Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’occasionalismo si contraddistingue per il modo di intendere il rapporto tra anima e corpo e per l’impegno nel conciliare le posizioni del cartesianesimo con le riflessioni sulla teodicea. Nel tentativo di salvaguardare la spiritualità dell’anima e la causalità divina, i filosofi che sono stati riuniti sotto il termine “occasionalismo” sostengono, pur in una varietà di posizioni che giunge a comprendere la riflessione di Malebranche, che l’anima e il corpo non agiscono direttamente l’una sull’altro, ma sono soltanto l’occasione dell’intervento di Dio. Tra i maggiori esponenti del movimento si annoverano anche La Forge, Geulincx, Cordemoy.
Eredità cartesiana e questioni teologiche
La dottrina che nel Seicento prende il nome di “occasionalismo” non è semplicemente la risposta ai problemi dell’interazione anima-corpo, come vuole un’ipotesi storiografica ormai datata, ma nasce da un contesto dove la tesi cartesiana della radicale differenza tra pensiero ed estensione si intreccia con le discussioni teologiche sull’onnipotenza divina e sulla relazione tra Dio e la causalità naturale. Le conseguenze del dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa implicano la difficoltà di risolvere il problema del rapporto tra anima e corpo; ma sollevano al contempo difficoltà teologiche all’interno della dottrina cattolica: come intendere, al di fuori della definizione aristotelica dell’anima come forma del corpo, verità di fede quali la transustanziazione del corpo di Cristo nell’eucaristia? In che modo fondare la teodicea in un mondo dove la sfera del divino è radicalmente distinta da quella naturale? Lungi dal considerarli ambiti distinti, pensatori come La Forge e Malebranche intendono l’occasionalismo come la teoria dove quei problemi filosofici e religiosi trovano una conciliazione e una soluzione unitaria.
Era stato lo stesso Cartesio, ragionando sugli effetti che seguono cause a loro eterogenee, a usare nelle Meditationes l’espressione à l’occasion de: i movimenti corporei si verificherebbero in occasione di atti di volontà. Questa asserzione non nega il rapporto tra cause ed effetti, ma ne sottolinea l’eterogeneità. Per Cartesio la difficoltà non esiste: che l’anima agisca sul corpo è un fatto attestato dall’esperienza quotidiana e lo spirito umano è capace di concepire chiaramente sia la distinzione tra anima e corpo che la loro unione. Alcuni discepoli di Cartesio, tra i quali Johann Clauberg, Arnold Geulincx, Louis de La Forge, Géraud de Cordemoy e soprattutto Nicolas Malebranche, avvertono invece le gravi implicazioni di questa affermazione.
Se anima e corpo possono interagire, il rischio è quello di favorire una soluzione materialistica sul modello della tesi di Hobbes della corporeità dell’anima.
Preoccupati di salvaguardare la spiritualità dell’anima e allo stesso tempo di dimostrare l’agire diretto di Dio sul mondo, essi giungono a negare l’azione dell’anima sul corpo e a sostenere che è Dio a intervenire direttamente, anche nel caso in cui sembra che una delle due sostanze agisca sull’altra. È Dio a imprimere il movimento a un corpo quando l’anima lo vuole e a produrre contemporaneamente nell’anima la sensazione di aver compiuto quel movimento. Niente di quello che precede (affermano gli occasionalisti) è causa efficiente di ciò che segue. La volontà di alzare un braccio non è la vera causa efficiente dell’alzarsi del braccio, ma determina solo l’evento in occasione del quale la vera causa efficiente, cioè la potenza divina, si decide ad agire. La volontà è dunque solo causa occasionale. Identica soluzione si prospetta per la trasmissione del movimento, sia nel caso di un fatto materiale che ne provochi un altro materiale, sia nel caso di un evento psichico che ne generi un altro di identica natura. Chi muove i corpi è Dio, colui cioè che in principio ha dato movimento alla materia creandola. Per esempio, l’urto tra due corpi, come nel caso di una palla da biliardo che ne colpisca un’altra, è solo la causa occasionale che provoca l’intervento divino.
Nicola Malebranche
L’impotenza dei corpi e degli spiriti, anche nobili
Della ricerca della verità. Dove si tratta della Natura dello Spirito dell’uomo e dell’uso che bisogna farne per evitare l’errore nella Scienza
Ma non solo i corpi non possono essere cause vere di alcunché; in una analoga condizione d’impotenza si trovano gli spiriti più nobili. Non possono conoscere nulla se Dio non li illumina. Non possono sentir nulla, se Dio non li modifica. Non sono capaci di voler nulla, se Dio non li muove verso il bene in generale, ossia verso di sé. Possono, ne convengo, volgere a oggetti diversi da Dio la spinta che Dio imprime loro verso di lui; ma non so se questa si possa chiamare potenza. Sant’Agostino dice in qualche luogo che, se poter peccare è una potenza, si tratta di una potenza che l’onnipotente non ha. Se gli uomini dovessero a se stessi la potenza di amare il bene, si potrebbe dire che hanno qualche potenza; ma gli uomini non possono amare se non perché Dio vuole che amino, e la sua volontà è efficace. Gli uomini possono amare solo perché Dio li spinge senza posa verso il bene in generale, cioè verso di lui; infatti Dio, avendoli creati solo per sé, non li conserva mai senza spingerli e volgerli verso di sé. Non sono loro a muoversi verso il bene in generale; è Dio che li muove. Si limitano a seguire per una scelta del tutto libera questa spinta conforme alla legge di Dio, o la determinano verso falsi beni, secondo la legge della carne; ma non possono determinarla se non per la prospettiva del bene, perché potendo solo ciò che Dio fa sì che facciano non possono amare se non il bene.
Ma quand’anche si supponesse - e in un certo senso è vero - che gli spiriti abbiano in sé stessi la potenza di conoscere la verità e di amare il bene, se i loro pensieri e le loro volontà non producessero nulla all’esterno, si potrebbe sempre dire che non possono nulla. Ora, mi sembra certissimo che la volontà degli spiriti non è capace di muovere il più piccolo corpo di questo mondo; infatti, evidentemente, non sussiste necessario legame fra la nostra volontà, per esempio, di muovere il nostro braccio, e il movimento del nostro braccio. Si muove, è vero, quando vogliamo, e quindi noi siamo la causa naturale del movimento del nostro braccio. Ma le cause naturali non sono vere cause; sono solo cause occasionali, che, come ho spiegato, agiscono solo per la forza e l’efficacia della volontà di Dio.
Infatti, come potremmo muovere il braccio? Per muoverlo occorrono degli spiriti animali, bisogna inviarli attraverso certi nervi, verso certi muscoli per gonfiarli e raccorciarli, perché così si muove il braccio a questi attaccato, o, secondo qualche altro, in un modo che ancora si ignora. E noi vediamo gli uomini che non sanno neppure di avere spiriti, nervi e muscoli muovere il braccio, e muoverlo anche con più abilità e facilità di quelli che meglio conoscono l’anatomia. Dunque gli uomini vogliono muovere il braccio e solo Dio lo può e lo sa muovere. Se un uomo non può abbattere una torre, per lo meno sa bene che cosa bisogna fare per abbatterla; ma non c’è un uomo che sappia semplicemente cosa bisogna fare per muovere un dito per mezzo degli spiriti animali. Come dunque gli uomini potrebbero muovere le braccia? Queste cose mi sembrano evidenti e mi sembra debbano esserlo per tutti quelli che vogliono pensare, anche se forse sono incomprensibili per tutti quelli che vogliono solo sentire.
Malebranche, La ricerca della verità, a cura di M. Garin, con intervento critico di E. Scribano, Roma-Bari, Laterza, 2007
Gli occasionalisti
L’occasionalismo trova la sua formulazione più radicale nell’opera del francese Louis de La Forge. Questi, nel Traité de l’esprit de l’homme , ribadisce l’assoluta sovranità di Dio sulle “cause seconde”. La teoria delle cause seconde individua nella semplice successione temporale di due fatti un reale rapporto di causa ed effetto (concetto già discusso nei dibattiti teologici della fine del XIII secolo, in particolar modo in Giovanni Duns Scoto). Nel Seicento l’occasionalismo definisce “causa seconda” quella che provoca l’occasione per intervento della volontà divina o “causa prima”. Riprendendo alcune tesi sul legame tra anima e corpo formulate da Johannes Clauberg nel De cognitione Dei et nostri , La Forge afferma che l’azione reciproca dell’anima e del corpo va intesa come comunicazione di movimenti ma, poiché nessuna sostanza ha la capacità di muoversi da sé, entrambe trovano la loro causa nel medesimo principio universale: Dio. Nei corpi e negli spiriti non vi è alcuna autonomia d’azione, neppure potenziale; piuttosto, il senso della loro esistenza sta nel costituire gli strumenti tramite i quali Dio ha stabilito di produrre un’azione: “io continuo […] a riconoscere i corpi e gli spiriti come le cause particolari di quegli stessi movimenti, non invero perché essi producano alcuna qualità impressa […] ma perché essi determinano e obbligano la causa prima ad applicare la sua forza e la sua virtù motrice su corpi sui quali non l’avrebbe esercitata senza di essi, secondo il modo in cui essa ha deciso di comportarsi” (L. de La Forge, Traité de l’esprit de l’homme, cap. XVI, in Oeuvres philosophiques, Presses Universitaires de France, Paris 1974, tr. it. di E. Scribano). La Forge si spinge ad affermare che le sostanze estese non avrebbero neppure la capacità di mantenersi in esistenza, garantita invece da Dio attraverso una “creazione continua”.
Louis de La Forge
Come lo spirito agisce sul corpo, e viceversa
Trattato sullo spirito dell’uomo
Se vi dicessi che concepire come lo spirito dell’uomo, senza essere esteso, possa muovere il corpo, e come il corpo, senza essere cosa spirituale, possa agire sullo spirito, non è più difficile che concepire come un corpo abbia la potenza per muoversi e comunicare il suo moto ad altri corpi, non penso che troverei credito nello spirito di molti; eppure non v’è nulla di più vero (...) causa del moto dei corpi non è dunque una cosa tanto evidente come si potrebbe pensare; e questa è la ragione per cui ho detto all’inizio che concepire in che modo lo spirito muova un corpo non è più difficile che sapere come un corpo ne muova un altro; per il fatto che, nell’uno come nell’altro, bisogna ricorrere alla stessa causa universale. E siccome questo è il punto di molti il malaugurato preconcetto di credere che, se la loro anima non fosse corporea, non avrebbe la forza di muovere il corpo perché, dicono essi, non potrebbe farlo senza toccarlo... Come se il moto potesse comunicarsi soltanto per mezzo del contatto, o come se fosse altrettanto facile osservare come un corpo ne muova un altro quanto è facile vedere come lo tocchi (...)quindi che è Dio la causa prima, universale e totale del moto e che, come è stato necessario che Egli usasse la sua parola onnipotente per trarre dal nulla tutta la natura, è anche per mezzo di questa parola che Egli ha tratto la medesima natura dal caos producendo in essa il moto. E nello stesso modo che essa tornerebbe nel suo nulla s’Egli cessasse di trarnela ad ogni istante in cui la conserva, del pari essa ricadrebbe nella sua confusione primitiva s’Egli non mantenesse il moto da lui stesso prodotto. (...) benché in tal modo Dio sia la causa universale di tutti i movimenti che avvengono nel mondo, non tralascio affatto di riconoscere che il corpo e gli spiriti sono le cause particolari di questi stessi movimenti, non già invero producendo alcuna impressa nel modo in cui lo spiega la scolastica, ma determinando ed obbligando la causa prima ad applicare la sua forza e virtù motrice sopra corpi sui quali non l’avrebbe esercitata senza di essi, secondo il modo in cui si è risolta a governarsi coi corpi e gli spiriti, cioè per i corpi secondo le leggi del moto (...) e per gli spiriti secondo l’estensione del potere ch’Egli ha voluto concedere alla loro volontà; in ciò soltanto consiste la virtù che i corpi e gli spiriti hanno di muovere. Pertanto, capire come uno spirito possa agire su un corpo e muoverlo non è più difficile che concepire come un corpo ne spinga un altro.
in Grande antologia filosofica, Milano, Marzorati, 1968
Di eguale tenore sono le tesi del filosofo olandese Arnold Geulincx, evidenziate dal principio per cui impossibile est, ut is faciat, qui nescit quomodo fiat (“è impossibile fare ciò di cui si ignora il modo di produzione”). L’azione dell’anima sul corpo è un’illusione e l’accordo tra gli atti delle due sostanze è spiegabile solo facendo ricorso all’azione di Dio. Questi è come un orologiaio che abbia costruito due orologi, differenti tra loro e completamente autonomi, eppure in perfetta sincronia. All’osservatore esterno potrà sembrare che i movimenti dell’uno siano causa o effetto dei movimenti dell’altro, ma al filosofo non può sfuggire che il sincronismo dipende solo dal modo in cui gli orologi sono stati costruiti dall’orologiaio e cioè da Dio.
Ad analoghe conclusioni giunge anche il francese Géraud de Cordemoy. Il movimento di un corpo può essere conservato solo da quella causa che lo ha prodotto; l’uomo non è in grado di conservare i movimenti del proprio corpo, quindi non può nemmeno esserne l’autore. Cordemoy, al pari di Geulincx, nega che lo spirito abbia il potere di influenzare e orientare il moto corporeo, ed estende a Dio la facoltà di causare i nostri pensieri così come i movimenti simultanei della nostra lingua. Tutti i processi spirituali derivano da Dio e la libertà umana si riduce all’intenzione: la responsabilità dell’uomo è salvaguardata dal fatto che, se è Dio a farci pensare, siamo pur sempre noi che pensiamo. La stessa conoscenza umana è limitata all’ambito delle proprie passioni e al riconoscimento che le cose non sono in sé come egli le conosce.
Nicolas Malebranche
La trattazione più completa dell’occasionalismo si ha nell’opera di Nicolas Malebranche che esce a Parigi nel 1675 con il titolo La recherche de la vérité , e con la quale assistiamo al “passaggio dalla filosofia dell’occasione a un sistema occasionalista” (A. Robinet, Systém et existence dans l’œuvre de Malebranche, Vrin, Paris 1965). Convertito alla filosofia dalla lettura del Traité de l’homme di Cartesio e accolto il metodo cartesiano che assegna validità solo alle proposizioni che appaiono evidentemente vere, Malebranche non accetta però la tesi, propria della psicologia cartesiana, secondo la quale le idee consisterebbero in stati della coscienza. Negli Eclaircissements, Malebranche riconosce in esse gli archetipi delle cose, le essenze iscritte nell’intelletto di Dio. Un platonismo di chiara impronta agostiniana, spiegabile col suo ingresso nella congregazione degli oratoriani (avvenuta nel 1660) e con la convinzione che il pensiero di Agostino, letto in chiave di affermazione dell’integrità spirituale dell’anima, costituisse un correttivo ai problemi epistemologici posti dal cartesianesimo e un contrappeso al meccanicismo di quella filosofia della natura. Un metodo che è stato efficacemente descritto come “il risultato originale di un Cartesio corretto alla luce di un platonismo cristiano che gli giungeva da Agostino” (T.M. Lennon, Malebranche and Method, in S. Nadler [ed.], The Cambridge Companion to Malebranche, Cambridge University Press 2000, p. 8).
Se le idee prendono forma nella mente divina, non sarà l’uomo, ma Dio, il loro autore.
La teoria della conoscenza di Malebranche, quindi, sarà prima di tutto un’indagine sui nostri errori e sul modo di eliminarli. Le soluzioni fornite da Malebranche risentono della sua vasta cultura scientifica, che spazia dall’ottica alla meccanica, e in particolare, nel famoso esempio delle due palle da biliardo, ai lunghi studi dedicati al fenomeno dell’urto. Ci sono errori che dipendono dai sensi e dall’immaginazione ed errori commessi dall’intelletto. La conoscenza sensibile ha un’utilità esclusivamente pratica, non essendo i sensi in grado di giudicare come sono le cose in se stesse. D’altronde anche l’anima non è in grado di produrre le idee che le consentono di conoscere la realtà, poiché la produzione delle idee è un vero e proprio atto di creazione e gli uomini non hanno facoltà di creare. Credere che gli uomini abbiano la possibilità di causare, di provocare cioè dei movimenti, per Malebranche è solo un residuo di paganesimo. Causare equivale a creare, e questo è attributo che appartiene solo a Dio, la cui volontà è l’unica forza motrice e unica vera causa delle nostre idee.
Tutta la conoscenza che l’uomo ha delle idee e del reale è dovuta al fatto che l’uomo li vede direttamente in Dio. In questo modo Malebranche rimane nel solco della dottrina occasionalista della separazione tra anima e corpo, ma sottolineando la partecipazione dell’anima alla ragione divina si ricollega anche all’idea agostiniana del contatto immediato tra l’anima e Dio. Scrive infatti nel luglio 1694: “Sono circa trent’anni che i principi di sant’Agostino uniti a quelli di Cartesio mi hanno fatto nascere questo pensiero che, nella supposizione che i corpi circostanti fossero annientati, non vedrei immediatamente che l’idea di estensione” (in G. Gori, Introduzione alla lettura della “Recherche de la vérité”, Unicopli, Milano 1986). Non a caso i suoi contemporanei leggono la teoria della visione in Dio come testimonianza del misticismo di fondo di Malebranche. Quello che noi vediamo in Dio sono comunque solo le cose conoscibili mediante le idee e cioè le caratteristiche geometriche dei corpi. Tutto quello che riguarda le sensazioni e le qualità sensibili, essendo queste prive di oggettività, ci è sconosciuto. Ma se la nostra conoscenza dell’anima è incerta, anche il possesso delle idee di un corpo non è sufficiente a dimostrare la sua esistenza. Se Cartesio risolve il problema affidandosi alla garanzia di un Dio incapace di ingannare, per Malebranche solo la Rivelazione, l’autorità delle Scritture e infine la fede sono in grado di colmare il divario, irrisolvibile per la ragione, tra le idee e la realtà esterna.
Se già negli Eclaircissements Malebranche stabilisce un parallelo tra l’ordine della natura e quello della grazia, entrambi sottoposti alle stesse leggi di semplicità e generalità, una trattazione più completa del problema si ha con la pubblicazione del Traité de la nature et de la grâce (1680).
I suoi interventi in materia si susseguiranno fino ai primi decenni del Settecento; tuttavia sembra opportuno, in una prospettiva di storia delle idee più che rigorosamente storiografica, collocare Malebranche in apertura del percorso nelle tradizioni filosofiche del Seicento. Com’è possibile, si domanda Malebranche, conciliare la provvidenza di Dio con la presenza del male nel mondo? Questo interrogativo, centrale per la teologia classica, è ingigantito da una dottrina teocentrica come quella occasionalista, che individua in Dio l’unica causa di tutto ciò che avviene. La riflessione di Malebranche, inoltre, lo affronta alla luce del problema del compatibilismo tra onnipotenza divina e libertà dell’uomo, riprendendo il filo di una riflessione sul fatalismo teologico che ha le proprie radici nel De consolatione philosophiae di Boezio: come cioè possa conciliarsi il sapere divino, che preconoscendole necessita le cose contingenti, con il libero accadere degli eventi e come possa l’uomo avere conoscenza stabile (e quindi necessaria) di realtà mutevoli. Temi che erano stati al centro della controversia sulla grazia e sulla libertà, interna alla tarda scolastica, tra i sostenitori del gesuita Luis de Molina e quelli del domenicano Domingo Báñez (vedi, in questo volume, il capitolo “Ontologia, libertà e metafisica: le tradizioni scolastiche”).
La soluzione proposta da Malebranche traspone nel campo della dottrina teologica alcuni principi strettamente scientifici. Attributo principale di Dio è, prima della bontà, la saggezza: Dio è tanto più saggio quanto più opera con il minor numero possibile di leggi stabilite una volta per tutte e valide per sempre, sia nel campo della natura sia in quello della grazia. Per questo non si può fare una colpa a Dio per la presenza del male: la bontà con la quale Egli vorrebbe impedirlo è infatti subordinata alla saggezza che gli suggerisce di non compromettere la semplicità delle leggi che regolano il mondo con interventi ad hoc. Come non è saggio per Dio stabilire con un decreto che la pioggia non cada sul mare ma sul deserto, così nel campo della grazia non è saggio che Dio complichi le sue leggi con un’infinità di decreti particolari.
I temi della grazia e della teodicea sono al centro della polemica tra Malebranche e i giansenisti, in particolare Arnauld con il quale la diatriba si protrasse per quasi vent’anni, dal 1680 al 1694 (cfr. Steven Nadler, Il migliore dei mondi possibili. Una storia di filosofi, di Dio e del male, tr. it. di F. Piro, Einaudi, Torino 2009). La storiografia ha da tempo richiamato l’attenzione sulla necessità di considerare quello scontro in una prospettiva di lunga durata, gettando luce sulle origini della teodicea malebranchiana dal dibattito, che prende piede nella teologia scotista ma si protrae fino al XVII secolo e oltre, sugli attributi dell’onnipotenza divina declinati nella distinzione, divenuta poi classica, tra potentia Dei absoluta e potentia Dei ordinata (cfr. ibidem, p. 205 e G. Gori, “Onnipotenza divina e ordine in Malebranche”, in AA.VV., Sopra la volta del mondo, Lubrina, Bergamo 1986, pp. 93-105). È su questo piano che si consuma lo scontro con Arnauld. Questi rifiuta alcune idee centrali nella teodicea di Malebranche: per esempio la teoria della visione in Dio, che a suo avviso cancella ogni differenza tra la conoscenza umana e quella divina, dato che tutti conoscerebbero in Dio. Quello di Arnaud è un Dio volontarista, che agisce attraverso volontà particolari rivolte a fatti e oggetti specifici. gli oppone un Dio razionale che agisce in conformità alla propria saggezza nello scegliere, secondo leggi generali, il migliore dei mondi possibili. È il progetto stesso di una teodicea a essere infondato, per Arnauld, dal momento che egli la giudica come una forma di limitazione all’onnipotenza assoluta di Dio. Da questo punto di vista, i due erano condannati a non capirsi.
Rispetto ai giansenisti invece, che sostengono la totale passività umana nei confronti della grazia e la tesi per cui non tutti gli uomini verrebbero salvati da Dio, Malebranche riafferma la possibilità per ogni uomo di porsi, grazie all’amore di Dio e alla conoscenza del bene, nella condizione di poter ricevere la grazia quando questa lo tocchi.
Allo studio della morale, che Malebranche considera la più necessaria tra tutte le scienze, è dedicato il Traité de morale (1684). Se la Recherche stabilisce che l’amore è legato indissolubilmente al male causato dal peccato originale, il Traité trova il fondamento metafisico del bene nella contemplazione del Verbo o Ragione. Qui l’uomo scopre i rapporti di perfezione che costituiscono l’“Ordine” immutabile che Dio stesso consulta prima di agire; anche in questo caso, un esplicito richiamo alla metafisica di Agostino. La virtù si identifica allora con lo sforzo che l’uomo fa per passare dalla legge naturale, compromessa dal peccato, alla legge immutabile dell’Ordine. Sforzo che coincide con un movimento libero e razionale verso il bene, in grado di sottrarre l’uomo alle inclinazioni che gli derivano dalle passioni e di trasformare l’amore per l’Ordine in un’“abitudine dominante”. Ma poiché noi possiamo ancora amare l’Ordine per istinto, è necessario che esso sia regolato dalla conoscenza esatta dei nostri doveri, che Malebranche distingue in doveri verso Dio, la società e noi stessi.
Malebranche: gli studi scientifici
Il favore di cui godono i giansenisti sotto il pontificato di Innocenzo XI porta alla condanna all’Indice dei Libri Proibiti delle opere metafisiche e teologiche di Malebranche. Pur non ottenendo gli esiti sperati dai giansenisti, la condanna lo induce ad abbandonare le questioni metafisico-teologiche per dedicarsi agli studi scientifici e in particolare alla matematica. Partito da un’impostazione strettamente cartesiana, che con il concetto di grandezza esprime in termini chiari e distinti quei rapporti finiti di uguaglianza e disuguaglianza che hanno nell’idea di unità la loro misura comune, Malebranche finisce con l’accogliere le critiche di Leibniz. Questi sosteneva che il concetto di grandezza fosse da sostituire con quello di “quantità variabile”, che aumenta e diminuisce in continuazione e rispetto alla quale tutte le quantità costanti sono solo casi particolari. Malebranche accoglie quindi il calcolo infinitesimale e se ne fa promotore negli studi scientifici francesi. Anche l’adesione generale di Malebranche alla fisica cartesiana si evolve in posizioni più critiche riguardo l’ipotesi che individua nel riposo la forza capace di resistere al movimento. Nell’ultimo capitolo della Recherche si afferma che, se è indispensabile la volontà divina per far passare un corpo dallo stato di quiete al movimento, mentre è sufficiente che Dio smetta di volere perché un corpo non si muova più, sarà il movimento e non il riposo ad avere forza.
L’ingresso all’Académie des Sciences, nel 1699, segna l’affermazione di Malebranche come scienziato e l’inizio della sua influenza sugli studi matematici. In quella occasione compila un Mémoire in cui s’impegna nella definizione del concetto di “materia sottile” e si occupa della trasmissione della luce e dei colori, della gravità dei corpi e delle loro proprietà, e soprattutto delle leggi che riguardano la trasmissione del movimento. All’interno di un metodo che resta sostanzialmente ipotetico-deduttivo, Malebranche assegna tuttavia all’esperienza un ruolo preminente. Così, nella quinta edizione della Recherche, egli critica il principio della conservazione della quantità di moto che Cartesio fa derivare dall’immutabilità di Dio: l’esperienza ci insegna che, in caso di urto tra due corpi, la quantità di movimento trasmessa aumenta e diminuisce incessantemente.
Malebranche: dibattiti e polemiche
La biografia di Malebranche è segnata da vivaci contrasti intellettuali, che spesso lo costringono a doversi difendere su più fronti. Né va dimenticato che, tra tutte le opere di Malebranche, solo la Recherche otterrà l’approvazione della censura. Si è detto dello scontro con Arnauld e con i giansenisti. Ma non meno aspra fu la polemica con i gesuiti. Malebranche intende l’occasionalismo come una teoria che, conciliando il cristianesimo con le conquiste della filosofia cartesiana, si pone in alternativa all’aristotelismo della tradizione scolastica sostenuto dai gesuiti. Egli rileva come quel sistema di pensiero, attribuendo realtà sostanziale alla causalità, puro termine del linguaggio, ricada in un nominalismo che è, al contempo, un errore filosofico e una pericolosa forma di idolatria. Lo scontro si ripresenta in alcuni opuscoli d’occasione: negli Entretien d’un philosophe chrétien et d’un philosophe chinois (1708), per esempio, Malebranche contesta ai gesuiti l’opportunità di accogliere alcuni riti della tradizione cinese per meglio favorire la riuscita della propria opera missionaria.
La polemica con i gesuiti offre a Malebranche l’occasione per tornare ad affrontare temi filosofici, dopo la condanna all’Indice, e soprattutto per dirimere la questione, poi ripresa in uno scambio epistolare con il segretario dell’Académie Jean-Jacques Dortous de Mairan, sulle presunte affinità tra la sua dottrina della visione in Dio e alcuni aspetti delle teorie di Spinoza. Preoccupato dagli accostamenti tra la propria concezione dell’essere infinito in assoluto e la definizione spinoziana di Dio, che riduce tutte le cose a manifestazione di un’unica sostanza, Malebranche attacca la tesi dell’impossibilità della creazione, vista come passaggio decisivo che conduce il filosofo olandese a posizioni panteistiche. L’esistenza dell’essere infinito non esclude il concetto di creazione: contraddittorio è semmai pensare che a un essere onnipotente sia negata la facoltà di creare. Sempre sul dogma dell’unicità della sostanza divina si fonda il parallelismo di Spinoza fra i modi dell’estensione e i modi del pensiero, entrambi attributi della sostanza; il che lo porta a concludere che noi vediamo le cose in se stesse. Ma in realtà, obietta Malebranche, quello che noi vediamo in Dio non sono le cose in sé, ma soltanto le idee. Sono tentativi per sottrarsi all’abbraccio, giudicato fatale dall’oratoriano, tra la sua concezione di un Dio soggetto alla “costrizione” della propria saggezza e il carattere di necessità del mondo di Spinoza. Eppure la lettura di Malebranche alla luce della polemica sullo spinozismo segnerà la storiografia fino a tutto l’Ottocento: ancora Hegel, nelle Lezioni sulla storia della filosofia, parlerà della filosofia di Malebranche come di uno spinozismo in forma pia e teologica.