Filosofia e monachesimo
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le prime, originarie esperienze monastiche risalgono al III-IV secolo e sono orientali. L’uomo compie l’apotaghé, la rinuncia al mondo, alla propria volontà, alle proprie passioni, ritorna all’Eden, e anticipa nella propria esperienza di vita la vita angelica, la vita nuova ed eterna, e in questa azione trova un secondo battesimo: questo è il monaco.
Benedetto da Norcia
Osservare la regola
La Regola, 58, 64, 66, 73
Trascorsi due mesi gli si legga per intero la presente regola e gli si dica: "Ecco la legge sotto la quale tu vuoi servire; se puoi osservarla, entra; se invece non puoi, sei libero di andartene". Se mostra di voler perseverare, sia ricondotto nei locali dei novizi e si metta nuovamente alla prova tutta la sua capacità di sottomissione. Trascorsi sei mesi, gli si rilegga la regola, perché sappia su quale via vuole camminare. Se persiste ancora nel suo proposito, dopo quattro mesi gli si legga di nuovo la regola. E se dopo aver maturato nel suo animo la decisione promette di osservarla integralmente e di eseguire ogni ordine, venga accolto nella comunità, sapendo che proprio la legge della regola stabilisce che da quel giorno non gli sarà più lecito […] scuotere da sé il giogo della regola, che egli dopo così prolungata riflessione poteva rifiutare o accettare. (58, Il novizio)
Seguendo questo e tutti gli altri insegnamenti di moderazione, che è madre di tutte le virtù, disponga ogni cosa in modo che i forti abbiano ciò che desiderano e i deboli non siano costretti a cedere. E sopra ogni cosa osservi la presente regola in tutti i suoi punti. (64, L’abate)
Questa regola vogliamo che sia frequentemente letta in comunità, perché nessun confratello si giustifichi dicendo di non conoscerla. (66, L’abate)
Abbiamo scritto questa Regola perché, osservandola nei monasteri, diamo qualche prova di serietà di costumi e di un inizio di vita religiosa. Del resto, per chi vuole incamminaresi verso la perfezione della vita religiosa, vi sono gli insegnamenti dei santi padri, che, se osservati, conducono al culmine della perfezione. Quale pagina o quale parola dell’autorità divina, dell’Antico o del Nuovo Testamento, non costituisce una sicurissima norma per la vita dell’uomo? O quale libro dei santi padri cattolici non ci insegna la via sicura per giungere al nostro Creatore? E inoltre le Conferenze dei padri, le Istituzioni e le loro Vite, nonché la Regola del nostro santo padre Basilio, che cosa sono se non strumenti di virtù per quei monaci che vivono con impegno e obbedienza? Ma per noi pigri, rilassati e negligenti, essi costituiscono motivo di vergogna e di confusione. Dunque, chiunque sia tu che ti affretti verso la patria celeste, osserva con l’aiuto di Cristo questa regola minima scritta per costituire un semplice inizio; e così, con la protezione di Dio, potrai finalmente raggiungere quelle più alte vette di sapienza e di virtù che abbiamo sopra indicato. (73, Fine della Regola)
Benedetto da Norcia, La Regola
Bernardo di Chiaravalle
Sull’intemperanza dei monaci di Cluny
Apologia all’abate Guglielmo, cap. VIII. 16; cap. XII. 28
Mi meraviglia, da dove ha potuto svilupparsi fra i monaci tanta intemperanza nel mangiare e nel bere, nei vestiti e negli arredi dei letti, nelle cavalcature e nella costruzione degli edifici, al punto che lì dove più studiosamente, più voluttuosamente, più sfrenatamente queste cose accadono, lì si dica che l’osservanza si tiene meglio, lì si reputi maggiore la vita religiosa. Ed ecco che la parsimonia si tiene per avarizia, la sobrietà si crede austerità, il silenzio è riputato tristezza […]
Cap. VIII. 16
Per tacer d’altro, che manifestazione d’umiltà è incedere con tanta pompa e tanto corteo di cavalli, talmente assiepati d’ossequi d’uomini criniti che a due vescovi basterebbe il seguito d’un solo abate? Mento, se non ho visto un abate avere nella sua scorta sessanta cavalli, ed anzi di più. Diresti, se li vedi passare, che non si tratta di padri di monasteri ma di signori di castelli, non dei rettori di anime, ma dei principi di province […]. Uno non si allontana dal suo monastero neppure di quattro leghe se non si porta tutta la sua suppellettile, come se dovesse andare all’esercito o passare per il deserto […]. O che non potrebbe l’ardente lucerna far luce, se non nel tuo candelabro che porti con te e, quanto a questo, d’oro o d’argento? O che non si potrebbe dormire, se non su un materasso screziato e sotto una coperta straniera? […] Ma queste sono piccole cose […]. Lascio perdere le immense altezze degli oratori, le smoderate lunghezze, le vacuissime larghezze, i sontuosi abbellimenti, le pitture curiose […] Con tale arte si sparge il denaro, acciocché esso si moltiplichi. Si spende perché sia aumentato, e la smodatezza procura abbondanza. Alla sola vista delle sontuose vanità, destinate a suscitare ammirazione, si accendono gli uomini più ad offrire che a pregare […]. È mostrata l’apparenza bellissima di qualunque santo o santa, e lo si crede più santo quanto più è colorato […]. O vanità delle vanità, ma non più vana che insana! Rifulge la chiesa nelle pareti, e manca verso i poveri. Veste d’oro le sue pietre, e lascia nudi i suoi figli. Con le spese dei bisognosi serve gli occhi dei ricchi.
Cap. XII. 28
Bernardo di Chiaravalle, Apologia all’abate Guglielmo
Bernardo di Chiaravalle
Contro il priore di Cluny
Lettera a Roberto di Châtillon
Prima di tutto è stato mandato un certo gran priore dallo stesso principe dei priori, che fuori si mostrava in vestiti di pecore, ma dentro era un lupo rapace, e ingannati i custodi, che ritenevano fosse una pecora, ahinoi! ahinoi! è stato ammesso da solo alla pecora [lo stesso Roberto, che aveva chiesto di passare a Cluny]. Che dir di più? Attrae, adesca, blandisce e, predicatore di un nuovo Vangelo, raccomanda la crapula, condanna la parsimonia, dice miseria la povertà volontaria, chiama pazzia i digiuni, le veglie, il silenzio e il lavoro delle mani; al contrario definisce contemplazione l’ozio, e l’ingordigia, la loquacità, la curiosità, insomma ogni intemperanza chiama discernimento […] perché Dio avrebbe creato i cibi, se non fosse lecito mangiarli? Perché ci avrebbe dato i corpi, se proibisse di sostentarli? […] Infine, sobillato ben bene, il mal credulo ragazzo è raggirato e sedotto, segue il suo seduttore, è condotto a Cluny; è rapato, rasato, lavato; gli tolgono i vestiti contadineschi, vecchi, sporchi; gliene mettono di preziosi, nuovi, puliti […]. È levato in alto, […] sicché adolescente è preposto a molti anziani […]. Chi in tanta pompa sarebbe in grado di riconoscere la verità o ottenere l’umiltà?
Bernardo di Chiaravalle, Lettera a Roberto di Châtillon
Pietro il Venerabile
Bisogna rispettare la regola
Epistola 28
A quanto dicono, voi non seguite nelle opere la Regola la cui rettitudine vi siete proposti di seguire, anzi con passi distorti seguitate ignoti sentieri e quanto è fuor della via. Componendo leggi tutte vostre, come a voi più piace, le chiamate sacrosante, sprezzate i precetti dei padri in favore delle vostre tradizioni, e siete diventati (il che è mostruoso) maestri e discepoli al tempo stesso […]. Avete promesso di militare nei castelli celesti secondo la regola di san Benedetto […]. Questa la promessa. Ora vediamo se così stanno le cose nella vostra vita.
Pietro il Venerabile, Epistola 28
Láthe bíosas, "vivi nascosto" insegna Epicuro; dominare le passioni, superarle al fine di ricongiungersi con il sé autentico e profondo, onde raggiungere la conoscenza: gnôthi seautón. La ricerca di sé e dell’essenza delle cose, la nozione di sé e del mondo al di là della barriera delle apparenze. Il monachesimo si può dire la versione cristiana di esperienze di conoscenza di sé e interrogazione circa il senso del mondo: la traduzione di queste ricerche di saggezza nei termini culturali messi a disposizione dalla nuova religione ellenistico-giudaica.
Sono l’amore per la conoscenza, la ricerca della conoscenza, la necessità profonda della conoscenza (della vera conoscenza, che è quella di Dio) che portano gli uomini a decidere per la solitudine (mónos) e per l’isolamento (éremos), e l’isolamento maggiore c’è ovviamente nel deserto (desertum). Nel deserto della Tebaide si sperimentano le prime forme di anachorésis, vita ascetica di contemplazione e solitudine, o almeno quelle di cui ci è stata tramandata memoria per ragioni abbastanza interessate (Atanasio di Alessandria): giacché sappiamo ad esempio che san Girolamo si mette alla prova e si forma nella Calcidica. Comunque quella è l’area originaria, l’area da cui era sempre venuto tutto, dove tutto si è mescolato e immeticciato, anche il cristianesimo primitivo: l’Asia minore. Le forme dell’isolamento sono molteplici: da segnalare per la loro immediata evidenza i dendriti e gli stiliti, che mettono fra sé e il mondo le altezze dei fusti degli alberi o delle colonne, ma anche i siderofori, che costringono il corpo dentro pesanti corazze di ferro, mortificandolo e al tempo stesso isolandolo dalla comunità: il corpo degli uomini sacri è da subito e sarà sempre uno spazio sacro.
Ma l’isolamento e la ricerca di perfezione non garantiscono il risultato: la solitudine è in sé un’esperienza estrema che, se resa ancor più terribile per le condizioni oggettive di vita, può essere lo spazio di tentazione per eccellenza in cui il diavolo può agire, e non soltanto per l’aspetto meramente carnale e sessuale, ma soprattutto per l’impulso a sentirsi provati e perfetti, a considerare acquisita la conoscenza di sé e la sapienza di Dio: insomma, il medesimo genere di tentazione cui il diavolo aveva sottoposto Gesù Cristo, quello della superbia, il primo dei peccati, quello da cui si origina tutto. Chi può garantire per qualcuno che, tornando dal desertum, asserisce di aver trovato quello che era andato a cercare?
Chi può garantire, inoltre, che questo nuovo uomo di Dio non abbia un effetto negativo sugli uomini che vivono associati e che possono seguirlo in quanto dotato di santità? Banalmente: chi può dire che chi asserisce di avere incontrato l’esperienza di Dio non abbia avuto soltanto allucinazioni? Chi può garantire che si sia trattato davvero di estasi? Questo genere di motivi sono alla base del passaggio fra l’eremitismo e il cenobitismo: il monaco diventa contraddizione vivente perché, proprio per avere garanzia dell’efficacia del proprio percorso spirituale individuale, deve associarsi, farsi garantire dal controllo e dall’assistenza spirituale continua da parte di altri uomini come lui, che si sorveglino a vicenda sempre e garantiscano gli uni per gli altri; la scelta di vita del monaco è troppo radicale e importante perché possa essere vanificata da una errata scelta dello stile di vita! E quanto a essere radicale, non c’è dubbio che lo sia: i monaci si separano dal consorzio umano, si segregano persino dalla luce (Rutilio Namaziano, nel V secolo, li definisce "lucifugi").
Le comunità che iniziano a formarsi disegnano in sé un proprio spazio particolare (la prima è quella che si riunisce intorno all’anacoreta Antonio nel 306 circa) che in breve (nel giro di una quindicina d’anni) viene definita da un muro che cinge e separa i luoghi teatro delle attività quotidiane dei monaci dal mondo esterno (la comunità di Pacomio). Il muro di cinta è all’origine della parola claustrum; il monaco dotato di esperienza e di carisma intorno al quale si riuniscono gli altri monaci è il padre, la guida spirituale, che coerentemente con il quadro culturale giudaico-ellenistico della religione cristiana viene definito da una parola ebraica, abba (sarà l’"abate"). Seguono nel tempo interventi sempre più precisi, tanto in Oriente, con Basilio di Cesarea, quanto in Occidente, dove la memoria delle esperienze monastiche orientali arriva con Atanasio d’Alessandria e con la Vita di Antonio che egli reca con sé nel suo esilio politico a Treviri. Scritta per assicurare alla sua sede episcopale un ruolo di originalità e di eminenza in un’area che fino ad allora aveva mantenuto caratteristiche di profonda separatezza ed estraneità. Nel primo quarto del secolo V proprio in Gallia, Cassiano, originario delle foci del Danubio, vissuto per un ventennio in Egitto e in Palestina e poi entrato nel clero di Costantinopoli, stende un testo fondamentale, il De institutis coenobiorum, che non solo regolamenta la vita dei monaci ma la pone sotto il segno del più stretto controllo.
Cassiano non inventa nulla, si limita a coordinare gli insegnamenti dettati dalle esperienze precedenti; la via per l’ascesi passa attraverso l’atto di affidarsi totalmente all’abba, ma l’autorità dell’abate non dev’essere eccessiva di fronte alla sostanziale libertà e autonomia di ogni membro del monastero: egli è il rappresentante di Cristo, deve essere il primo a esercitare la charitas e contemporaneamente l’autorità per far mettere in pratica i precetti evangelici; scritture alla mano, impone la stabilitas, l’obbedienza, il controllo delle passioni (negazione della propria volontà; povertà; castità). La vita comune è un apprendistato verso un possibile, ma non inevitabile, passaggio alla superiore perfezione dell’eremitismo. Il controllo resta il segno distintivo del monachesimo: nel pieno medioevo si manifesta, per fare un esempio banale ma significativo, con la figura dei monaci circatores che sono incaricati di percorrere i dormitori per svegliare i confratelli che, cedendo al sonno, non si presentino alle celebrazioni liturgiche notturne.
La Regola di san Benedetto fa propri i fondamenti di tutta la storia vissuta e scritta fino ad allora. Con una importante innovazione: a partire da Benedetto non sarà più l’abate il fondamento della vita monastica, ma il testo della regola.
La scrittura è il fondamento della vita monastica e segna, per così dire, il passaggio da una dimensione "dionisiaca" a una "apollinea" perché ordinata. La scrittura fornisce al monaco il lineamento dell’autenticità della propria esperienza, i modelli cui ispirarsi, la meta da raggiungere. Il monaco deve essere colto: altrimenti come potrebbe avvicinarsi alla parola di Dio? E in Occidente la parola di Dio è trasmessa ed espressa con il latino di san Girolamo, e il latino di san Girolamo, anche se è duttile e creativo, altro non è se non il latino dei ceti colti e delle classi superiori del IV-V secolo. Si tratta del latino dei Padri della Chiesa, per l’appunto, che trasmette in sé e per sé i valori e le esperienze della classe dirigente imperiale, e che d’altro canto è la lingua con la quale comunicano anche i vescovi, i nuovi dirigenti delle città che informano le città e il loro distretto (la diocesi, che era termine dell’amministrazione imperiale, ma presto diventa pertinente alla Chiesa vescovile com’è abbastanza scontato) con il loro operato pastorale e civile. Fuori dalle città, nelle vaste campagne dei latifundia o delle foreste, nelle aree (pagi) magari romanizzate ma non toccate dall’attività dei vescovi (oppure non romanizzate, o scarsamente romanizzate, o di recente ribarbarizzazione vista la crescente permeabilità fra barbaricum e impero) è invece l’ambito dei monaci.
E in un’area per nulla romanizzata ha luogo una delle più significative esperienze monastiche del primo Medioevo: l’Irlanda. Terra che non ha mai conosciuto né la paganità né gli ebrei, e dunque è pura e vergine e può essere per questo custode e guardiana dell’ortodossia cristiana: questo è quanto scrive il monaco irlandese Colombano a Bonifacio IV nel 612-615, in un latino di grande efficacia retorica che si aspetta di trovare apprezzamento nella Roma appena illustrata da Gregorio Magno. Il monachesimo irlandese è proprio un’esperienza in cui vengono valorizzate al massimo alcune delle linee del monachesimo: innanzitutto la macerazione e l’ascesi, ma anche lo studio, indispensabile per avvicinarsi alla conoscenza di Dio attraverso la percezione profonda della Sua parola e la Sua rivelazione nel mondo. Tale conoscenza mette anche in condizione di poter istituire l’esattezza dei tempi per onorarlo e fissare quindi l’anno liturgico, attraverso cui la parola di Dio si rivela ciclicamente; atto che permette di controllare in questo modo anche il tempo degli uomini. Questo è uno dei motivi che provocano lo scontro fra i vescovi burgundi e i monaci irlandesi e inducono Colombano a cercare riparo presso i Longobardi ariani di re Agilulfo che, consapevole della necessità di trovare un tramite con il papa dei cattolici, aiuta Colombano.
I dodici gradini dell’umiltà
Studio, meditazione, pratiche ascetiche: le linee maestre per l’ascesa a Dio, sul fondamento della pratica dell’umiltà. Sono i dodici gradini dell’umiltà di cui parla la regola di Benedetto da Norcia: “Dopo aver salito tutti questi gradini dell’umiltà, il monaco giungerà a quell’amore di Dio che è perfetto e che scaccia il timore”. Il monaco deve essere soprattutto umile. E discretus, cioè capace di esercitare il discernimento e la moderazione (una delle qualità capitali del vir bonus antico), ma sempre nel quadro dell’abbandono di sé e della propria volontà nelle mani del pater-abba: “ciò che si compie senza il consenso del padre spirituale verrà imputato non a merito, ma a presunzione e a vanagloria”. Non salvano neppure le rette intenzioni: la Vita di Oddone di Cluny racconta che il santo imputò a "vanagloria" il profondo desiderio di espiazione di un monaco che stava autonomamente esagerando negli esercizi di compunzione. Il monaco delega interamente la propria salvezza all’abate, gli cede tutto se stesso e la cessione dev’essere assolutamente cieca. È la via humilitatis, qua veritas inquiritur, caritas acquiritur, generationes sapientiae participantur. Denique sicut finis legis Christus, sic perfectio humilitatis cognitio veritatis ("È la via dell’umiltà, per la quale si indaga la verità, si acquisisce la carità, le generazioni partecipano alla sapienza. Così, alla fine, come Cristo è la fine della legge, così la perfezione dell’umiltà è la conoscenza della verità"), scrive Bernardo de Clairvaux (o Bernardo di Chiaravalle) circa due secoli dopo, interpretando appieno la vita monastica come vera e piena philosophia (Liber de gradibus humilitatis et sapientiae).
Il che aiuta a comprendere come mai sino a tutto il XII secolo vi sarà un grande accanimento contro pensatori che fanno della logica il centro della loro speculazione, come Gilberto Porretano, Pietro Abelardo, e, in genere, contro tutti i logici (dialettici): la philosophia monastica contro quella dialettica. Due modi diversi di arrivare alla vera sophia, che è la conoscenza (in vari modi) di Dio. Anche la conoscenza, infatti, deve avere senso di moderazione, o si corre il rischio di comportarsi come Arnaldo da Brescia, che giunge al punto di ut ultra oportunum saperet ("voler sapere più di quanto sia opportuno") come scrive una fonte federiciana. Fermo restando il fatto che la dialettica è lo strumento innovativo messo a punto nell’ultimo quarto del secolo XI nella ricerca di soluzioni teoretiche che si potessero tradurre in strumenti pragmatici, c’è da sottolineare sempre che nell’azione di san Bernardo ricorre continuamente il problema dell’ortodossia intesa come egemonia: i Cistercensi inseguono l’egemonia e possono farlo perché sono i detentori dell’ortodossia, perché hanno realizzato il perfetto recupero dell’integrità originaria del senso autentico del monachesimo. E i dialettici sono canonici regolari: animano gli studia, attirano gli studenti. Insegnano che il rispetto dell’auctoritas non comporta automaticamente l’annullamento personale: anche i "nani sulle spalle dei giganti", per ricordare la celebre espressione di Bernardo di Chartres, possono pensare e indagare con le proprie forze, pur senza dimenticare mai che sono, appunto, "nani" di fronte a "giganti". Non è quello che poteva desiderare un monaco sinceramente convinto della scelta monastica. Anche se Bernardo stesso si era fatto conoscere per la forza e la vivacità della sua capacità dialettica, il che vale tanto per lui come, nel secolo precedente, per san Pier Damiani, interprete e riformatore di una tradizione monastico-eremitica non pienamente benedettina, impegnato senza risparmio nella vita politica, normativa e dialettica delle istituzioni ecclesiastiche, ma che indicava ai propri figli spirituali una via del tutto esoterica (ma attenzione: non irrazionale!) per il raggiungimento della conoscenza, della verità, dunque della salvezza, una via i cui elementi non avrebbero dovuto, secondo lui, essere messi a disposizione di chi non compartecipava di quella stessa vita.
Il monachesimo benedettino viene massicciamente adottato dall’episcopato franco, tra i secoli VII e VIII per la precisione, e insieme la duttilità della sua Regula, che mette in condizione di poter replicare uniformemente esperienze fondamentalmente identiche ovunque se ne fosse avvertita la necessità (e il monachesimo è fin dal V secolo una delle forme più significative di inquadramento del territorio extra-cittadino, si è già detto).
È così quindi che l’Impero carolingio segna il trionfo dei Benedettini, divenuti in pratica l’unica forma possibile di vita monastica (egemonia sancita tra l’altro da Ludovico il Pio). Le abbazie grandi e piccole (ma soprattutto grandi, secondo il modello carolingio), nelle quali si raccolgono i membri delle aristocrazie ai livelli più elevati, punteggiano e segnano il paesaggio: spazio sacro, definito da privilegi di pergamena e autodefinito dalla sacralità che promana dalle basiliche monastiche, dalle celebrazioni liturgiche, dalle eco dei canti sacri. Questo è particolarmente valido per Cluny, che nell’ambito della tradizione d’età carolingia costituisce forse l’esperimento monastico più avanzato fra i secoli X e XI. Cluny si specializza proprio sulla pratica liturgica, solenne espressione della più alta sacralità e a sua volta promotrice di sacralità, secondo una progressione in senso verticale che procede trionfalmente dalla commemorazione liturgica per i defunti attraverso il canto corale di monaci casti, cioè vergini secondo una assimilazione logico-retorica (teologica) del secolo IX (Pascasio Radberto), vale a dire angelici, e quindi più vicini a Dio. Nulla di nuovo, nulla inventato dai Cluniacensi: ma risistemato a Cluny secondo un modello coerente ed efficace, che contribuisce all’inserzione nel calendario liturgico romano (divenuto poi il modello per l’intera Chiesa cattolica) della celebrazione tipicamente cluniacense (inventio, secondo l’espressione dell’abate Odilone) "di tutti i fedeli defunti" il 2 novembre.
Il canto cluniacense, tanto biasimato nel secolo successivo dai Cistercensi, è un’espressione estatica, una manifestazione di gioia, perché ricco di infiorettature, appoggiature, acciaccature, trilli, vocalizzi, falsetti; è il canto di Davide che lenisce la malinconia di Saul, la rassicurazione che gli uomini sacri sempre giovani e vergini (i vecchi e i malati, ora lo si sa, erano non soltanto marginalizzati ma tenuti a parte dalla vita liturgica e comunitaria) forniscono ai potenti incupiti dalle trame e dalle colpe del secolo. Il canto segna grandi liturgie processionali, festose celebrazioni della grandezza dell’abbazia e delle sue preghiere. Da ricordare sempre: anche se Cluny si specializza nell’intercessione per i defunti, non è certo un’abbazia segnata dalle cupezze dei morti, anzi, la certezza nell’efficacia della propria preghiera deve mettere al riparo dalle paure e dare piena sicurezza a chi si affida ai Cluniacensi che ogni giorno traghettano anime di fedeli verso l’aldilà. L’idea della paura della morte deve quindi essere bandita da Cluny, che convoglia infallibilmente verso la certezza del riposo e la gioia della vita eterna, come predica Odilone. E difatti, anche volendo ammettere che qualcuno, nel primo trentennio dell’XI secolo, avvertisse il pungolo di qualche eco millenaristica, occorre accettare l’evidenza che questo a Cluny non avvenne.
Forse i Cluniacensi non cercano tanto la conoscenza di Dio quanto l’esperienza di Dio: la loro sophia consiste nella fusione con il divino attraverso il canto e l’estasi che il canto corale e prolungato e ricco di artifici produce. Ogni giorno, ogni notte, dalla basilica di Cluny in perenne ricostruzione (un vero e proprio cantiere permanente) si leva, infatti, una corrente ascensionale di comunicazione con Dio, costituita dalle voci raccolte e organizzate in preghiera e melodia collettiva, che, attraverso questa preghiera all’interno dello spazio sacro dell’abbazia, si raccoglie, conchiude e si riconosce, e si disegna il nucleo della sacralità, il centro del mondo che si apre al divino, all’ascesa verso esso e alla discesa del divino verso il mondo. Tutto questo non viene certo accettato alla luce di una riforma delle istituzioni ecclesiastiche che le vuole, nell’XI secolo, tutte riorganizzate intorno alle certezze della centralità romana; tanto meno può essere ben visto da chi invoca un ritorno alle origini della purezza della tradizione, alla Regula non contaminata dall’usura dei secoli.
Cluny non viene, però, attaccata frontalmente e brutalmente. Viene "lavorata ai fianchi", per dir così, approfittando delle crepe che si stanno aprendo al suo interno per via delle sue fragilità istituzionali. Ma anche negli attacchi più diretti nessuno ha mai messo in discussione la potenza della preghiera cluniacense. Si mette invece in discussione l’efficacia delle basi che possono giustificare la potenza di quella preghiera; viene insomma sottoposta a falsificazione la vita di Cluny, la vita quotidiana dei suoi monaci, i suoi usi, le sue grandi opere architettoniche, il suo canto. Chi e che cosa, cioè, può dare ai Cluniacensi tanta sicurezza? Certo non il loro stile di vita. E allora? I Cistercensi guidati da Bernardo di Clairvaux, come è noto, sono in prima linea contro i Cluniacensi. Non lo sono i Certosini invece, che pure si ispirano a modelli monastici più vicini all’esperienza anacoretica; ma i Cistercensi, sì. D’altro canto, così come vennero plasmati da Bernardo, i Cistercensi si sono votati unicamente alla purezza originaria della vita benedettina e in generale della vita cristiana. I monaci di questo Ordine, ripete Bernardo, sono i migliori, anzi gli unici, perché certificati e autenticati dalla scelta di uno stile di vita rigidissimo. Chi più ascetico, chi più vicino alla lettera della Regula, chi più puro dei Cistercensi? La loro purezza non si basa sull’effetto logico della castità/verginità, ma sulla coerenza della loro scelta di vita. Questa deve essere vista da lontano, individuata al primo colpo d’occhio: hanno quindi una veste bianca, una novità scandalosa che scatena diverse polemiche; le loro case sono intitolate alla Vergine Maria e sono riconoscibili a prima vista, severe, essenziali e pure come lo è quel monachesimo. Ma c’è di più. Dato che, secondo san Bernardo, Gerusalemme-Clairvaux è unita nell’animo e nella santità di vita alla Gerusalemme quae in coelis est, un monaco di Clairvaux è automaticamente un abitante della Gerusalemme celeste. Si riproducono le condizioni di Cluny, insomma? Probabilmente inevitabile, se la posta in gioco vuol essere l’egemonia nel mondo monastico (e non solo!); ma c’è una contraddizione, o, se si vuole, una coerenza cistercense che entra a far parte del quadro.
Lo stesso san Bernardo avverte i suoi monaci che non ci sono certezze, che neppure lo stile di vita, l’austerità, la disciplina, la severità cistercense possono garantire l’accesso alla salvezza; la volontà di Dio è profondissima e oscura e nessuno può immaginare di forzarla neppure con la manifestazione più grande e totale dell’amore nei Suoi confronti. Si può solo tentare di accostarsi a Dio, attraverso la meditazione e la piena consapevolezza dell’inanità delle cose del mondo e delle sue tentazioni, fra cui l’arte e la musica. A tal proposito i Cistercensi promuovono la riforma del canto gregoriano, trasformato da manifestazione di giubilo in attestazione grave e severa della fragilità del mondo e del suo bisogno di Dio.
La sophia dei Cistercensi è l’approfondimento delle ragioni di Dio attraverso un percorso individuale, anche se garantito dall’esatto rigore della vita comunitaria, che ha una forte caratterizzazione estetica: nulla di nuovo, in fondo, rispetto alle esperienze estatiche dei cluniacensi o (in forme diverse, evidentemente) degli eremiti della comunità di Fonte Avellana nell’età di Pier Damiani. Estetica e mistica, due facce della stessa medaglia, non soltanto monastica, non soltanto medievale. Ma l’estetica e la mistica monastiche non lasciano nessuno spazio ad improvvisazioni estemporanee: sono guidate dall’esigenza di rationabiliter vivere.
La ratio presiede alle emozioni e le controlla sempre severamente, la ratio che è costituita dalla tradizione, dalla cultura, dall’osservanza del testo della Regola. Non si lascia nessuno spazio per accessi mistici individuali: anche a Cluny ci sono gli anacoreti, perché l’anacoretismo è unanimemente riconosciuto come la forma superiore di esperienza monastica, ma essi si trovano all’interno dell’abbazia e dello spazio che essa delimita: sono ancorati al cenobio, sono garantiti dalla certezza della comunità cenobitica. La ratio è l’elemento ordinatore. Lo sarà nel XII secolo come lo è stato all’inizio, quando si era manifestata la necessità delle esperienze cenobitiche. La ratio che a tutto presiede fa parte dell’imprinting del monachesimo.
È per amore della ratio che a Cluny viene accolto il filosofo e maestro di dialettica (logica) Abelardo dopo la condanna per eresia subita a Sens nel 1144 ad opera di Bernardo di Clairvaux. Quest’ultimo e i suoi monaci l’avevano fatto condannare, ma non potevano né dovevano essere riconosciuti come gli interpreti dell’ortodossia. L’ortodossia non può essere a senso unico. È vero, la ratio dei monaci e quella dei canonici regolari seguono due traiettorie diverse. I canonici regolari, di lontana ascendenza agostiniana, vengono istituiti dalla Regola di un vescovo di Metz, Crodegango, nella prima metà del VIII secolo. Non c’è mai stata concorrenza fra monaci e canonici. Prende avvio con la vera grande novità dell’ XI secolo, il papato romano; o meglio, inizia quando i papi decidono di appoggiare i canonici regolari, che erano più facilmente controllabili da parte dei soli autentici responsabili delle comunità dei credenti, i vescovi, e quando la necessità di affinare gli strumenti teorici e teoretici, logici, retorici e lessicali, coinvolge le scuole episcopali nonché quelle monastiche. Non si deve mai dimenticare che la controversistica dell’ultimo ventennio dell’XI secolo e di buona parte del XII fu insieme politica, ideologica, ecclesiologica e logica: le discussioni sul carattere del neutro, ad esempio, che hanno visto implicati gli ecclesiastici che versificavano come Ildeberto di Lavardin, vescovo di Le Mans, autore anche di una Vita di Ugo di Semur, abate di Cluny, Berengario di Tours, Anselmo d’Aosta, sono contestuali alle indagini di teologia, di diritto, di ridefinizione dei poteri; la ratio poteva fortificare l’ortodossia e l’ortoprassi – ma poteva anche far evocare la deplorevole impressione che potessero esserci molte varianti nella via alla conoscenza della verità, e che la verità potesse dissolversi nell’indagine dialettica.
L’indagine dei dialettici infatti non ha nessuna forma di controllo se non quella prevista dal suo stesso corpo logico, non ha altro riferimento se non quello costituito dal gruppo dei dialettici che si verificano confrontandosi fra loro: un gruppo presto specializzato, molto simile per funzione a quello dei giuristi. I saperi si stavano, quindi, parcellizzando? La philosophia era in pericolo? San Bernardo crede di sì ed è certo che il suo modello di vita cristiana e monastica sia l’unico autorizzato in sé a detenere l’egemonia! Lotte per l’egemonia politica e lotte per l’egemonia di una forma di sophia si intrecciano, quindi, e si sovrappongono nel secolo XII. L’abate di Cluny, Pietro il Venerabile, ha un bel sostenere che le esperienze monastiche corrispondono alla dialettica del diversi sed non adversi (diversi ma non avversari), ha un bel darsi da fare per dimostrare che la ratio monastica è ancora in grado di concorrere in maniera determinante alla conoscenza del mondo e all’elaborazione di una ratio generale per la comprensione e la correzione della realtà, nella quale i nemici da affrontare (eretici non colti ma capaci di coinvolgere le folle, musulmani, ebrei) sono più importanti di quelli interni alle istituzioni ecclesiastiche e, dunque, ci si può avvicinare anche agli insegnamenti di logica del pure sconfitto Abelardo, perché essi possono fornire gli strumenti necessari. Soccomberà sotto il peso di una ratio diversa, quella del papato romano, sorta a Roma ma che sussume le proprie forme specifiche e identitarie proprio negli studia: l’ortodossia romana diviene la garanzia, costituisce il controllo, valuta l’efficacia degli strumenti di esercizio. In questo modo a Roma viene adottato per tutti i Benedettini il modello istituzionale cistercense; ma il futuro appartiene ai logici, teologi o giuristi che siano. La philosophia, dopo la sconfitta di san Bernardo, ha cambiato segno e protagonisti.