Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
I diritti dell’uomo vivono nel Novecento un momento di grande riconoscimento teorico e normativo, ma anche, e prima, di tragica violazione. Nella seconda metà del secolo nascono molteplici filosofie dei diritti e si accredita l’esigenza di una proliferazione dei diritti come risposta a problemi inediti. I diritti degli animali ne sono una delle manifestazioni più feconde.
Diritti violati, diritti universalizzati
È possibile ripercorrere la storia dei diritti dell’uomo lungo i secoli, ricostruire teorie dei diritti naturali ed eventi storici come le rivoluzioni sei e settecentesche, epocali anche per la novità della consacrazione politica del riconoscimento dei diritti; ma è il Novecento il secolo della massima difesa teorica e giuridica, nonché della più brutale e tragica violazione dei diritti umani.
Se l’Ottocento e il primo Novecento si caratterizzano per l’espansione delle potenze nazionali e vedono la prevalenza della corrente di pensiero giuspositivista, convinta del primato del diritto positivo (cioè effettivamente posto) e del principio di validità (e non di giustizia) come sua fonte di legittimazione, la Seconda guerra mondiale e gli orrori del nazifascismo determinano una reazione netta e radicale, una svolta: il riconoscimento universale dei diritti umani, di quei diritti, cioè, ascrivibili universalmente agli esseri umani in quanto soggetti, individui eguali e liberi aventi un valore intrinseco e dignità. E questo tanto nella riflessione filosofica quanto nella concreta esperienza storica.
Si assiste al recupero della matrice culturale che dall’età moderna in poi aveva consentito l’affermazione dei diritti naturali: il giusnaturalismo. Soprattutto in terra tedesca, ciò si impone subito come un’esigenza insopprimibile. Il giurista e filosofo Gustav Radbruch, nell’immediato secondo dopoguerra, ne diventa il paladino. Occorre tornare – egli afferma – a legare essenzialmente il diritto alla morale, tenendosi saldi all’idea che un diritto palesemente ingiusto non potrebbe nemmeno dirsi tale. Non basta più la forma della norma, è necessario anche un contenuto adeguato, accettabile, decente per ogni norma.
La risposta dolente al nazionalsocialismo è evidente. Non sempre, tuttavia, si manterrà questa profondità teorica, talvolta ci si accontenterà di porre al riparo dalla mutevolezza dei regimi politici i diritti soggettivi, che hanno potuto affermarsi, al fine, anche sul piano storico. Non occorre dichiararsi convinti della fondatezza di diritti umani naturali, basterà preservare il rispetto di diritti umani storici.
È questa la posizione di Norberto Bobbio che sposta il fuoco dell’attenzione sull’esigenza di protezione dei diritti, ridimensionando l’importanza della loro fondazione, anzi affermando la perniciosità di un discorso che affidi alla legittimazione la propria consistenza, con ciò esponendosi al rischio di perderla qualora il tentativo di esibire un fondamento vada incontro, qui e ora o in prospettiva, a un fallimento.
Il rapporto tra fondazione e garanzia è in effetti uno dei nodi più complessi che le filosofie novecentesche dei diritti si trovano costrette ad affrontare. Le une optano per il primato della fondazione e la subordinazione del momento applicativo della tutela, le altre si concentrano sulle possibili vie per una loro garanzia efficace e credibile. La storia, anche la più recente, per parte sua, continua a esibire la portata decisiva della questione, mostra i circoli virtuosi che trasformano tutele di fatto in riconoscimenti di diritto, ma anche le perversioni di una garanzia parossistica che giunge addirittura a negare i propri principi ispiratori, appunto i diritti umani. Vi sono, in positivo, le conquiste costituzionali degli Stati democratici e le vittorie, almeno formali, del diritto internazionale. Ma pesa anche, in negativo, la persistenza della pena di morte, della guerra, della tortura. A questo riguardo la sentita sollecitazione di Hannah Arendt ad avere uno sguardo cauto e disincantato sui diritti dell’uomo conserva ancora oggi vigore.
I diritti dell’uomo. Un riconoscimento contrastato
Dal punto di vista storico, la stagione dei diritti umani universali segna una tappa decisiva con la Dichiarazione universale dei diritti umani dell’ONU siglata nel 1948 e con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950. Se per l’Europa la garanzia dei diritti umani prevista da una convenzione assurge subito a prescrizione vincolante per gli Stati membri della Comunità, occorre attendere i due Patti del 1966, il Patto internazionale sui diritti civili e politici e il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, per la tutela parimenti vincolante a livello mondiale dei diritti civili (come il diritto alla vita), dei diritti politici (come il diritto di voto), dei diritti sociali (come il diritto alla salute). Per quanto attiene agli interventi volti a renderne efficace l’esigibilità, sono conquiste di rilievo, sebbene non scevre da difficoltà operative, la Corte europea per i diritti dell’uomo con sede a Strasburgo, istituita per disposizione della Convenzione del 1950, e la Corte penale internazionale attiva dal 2002, competente per i reati stabiliti dallo Statuto di Roma (1998), segnatamente i crimini contro l’umanità.
Sul fronte del pensiero filosofico, la giustificazione dei diritti non è unanimemente condivisa. A risuonare sono ancora le critiche ottocentesche alle rivendicazioni dei diritti dell’uomo delle rivoluzionarie Dichiarazioni francesi. L’utilitarista inglese Jeremy Bentham aveva denunciato il significato mistificatore di presunti diritti, utili solo ad alimentare lo spirito di insurrezione nei confronti delle leggi e del potere politico, arrivando a definire i diritti “nonsensi sui trampoli” o “nonsensi al quadrato”. Ma ancora di più resta viva la polemica di maggiore respiro e valore storico del giovane Marx, che respinge l’ideale dei diritti dell’uomo, perché fondato – oltre che su una nozione astratta della sfera politico-istituzionale, avulsa dal concreto della relazione economico-sociale – sull’isolamento dell’uomo dall’uomo, su una nozione di libertà appropriata solo all’individuo isolato e ripiegato su se stesso.
Al fianco di queste critiche classiche, cominciano ad affermarsi nel tardo Novecento correnti di pensiero che fanno della contrapposizione alle teorie dei diritti una mossa preliminare per l’elaborazione del proprio ideale di giustizia. Si colloca in questo solco il femminismo radicale che rimette in discussione non solo il concetto di diritti soggettivi, ma addirittura l’intero lessico a essi riferibile, in quanto interno alla stessa logica oppressiva che si vuole superare. E pure il comunitarismo conservatore che, premiando la comunità sui suoi membri (gli individui), nega legittimità alla battaglia per la loro tutela. Più articolata la polemica di matrice liberista (della Scuola austriaca o dell’Analisi economica del diritto) rivolta in modo eminente ad alcune specie di diritti, su tutti i diritti sociali.
A mantenersi prevalente è comunque la giustificazione convinta dei diritti umani che imbocca strade diverse, solo in parte in grado di generare feconde sovrapposizioni.
Distinzioni e controversie concettuali
Le stesse scelte terminologiche relative alla definizione dei diritti danno luogo a una molteplicità di letture. Si parla di diritti umani e di diritti fondamentali talvolta in modo sinonimico. Altre volte si distingue tra i diritti umani intesi come diritti morali e i diritti fondamentali, volendo indicare con questa seconda espressione i diritti umani riconosciuti sul piano istituzionale, quindi in quanto diritti propriamente giuridici. Così John Rawls definisce i diritti umani “diritti morali”, validi a prescindere dalla loro ratifica costituzionale (ritenuta condizione necessaria, sebbene non sufficiente, perché uno Stato possa essere ritenuto almeno decente) e dotati di particolare urgenza (si pensi al diritto alla libertà dalla schiavitù e dalla sofferenza delle torture o alla libertà di coscienza e dalle aggressioni). Ma, ancora, diritti umani e diritti fondamentali si sogliono distinguere tra loro con nettezza allorquando si intende considerare questi ultimi come una categoria più ampia rispetto ai primi, perché libera da vincoli relativi al loro contenuto, cioè perché essenzialmente formale. Connesso a queste distinzioni è pure il nodo controverso del carattere assoluto oppure relativo dei diritti. Se Bobbio invitava a non guardare con troppa diffidenza al relativismo, vi sono autori che nella relativizzazione dei diritti, nella disponibilità a restringerne la portata universale e l’esigibilità, con la motivazione magari di riuscire così meglio a garantirli, scorgono più o meno occulte inclinazioni all’indifferenza, all’acriticità e al particolarismo.
Ad aggiungersi a questo quadro, già assai complesso, è l’eterogeneità dei diritti dell’uomo, in particolare dei diritti civili e politici rispetto ai diritti sociali. È stato sostenuto che i diritti sociali possiedono una natura speciale individuando poteri e obiettivi piuttosto che protezioni e libertà, e mancando di essere per tale ragione immediatamente traducibili nei corrispondenti doveri. Per questa via taluni sono arrivati a negare loro lo status di diritti, mentre altri hanno continuato a giudicarne necessario l’accoglimento affinché anche i diritti civili e politici (i diritti di libertà) possano essere presi sul serio.
Filosofie dei diritti
Questa pluralità dei punti di vista, profonda e cruciale per i nodi che lascia affiorare, benché resti in parte irriducibile, può ciononostante ordinarsi secondo una tipologia essenziale.
Vi sono tre tipi di teorie dei diritti umani: le teorie formalistiche, le teorie sostanzialistiche e le teorie procedurali.
Le teorie formalistiche vedono nei diritti umani una categoria particolare di diritti fondamentali, comprendente i diritti soggettivi estesi universalmente a tutti gli esseri umani, indipendentemente dall’interesse o dal bene garantito e dal fatto che essi siano stabiliti o previsti dall’ordinamento giuridico. Luigi Ferrajoli parla a questo proposito di diritti fondamentali come diritti primari delle persone e non solo dei cittadini. Loro caratteristiche sono l’inalienabilità e l’indisponibilità anche per il soggetto che ne è titolare oltre che per gli altri, persone e istituzioni.
Le teorie sostanzialistiche dei diritti umani concentrano l’attenzione, al contrario, sul momento fondazionale, avanzando una risposta all’interrogativo concernente la giustificazione di questi diritti. Sotto tale profilo è rintracciabile una fondazione di matrice perfezionistica, la più diffusa in questo ambito perché forte della sua continuità ideale con la tradizione del diritto naturale aristotelico-tomista. Alla base è l’idea che i diritti umani siano gli strumenti giuridici adeguati alla promozione dei beni fondamentali per l’uomo che vive in una comunità politica. I diritti umani soddisfano cioè la richiesta fondamentale della garanzia delle condizioni che permettono la fioritura dell’eccellenza umana – la vita buona – la cui consistenza è certa e autoevidente alla ragione. Per John Finnis i diritti umani sono in questa chiave una componente del bene comune, nel senso che non lo esauriscono e ne vengono da esso limitati.
Accanto alla versione sostanzialistica perfezionista, fondata sull’autoevidenza razionale del bene umano da tutelare anche attraverso i diritti, si accredita, grazie al contributo di Alan Gewirth, una fondazione di carattere logico-deduttivo che muove dalle caratteristiche inerenti a ogni soggetto umano che agisce. In tale prospettiva i diritti si giustificano logicamente in base a un principio di coerenza, poiché vi è un requisito morale essenziale che riguarda ogni persona in quanto soggetto che agisce. Esso consiste nel riconoscimento di ogni persona come agente libero; da ciò si desume la necessità dei diritti quali pretese alla libertà e al benessere, quali presupposti cioè per il manifestarsi della condizione esistenziale dell’agire di ogni uomo.
In alternativa alle proposte sostanzialistiche, le teorie procedurali dei diritti umani corrispondono all’ambizione fondazionale affidando a un metodo formale l’onere normativo della giustificazione. La ratio ispiratrice di questo terzo gruppo di teorie è rintracciabile nell’approccio all’ideale di giustizia presentato in modo pionieristico da Rawls nel 1971 in A Theory of Justice . La sfiducia nella possibilità di conferire ancora un ruolo fondativo al diritto naturale, da un lato, la convinzione che non ci si debba arrendere a un insidioso relativismo avalutativo, dall’altro, spronano a una rinnovata indagine, alleggerita da premesse valoriali, eppure assai pretenziosa sul piano prescrittivo. L’idea è di individuare regole di ragionamento e di deliberazione in grado per la loro stessa natura, di offrire come esito applicativo un risultato non neutrale dal punto di vista morale. Famoso l’esempio rawlsiano: per ottenere la spartizione equa di una torta si dovrà affidare il compito di tagliarla a colui che sceglierà per ultimo la propria fetta. L’idea genera grandi polemiche e scetticismi, ma viene anche accolta e rielaborata dai maggiori filosofi del diritto dell’ultimo quarto di secolo. Da menzionare sono entro questo rinnovato clima culturale le due più influenti teorie dei diritti umani: la teoria costituzionalistica di Ronald Dworkin e la teoria discorsiva di Jürgen Habermas.
La teoria di Dworkin perviene alla giustificazione dei diritti umani attraverso l’elaborazione di un più generale concetto di diritto di tipo interpretativo e creativo. Il diritto è – a suo giudizio – interpretazione, ma un’interpretazione consegnata non alla discrezionalità giudiziaria, bensì alla capacità di giudizio propria di un giudice ideale, che, a fronte di casi difficili, sappia dar voce ai principi di giustizia e applicarli, ossia rispettare, in ultima istanza, i diritti soggettivi (metaforicamente, gli assi, le carte vincenti su tutte le altre in ogni partita); diritti, quelli soggettivi, a loro volta fondati su di una premessa normativa generalissima: il dovere morale dell’eguale considerazione e rispetto per ciascuno.
Per la teoria dei diritti proposta da Jürgen Habermas (e condivisa in parte da Robert Alexy) i diritti soggettivi scaturiscono invece dalla stessa prassi democratica, di cui sono al tempo stesso la condizione di possibilità. I depositari dei diritti sono anche gli autori delle norme che li sanciscono. Non possiamo né presupporre diritti umani morali, né rinunciare a essi: possiamo però vederli come regole strutturali di una democrazia, non riduzionisticamente intesa come la forma di governo basata sul mero principio di maggioranza. Diritti e sovranità rimandano gli uni all’altra stringendosi in un nesso biunivoco. Il sistema dei diritti forma una cosa unica con la democrazia, scandisce i vincoli normativi che necessariamente devono essere riconosciuti perché il discorrere democratico sia autentico e non involva smentendo se stesso.
Dalla teoria alla pratica: sull’efficacia della garanzia dei diritti
Resta nella maggior parte degli esponenti di queste tre correnti teoriche la consapevolezza che, per affrontare l’enorme questione della giustificazione dei diritti umani, non sia eludibile la peculiare problematicità della loro efficacia, delle loro garanzie reali. La difesa dei diritti umani si scontra nei fatti con due ostacoli strutturali tra loro connessi: il carattere assoluto, cioè privo di limiti, della sovranità degli Stati e il consensualismo degli accordi internazionali, ossia il loro valere solo in caso di approvazione statale e soltanto per i singoli Paesi aderenti. I diritti umani stabiliscono garanzie moralmente dovute a ogni uomo in quanto tale, eppure, perché generino doveri anche di natura giuridica occorre un gesto di autolimitazione sovrana da parte degli Stati, sempre esposto a riserve e possibili sottrazioni, e la concreta intenzione di rendere cogente il conseguente vincolo, a sua volta sempre a rischio di scontrarsi con barriere burocratiche, istituzionali, politiche.
La moltiplicazione dei diritti
Da non trascurare è infine la diffusa e ricorrente richiesta di ampliamento dello spettro degli interessi e dei bisogni protetti dai diritti. Alla base di tale pretesa vi sono tre motivazioni principali.
Innanzitutto la sicura presa di consapevolezza delle più o meno sedimentate forme di soggezione dei gruppi sociali più deboli. Sul modello della storica lotta per i diritti delle donne (risalente agli anni della Rivoluzione francese) si giunge alla rivendicazione dei diritti collettivi di gruppi come i bambini, i disabili, gli omosessuali. La seconda motivazione nasce dal presentarsi di nuovi problemi e rischi per la società legati al progresso scientifico e tecnologico, per cui è stata avvertita l’esigenza di sancire diritti per le future generazioni, diritti dell’ambiente o ancora il diritto all’integrità genetica.
In terzo luogo la proliferazione dei diritti deriva dal radicarsi di movimenti di pensiero volti a ottenere la dilatazione della sfera stessa dei soggetti meritevoli di tutela. In tale prospettiva si è approdati alla teorizzazione di una categoria di diritti indipendente: i diritti animali.
Le teorie dei diritti degli animali
È del 1978 la Dichiarazione universale dei diritti dell’animale dell’UNESCO; sono passati solo tre anni dalla pubblicazione del pamphlet militante di Peter Singer, Animal Liberation , al quale farà seguito l’elaborazione di compiute teorie della giustizia per gli animali non umani.
Queste rivendicazioni di giustizia per gli animali sono riconducibili a due principali prospettive filosofiche: la teoria dei diritti e l’utilitarismo.
Tom Regan è il maggiore rappresentante della difesa degli animali perseguita attraverso l’attribuzione di specifici diritti. Sulla scorta di una concezione formalistica dei diritti fondamentali, Regan comprende nella gamma degli interessi protetti anche quelli degli animali non umani, da lui ricompresi entro la sfera morale in quanto pazienti morali. Gli esseri umani sono agenti morali e gli animali sono pazienti morali: gli uni e gli altri sono individui accomunati dal loro valore inerente; da ciò Regan deriva l’obbligazione a un trattamento rispettoso, e la legittimazione dei diritti morali fondamentali degli animali.
Sempre nel contesto di un’idea di giustizia per gli animali che conferisce centralità ai diritti, va ricordata anche la proposta di Steven Wise che, ispirandosi alla teoria sostanzialistica dei diritti di tipo logico-deduttivo di fonte gewirthiana, arriva a giustificare i diritti animali in proporzione alla parziale capacità degli animali non umani di essere soggetti che agiscono con un qualche grado di autonomia.
Queste sono tuttavia prospettive etiche solo indirettamente convergenti con la prospettiva animalista di Singer che, rifacendosi espressamente al principio dell’utile comune, desume prescrizioni per l’agire dal fatto che esso incrementi o diminuisca il benessere sociale, definibile in termini di piacere e di assenza di dolore. Il criterio di giudizio fondato sulla capacità di provare sofferenza (già osservato da Rousseau, che ne aveva desunto l’inclusione degli animali nell’insieme dei titolari di diritti naturali) amplia la sfera dei soggetti moralmente e direttamente rilevanti, divenendo ora comprensiva degli animali, sotto questo rispetto degni di una tutela pari a quella dovuta agli esseri umani.
In questa prospettiva i diritti animali non sono dunque una generica estensione dei diritti dell’uomo, ma possiedono una propria autonomia teorica. Alla base non figura il principio della dignità umana e il valore intrinseco dell’uomo, bensì il principio della dignità appoggiato sul primato della capacità di un essere vivente di sentire e di provare dolore ovvero della condizione esistenziale dell’essere pure lui soggetto di una vita.