal secondo, nella sua amoralità, mentre il secondo, quello etico, non è pensabile senza il primo, ma soltanto come incarnato in azioni effettivamente utili. Era questo il punto fondamentale del discorso, che riconduceva tutti gli errori della tradizione morale allo schema astratto del parallelismo e della coordinazione, all’idea che economia ed etica rappresentassero due specie di un genere, quello pratico, e che dunque, come l’utile appariva svincolato dall’etica, così questa, l’etica, potesse essere concepita senza il gradino inferiore dell’utilità: era il concetto assurdo delle «azioni disinteressate», rimproverato a Kant e ad altri classici, «cioè di azioni morali che, come tali, si terrebbero guardinghe da qualsiasi commercio con l’utilità, pure di quel contatto impuro» (p. 243). Al contrario, come scriveva con espressione caratteristica e riassuntiva, l’azione etica è «etico-utile» (p. 244), perché sempre attraversata dal fine individuale, sia pure trasceso in un orizzonte di schietta universalità. Così, se per un verso poteva respingere l’idea-forza dell’utilitarismo, ossia la negazione della forma etica, per altro verso rifiutava ogni «astrattismo morale» (p. 235).
Il primo grado dell’attività pratica, l’utile, era stato individuato da Croce fin dagli studi giovanili sul materialismo storico e sull’economia marxista, almeno da quando aveva stabilito di aggiungere alla classica triade delle categorie – il bello, il vero, il buono – questa quarta forma, capace di manifestare, come scriverà nel 1931, «la teoretica e filosofica “redenzione della carne”, come si suol chiamarla, cioè della vita in quanto vita, dell’amore terreno in tutte le sue guise» (Ultimi saggi, 2012, p. 48). Una categoria, come si renderà chiaro nelle ultime meditazioni sulla vitalità, strutturalmente inquieta, oscillante tra la razionale capacità di costruire schemi e concetti pratici, di edificare tecniche e progressi materiali, e la distruttiva energia vitale che nasconde dentro di sé, come rispondente, in ultima istanza, agli imperativi immediati del piacere e del dolore, della vita e della morte. Ma nella Filosofia della pratica questo fondo oscuro non emerse in primo piano, o almeno non divenne un esplicito argomento di riflessione: Croce chiarì soprattutto due difficili aspetti della teoria economica, la differenza tra la filosofia dell’economia e la scienza economica propriamente detta, e, in secondo luogo, la natura delle leggi come prodotti del volere, a cui dedicò l’intera parte terza.
Quanto al primo punto, sottolineò con forza che se il compito di una considerazione filosofica della forma economica è quello di definire la natura dell’azione, il compito della scienza economica consiste, invece, nel sottomettere le azioni umane al calcolo matematico, così da trarne utili, anzi irrinunciabili, indicazioni per la vita sociale:
La Scienza economica è nient’altro che una matematica applicata al concetto di volizione o azione; epperò non indaga la natura della volizione o azione, ma, poste certe determinazioni di azioni umane, le sottomette al calcolo per riconoscerne prontamente le necessarie configurazioni e conseguenze (Filosofia della pratica, cit., p. 256).
Ben più difficile si rivelò il secondo chiarimento, quello relativo alla natura delle leggi, dove Croce riprendeva e ulteriormente svolgeva i risultati della memoria pontaniana sulla Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell’economia, che aveva letto il 21 aprile e il 5 maggio 1907. Nella Filosofia della pratica definì la legge come «un atto volitivo che ha per contenuto una serie o classe di azioni» (p. 317): come un atto reale dunque, perché coincidente con la forma della volizione, ma tale da avere come oggetto un contenuto astratto, cioè irreale. Al punto che Croce specificò (ed era un chiarimento di rilievo) che la legge non è un atto volitivo che costruisce lo pseudoconcetto, l’astratto, ma che lo trova già elaborato da un precedente atto pratico: «La legge è un atto volitivo che suppone già compiuto l’atto volitivo onde si foggiano gli pseudoconcetti o concetti di classe: appunto perché essa è volizione, che ha a suo oggetto una classe di oggetti» (p. 328). Tuttavia, la volizione di un contenuto astratto, quale era la legge, non poteva poi che rendere astratta e irreale la stessa volizione, convertendola in una volizione «contradittoria» e «ineffettuale» (p. 337). Ciò che più contava, in tale delineazione del fatto giuridico, era l’esclusione che Croce operava, dalla struttura della legge, dei principi della socialità (intesa come empirica societas hominum) e della coercizione, cioè di qualsiasi origine superindividuale del diritto: per cui la legge si presentava come prodotto dell’individuo, alla maniera dei programmi di vita individuale. Di per sé irreale, la legge trovava la sua realtà nell’«esecuzione della legge», nell’atto singolo che si compie non per la legge ma «sotto la legge» (p. 337): che non era poi, nella visione di Croce, un’applicazione della legge, ma piuttosto del principio pratico ed etico, che si osserva, appunto, individualizzandolo, realizzandolo nel caso particolare e concreto. Questo non significa, naturalmente, che Croce non riconoscesse la necessità dell’ordine legale, che anzi considerava un «aiuto alla volizione reale» (p. 343), così come, nella sfera teoretica, i generi letterari possono aiutare e favorire la creazione intuitiva: perché
per volere ed eseguire l’atto singolo giova di solito cominciar dal rivolgersi al generico, di cui quel singolo è caso singolo: rivolgersi, cioè, alla classe di cui quel singolo è componente (p. 342).
La considerazione del principio etico, svolta nella seconda sezione della seconda parte, rappresentava un’importante novità, perché, per la prima volta, Croce arrivava a delinearvi una spiegazione sistematica del fatto morale. Come abbiamo visto, la volizione etica era definita dalla capacità di trascendere i fini individuali, e dunque, possiamo aggiungere, nell’internarsi della volontà nella sua stessa struttura originaria, in quell’«eterno» sempre presente, ma non sempre acceso, nel «contingente» e nel «libito» (p. 222). Per questo, Croce rivendicava, anzi tutto, la formalità del principio dell’etica, l’impossibilità di definire l’universale sulla base di un contenuto contingente, quale può essere, per es., l’amore o la compassione o l’altruismo: l’altruismo, scriveva, è «insulso quanto l’egoismo, e si riduce, in fondo, a egoismo» (p. 294); «è utilità, non moralità», non perché non sia una bella cosa la generosità, ma per la diversa ragione che la forma morale non può definirsi attraverso un contenuto e un oggetto limitato, senza che, con questo, smetta di essere universale, convertendosi in utilitaria. Nessun fatto, nessuna istituzione, nessun sentimento, può insomma esaurire l’universalità del volere etico, il quale certo deve realizzarsi attraverso quegli elementi (secondo la regola del doppio grado), in modo concreto ed economico, ma senza smarrirsi nella catena infinita delle cause e degli effetti. L’etica doveva, perciò, conservarsi «formale», ma non per questo scadere in un «formalismo» privo di contenuto: la vita morale non cerca la «forma vuota», ma la «forma piena, forma in senso filosofico e universale, che è insieme contenuto, cioè contenuto universale» (p. 302). Proprio in questa critica del «formalismo» (che nelle «annotazioni storiche» veniva ascritto a Kant, seguendo la confutazione che Hegel ne aveva formulata) si stringeva il nodo più arduo dell’intera costruzione pratica, nel quale la volizione si congiungeva, nella sua ultima figura, alla dimensione universale dello spirito, all’intero della realtà che, nella storia e nell’accadimento, trovava la somma trasparenza e, al tempo stesso, il mistero. Era il punto, non a caso, in cui la morale laica abbracciava, come «fratello minore», la verità delle sentenze religiose e cristiane, le quali, seppure ombrate di mitologia, avevano preannunciato che l’atto morale è «amore e volizione dello Spirito in universale» (p. 306).
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