Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La filosofia della scienza del Novecento può essere divisa più o meno convenzionalmente in tre fasi. Mentre nel periodo neopositivista, e fino agli anni Cinquanta, prevale sostanzialmente un’impostazione logico-linguistica, nella fase successiva diviene fondamentale il problema del mutamento scientifico e delle sue cause. A partire dagli anni Ottanta la figura del filosofo della scienza “generalista” tende progressivamente a lasciare il campo al “filosofo delle scienze particolari”.
Una nuova disciplina nata nel Novecento
Karl Popper
Karl Popper e la falsificabilità
Se vogliamo evitare l’errore positivistico, consistente nell’eliminare per mezzo del nostro criterio di demarcazione i sistemi di teorie delle scienze della natura, dobbiamo scegliere un criterio che ci consenta di ammettere, nel dominio della scienza empirica, anche asserzioni che non possono essere verificate. Ma io ammetterò certamente come empirico, o scientifico, soltanto un sistema che possa essere controllato dall’esperienza. Queste considerazioni suggeriscono che, come criterio di demarcazione, non si deve prendere la verificabilità, ma la falsificabilità di un sistema. In altre parole: da un sistema scientifico non esigerò che sia capace di esser scelto, in senso positivo, una volta per tutte, ma esigerò che la sua forma logica sia tale che possa essere messo in evidenza, per mezzo di controlli empirici, in senso negativo: un sistema empirico deve poter essere confutato dall’esperienza.
K. Popper, Logica della scoperta scientifica, Torino, Einaudi, 1970
La filosofia della scienza intesa come branca autonoma e istituzionalizzata della riflessione filosofica si afferma proprio nel Novecento, malgrado ogni grande filosofo dell’età moderna abbia ovviamente elaborato una sua più o meno esplicita “filosofia della scienza”, ovvero una teoria sul potere conoscitivo, sul metodo, e sul ruolo della scienza nella cultura umana.
In tutto il Seicento quelle che oggi chiamiamo filosofia e fisica erano strettamente congiunte in un’unica disciplina nota come “filosofia naturale”. In parte già nel Settecento e ancor più marcatamente nell’Ottocento, la crescita e il progressivo autonomizzarsi delle scienze naturali portarono tuttavia a un progressivo distacco tra filosofia e scienza, al quale contribuirono in modo non trascurabile sia la progressiva matematizzazione della fisica, sia alcune correnti filosofiche propriamente dette. Non a caso, nel periodo che va dalla seconda metà dell’Ottocento fino ai primi del Novecento, furono soprattutto le riflessioni metodologiche di scienziati come Hermann von Helmholtz, Claude Bernard, Ludwig Boltzmann, Ernst Mach, Heinrich Hertz e Henri Poincaré a mantenere vivo il rapporto tra scienza e filosofia, spesso grazie a interessanti e originali riletture del pensiero di Hume (Mach) o di Kant (Helmholtz, Hertz e Poincaré).
Nel Novecento l’impulso verso un riavvicinamento della filosofia alla scienza viene essenzialmente da rivoluzionari risultati scientifici, provenienti da due versanti abbastanza separati l’uno dall’altro. Da una parte, la scoperta delle geometrie non euclidee, la ricerca sui fondamenti della matematica (teoria degli insiemi), e lo sviluppo della nuova logica simbolica di Gottlob Frege, Giuseppe Peano e Bertrand Russell, diffondono tra i filosofi di formazione scientifica la tesi che proprio la logica possa costituire il nuovo strumento del pensiero filosofico. Dall’altra, le due rivoluzioni della fisica del Novecento, quella relativistica (1905-1915) e quella quantistica (1900-1926), sanciscono l’abbandono della meccanica di Newton nella descrizione del molto grande (universo a larga scala) e del molto piccolo (atomi e particelle subatomiche). Tali mutamenti spingono una nuova generazione di filosofi, che ha una conoscenza di prima mano della fisica, non solo a cercare di comprendere le conseguenze filosofiche delle nuove teorie scientifiche sui concetti di spazio, tempo, materia e causalità, ma anche a interrogarsi sulla difficile questione del rapporto tra le teorie scientifiche passate e quelle presenti, soprattutto dal punto di vista della loro verità .
In modo assai schematico, è possibile suddividere la riflessione filosofico-scientifica novecentesca in tre periodi, con l’avvertenza che questa tripartizione – pur avendo un valore più che espositivo – non può che semplificare il complesso divenire storico.
Il primo periodo, che copre all’incirca la prima metà del secolo scorso, è caratterizzato sostanzialmente dalla convinzione che la logica e l’analisi del linguaggio scientifico siano gli strumenti principali per la riflessione filosofica sulla scienza. La filosofia della scienza di questo periodo si interroga sulla fondamentale domanda “che cos’è una teoria scientifica?” rispondendo che è un calcolo logico non interpretato , ovvero, come afferma Rudolf Carnap nel 1932, un sistema di segni con regole sintattiche di formazione e regole deduttive di trasformazione.
Il secondo periodo, che si può simbolicamente far partire dalla pubblicazione del saggio La Rivoluzione copernicana di Thomas Kuhn (1957) e far convenzionalmente giungere fino ai primi anni Ottanta, tende a rovesciare la prospettiva formalistica e logicizzante del primo, facendo del problema “come mutano le teorie scientifiche” la questione principale che la filosofia della scienza deve affrontare e risolvere. L’aspetto più significativo della filosofia della scienza in questo periodo è ben riassunto dalla seguente parafrasi di una frase di Kant, dovuta al filosofo di origine ungherese Imre Lakatos (1922-1974): “la filosofia della scienza senza la storia della scienza è vuota, la storia della scienza senza la filosofia della scienza è cieca”. Questioni assai dibattute, come quelle intorno alla natura del metodo della scienza, vengono ora affrontate utilizzando la storia della scienza come banco di prova di teorie rivali.
Sebbene l’apertura alla dimensione storica tipica del secondo periodo non sia cessata nemmeno ai nostri giorni, e costituisca quindi una duratura conquista della filosofia della scienza, a partire dagli anni Ottanta e fino ai nostri giorni si registrano invece due tendenze quasi contrapposte, e siamo al terzo periodo. Da una parte, la riflessione filosofica sulla scienza si specializza sempre più allo scopo di dedicarsi a ricerche sui fondamenti delle singole scienze. La filosofia della meccanica quantistica, la filosofia dello spazio e del tempo, la filosofia della biologia o delle scienze cognitive prendono il posto delle precedenti domande “generali” su che cosa fosse una teoria scientifica, come mutasse nel tempo, e quale fosse il metodo della scienza. Dall’altra parte, si esaspera in senso “costruttivistico” la visione della scienza tipica del secondo periodo, già molto attenta alla sua dimensione sociale e storica: il risultato è un violento quanto superficiale attacco alle pretese conoscitive della scienza, e in particolare all’esistenza di un mondo naturale indipendente dai processi sociali che caratterizzano le pratiche di laboratorio. Vediamo ora con qualche maggiore dettaglio gli aspetti salienti di queste tre fasi, ribadendo le avvertenze di cui sopra sugli aspetti inevitabilmente convenzionali di questa suddivisione temporale.
1905-1947: intorno al neopositivismo
In questo periodo la scuola filosofica ai nostri scopi più rilevante è il cosiddetto Circolo di Vienna , formatosi agli inizi degli anni Venti sotto la guida di Moritz Schlick (1882-1936). Tra i membri del gruppo troviamo giovani filosofi-scienziati che si riunivano periodicamente a Vienna (da Carnap al matematico Hans Hahn, dal sociologo Otto Neurath al logico Kurt Gödel) allo scopo di difendere una nuova visione scientifica del mondo, che coniugasse la tradizione empirista di Hume e Mach con la nuova logica matematica di cui si è già parlato: è per questo che la corrente filosofica da essi fondata è nota con il nome di neopositivismo logico. Tipica della concezione della scienza neopositivista è la tesi che tutti gli enunciati che costituiscono una teoria scientifica si dividano tra quelli cosiddetti teorici e quelli osservativi. I primi contengono termini o predicati teorici, così chiamati perché si riferiscono a entità o proprietà non osservabili a occhio nudo (elettroni, atomi o batteri). I secondi sono enunciati che “sono alla base” di tutto ciò che è conoscibile scientificamente, dato che si riferiscono a proprietà o entità direttamente verificabili.
“Essere alla base”, in una prima fase del neopositivismo, significa che qualunque enunciato teorico, per poter essere qualificato come genuinamente scientifico, deve poter essere tradotto senza perdita di significato in uno o più enunciati osservativi. Tale requisito di traducibilità completa (riducibilità) serve a salvare dall’insensatezza larga parte della conoscenza scientifica, che comprende molti enunciati che vertono su entità non direttamente osservabili. Insensatezza da cui invece non si sottrae la metafisica, alla quale molti neopositivisti erano avversi al punto da difendere un’assai restrittiva teoria del significato, in base al quale un qualunque enunciato è dotato di senso (e dunque è comprensibile) se e solo se è in linea di principio verificabile.
Gli storici delle idee più avvertiti hanno recentemente messo in luce il debito profondo che questo criterio di significatività degli enunciati contrasse – oltre che con il Wittgenstein del Tractatus Logico-Philosohicus (1921) – con l’analisi einsteiniana del concetto di simultaneità , che è a fondamento della teoria della relatività speciale (1905). In base a questa analisi, Einstein aveva concluso che è privo di senso affermare che due eventi molto distanti l’uno dall’altro siano simultanei, perché, a differenza di ciò che accade quando i due eventi cadono in un’unica percezione, non vi è alcun modo di verificare direttamente l’affermazione in questione.
Critico precoce del neopositivismo è il filosofo viennese Karl Popper (1902-1993), la cui influenza nella filosofia della scienza del secolo scorso è stata pari solo a quella esercitata da Kuhn (1922-1996). Il contributo principale di Popper al dibattito sulla natura delle teorie scientifiche è quello di sostenere, contro il primo neopositivismo, che il criterio che separa la scienza dalla non-scienza (metafisica, etica, estetica, religione) non coincide con la linea che divide la sensatezza (verificabilità) dall’insensatezza (non-verificabilità). Insistendo sul fatto che anche gli enunciati osservativi sono “carichi di teoria”, nel suo La logica della scoperta scientifica , originariamente pubblicato in tedesco nel 1934, Popper ribadisce che, mentre una conferma ulteriore di una teoria o di una legge non basta alla sua verifica e quindi alla sua verità definitiva – ciò che richiederebbe il controllo di un numero infinito di casi –, una sola falsificazione basta a rendere la teoria o la legge in questione falsa. Il criterio che separa la scienza dalla pseudoscienza o dalla metafisica per Popper non è quindi dato dalla verificabilità, ma dalla falsificabilità: le teorie scientifiche che oggi provvisoriamente accettiamo non sono ancora state falsificate, ma potrebbero esserlo domani. Ogni teoria scientifica ha dunque per Popper un carattere congetturale e fallibile, in quanto essa, proprio perché scientifica, è costituzionalmente suscettibile di possibili smentite a opera di esperimenti e osservazioni futuri. Al contrario, una teoria che fosse immune da qualunque falsificazione sarebbe compatibile con tutto e quindi non ci direbbe nulla, ovvero sarebbe completamente vuota dal punto di vista conoscitivo.
La dispersione del Circolo di Vienna inizia nei primi anni Trenta, in coincidenza con l’avvento della dittatura hitleriana, ma il trapianto di alcuni dei membri più significativi del Circolo (tra gli altri, Carnap e Hempel) negli USA permette alla sua tradizione culturale di continuare, arricchita dall’apporto di correnti pragmatiste americane. Gli anni Quaranta e Cinquanta vedono un progressivo affinamento delle tecniche filosofiche dei neopositivisti, e in particolare una liberalizzazione del criterio di significatività degli enunciati , operata da Carl Hempel nel 1948: un enunciato teorico non dovrà più essere considerato completamente traducibile in enunciati osservativi, dato che questi ultimi ne determinano il significato in modo solo parziale. È proprio il fatto che i termini osservativi specifichino il significato di un termine teorico in modo solo parziale che spiega la struttura aperta e dinamica delle teorie scientifiche.
Relativamente a questo aspetto dinamico c’è però da aggiungere che in questo primo periodo la scienza è analizzata in modo più sincronico che diacronico. In più, a causa del rivoluzionario sviluppo che la fisica conosce nei primi trent’anni del Novecento, il neopositivismo e i suoi eredi teorizzano, in modo più o meno esplicito, il primato della fisica sulle altre scienze. Questo primato era inteso a volte in senso riduzionistico-fisicalistico (per Neurath tutte le scienze si possono ridurre in linea di principio alla fisica), e più spesso in senso metodologico, ciò che implicava almeno due tesi: la fisica fornisce l’ambito disciplinare privilegiato sul quale concentrare la riflessione filosofica sulla scienza; in secondo luogo le scienze sociali versano in condizioni arretrate perché non ispirano il loro metodo a quello delle scienze naturali, e in particolar modo alla fisica. Non a caso, Carnap e Neurath dedicano molti sforzi a un importante progetto di una Enciclopedia internazionale delle scienze unificate .
Malgrado tanto la visione formalistica e astorica della scienza, quanto il primato epistemologico della fisica siano rispettivamente messi in discussione nei due periodi successivi, questi mutamenti di prospettiva non dovrebbero essere, e non sono visti, come una condanna totale di ciò che è stato fatto prima: anzi, l’aver tenuto conto degli errori del passato ha dato alla filosofia della scienza del Novecento, neopositivismo incluso, un po’ di quella “cumulabilità dei risultati” che si attribuisce tipicamente al sapere scientifico.
1947-1983: la scoperta della dimensione storica e sociologica della scienza
Potremmo simbolicamente far partire il nostro secondo periodo dalla pubblicazione del libro sulla Rivoluzione copernicana di Thomas Kuhn (1957), e chiuderlo con la pubblicazione dell’opera Conoscere e sperimentare di Ian Hacking (1983). Esso è infatti segnato dalla scoperta della dimensione storica e sociologica della scienza e dall’enfasi sul problema del mutamento delle teorie scientifiche: filosofia e storia della scienza sono ora viste come discipline complementari. Tale periodo è così profondamente influenzato dal pensiero di Kuhn che è difficile trovare un metodologo o un filosofo della scienza che, occupandosi del problema della verità e del progresso scientifico, non discuta o critichi aspetti del celebre libro di Kuhn La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962).
È proprio l’enfasi sulla dimensione storica della scienza, tipica di questo periodo, che porta al progressivo abbandono della tesi che la logica simbolica fornisca lo strumento privilegiato o indispensabile dell’analisi filosofica della scienza. Malgrado interessanti applicazioni della logica modale e di quella quantistica, è importante notare che, con la crisi del neopositivismo logico, tanto la logica quanto la filosofia della scienza tendono a procedere su piani sempre più indipendenti e quasi paralleli. Del primo periodo rimane però l’idea che l’analisi filosofica di nozioni quali legge scientifica , spiegazione , probabilità , mutamento scientifico , debba essere quanto più rigorosa e precisa possibile, e debba comunque compiersi sul terreno della fisica, che dunque mantiene il primato metodologico sulle altre scienze di cui già godeva dall’inizio del secolo. Non che lo statuto metodologico della biologia, della psicologia e delle altre scienze sociali non costituisca oggetto di analisi filosofica, ma i maggiori filosofi della scienza attivi in questo secondo periodo, Kuhn, Norwood R. Hanson , Paul Feyerabend, Karl Popper, Imre Lakatos, e altri continuano a trarre i loro esempi principalmente dalla storia della fisica.
In questa seconda fase si pongono anche le basi per quella che si potrebbe chiamare la svolta relativistica della filosofia e della storia della scienza, che poi si affermerà pienamente nel terzo periodo: sotto l’influenza del pensiero di Kuhn, ci si comincia a domandare se la scelta tra teorie rivali sia sempre dovuta a valori che rispondono solo al requisito dell’accuratezza sperimentale e osservativa. La scienza, da Popper già ridimensionata a impresa puramente congetturale, è ora vista come prodotto storico di un’epoca, e quindi come caratterizzata da metodi, valori e stili di ricerca (paradigmi , nel gergo di Kuhn) che mutano in modo non dissimile da come mutano stili letterari e pittorici. Assai discussa in quest’ambito è la tesi kuhniana dell’incommensurabilità tra teorie successive, per esempio tra quella di Newton e quella di Einstein, tra la meccanica classica e quella quantistica, tesi sostenuta con argomenti di tipo diverso, ma mai del tutto convincenti. Entriamo nel merito:
(i) In primis , Kuhn fa riferimento all’assenza di un linguaggio osservativo che sia neutrale tra due o più teorie rivali. Se tutte le osservazioni, come già diceva Popper, sono “cariche di teorie”, un esperimento non potrà decidere tra teorie rivali, dato che ogni osservazione sarà interpretata alla luce della teoria fatta proprio da un particolare gruppo di ricerca.
(ii) Il significato di un termine che compare in una teoria scientifica dipende “olisticamente” da quello di tutti gli altri termini, e muta al mutare della teoria. Kuhn osserva che una teoria come quella copernicana di fatto continua a utilizzare il termine “pianeta”, ma lo usa per riferirsi alla Terra, mentre per l’astronomia tolemaica il termine stesso denotava tutto ciò che è dotato di moto apparente e quindi anche il Sole. Ne segue che prima e dopo una rivoluzione scientifica i modi di “classificare” la realtà fisica sono radicalmente diversi malgrado la permanenza dei termini.
(iii) L’emergere della dimensione storica, sociale e istituzionale della scienza mette in luce interessi politici ed economici contrapposti, visti come elementi che decidono tra quale teoria scegliere: il ricorso alla coerenza interna della teoria e all’accuratezza sperimentale non bastano quindi a decidere tra due programmi di ricerca, soprattutto se, come spesso accade nella storia della scienza, esistono più teorie empiricamente equivalenti.
In conseguenza di tesi di questo tipo, non solo la verità delle teorie scientifiche, ma anche la loro capacità di riferirsi alla realtà inosservabile, vengono messe in radicale dubbio, spesso ben al di là delle intenzioni originarie di Kuhn, la cui opera però si prestava, a causa di oscillazioni terminologiche non infrequenti, a interpretazioni molteplici. Di fatto, visioni meno ideologiche della scienza hanno messo in luce che, proprio come nel caso delle lingue naturali, la ragionevole ammissione che ci possa essere intraducibilità locale tra alcuni termini non comporta la completa incommensurabilità o intraducibilità delle due teorie (lingue). Anzi, la stessa possibilità di valutare due teorie come incommensurabili presuppone il possesso di un linguaggio comune in cui formularle.
Dagli anni Ottanta ai nostri giorni
Una sana reazione contro alcuni eccessi del relativismo kuhniano viene dal saggio di Hacking Conoscere e Sperimentare (1983), che rimette l’esperimento e il laboratorio al centro delle descrizioni filosofiche della scienza. Dal semplice argomento che manipolare in vari modi e misurare le proprietà di entità non osservabili implica l’esistenza di ciò che è misurato e manipolato, segue un sano realismo su quelle entità non osservabili che tanto hanno preoccupato i neopositivisti (realismo sulle entità), accompagnato da un atteggiamento che continua però a ritenere le teorie come semplici strumenti e non come vere o false (antirealismo sulle teorie). Contemporaneamente, contro queste concezioni “semi-realistiche”, cominciano ad affermarsi, più tra i sociologi che tra i filosofi propriamente detti, visioni puramente strumentalistiche della scienza, in base alle quali le entità non osservabili di cui parlano fisici e biologi sono letteralmente costruite dalla negoziazione sociale di gruppi di ricerca, mossi da interessi economici e dalla lotta per il potere.
Da una parte si deve riconoscere che Kuhn e i suoi più radicali seguaci ci hanno aiutato a costruire un’immagine meno idealizzata della scienza e del mutamento scientifico, e a comprendere meglio la natura sociale dell’impresa della conoscenza. D’altra parte però, negli ultimi due decenni, tale costruttivismo è arrivato a posizioni estreme, non facilmente difendibili; David Bloor, per esempio, della scuola di Edimburgo, nel 1983 parla della conoscenza scientifica come della mera riflessione di rapporti sociali di potere, mentre Andrew Pickering scrive nel 1984 un libro sulla “costruzione dei quark”. Si tratta di prospettive compiaciute delle infondate tesi antropocentriche che natura e cultura siano costruzioni storiche dello stesso tipo e che “la realtà indipendente” non abbia alcun ruolo nella formazione delle teorie scientifiche.
Parallelamente a queste tendenze – che negli ultimi due decenni del secolo hanno parzialmente contribuito di nuovo ad allontanare gli scienziati da quella che loro erroneamente percepiscono come “filosofia della scienza” – il terzo periodo è anche caratterizzato dall’affacciarsi di due tendenze decisamente più incoraggianti per chi ha cuore lo stabilirsi di un rapporto fecondo tra scienza e filosofia. La prima ha a che fare con il fatto che nelle riviste specializzate emerge una riflessione sempre più attenta alla biologia e alle scienze cognitive, prima largamente trascurate nella filosofia della scienza. Come semplice dato sociologico, si consideri che una delle più prestigiose riviste del settore, “Philosophy of Science”, pubblica oramai in media altrettanti articoli sulla filosofia della biologia che sulla filosofia della fisica.
La seconda tendenza, legata alla prima, riguarda il progressivo e probabilmente irreversibile specializzarsi del filosofo della scienza. Anche se rimangono ancora vive le indagini “generali” sulla natura delle leggi scientifiche, sulla spiegazione scientifica, sul problema del realismo scientifico, le tematiche affrontate negli ultimi due decenni sono sempre meno “generaliste” e toccano invece da vicino questioni interne ai fondamenti delle scienze particolari. In un certo senso non esiste più il filosofo della scienza, ma il filosofo della matematica, della fisica, della biologia, delle neuroscienze, delle scienze cognitive, dell’economia, della tecnologia, e delle scienze sociali. Discussioni su aspetti filosofici e concettuali sollevate dai fondamenti della meccanica quantistica, o della relatività generale, già iniziate da Hans Reichenbach, Schlick ed Ernst Cassirer nella prima metà del secolo, sono ora trattate con conoscenze tecniche a volte non inferiori a quelle di un buon fisico matematico. Ciò che ci fa parlare ancora di filosofia della fisica è che i teoremi dimostrati hanno come oggetto questioni attinenti ai fondamenti della disciplina (esistenza di particelle, questioni relative alla natura dello spazio e del tempo). Analogamente, i filosofi della biologia o i filosofi della psicologia si occupano delle tematiche “scientificamente aperte” relative alla teoria dell’evoluzione o ai rapporti corpo-mente, mostrando una conoscenza tecnica sempre più dettagliata, ciò che li mette in grado di dialogare in modo più produttivo con gli scienziati propriamente detti.
Il vantaggio di questa progressiva specializzazione della filosofia della scienza sta quindi nell’avvicinamento delle filosofie delle varie scienze particolari al lavoro degli scienziati, soprattutto di quelli attenti alle problematiche concettuali sollevate dalla loro disciplina. Rinasce dunque, anche se in modo assai meno unitario, la tradizione moderna della filosofia naturale.
D’altra parte però, il rischio di tali ricerche più specialistiche non è solo che si perdano completamente di vista le problematiche generali affrontate precedentemente (del tipo “che cos’è una spiegazione scientifica?”, domanda che presuppone l’esistenza di un unico modello di spiegazione valido per tutte le scienze), ma anche che venga meno sempre più la dimensione genuinamente sinottica della filosofia della scienza, che nel nostro caso è quella che si sforza di guardare all’impresa scientifica nel suo insieme, ovvero nei suoi rapporti con le altre branche della cultura umana.
In ogni caso, il dialogo tra scienza e filosofia della scienza nel Novecento è stato certamente fecondo per entrambe le discipline. Se la filosofia ha avuto bisogno dell’apporto sempre nuovo dei dati empirici per non isterilirsi nella pura analisi dei concetti, gli scienziati migliori hanno sempre avvertito l’esigenza che la ricerca scientifica non si disperdesse in problemi puramente applicativi o di dettaglio, e continuasse a dedicarsi allo scopo di comprendere l’universo e il nostro posto in esso: ogni volta che uno scienziato cerca di interpretare la sua teoria, ovvero si sforza di capire che cosa essa ci dica sul mondo, solleva domande filosofiche. Ed è proprio da domande di questo tipo, che riguardavano l’interpretazione della meccanica quantistica, sollevate da Einstein intorno agli anni Trenta nel quasi generale scetticismo e poi riscoperte da David Bohm e John S. Bell negli anni Cinquanta e Sessanta, che la fisica degli ultimi vent’anni ha conosciuto inaspettati progressi teorici e sperimentali.