Filosofia
Negli ultimi decenni del 20° sec. sono giunte a maturazione e hanno acquistato larga diffusione idee che erano implicite o allo stato embrionale nei primi anni Sessanta. Non si tratta tanto di esplicite idee sul ruolo o sul compito della f. (tema che in passato, soprattutto in ambito neopositivistico e analitico, aveva avuto una sua rilevanza) quanto delle conseguenze per lo status della f. derivanti da un rinnovato modo di intendere l'attività conoscitiva umana in rapporto sia con la storia sia con una dimensione interpretativa alternativa ai tradizionali tentativi di fondazione normativa tipici della modernità. Tali conseguenze interessano trasversalmente entrambe le aree in cui si è soliti ormai distinguere la riflessione filosofica, quella analitica e quella continentale, intendendo con la prima etichetta l'insieme della produzione filosofica angloamericana, tradizionalmente caratterizzata da un approccio linguistico (definizione, questa, che appare tuttavia restrittiva; v. oltre: Mutamenti e sviluppi nella filosofia analitica), con la seconda la produzione europea che, in larga misura, si riconosce nella f. ermeneutica di H.G. Gadamer (senza escludere altre forme di riflessione quali il decostruzionismo di J. Derrida o l'ermeneutica di P. Ricoeur). Ciò non vuol dire che non vi siano figure non categorizzabili in nessuna delle due aree, come K.R. Popper, che, per quanto polemico nei confronti del movimento analitico ed estraneo ai temi della f. europea di derivazione fenomenologica, ha raggiunto risultati per certi versi non dissimili da quelli delle aree suddette, benché la ferma adesione a un concetto realista-corrispondentista di verità renda alquanto eccentrica la sua collocazione nel panorama filosofico di fine secolo.
È dalla questione della verità, intesa come corrispondenza oggettiva tra linguaggio (o pensiero) e realtà, che prende infatti l'avvio una delle svolte più radicali di cui la f. sia stata protagonista nel Novecento. Il riconoscimento dell'impossibilità di mantenere ancora salda una concezione della verità come acquisizione di un sapere oggettivo indipendente da presupposizioni culturali, dai contesti sociali e dai mutamenti storici ha impregnato, direttamente o indirettamente, gran parte del dibattito filosofico della fine del 20° sec., riproponendo talvolta le vecchie difficoltà in cui finiva per arenarsi lo storicismo più radicale, prima fra tutte la paradossalità o autocontraddittorietà di una posizione che, negando che possano darsi verità incondizionate e non storicamente circoscritte, esclude implicitamente, tuttavia, che ciò valga per sé stessa. Naturalmente, atteggiamenti e concezioni relativistici non sono mai mancati nella storia della f., ma è indubbio che sul finire del 20° sec. si è assistito a una vasta convergenza (oltre che a un vasto dibattito), pur nel rispetto dei diversi approcci dettati dalle diverse tradizioni filosofiche, sull'impossibilità di conseguire, sia in ambito conoscitivo sia etico o estetico, certezze definitive, immutabili e indipendenti dalla storia. Ciò ha avuto ampie e profonde ripercussioni sull'identità stessa della f. come disciplina innanzitutto delegata a individuare e fissare criteri e metodi oggettivi per l'acquisizione di una conoscenza, quella scientifica, per eccellenza considerata portatrice di verità.
Una delle svolte più rilevanti che si sonoregistrate alla fine del secolo prende l'avvio dalla f. della scienza. Tra i primi a mettere in evidenza la dispensabilità della nozione di verità e il fallimento dei criteri metodologici metastorici escogitati nella f. della scienza per il conseguimento di un sapere oggettivo e immutabile è stato Th.S. Kuhn, benché l'approccio delineato nel suo The structure of scientific revolutions (1962; trad. it. 1969) fosse in parte già adombrato in alcune fondamentali tesi dell'ultimo Wittgenstein. La verità, osserva Kuhn nel capitolo conclusivo della sua opera, non costituisce né il criterio né il fine da cui sono state guidate le comunità scientifiche nel corso dei secoli, sottolineando inoltre come non sia affatto necessario che l'evoluzione della scienza venga concepita come un tendere verso uno scopo finale, la verità appunto, ossia una spiegazione esauriente, oggettiva e definitiva della natura. Che questo radicale punto di vista, che ha alimentato il dibattito epistemologico per più di un trentennio sconfinando inoltre in aree anche distanti dalla f. della scienza, finisse per ridimensionare non solo la concezione epistemologica popperiana (basata proprio sul tendere delle teorie scientifiche alla verità), ma anche un modo di concepire la stessa indagine filosofica, fu ben presto avvertito. Le accuse di relativismo e irrazionalismo nei confronti di Kuhn e della sua teoria dei paradigmi incommensurabili erano in effetti la manifestazione di un disagio nei confronti di un approccio filosofico che finiva per negare i diritti alla fondazione che per secoli erano stati riconosciuti alla f. (v. fondazionalismo e antifondazionalismo). L'impossibilità di fissare criteri metodologici e normativi che non siano quelli locali o storicamente circoscritti di una particolare comunità scientifica colpiva infatti, oltre che le epistemologie neopositivistica e popperiana, la stessa immagine plurisecolare della f. come disciplina fondativa e normativa: la f. non appariva né si riconosceva più in grado di fissare adeguati criteri epistemici per la scienza e, più in generale, norme e criteri assoluti in altri campi (arte, etica, politica) in quanto tipicamente subordinati alla mutevolezza dei contesti storico-sociali. Del resto, lo stesso Popper, pur considerando la verità come scopo finale (e forse mai raggiungibile) della ricerca scientifica, aveva comunque insistito, soprattutto nell'ultima fase della sua riflessione, sull'impossibilità di fornire un qualche tipo di fondazione oppure di giustificazione a garanzia della verità delle asserzioni scientifiche e d'altro tipo; l'unico atteggiamento possibile, per Popper, non è quello che mira a conseguire improbabili giustificazioni, empiriche o d'altro tipo, delle nostre asserzioni e teorie (scientifiche, etiche, politiche), ma quello della critica razionale, che cerca i punti deboli di tali asserzioni e teorie onde modificarle o sostituirle con altre più plausibili ma non per questo meno esenti da revisione, in un processo virtualmente infinito. Se da ciò Popper traeva una teoria della razionalità, facendone l'oggetto fondamentale di una ricerca filosofica che comunque è subordinata sia alle risorse sia ai risultati della biologia evoluzionista (The myth of the framework. In defence of science and rationality, 1994; trad. it. 1995), quanti fra coloro che si sono riconosciuti nell'approccio kuhniano hanno invece accentuato l'aspetto caratteristicamente interpretativo della conoscenza e dei metodi scientifici, conoscenza e metodi soggetti a mutamento storico non meno di qualsiasi altro tipo di interpretazione, arrivando a equiparare il compito del filosofo della scienza a quello di un antropologo che studi il comportamento dei membri di un particolare tipo di comunità, quelle scientifiche. Lo sconfinamento della f. e dell'epistemologia nell'antropologia e nella sociologia (che avrebbe poi trovato ampia adesione nei sociologi della scienza D. Bloor e B. Latour) lasciava evidentemente fuori, o minava alla base, un'ampia gamma di problemi tradizionali, per es. quello delle condizioni di giustificazione delle credenze del soggetto epistemico astrattamente considerato.
D'altra parte, un ruolo altamente influente hanno rivestito anche le riflessioni di W.V.O. Quine (Epistemology naturalized, in Ontological relativity and other essays, 1969, trad. it. 1986; From stimulus to science, 1995, trad. it. 2001) sulla cosiddetta epistemologia naturalizzata, locuzione con cui il filosofo statunitense suggeriva un progetto di ricerca sull'attività conoscitiva rientrante a pieno titolo nella sfera delle scienze positive, e come tale radicalmente innovativo rispetto alle tradizionali teorie della conoscenza che, da R. Descartes e J. Locke a I. Kant, dal neokantismo a B. Russell e allo stesso neoempirismo, avevano perseguito l'obiettivo di fondare filosoficamente su principi definitivi e indubitabili l'attività conoscitiva. Quine sosteneva, in una forma che sarebbe diventata paradigmatica del suo approccio alla teoria della conoscenza, che ogni sensato discorso sulla conoscenza, dai più elementari livelli percettivi fino all'elaborazione delle più sofisticate teorie scientifiche, non può che essere basato sulle risorse, gli strumenti e i risultati delle scienze stesse. L'epistemologia - sia nel senso ristretto (tipicamente anglosassone) di teoria della conoscenza sia in quello più vasto di f. o metodologia della scienza - non può secondo Quine essere considerata parte di un discorso specificamente filosofico sulla scienza: abbandonati il punto di vista di una f. prima e i progetti fondazionali che ancora caratterizzavano l'approccio neopositivistico alla scienza, lo studio dell'attività conoscitiva nonché della metodologia scientifica sopravviverebbe esclusivamente come parte della scienza naturale. L'obiettivo dell'approccio naturalistico sarebbe il conseguimento di plausibili teorie scientifiche riguardanti il modo in cui, a partire dalle stimolazioni delle terminazioni nervose, un soggetto fisico qual è l'uomo arriva a elaborare le teorie scientifiche sulla realtà (v. naturalismo).
Sempre in ambito analitico, N. Goodman, uno dei più autorevoli esponenti della f. statunitense sorta dalla commistione tra pragmatismo ed empirismo logico, tra gli anni Cinquanta e Ottanta aveva sottolineato l'implausibilità dei progetti fondazionali neoempiristici, rilevando la sostanziale pariteticità del fenomenismo e del fisicalismo quali basi epistemiche e pervenendo a elaborare una teoria generale dei sistemi simbolici il cui compito è non quello di conferire ai vari sistemi simbolici (linguaggio, scienza, arte) improbabili fondazioni, ma di enuclearne le peculiari caratteristiche di costruzione (piuttosto che di descrizione o rappresentazione) del mondo, quest'ultimo non essendo un insieme di dati, oggetti o fatti indipendenti dal modo in cui vengono linguisticamente rappresentati (Ways of worldmaking, 1978; trad. it 1988). Da questo punto di vista, la domanda di come sia il mondo nella realtà, indipendentemente dalle versioni linguistiche e simboliche che se ne danno, dai ways of worldmaking, dai sistemi di categorizzazione e rappresentazione tradizionalmente consolidatisi, è per Goodman priva di senso, e, del pari, non ha senso chiedersi quale sia la forma di simbolizzazione più autentica, più fedele ai fatti.
In questa forma di pluralismo (per la quale l'arte è una forma di simbolizzazione non epistemicamente inferiore alla scienza) il compito della f. consiste nell'individuare la varietà delle forme di costruzione simbolica (e i procedimenti che le governano) elaborate nei diversi ambiti in cui si esplica l'attività umana, senza pretendere di ricondurle a una gerarchia di conformità a una realtà già data. La stessa nozione di verità appare così inservibile, e ciò che conta è piuttosto l'efficacia, la capacità di rispondere ai propri scopi, di ciascun sistema simbolico. Più che di verità, Goodman preferisce parlare di correttezza (rightness), e c'è una correttezza delle asserzioni scientifiche come c'è una correttezza delle raffigurazioni artistiche. Di tale nozione non è possibile fornire una definizione astratta e indipendente dalle pratiche e dai modelli storicamente consolidati (entrenched) relativi a ciò che costituisce, per es., una corretta raffigurazione artistica o una corretta rappresentazione del mondo fisico; un ruolo di rilievo viene attribuito da Goodman alla "tradizione in evoluzione" entro cui giudichiamo, per es., i gradi di realismo di una raffigurazione pittorica (è in base alla congruenza con certe pratiche e convenzioni tradizionalmente consolidate che un quadro di A. Dürer ci appare più realistico di uno di P. Cézanne), l'accettabilità di un'asserzione scientifica o la correttezza di una categorizzazione.
Quella di tradizione costituisce la nozione centrale anche dell'altra grande corrente che ha caratterizzato la cultura filosofica della fine del 20° sec., la f. ermeneutica. Che il soggetto epistemico sia sempre inserito in una tradizione, che l'esperienza umana sia costitutivamente radicata nel linguaggio da quella tramandato, attraverso cui soltanto può aversi un accesso all'essere (e con cui, anzi, l'essere stesso si identifica), sono i temi filosofici fondamentali dell'ermeneutica gadameriana, una concezione che, se prende originariamente le mosse dall'esperienza artistica, intende tuttavia porsi come rappresentazione adeguata dell'attività di comprensione in cui essenzialmente si risolve la conoscenza umana. Il fatto che l'ermeneutica consideri la conoscenza (sia che riguardi l'arte, la natura, oppure la storia) come una questione di interpretazione mediata dal linguaggio e dalla tradizione a cui l'interprete appartiene (e che orienta inevitabilmente le domande e le risposte pertinenti in un processo che non è mai possibile concludere); il fatto che, in tale prospettiva, la stessa verità non possa più essere pensata come il risultato incontrovertibile dell'applicazione di metodi oggettivi, ma sia essa stessa condizionata storicamente e quindi soggetta a mutare e ad arricchirsi nel corso dell'evoluzione storica - tutto ciò ha avuto, ancora una volta, l'esito di depotenziare un concetto di f. come ricerca di principi trascendentali e di un metodo (o dei metodi, secondo la prospettiva storicistica diltheyana) come fondazioni assolute del sapere e della conoscenza.
Di qui alcune conseguenze che hanno condotto l'ermeneutica a incontrarsi con gli altri indirizzi (f. analitica, postempirismo) che pure hanno teorizzato l'impossibilità di individuare criteri trascendentali e metodologici assoluti, metastorici, atti a garantire e giustificare la conoscenza. La ricezione dell'ermeneutica è andata infatti ben oltre la cultura accademica europea, e autori appartenenti all'area analitica, prevalentemente influenzati dalla f. dell'ultimo Wittgenstein (S. Cavell, J. Margolis, H.L. Dreyfus, R. Rorty), ne hanno variamente sottoscritto e sviluppato le istanze, così come autori continentali (segnatamente J. Habermas e K.O. Apel) hanno recepito tanto temi quanto problematiche della f. analitica, innestandoli ed elaborandoli nelle loro prospettive etico-politiche (per quanto in una dimensione ancora trascendentale).
In ambito europeo di particolare fortuna hanno goduto le riflessioni sulla postmodernità di J.-F. Lyotard (La condition postmoderne, 1979; trad. it. 1981). L'età contemporanea è descritta da Lyotard come quella in cui la modernità ha raggiunto il suo termine con la delegittimazione dei grands récits, le 'grandi narrazioni', vale a dire i sistemi filosofici e ideologici che, a partire dall'Illuminismo, hanno ispirato e condizionato le credenze e i valori della cultura occidentale: il récit del processo di emancipazione degli individui dallo sfruttamento, quello del progresso come indefinito miglioramento delle condizioni di vita, quello della dialettica come legittimazione del sapere in una prospettiva assoluta. Non più legata ai grandi progetti, l'età postmoderna si caratterizzerebbe piuttosto per la pluralità dei discorsi pragmatici che pretendono soltanto una validità strumentale e contingente.
Se più di un orientamento della fine del secolo scorso ha spesso decretato il ridimensionamento della f. (o, quanto meno, delle sue ambizioni sistematiche e fondative), non manca peraltro chi ne ha decretato addirittura la fine. È questo il caso, per es., di R. Rorty, un autore formatosi nella tradizione della f. analitica, ma successivamente allontanatosene per proporre una propria visione 'antifilosofica' in cui confluiscono motivi del pragmatismo e della f. ermeneutica (Philosophy and the mirror of nature, 1979; trad. it. 1986). La polemica di Rorty è indirizzata soprattutto verso la f. analitica, ma investe un modo di concepire la f. che risale quanto meno all'età moderna: la f. analitica costituirebbe semplicemente una versione aggiornata delle teorie della conoscenza cartesiana, lockiana e kantiana, alle quali risalirebbe l'immagine della mente come una sorta di specchio in grado di rappresentare la realtà; pur avendo sostituito il linguaggio alla mente, infatti, i filosofi analitici - con le eccezioni di L. Wittgenstein, W. Sellars, Quine, D. Davidson - si sarebbero mossi nel solco della tradizione rappresentazionalista, perseguendone gli scopi fondazionalisti con la ricerca di "uno schema astorico permanente", di principi immutabili in grado di garantire le condizioni di validità delle rappresentazioni linguistiche nei vari ambiti conoscitivi. Sostenitore di un radicale antifondazionalismo epistemologico e di uno storicismo incline al relativismo, Rorty si richiama all'ultimo Wittgenstein, a J. Dewey, a Kuhn e all'ermeneutica di M. Heidegger e di Gadamer per sottolineare la contingenza e la caducità delle sistematizzazioni filosofiche e il loro ridursi a niente più che ipostatizzazioni di pratiche sociali storicamente mutevoli.
In questa prospettiva la conoscenza, lungi dal configurarsi come acquisizione o rappresentazione oggettiva di fatti indipendenti dal linguaggio, è per Rorty - in linea con argomenti già avanzati da Goodman e da Gadamer - un insieme di descrizioni linguistiche entro cui, soltanto, si ha esperienza di ciò che chiamiamo realtà. La verità, di conseguenza, non è altro che ciò che viene accettato da una comunità sulla base di regole e criteri largamente (ancorché provvisoriamente) condivisi (anzi: essa è un compliment tributato a quelle asserzioni ritenute al momento accettate). Nel contestare l'immagine professionale e scientifica che della f. hanno contribuito a dare le principali correnti del Novecento (il neokantismo, la fenomenologia, il neopositivismo e la f. analitica), Rorty ha auspicato il diffondersi di una "cultura postfilosofica" volta non a fornire certezze oppure fondazioni, ma piuttosto a mantenere viva la "conversazione" sugli aspetti più vari della convivenza umana e sui modi in cui gli esseri umani si sono autodescritti. Un esempio di questa attività postfilosofica è stato fornito da Rorty con la difesa di un'"utopia liberale" il cui principale obiettivo è la diffusione della "solidarietà umana", conseguibile con il mutamento delle convinzioni morali (Contingency, irony, and solidarity, 1989; trad. it. 1989).
Se considerazioni del genere tendono ad avallare l'immagine di una riflessione filosofica sempre meno sicura del suo ruolo e più attenta al contributo che dovrebbe dare all'edificazione morale in quanto "critica della cultura" (un altro argomento di Rorty), è indubbio, d'altra parte, che non tutta la f. degli ultimi decenni si sia autopercepita in tali termini. Inoltre, le cosiddette tendenze postmoderne (come è ormai consueto definire gli orientamenti antifondazionalisti, relativisti e sociologizzanti degli ultimi decenni) non esauriscono l'intero panorama filosofico contemporaneo. Esistono, per es., vigorose e autorevoli prese di posizione contro l'assimilazione della f. alla critica della cultura, all'antropologia o alla sociologia. Le più radicali forme di relativismo e scetticismo le quali, appoggiandosi su una certa interpretazione di Wittgenstein, tendono a vedere nella razionalità umana e, talvolta, negli stessi principi logici niente di più che pratiche socialmente apprese e storicamente circoscritte, basate in ultima analisi sull'abitudine, l'educazione e il consenso della comunità sono state spesso duramente attaccate, oltre che da Popper, da Davidson, H. Putnam e Th. Nagel (1997) i quali hanno in qualche modo rivendicato per la f. il ruolo autonomo di individuare gli aspetti oggettivi e universali, comuni agli esseri umani in quanto persone, di un insieme di principi logici, argomentativi ed epistemici. Inoltre, se sembra essersi esaurita la f. come indagine sui fondamenti, non si può dire altrettanto della f. come indagine sugli aspetti più problematici delle scienze. Ne è esempio rilevante (e non unico) l'attualità della concezione della f. difesa da Quine. Benché sia stato tra i primi a guardare con sospetto l'idea di una f. il cui oggetto precipuo sia la teoria della conoscenza, e benché le sue posizioni siano orientate in una direzione pragmatista, nella sua opera fondamentale, Word and object (1960; trad. it. 1970), Quine considera la f. una sorta di riflessione critica sulla scienza che opera dall'interno, appartenendo al medesimo "schema concettuale" a cui appartiene la scienza: suo scopo sarebbe soprattutto rendere esplicito ciò che è implicito, portare alla luce e risolvere paradossi, segnalare le entità ontologicamente problematiche. Se da un lato una tale immagine della f. non comporta alcun tipo di ricerca fondazionale, dall'altro presenta sicuramente un aspetto 'professionale' e, nonostante la vastità del dibattito sul ridimensionamento o sulla fine della f., f. professionali e sempre più specializzate, con obiettivi locali e circoscritti, sono ancora attive: nell'ambito della scienza cognitiva, nell'ambito delle scienze fisiche e biologiche, nella metodologia delle scienze umane e sociali, ciascuna facendo oggetto della propria indagine i problemi sollevati dalle rispettive discipline. Analogamente, qualcosa di simile si è verificato anche nell'area della riflessione etica, dove il maggiore spazio di dibattito è occupato, più che da teorie di ordine generale, dall'etica applicata e dai conflitti morali che sorgono nelle concrete realtà umane. Anche questo è, in fondo, l'esito di un dibattito che, al di là di certe radicalizzazioni, ha essenzialmente segnalato la scarsa utilità o l'inevitabile tramonto di una f. concepita come indagine astorica sugli aspetti più generali della realtà o sui fondamenti della conoscenza e del comportamento umani.
Mutamenti e sviluppi nella filosofia analitica
Al di là degli aspetti più generali che sembrano emergere dalla riflessione filosofica della fine del 20° sec., è opportuno dar conto di alcuni rilevanti sviluppi nella f. analitica, che, a circa un secolo dalla sua nascita (che risale agli scritti di G. Frege, G.E. Moore e Russell), è andata incontro a trasformazioni che la differenziano dalla forma di indagine incentrata sullo studio del linguaggio con cui si presentava agli esordi. L'evoluzione interna della f. analitica ha dato luogo a diversi lavori storiografici (Dummett 1988; Restaino 1990; Storia della filosofia analitica, 2002), a interessanti confronti con la f. europea continentale (D'Agostini 1997) e, talvolta, all'utilizzazione della qualifica di filosofia postanalitica (Post-analytic philosophy, 1985) per indicare un tipo di riflessione che, pur traendo alimento dai problemi della f. analitica, appare per rilevanti aspetti critica nei confronti dei suoi principi ispiratori tradizionali. Infatti, se è vero che vi sono autori che continuano a considerare la f. analitica come studio dei problemi filosofici tradizionali (metafisici, conoscitivi, etici, estetici) attraverso l'analisi del linguaggio, è anche vero che una porzione non esigua della f. analitica si è aperta a nuovi tipi d'indagine, ampliando la sua metodologia in un modo che potrebbe definirsi non ortodosso. L'incontro con il pragmatismo, particolarmente negli Stati Uniti, costituisce la conferma di un nuovo orientamento interno alla f. analitica, tanto che alcuni autori appartenenti alla tradizione analitica vengono non di rado etichettati come neopragmatisti. Tra questi vanno ricordati soprattutto Putnam e Rorty, benché il neopragmatismo di quest'ultimo (il caso più rilevante di f. postanalitica) intenda differenziarsi radicalmente dalla tradizione analitica e guardi con interesse sia al relativismo e allo storicismo postpositivisti sia all'ermeneutica di Heidegger e Gadamer (v. sopra). L'incontro con l'ermeneutica, mediato dalle dottrine dell'ultimo Wittgenstein, costituisce del resto un'altra caratteristica della f. analitica degli ultimi decenni del 20° sec., come si è già rilevato. Il problema del significato ha naturalmente continuato a essere al centro dell'interesse di molti autori, ma in modo più articolato che in passato: se in M. Dummett esso viene identificato, in linea con le tesi di Frege e con una visione tradizionale della f. analitica, soprattutto con l'analisi del pensiero, in Putnam è essenzialmente lo studio del rapporto tra linguaggio e realtà mediato dalle pratiche acquisite in una comunità socio-culturale, mentre per altri autori (tra cui si è segnalato soprattutto J.R. Searle), influenzati dalle teorie dell'ultimo Wittgenstein e di J.L. Austin, l'indagine sul linguaggio non può essere separata da quella più ampia che riguarda gli stati psicologici, l'azione e il comportamento in una comunità. In Davidson, l'autore che ha goduto di maggiore fortuna nell'ultimo ventennio del secolo scorso, lo studio del significato, coerentemente con le posizioni del suo maestro Quine (di cui rifiuta però lo stretto comportamentismo), equivale soprattutto a un'indagine empirica sugli enunciati ritenuti veri dai parlanti di una comunità e sulle connessioni intercorrenti fra tali enunciati e il più ampio sfondo di credenze dei parlanti stessi, in una circolarità con i concetti di azione e di razionalità che finisce per inglobare la teoria del significato in una più generale teoria dell'interpretazione alla quale molti autori, seguendo Davidson, hanno lavorato. Ma forse la novità di maggiore rilievo è costituita dall'attenzione per le questioni di tipo psicologico e mentale. L'interesse per la f. della mente non è nuovo nella f. analitica: esso risale quanto meno a G. Ryle e Wittgenstein, i quali erano comunque interessati a privare di qualsiasi fondamento, sulla base dell'analisi linguistica, il tradizionale dualismo mente-corpo di origine cartesiana. Nel corso degli anni, benché non sia venuto meno l'orientamento monistico della maggioranza dei filosofi analitici, si è comunque dato sempre più spazio agli aspetti tipicamente mentali e psicologici che sovraintendono alle principali attività umane, come parlare in modo semanticamente corretto e agire in modo razionalmente appropriato. Già H.P. Grice, negli anni Cinquanta e Sessanta, rilevava, in una serie di lavori di taglio pragmatico sul linguaggio, come ogni indagine sul significato vada strettamente connessa alle intenzioni comunicative dei parlanti. Lo studio degli aspetti mentali legati al significato ha finito per rendere spesso sovrapponibili le indagini di f. del linguaggio in senso stretto con quelle di f. della mente, e un rilievo particolare ha acquisito, in questo ambito di intersezione tra le due sottoaree della f. analitica, la problematica dell'intenzionalità, cioè la caratteristica delle asserzioni linguistiche e degli stati mentali (teorizzata nel Medioevo, ma riscoperta da F. Brentano) di essere tipicamente rivolti a oggetti extralinguistici o extramentali, di avere un intrinseco contenuto. Analizzata originariamente in termini linguistici, l'intenzionalità già dalla fine degli anni Cinquanta, con le fondamentali ricerche di R.M. Chisholm, si avviava a costituire un nucleo tematico con cui la f. analitica sentiva di dover fare i conti: l'intenzionalità (in particolare quella rivelata dai cosiddetti atteggiamenti proposizionali, espressi da locuzioni quali "crede che…", "desidera che…" ecc.) è stata ed è al centro dell'attenzione di numerosi filosofi analitici, da Davidson a Searle, da D.C. Dennett a J.A. Fodor, e costituisce probabilmente l'argomento che più di ogni altro rivela l'ampliamento dell'interesse della f. analitica verso quel tipo di questioni psicologiche e mentali un tempo ritenute analizzabili in termini esclusivamente linguistici (e, significativamente, il titolo di uno dei lavori di Searle è The rediscovery of the mind, 1992; trad. it. 1994). Nell'ultimo decennio del 20° sec., infine, si è assistito anche a un proficuo interscambio tra f. analitica e scienza cognitiva sia riguardo ai problemi del significato e della conoscenza, sia riguardo alla spiegazione del comportamento umano (di cui sono esempi di rilievo Goldman 1992 e 1993).
bibliografia
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F. D'Agostini, Breve storia della filosofia del Novecento: l'anomalia paradigmatica, Torino 1999.
Storia della filosofia analitica, a cura di F. D'Agostini, N. Vassallo, Torino 2002.