Filosofia romana
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
I Romani non hanno prodotto una filosofia originale, ma hanno adattato la filosofia greca alle proprie esigenze. Lo sviluppo della filosofia a Roma si distingue quindi in due momenti: la penetrazione e la diffusione della filosofia greca, che vede la presenza a Roma di filosofi greci, da Panezio a Posidonio ad Antioco d’Ascalona a Filone di Larissa; la formazione di una filosofia romana, come rielaborazione della filosofia greca ed espressa in lingua latina, che annovera tra i suoi massimi rappresentanti l’epicureo Lucrezio e lo stoico Seneca, ma anche Cicerone, artefice dell’incontro tra la cultura romana e la filosofia greca.
La filosofia viene importata a Roma dalla Grecia, né si forma mai una filosofia romana distinta dalle scuole filosofiche greche, se si eccettua la scuola dei Sestii in età imperiale. I Romani non sono inclini come i Greci verso le speculazioni astratte, ma sono profondamente legati alle proprie tradizioni e a tutto ciò che concorre alla potenza e alla grandezza di Roma. La filosofia è considerata parte della formazione culturale, della humanitas di un romano della classe colta, ma non deve oltrepassare questi limiti. Sarebbe comunque ingiusto non riconoscere alla filosofia romana originalità e creatività nel selezionare e nell’adattare temi della filosofia greca alle esigenze dell’ideale morale del mos maiorum e della compiuta formazione di un uomo politico. Anche se pochi Romani coltivano la filosofia come occupazione principale, molti Romani colti ne sono indirettamente influenzati, basti pensare a Varrone, ai poeti Orazio, Virgilio, Persio, Petronio, allo storico Tacito. Nell’affrontare dunque il problema dei rapporti dei Romani con la filosofia è necessario distinguere due momenti: la penetrazione e la diffusione della filosofia greca a Roma e la formazione di una filosofia romana, come rielaborazione della filosofia greca ed espressa in lingua latina.
La penetrazione della filosofia a Roma avviene gradualmente e attraverso non pochi contrasti, come dimostrano le fasi alterne che ne caratterizzano l’evoluzione a partire dal II secolo a.C. Il sospetto e la diffidenza della classe dirigente romana nei confronti della filosofia si manifestano presto, già nel 181 a.C. con i roghi di libri pitagorici, a cui fanno seguito nel 171 a.C. l’esilio degli epicurei Alcio e Filisco e nel 161 a.C. l’espulsione dei filosofi e dei retori, e hanno il loro momento emblematico con l’esito della famosa ambasceria dei tre filosofi greci a Roma del 155 a.C. Catone il Censore esprime il parere che si debba accorciare il soggiorno dei tre filosofi, accordando loro rapidamente una riduzione della multa, cosicché se ne possano ritornare “nelle loro scuole a discutere con i figli degli Elleni” e i giovani Romani prestino ascolto come prima “alle leggi e alle autorità” (Plutarco, Vita di Marco Catone, 22). Nonostante ciò, a cavallo del II e I secolo a.C. arrivano a Roma numerosi filosofi rappresentanti delle maggiori scuole ellenistiche greche, dagli stoici Panezio e Posidonio agli accademici Filone di Larissa e Antioco di Ascalona, all’epicureo Filodemo. Al contempo si consolida l’abitudine da parte delle persone colte non solo di recarsi in Grecia a completare il curriculum degli studi, ma anche di ospitare filosofi, com’è il caso di Cicerone, che accoglie nella sua casa lo stoico Diodoto. All’intenso scambio tra il mondo greco e quello romano contribuisce la diaspora dei rappresentanti delle maggiori scuole filosofiche greche da Atene verso altri centri del mondo greco-romano in seguito alla guerra contro Mitridate.
Le scuole filosofiche che dominano la scena durante la repubblica sono lo stoicismo e l’epicureismo. Lo stoicismo si impone tra gli aristocratici romani. Lo stoico Panezio e lo storico Polibio hanno un ruolo fondamentale nell’influenzare la politica del “circolo degli Scipioni”, ma ai principi della dottrina stoica si ispira anche la riforma agraria del partito democratico avverso agli Scipioni, quello dei Gracchi. Se dunque l’intervento di Panezio ha un ruolo importante sulla fondazione di una teoria del diritto, non forma però alcun filosofo romano che possa essere considerato un seguace dello stoicismo. L’epicureismo si diffonde invece tra le masse popolari. La ragione della diversa area di diffusione dell’epicureismo non va ricercata nella “facilità” della filosofia epicurea che propaganda il piacere come fine etico, ma nel fatto che viene divulgata in latino e quindi diviene l’unica filosofia comprensibile a tutti.
Le prime opere filosofiche in latino, infatti, risalgono al I secolo a.C. e si devono agli epicurei Amafinio e Catio, duramente attaccati da Cicerone perché scrivono “senza alcuna accuratezza ed eleganza di stile” (Cicerone, Libri Academici, I, 5-6). Cicerone lamenta che la filosofia “quella vera e ottima”, partita da Socrate e continuata dai peripatetici, dagli stoici e dagli accademici, “non è rappresentata da quasi nessuna opera in latino”. Egli stesso si propone con la stesura delle opere filosofiche di dare vita e splendore alla filosofia che “rimase trascurata fino ad ora, né mai brillò nella letteratura latina”. Ciò non impedisce che tra le classi colte permanga la convinzione che la lingua greca, che fa parte del loro patrimonio culturale, sia la lingua in cui si possa meglio esprimere la filosofia. Non è un caso che ancora nel II secolo l’imperatore Marco Aurelio sceglierà di scrivere le sue opere filosofiche in greco.
La diffusione in lingua latina della filosofia raggiunge un risultato felice con il De Rerum Natura di Lucrezio, opera che ha un peso determinante nell’espansione dell’epicureismo alla fine della repubblica. Lucrezio divulga la dottrina esposta da Epicuro nel Peri Physeos, ma sceglie di scrivere in lingua latina, proseguendo con ciò la tradizione propria degli epicurei romani. Non imita il greco filosofico tecnico di Epicuro, ma scrive il suo poema in eleganti esametri, ispirandosi al modello letterario del poema cosmologico di Empedocle. Perfino Cicerone, che non nutre grande simpatia per l’epicureismo, in una lettera al fratello Quinto, esprime ammirazione per il genio letterario e per l’arte di Lucrezio (multis luminibus ingenii, multae tamen artis cfr. Episutla Ad Quintum fratrem II 9, 3). Lucrezio tratta gli argomenti fondamentali della dottrina epicurea (la cosmologia atomistica, la psicologia e la mortalità dell’anima, le sensazioni e la conoscenza, lo sviluppo della civiltà), rimanendo fedele alla sua fonte greca, tanto da essere stato definito da alcuni un “fondamentalista”. Nonostante Lucrezio esponga una dottrina filosofica indubitabilmente greca, il tono e l’efficacia del suo racconto hanno un potere retorico ed emotivo che è del tutto peculiare, in quanto trascendono i limiti linguistici e i confini culturali delle due civiltà greca e romana. L’abilità di Lucrezio sta nel descrivere una nuova teoria del mondo, creando nella lingua latina nuove parole, e al contempo, modificando dall’interno i termini significativi del mos maiorum. Egli colloca il poema nel contesto della società oligarchica romana: apre il poema con la dedica all’aristocratico romano Memmio e con l’invocazione a Venere, madre di Enea e della sua razza, allude a Scipione l’Africano e al grande poeta romano Ennio, e inserisce continui riferimenti alle lotte politiche attuali, utilizzando vocaboli propri del linguaggio politico tradizionale. La dottrina di Epicuro è l’unico rimedio contro la superstizione religiosa perché, distruggendo la credenza nella sopravvivenza dell’anima, libera gli uomini anche dalla paura della morte, che è la causa della distruzione di tutti i valori morali e anche la radice dell’ambizione politica. Egli attacca il concetto di religio, mostrando come “fu proprio la religione a produrre scellerati delitti”, tanto da spingere gli uomini, per motivi politici, a compiere sacrifici umani agli dèi, come quello di Ifigenia. Ciò che a Lucrezio sta a cuore dimostrare è che gli stessi falsi valori che distruggono l’atarassia del filosofo epicureo sono responsabili della corruzione e dell’anarchia dello stato: soltanto i valori propugnati dall’epicureismo sono in grado di assicurare a Roma una pace stabile e duratura.
Alla fine dell’età repubblicana l’importanza che riveste la capacità di argomentare in un’età di turbamenti politici fa sì che l’Accademia e il Peripato guadagnino consensi a scapito dello stoicismo, che, non curando l’insegnamento della retorica, perde seguaci. In seguito alla guerra mitridatica Filone di Larissa, scolarca dell’Accademia, si è rifugiato a Roma, conquistando il pubblico colto romano, tra cui Cicerone, che rimane fedele al suo insegnamento per tutto il corso della vita. Lo scetticismo accademico, che si fonda sul metodo dialettico di discutere pro e contro ogni questione, dimostra come la filosofia, strettamente collegata all’educazione retorica, sia indispensabile per chi aspiri a dedicarsi alla vita politica.
Si deve soprattutto alle opere filosofiche di Cicerone un interessante tentativo di integrare la filosofia con la politica e la retorica. Cicerone non è un filosofo professionista né elabora una filosofia originale, ma non è neanche un mero copista di manuali filosofici greci. Il contributo che egli dà alla filosofia non può essere separato dalle sue realizzazioni come oratore, uomo politico e soprattutto come difensore del mos maiorum. La sua collocazione filosofica non si identifica con la completa adesione a una scuola, ma non può essere impropriamente etichettata con il termine svalutativo di “eclettismo”, come alcuni pretendono. Egli dichiara che suoi maestri sono gli stoici Diodoto e Posidonio, gli accademici Filone di Larissa e Antioco di Ascalona. Entrambi questi ultimi esercitano una notevole influenza su di lui, ma il contrasto dottrinale che li ha divisi, oltre a essere oggetto dei Libri Academici, è occasione, per Cicerone, di continua riflessione. Quanto alla sua affiliazione filosofica, egli si professa “accademico”, intendendo con ciò ricollegarsi alla tradizione dello scetticismo che ha segnato la scuola di Platone a partire da Arcesilao fino a Filone, per il quale non la certezza, ma soltanto l’approssimazione al vero è raggiungibile. Si tratta di un atteggiamento di distacco epistemologico, che gli permette di accogliere alcuni punti di vista dei dogmatici, senza riconoscerne la verità, accettandoli provvisoriamente in quanto probabili. Ma in campo etico egli segue l’insegnamento dell’altro suo maestro, Antioco, che sostiene una versione stoicizzata della dottrina dell’Accademia. Nelle sue opere filosofiche, scritte tra il 46 e il 44 a.C. durante un periodo di forzata inattività dalla vita politica sotto la dittatura di Cesare, egli espone la filosofia greca, in particolare quella ellenistica. I portavoce delle diverse scuole filosofiche, di volta in volta, espongono i principi della loro dottrina e Cicerone, dopo averli sottoposti a critica, avanza la sua opinione scegliendo in base a ciò che gli sembra il meglio. Oltre a essere la principale fonte di informazione sulla filosofia ellenistica, Cicerone si è assunto il compito di “romanizzare” la filosofia greca. Non soltanto egli introduce personaggi del mondo romano come protagonisti dei dialoghi ed esempi tratti dalla vita e dalla storia romana, ma soprattutto crea nuovi vocaboli in una lingua, il latino, che mai era stata adattata a questo uso, poiché non disponeva di termini tecnici in grado di rendere il significato filosofico di quelli greci. A Cicerone, forse più che a ogni altro, spetta dunque il merito di aver posto le basi perché la filosofia non fosse più avvertita come un prodotto estraneo allo spirito e alla cultura romana.
Durante il principato l’interesse del potere imperiale, che continua a nutrire sospetto e diffidenza verso i filosofi, è di rendere inoffensiva la filosofia svuotandola dall’interno. Questo atteggiamento non favorisce certo lo sviluppo di dottrine filosofiche nuove, ma un minore vigore speculativo che si traduce da un lato nell’inventariare i risultati raggiunti, dall’altro nell’assistenza morale delle coscienze. Si sviluppa soprattutto l’etica non solo come teoria, ma come pratica morale, che privilegia l’esame di coscienza, la meditazione, la cura di sé.
L’unica scuola “nuova”, essenzialmente romana, è quella dei Sestii, ma è significativo che diffonda il suo insegnamento in greco. La sua dottrina è sostanzialmente vicina all’etica stoica, ma se ne differenzia perché accoglie anche elementi del cinismo e del pitagorismo. La scuola dei Sestii si distingue soprattutto perché teorizza una forma di opposizione politica al principato. Essa sostiene infatti che la libertà del sapiente non possa realizzarsi nello stato, ma fuori dallo stato, il quale dovrebbe garantire al sapiente la libertà di dedicarsi all’attività contemplativa. Sestio padre, il fondatore della setta, gode dell’ammirazione di Seneca, ma non ha molto seguito se non fra alcuni intellettuali.
È soprattutto lo stoicismo, i cui valori morali sembrano a molti una razionalizzazione degli ideali tradizionali di Roma ad affermarsi sulle altre concezioni filosofiche in un periodo in cui l’abilità retorica, come testimonia Tacito, ha ormai scarsa importanza per la carriera politica. Sono infatti stoici i filosofi più importanti dell’età imperiale, ancorché molto diversi l’uno dall’altro: Seneca, maestro e consigliere di Nerone, Epitteto, schiavo affrancato, e Marco Aurelio, imperatore e padrone del mondo. Mentre lo stoicismo ellenistico fondava la filosofia sull’unità sistematica delle tre parti, logica, fisica ed etica, a cui conferiva pari dignità, lo stoicismo imperiale, disancorando l’etica dalle altre parti del sistema, ne indebolisce l’immagine di coerenza e di unitarietà.
Tuttavia sarebbe fare un torto al vigore intellettuale e all’originalità di Seneca assimilarlo ai moralisti stoici di questo periodo, come Musonio Rufo o la scuola dei Sestii, perché è senza dubbio la personalità filosofica più significativa espressa dal mondo latino. Nei Dialoghi e nelle Lettere a Lucilio egli affronta i temi canonici dell’etica stoica, l’ideale razionale del saggio, la tranquillità dell’anima, l’ira e l’analisi delle passioni come errori di giudizio, l’indifferenza dei beni esterni. Nelle Ricerche naturali tratta della meteorologia, della teoria dei fenomeni naturali e delle cause, ricollegandosi allo stoico Posidonio. Egli dimostra indipendenza di giudizio sia nella critica di alcune dottrine attribuite a una presunta ortodossia stoica, sia prendendo posizione nelle controversie dottrinali a favore dell’uno piuttosto che dell’altro maestro stoico. La sua posizione filosofica è di apertura nei confronti di altri apporti filosofici: dell’epicureismo che difende dall’accusa di professare un edonismo volgare, del medio-platonismo da cui riprende il primato della theoria, del cinismo di cui condivide la polemica contro la ricchezza e il lusso trasmessagli dal maestro Attalo e dall’amico Demetrio, ma egli fu e si considerò sempre uno stoico.
Epitteto e Marco Aurelio scrivono in greco, il nucleo della loro dottrina è genuinamente stoico, ma la loro filosofia è soprattutto indirizzata alla pratica morale. Al principio del Manuale, riprendendo una formulazione del suo maestro Musonio, Epitteto divide le cose nettamente in due categorie, quelle in nostro potere, ovvero la capacità di servirsi delle rappresentazioni, e quelle che non lo sono, ovvero i beni esterni. Il potere dell’imperatore si estende solo sulle cose esterne. Marco Aurelio, a differenza di Epitteto, il quale considera che nulla e nessuno, neppure l’imperatore, possa in alcun modo intralciare la libertà e autonomia umana, poiché solo la filosofia può procurare all’uomo la vera libertà che rende indipendenti dalla schiavitù degli appetiti del corpo, ritiene che le azioni umane richiedano l’aiuto degli dèi e della fortuna per trasformarsi in scelte morali corrette. I Pensieri di Marco Aurelio sono un dialogo con se stesso, che egli colloca in una prospettiva teologica e cosmica, mentre Epitteto con le Diatribe, lezioni orali stenografate e tramandate dal suo discepolo Arriano, svolge essenzialmente la funzione di maestro, avendo costantemente di mira l’esempio di Socrate. È comunque significativo che Marco Aurelio non impronta la sua politica ai principi dello stoicismo, ma si mantiene fedele alla tradizione romana non solo nell’esercizio del potere, ma anche nella sua considerazione della filosofia che vuole trasmettere nella lingua filosofica per eccellenza, il greco.